Interviste – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sat, 30 Nov 2024 07:35:20 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Sport e dintorni – Storia dell’allenatore di calcio in Italia. Intervista a Massimo Cervelli https://www.carmillaonline.com/2024/07/02/sport-e-dintorni-storia-dellallenatore-di-calcio-in-italia-intervista-a-massimo-cervelli/ Tue, 02 Jul 2024 20:00:48 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=83278 di Alberto Molinari e Gioacchino Toni

[Il volume di Massimo Cervelli, L’allenatore di calcio in Italia. Storia socioculturale di una professione (Biblion, 2024), propone una meticolosa ricostruzione della storia dell’allenatore di calcio in questo paese, prima figura professionista dell’universo calcistico nazionale. Di seguito si propone un’intervista all’autore su alcuni snodi da lui trattati nel libro].

D. Per tratteggiare la storia dell’allenatore di calcio in Italia conviene partire dagli inizi, dalla cosiddetta epoca pionieristica, quando questa figura non esisteva…

R. Il 15 maggio 1910 la Nazionale giocava la sua prima partita, ma il football italiano non conosceva ancora la figura dell’allenatore. La [...]]]> di Alberto Molinari e Gioacchino Toni

[Il volume di Massimo Cervelli, L’allenatore di calcio in Italia. Storia socioculturale di una professione (Biblion, 2024), propone una meticolosa ricostruzione della storia dell’allenatore di calcio in questo paese, prima figura professionista dell’universo calcistico nazionale. Di seguito si propone un’intervista all’autore su alcuni snodi da lui trattati nel libro].

D. Per tratteggiare la storia dell’allenatore di calcio in Italia conviene partire dagli inizi, dalla cosiddetta epoca pionieristica, quando questa figura non esisteva…

R. Il 15 maggio 1910 la Nazionale giocava la sua prima partita, ma il football italiano non conosceva ancora la figura dell’allenatore. La gestione della Nazionale era consegnata a commissioni tecniche composte principalmente da arbitri, gli unici che conoscevano i giocatori, avendoli osservati durante le partite. Nelle squadre era emersa la figura del capitano, una sorta di responsabile del comportamento tenuto in campo, nei confronti degli avversari e dell’arbitro. Era lui, il giocatore più esperto e carismatico che, assieme a qualche componente del Consiglio direttivo, decideva la formazione da schierare in campo. Il capitano rispondeva a codici di comunicazione bidirezionali, condivisi con i compagni più esperti: sapere come stare in campo (posizione, controllo degli avversari, calcio del pallone) e iniziazione dei giovani. Era un calcio semplice, basato sul kick and run e col primitivo schieramento sulle tre linee dell’originaria piramide: i terzini, terza linea, i mediani, linea di mezzo, e gli attaccanti, la prima linea.

D. Come nasce la figura dell’allenatore e che cambiamenti comporta nel panorama calcistico italiano?

R. Parafrasando una vecchia canzone socialista del primo dopoguerra, si può dire che, al posto di uno strano soldato, nel calcio avanzasse uno strano mestiere. Nel 1912, il Genoa, il club più organizzato, ingaggiò, grazie alle proprie ascendenze britanniche, William Garbutt un ex calciatore a cui assegnò il compito di guidare la squadra. C’era già Vittorio Pozzo al Torino, ma rappresentava una storia molto particolare. Garbutt ebbe un effetto dirompente, tant’è che ancora oggi l’allenatore viene chiamato mister. Con lui arrivarono altri britannici, una prima, ristretta, avanguardia di tecnici stranieri, fermata dalla grande guerra che confinò il pallone nelle trincee di tutta Europa – dove divenne il miglior passatempo, ma si giocava in mezzo ad una carneficina: 571 mila morti e oltre due milioni tra feriti e mutilati il bilancio italiano.

D: Con gli allenatori, regolarmente stipendiati, arrivò il professionismo. La sua generalizzazione fu immediata?

R. Il calcio non poteva più essere un’attività occasionale, doveva essere un lavoro full time adeguatamente retribuito. Arrivarono le prime denunce: sul Genoa piovvero accuse di professionismo per il pagamento di alcuni calciatori. Era già avvenuto un mutamento delle condizioni in cui si giocava. All’inizio i calciatori dovevano provvedere al loro vestiario, alle spese per gli spostamenti, all’organizzazione dei banchetti da offrire agli avversari dopo la partita e ai costi di gestione del loro sodalizio. I costi determinarono il carattere borghese e aristocratico dei primi club. Con lo sviluppo del movimento l’estrazione sociale cambiò rapidamente, ma l’Italia (“si fa ma non si dice”) non voleva riconoscere il professionismo, lo fece solo nel secondo dopo guerra.

D. Cosa deve il calcio italiano, oltre al professionismo, ai tecnici stranieri?

R. Negli anni Venti, come conseguenza della dissoluzione degli Imperi centrali, arrivarono oltre quaranta calciatori professionisti provenienti da Ungheria, Austria e Cecoslovacchia. Portarono un ricco bagaglio tecnico: finte, abilità nel controllare la palla con tutte le parti del piede, educazione al tiro con le diverse posizioni del corpo… Molti di loro diventarono allenatori, dando al nostro calcio l’impronta del gioco danubiano che, “non lasciava nulla al caso, muovendo i giocatori in campo con la precisione di un giocatore di scacchi che muove le sue pedine”. Una vera e propria colonizzazione sportiva che dette una precisa impronta tattica e stilistica al nostro calcio. Dal 1923 al 1930, i campionati furono vinti soltanto da allenatori stranieri e il primo manuale sulla conduzione di una squadra fu scritto da Arpad Weisz, espulso dall’Italia dalle leggi razziali e poi deportato dai nazisti e ucciso ad Auschwitz.

D. Questo massiccio ricorso ad allenatori stranieri avveniva durante il fascismo…

R. La riorganizzazione dello sport italiano fu parte della fascistizzazione delle istituzioni dello stato che sfociò nella costruzione del regime fascista. Agli inizi degli anni Trenta si posero l’obiettivo politico di creare una scuola per allenatori italiani, con il fine di costruire un futuro autarchico. C’era la volontà di passare dalla bottega artigiana, con l’apprendista che imparava accanto al maestro, ad una scuola di livello superiore, arrivando a regolamentare e disciplinare la figura dell’allenatore. Nel 1933 partì la Scuola Allenatori, ma pochi mesi dopo fu defenestrato, in uno dei tanti scontri tra gerarchi fascisti, Arpinati, presidente della FIGC e la Scuola non venne riproposta.

D. E di corsi per allenatori non se ne parlò più?

R. Nel 1940, per difendere il primato del calcio italiano che aveva vinto due Mondiali e un’Olimpiade, fu creato il Centro di Preparazione Tecnica che aveva anche il compito di definire il ruolo degli allenatori e la sua formazione, ma i primi corsi, per massaggiatori e aiutanti allenatori, vennero organizzati a Firenze nell’estate del 1943, pochi giorni prima della caduta del fascismo.

D. Nel dopoguerra da dove ripartì la FIGC e con quale sintonia con la nuova fase di sviluppo?

R. La FIGC mantenne quasi interamente il corpo dirigente che l’aveva diretta durante il fascismo e ripropose, sia dal punto di vista dell’inquadramento che da quello della formazione, l’approccio maturato. Dal 1949 furono riproposti i corsi, con materie e modalità organizzative che richiamavano le precedenti esperienze, ma con un passo indietro sul piano delle ambizioni: non si pensava più ad una Scuola, ci si accontentava di spiegare il mestiere prima di concedere il patentino per allenare. Nel dopoguerra, nell’Italia repubblicana, prendevano il via i programmi di formazione professionale per rispondere alle esigenze della popolazione adulta, scarsamente scolarizzata, e a quelle della ricostruzione e, successivamente, all’inizio di una fase economica espansiva, a una massa giovanile, anch’essa con scarsi livelli di scolarità. I corsi sviluppavano, con esercitazioni pratiche, capacità di lavoro, dando un mestiere. In questi anni si sovrappongono due fasi della storia economica italiana: l’urgenza della ricostruzione, in cui la forza lavoro va avviata ai mestieri, e quella successiva, dove il lavoro necessitava di una maggiore qualificazione professionale. Il 1950, l’anno in cui il reddito reale pro-capite torna ai livelli d’anteguerra, può essere considerato lo spartiacque tra le due fasi.

D. E poi arrivano gli anni del “miracolo economico” o, per meglio dire, della concentrazione del potere economico in grandi società nazionali o multinazionali e il crescente intervento dello stato nell’economia, il neo capitalismo italiano…

R. Il 1958 è l’anno di inizio del “boom economico” quando, per la prima volta gli operai sono più numerosi dei contadini ed entra in funzione la Comunità Economica Europea (CEE). È anche l’anno zero del calcio italiano che non ottiene la qualificazione ai Mondiali e viene commissariato dal CONI. Il commissariamento termina, l’anno successivo, con l’elezione del ventiquattrenne Umberto Agnelli, presidente della Juventus, alla presidenza federale. La ricostruzione tecnica del calcio italiano viene affidata a Walter Mandelli, dirigente industriale e vicepresidente della Juventus. Nel frattempo (1958) è stato aperto il Centro Tecnico Federale di Coverciano e cominciano, nel 1961, i primi corsi UEFA per allenatori e dirigenti europei. L’obiettivo di Mandelli è formare allenatori convenientemente istruiti e non solo sommariamente abilitati. I corsi per allenatori professionisti diventano biennali, con le fasi residenziali nell’estate per non ostacolare il lavoro, con lezioni di tecnica calcistica, medicina sportiva, storia degli sport, regolamento di gioco, carte federali e preparazione ginnico atletica. La filosofia è ben espressa da Mandelli: “Noi abbiamo l’obbligo di insegnare a tutti le leggi fondamentali del calcio. Fermi non ha scoperto l’atomo, né Fleming la penicillina all’università. Ma è stata l’educazione della scuola che ha dato a Fermi ed a Fleming, perdonatemi l’irriverenza, le basi dei loro studi”. La Scuola di Coverciano respingeva la definizione di fabbrica degli allenatori. L’allenatore lo seleziona il campo, la pratica effettiva. La scuola lo avvia alla professione, aiuta a trasformare la pratica in teoria e la teoria in pratica.

D. Qualche anno dopo si passa dai corsi al Supercorso…

R. Sono sempre le vicende della Nazionale a dettare le politiche federali. Dopo il fallimento ai Mondiali 1974, Artemio Franchi assume la presidenza del Settore Tecnico e punta su Italo Allodi, il dirigente sportivo più quotato, ed anche più discusso, del momento, che presenta un piano per istruire, abilitare e inquadrare gli allenatori nelle nuove condizioni del calcio contemporaneo, con la sistematica istruzione di tutte le figure tecniche attraverso la valorizzazione dei titoli abilitanti. Un corso parauniversitario, con materie inusuali come sociologia, psicopedagogia, sessuologia, alimentazione, psicologia, i compiti del sindacato, le questioni fiscali, la medicina sportiva applicata al calcio. Viene definito Supercorso ed introduce un modello duale nel processo di formazione: lezioni in aula e missioni di studio a contatto con l’esperienza pratica nei maggiori club. Dura nove mesi e sono tutti residenziali, a Coverciano, tranne i periodi di aggiornamento all’estero. Gli allievi possono ricorrere ad un prestito d’onore federale ed utilizzare successivamente borse di studio. È una rivoluzione che pone Coverciano al centro dell’attenzione internazionale e produce anche il primo corso per Direzione di Società di Calcio (1980-81). Le società calcistiche erano diventate aziende di medio-grande dimensione e, come nelle imprese di altri settori e comparti, la loro gestione comportava problematiche sempre più complesse, passando dal modello imprenditoriale-padronale al management organizzato. La rivoluzione finisce nel 1982 con la vittoria ai Mondiali, Bearzot e Allodi erano inconciliabili…

D. Gli anni Ottanta sono gli anni del riflusso, anche in questo settore?

R. Esatto, con la restaurazione dei vecchi corsi, preoccupandosi solo di salvare la dimensione internazionale di Coverciano. Alla fine del decennio, con la gestione Abete, la Scuola Allenatori viene totalmente rivista, con un mutamento di orizzonte nella didattica: maggiore spazio alla cultura, calcistica e scientifica, intensificando scambi e contatti con le maggiori realtà europee ed extra europee. Il corso Master di alta specializzazione per gli allenatori di 1a categoria, diviso in due sessioni estive, e con l’introduzione della comunicazione come materia fondamentale è il suo esito.

D. Ed oggi cosa succede in Italia nel campo della formazione degli allenatori?

R. La dinamicità del football ha portato negli ultimi vent’anni ad una maggiore specializzazione (calcio a 5, calcio femminile, preparatori atletici, preparatori dei portieri, di formazioni giovanili, osservatori, match analyst…) con conseguenti corsi dedicati.
L’allenatore europeo contemporaneo è un gestore di conoscenze in un gioco cognitivo che dipende dalla capacità, singola e collettiva, di dare risposte in tempo reale alle situazioni che si creano in campo. Il paradigma formativo della Scuola di Coverciano è la flessibilità: il calcio si rinnova ogni giorno e bisogna essere pronti a catturare e interpretare le novità, agli aspiranti allenatori vengono spiegate le varie impostazioni e interpretazioni tattiche, le filosofie di gioco applicate dai tecnici. Vengono indicate le novità e i mutamenti del calcio. Alla Scuola sono stati eliminati i libri di testo, poiché, in una disciplina in continuo movimento, esprimono concetti già superati. L’allievo entra senza libri e con delle convinzioni, ma esce senza certezze e con un testo scritto da lui, una prima idea del calcio che proporrà. Come dice il direttore della Scuola, Renzo Ulivieri bisogna “essere meticci, imparare a mescolare le nostre culture”. Flessibilità e ibridazione sono il vero punto di arrivo dopo decenni in cui, seppure in forma diversa, si ripresentava l’utopia di dare una comune identità tecnico-tattica e un medesimo stile di gioco a tutti.


Serie completa – Sport e dintorni

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ACHAB. Gli Occhi di Argo sul carcere. Intervista a Giuliana Vitali https://www.carmillaonline.com/2024/06/30/achab-gli-occhi-di-argosul-carcere-intervista-a-giuliana-vitali/ Sun, 30 Jun 2024 20:00:10 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=83055 Sono trascorsi dieci anni dalla nascita della rivista letteraria Achab, fondata dallo scrittore Nando Vitali e curata insieme a Giuliana Vitali. Un percorso coraggioso con la realizzazione di 13 volumi monografici che esplorano tematiche letterarie, artistiche, culturali, sociali. Quest’ultimo volume pubblicato dalla casa editrice romana Kulturjam edizioni, porta il titolo di Achab. Gli occhi di Argo|sul carcere e che approfondisce una delle questioni più complesse e attuali della nostra società, appunto quella carceraria.

Per questo si è scelto di dialogare con Giuliana Vitali, curatrice di questo numero monografico.

In che modo si pone una rivista letteraria come Achab all’interno della [...]]]> Sono trascorsi dieci anni dalla nascita della rivista letteraria Achab, fondata dallo scrittore Nando Vitali e curata insieme a Giuliana Vitali. Un percorso coraggioso con la realizzazione di 13 volumi monografici che esplorano tematiche letterarie, artistiche, culturali, sociali.
Quest’ultimo volume pubblicato dalla casa editrice romana Kulturjam edizioni, porta il titolo di Achab. Gli occhi di Argo|sul carcere e che approfondisce una delle questioni più complesse e attuali della nostra società, appunto quella carceraria.

Per questo si è scelto di dialogare con Giuliana Vitali, curatrice di questo numero monografico.

In che modo si pone una rivista letteraria come Achab all’interno della società?

Tra i ruoli di una rivista letteraria c’è quello di accogliere una narrazione corale fatta di voci diverse tra loro, spesso apparentemente discordanti e che portano a interrogarsi su sé stessi e sulla realtà, insinuano dubbi, creano un certo spaesamento mettendo in discussione anche le proprie idee. Tutto questo mescolando le varie forme d’arte con i loro linguaggi e interagendo con chi legge e interviene agli incontri sul territorio. È perciò uno strumento per indagare la realtà, raccontarla e dare vita a dibattiti.

Cosa vi ha ispirato a dedicare il volume monografico “Gli occhi di Argo|sul carcere” sul tema delle carceri?
È un’urgenza che nasce dalla negazione e violazione dei diritti, di cui si parla e scrive tanto – e spesso in termini di pietas cattolica – ma l’approfondimento più radicale resta confinato in “dibattiti di nicchia”. Cambiando l’accezione di Argo Panoptes, figura leggendaria di carceriere dai cento occhi, esploriamo da diverse angolazioni ciò che riguarda la condizione carceraria – anche con uno sguardo su paesi come l’Africa e la Turchia -, attraverso la continua interazione di linguaggi critici ed espressivi fino a poter forse raggiungere contezza che la presa di posizione verso i diritti civili riguarda la società tutta, nessuno ne è estraneo.

In questo numero di Achab sono presenti contributi davvero interessanti, ce ne parla? Inoltre, sono stati raggiunti i dieci anni di pubblicazioni della rivista, un percorso davvero notevole.
Hanno contribuito sia personaggi già affermati sia giovani che da un tempo più recente sperimentano forme d’arte per raccontare la realtà affrontando temi sociali. Achab è una rivista letteraria illustrata e difatti anche le illustrazioni hanno un ruolo ben preciso nel racconto.
La copertina è stata creata da Murat Başol, illustratore turco. Abbiamo pensato a lui perché partecipò a uno dei più discussi processi sulla libertà di stampa in Turchia: il Processo Cumhuriyet. Essendo vietati telecamere, fotocamere, cellulari e registratori, un gruppo di illustratori “attivisti” ha disegnato tutto quello che accadeva al processo per poi divulgarlo fuori.
Tutte le altre illustrazioni sono dei detenuti in Italia che hanno partecipato a un progetto artistico dell’Associazione Artisti Dentro.
Un’illustrazione è stata creata dall’artista Senzarumore per la poesia inedita di Charles Simić.
Abbiamo interventi di Filippo La Porta con la visione del tempo in un contesto di reclusione, Susanna Marietti che racconta del carcere minorile, Susanna Ronconi sulla condizione delle donne in carcere, Erri De Luca, Simona Maggiorelli, Andrea Carraro, Alexandro Sabetti, Matteo Giusti, Giyasettin Șehir e tanti altri.
Arrivare a 10 anni per una rivista letteraria cartacea è un traguardo importante che nasce dalla necessità del direttore Nando Vitali nel creare un luogo di confronto che possa restare nel tempo.
Gli argomenti attraversati sono stati tanti: penso alla trilogia sul Sud (inteso come luogo dell’anima), alla forma Romanzo, alla Musica, all’Arte in relazione ai nuovi media, agli speciali su Albert Camus o su Pasolini nel suo centenario.

A proposito di attività artistiche all’interno delle carceri, secondo Lei, quale impatto reale può avere sulla riabilitazione del detenuto?
Intanto i progetti artistici in carcere sono pochissimi e organizzati soprattutto da volontari. Pensiamo alla condizione del detenuto: in un luogo dallo spazio ridotto, limitato e in un tempo immobile. La realtà fuori cambia mentre dentro resta tutto uguale. È perciò indispensabile secondo me creare un ponte tra il dentro e il fuori e viceversa. Questo per il momento potrebbe farlo solo l’arte che diventa sopravvivenza non solo allargando il tempo del detenuto ma ricercando anche una nuova consapevolezza del proprio corpo. In carcere i muscoli si atrofizzano, gli occhi si abituano alla poca luce oppure a quella artificiale, la musica, i rumori del quotidiano non esistono più. E il cervello in qualche modo cerca di ricordare e ricreare. Questa immaginazione può prendere forma solo attraverso i vari linguaggi artistici come per esempio il teatro, la scrittura, il disegno, la musica.

Prima mi raccontava della presenza di Achab sul territorio. Quali tipi di incontri state organizzando e che riscontro avete con le persone che partecipano?
Con questo volume abbiamo cercato di avvicinare le persone all’argomento carceri attraverso eventi dinamici, di stampo non “accademico” – quindi non solo per gli addetti ai lavori – ma con la collaborazione di voci autorevoli che affrontano la realtà carceraria ogni giorno in quanto detenuti, ex detenuti, attivisti, artisti engangé, associazioni, intellettuali (ahimé pochi), studiosi di tematiche socio-culturali. Ne cito alcuni: l’Associazione Antigone, Radio Radicale, Nessuno tocchi Caino, la Compagnia Teatrale Fort Apache del carcere di Rebibbia, la Rems (Residenza per l’esecuzione delle misure di sicurezza) di Rieti, la street artist Pax Paloscia, il regista Fabio Cavalli, Sandro Veronesi, Paolo Di Paolo, Edoardo Albinati. La rivista è solo cartacea ma utilizziamo le pagine social per incontri on-line che possano approfondire di volta in volta determinati punti del complesso tema carcere. Abbiamo per esempio dialogato con Mauro Palma – ex garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale – Emilia Santoro, Elisabetta Zamparutti, Susanna Ronconi e tanti altri. Questi eventi suscitano in molti curiosità, voglia di saperne di più, riflessioni, confronti e quindi interazione. Achab è una goccia nel mare ma crediamo che sia necessario l’atto di responsabilità esprimendo e raccontando il nostro tempo.

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Tra le rovine. Per una politica della durata. Intervista a Alain Schnapp https://www.carmillaonline.com/2024/05/04/tra-le-rovine-per-una-politica-della-durata-intervista-a-alain-schnapp/ Sat, 04 May 2024 05:00:40 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=82155 di Valentina Cabiale

Alain Schnapp (Parigi 1946), archeologo e storico, è professore emerito dell’Università di Parigi I (Panthéon-Sorbonne) e nel 2001 ha fondato l’Institut national d’histoire de l’art (Inha), dirigendolo fino al 2005. Si occupa principalmente di iconografia greca, teoria e storia dell’archeologica. In Italia ha diretto scavi a Metaponto, Eboli, Moio della Civitela, Laos-Scalea e ha insegnato all’Istituto Universitario Orientale di Napoli e all’Università di Perugia. Nel 2023 per Einaudi è uscito “Storia universale delle rovine. Dalle origini all’età dei Lumi” (traduzione di Anna Delfina Arcostanzo e Valentina Palombi), dedicato al professor Jean-Pierre Vernant, il maestro dal quale ha ereditato lo [...]]]> di Valentina Cabiale

Alain Schnapp (Parigi 1946), archeologo e storico, è professore emerito dell’Università di Parigi I (Panthéon-Sorbonne) e nel 2001 ha fondato l’Institut national d’histoire de l’art (Inha), dirigendolo fino al 2005. Si occupa principalmente di iconografia greca, teoria e storia dell’archeologica. In Italia ha diretto scavi a Metaponto, Eboli, Moio della Civitela, Laos-Scalea e ha insegnato all’Istituto Universitario Orientale di Napoli e all’Università di Perugia. Nel 2023 per Einaudi è uscito “Storia universale delle rovine. Dalle origini all’età dei Lumi” (traduzione di Anna Delfina Arcostanzo e Valentina Palombi), dedicato al professor Jean-Pierre Vernant, il maestro dal quale ha ereditato lo sguardo antropologico e comparativo nello studio dell’antichità classica.

La sua Storia universale delle rovine. Dalle origini all’età dei Lumi (Einaudi 2023) è un libro di più di 900 pagine che – scrive – non è “una storia di tutte le rovine in tutte le società, ma un tentativo di esplorazione stratigrafica del pensiero sulle rovine”. Non parla solo di monumenti ma di tutte le tracce materiali, e, soprattutto, delle strategie della memoria collettiva per annetterle o escluderle. Crede di essere riuscito ad essere davvero universale oppure, pure in un’opera così eccezionale per quantità di dati e riflessioni sulla relazione tra le persone e la materialità del passato, ha la sensazione di aver dimenticato qualcosa?

C’è sempre il rischio di dimenticare qualcosa e, soprattutto, la difficoltà principale è quella di non riuscire a leggere tutte le tradizioni nelle lingue originali. Per il cinese, il giapponese, l’arabo ho dovuto appoggiarmi a una traduzione già esistente o consultarmi con colleghi che mi hanno aiutato. Questa è la prima difficoltà strutturale a un approccio universale. Quando ero studente, la principale referenza per la storia universale dei miti era Georges Dumézil. Lui aveva la capacità di leggere almeno 50, 60 lingue, perchè era un linguista di formazione e aveva dedicato tutta la vita a insegnare lingue diverse, dalla Turchia alla Polonia, alla Svezia. L’ho chiamata una storia universale perché è la storia universale che io ho potuto costruire con le risorse a me accessibili e con il tempo che mi è stato concesso dalle istituzioni che mi hanno sostenuto. Non posso pretendere che sia una visione di tutte le rovine in tutte le società. La cosa che mi ha portato a questo comparativismo, oltre all’eredità di Jean-Pierre Vernant e del Centre de Recherches Comparées sur les Sociétés anciennes, è il fatto che più ho cercato di esplorare il concetto di rovina in società senza scrittura, più mi sono accorto del ruolo delle rovine nelle società e del fatto che in contesti ben diversi ci sono processi e modalità di avvicinamento al passato che sono gli stessi. Dunque non si può isolare l’Occidente dall’Oriente, il mondo arabo-mussulmano dal mondo cinese: ci sono passaggi, scoperte inaspettate, similarità che portano naturalmente al comparativismo.

In che direzione sta andando il modo in cui la memoria collettiva (penso all’Europa, in particolare) si rapporta ai resti materiali? L’estetica delle rovine sta cambiando?

Sì, è una questione non affrontata direttamente nel libro perchè per ovvie ragioni di taglio e di documentazione mi sono fermato all’Illuminismo e, eccetto che nelle conclusioni, a una visione delle rovine dal Paleolitico alla fine del Settecento. È vero che la rovina come fenomeno di massa è stata, come dire, moltiplicata, ingrandita, dalle distruzioni delle due guerre mondiali e lo è, adesso, da tutte le guerre che stiamo guardando con orrore con i nostri occhi: quello che succede a Gaza , in Ucraina, quello che è successo in Siria, fa parte di una esperienza di quotidianità che va al di là delle esperienze precedenti soprattutto per quanto riguarda i media di informazione. Infatti, ho prolungato la mia ricerca in una mostra che si è appena chiusa a Lyon col titolo “Le forme della rovina” [Mba-Musée des Beaux-Arts di Lione, 1 dicembre – 3 marzo 2024]. Questa mostra, il catalogo è uscito qualche settimana fa, presenta 300 oggetti legati al tema delle rovine, e di questi circa 200 derivano dall’arte contemporanea, dal modo con il quale la nostra società guarda al passato e dal modo in cui un gruppo di giovani artisti si è interessato alle rovine e ne ha fatto un momento di critica della ragione e della vita culturale.

Le anticipo una domanda che volevo porle proprio sulle rovine contemporanee. Nelle rovine antiche vediamo una serie di dicotomie che rendono difficile interpretarle ma che, anche, le rendono così affascinanti: la dicotomia tra natura e cultura, tra oblio e memoria, visibile e invisibile, perdita e sopravvivenza. Tutte cose che possiamo riconoscere anche nelle rovine moderne e contemporanee, nelle città distrutte dalle guerre, come la Beirut degli anni Novanta fotografata da Gabriele Basilico. Come Gaza, oggi. Come archeologo e studioso di rovine come si pone di fronte a queste immagini di città devastate? Se e perché esercitano anch’esse una forma di attrazione?

Già Chateaubriand diceva che ci sono le rovine delle guerre, e poi ci sono tutte le altre rovine: tra queste ultime, le rovine delle industrie, del fallimento economico. Nei sobborghi abbandonati di Detroit, la città colpita dalla dissoluzione urbana a seguito del crollo delle risorse economiche [in seguito alla crisi dell’industria automobilistica e alla bancarotta nel 2009 della Chrysler e della General Motors, è in atto un processo di spopolamento massivo di interi quartieri], si è sviluppata un’arte di filmare e fotografare le rovine che alcuni hanno chiamato pornorovine, la pornografia delle rovine: i fotografi scattano delle immagini esteticamente bellissime di quello che è accaduto a Detroit, di come la società superstite muoia della mancanza di servizi e di lavoro. Dunque, c’è, direi, una sorta di conflagrazione nella nostra contemporaneità tra i conflitti mondiali e l’autodistruzione delle economie legate alle tecniche moderne di costruzione, che fa sì che il ciclo dei monumenti e degli edifici venga interrotto. Fino all’inizio del Novecento le costruzioni miravano a 50, 100, 200 anni di durata. Adesso il ciclo di costruzione è molto più corto, molti edifici sono stati costruiti così male, e sono stati così malamente inseriti nel tessuto urbano, che non possono durare più di 30-40 anni. Quindi c’è un senso dell’effimero, di previsione della rovina, che si vedeva già nelle teorizzazioni di alcuni pensatori del secolo scorso. Senza parlare dell’architetto di Hitler, Albert Speer, che spiegava al suo Führer che non solo la sua architettura era garantita per centinaia di anni ma che le rovine sarebbero rimaste visibili per migliaia di anni dopo. Questa hybris dei nazisti, questa violenza strutturale, la ritroviamo anche nelle distruzioni delle città moderne, nei conflitti ai quali stiamo assistendo.

Sul piano personale, invece, come è cambiata la sua attrazione per le rovine? Da quando era un giovane studente ad adesso.

Sono partito da una storia della disciplina antiquaria. Per 40 anni ho insegnato i metodi dell’archeologia a giovani studenti usciti dal liceo e mi sono chiesto, già negli anni Settanta, inizio anni Ottanta, se quella nostra e occidentale infatuazione per l’archeologia avesse dei precedenti. Mi sono interessato, allora, all’Illuminismo, al Rinascimento, al mondo medievale occidentale e orientale e questo mi ha portato a scrivere “La conquista del passato. Alle origini dell’archeologia”, uscito nel 1993 [trad. it. 1994, Leonardo]. Da allora ho avuto la fortuna di essere invitato a lavorare al Getty Reserarch Institute di Los Angeles dove i ricercatori ricevono tutte le facilitazioni per studiare, l’assistenza e l’accesso illimitato a libri e iconografie, così mi è venuta l’idea di tentare per le rovine quello che avevo già scritto per l’archeologia in sé, e dunque di affrontare la domanda: quando noi parliamo di poesia delle rovine, esiste già una poesia delle rovine nel mondo dell’Egitto antico o in quello dei Sumeri? Ho trovato alcuni poemi che andavano in questa direzione e ho cercato di rintracciare nelle culture dell’Oriente e dell’America antica tracce di queste pratiche legate alle rovine. Mi sono interessato anche al lavoro degli etnologi che cercano di vedere come viene definito il passato in società che rifiutano, in un certo senso, il passato  e non hanno parole per le rovine. Sono arrivato così al concetto di società che sono “archeofile”, mentre altre invece non vogliono le rovine, le distruggono o le ignorano. Ignorarle è ancora peggio che distruggerle, se si parla di memoria collettiva.

Ma secondo lei la storia dell’archeologia è una storia di tutti o è soltanto di poche élite o gruppi che il passato sono proprio andati a cercarlo? Glielo chiedo pensando alle tante persone, ai singoli, di cui racconta nel libro. A partire dall’imperatrice Elena, la madre di Costantino che fece scavare sul Golgota alla ricerca di prove materiali (la Vera Croce) che attestassero la veridicità del supplizio di Gesù e, così facendo, pose le basi di un “antiquariato sacro” e di tutta la caccia medievale alle reliquie; il cinese Ouyang Xiu (XI sec.), che dedicò la sua vita alla collezione di manufatti antichi e alla trascrizione delle iscrizioni, mentre contemporaneamente, in Francia, l’arcivescovo di Tours Ildeberto di Lavardin scriveva due testi poetici sulle rovine, funzionali in qualche modo all’elaborazione e al superamento del lutto (il declino dell’antichità classica). E poi tanti uomini del Rinascimento, da Ciriaco d’Ancona che, nella prima metà del XV secolo, trascrisse centinaia di iscrizioni greche e latine, a Leon Battista Alberti che fallì di fronte all’intera Curia Pontificia accorsa al lago di Nemi nella speranza di vedere riemergere dalle acque una delle navi di Caligola.

Quella dell’archeologia è una storia di tutti o solo di qualcuno e c’è un momento specifico, nella storia più recente, in cui è diventata di tutti?

È una storia di tutti nel senso che gli imperi o le società frugano nel passato per trovare temi di aggancio e modi per convocare il presente o il futuro nella sua continuità con il passato. Certamente ci sono società che non vogliono avere rapporti con il passato. Tendono a cancellarlo, per esempio nel mondo arabo-mussulmanto tutte le cose anteriori alla nascita dell’islam vengono definite jahiliyya [trad. it. ignoranza]. Jahiliyyia è una parola che definisce il mondo dell’inaccessibile, della barbaria. Dunque, a una prima vista, la rivelazione islamica sembrerebbe essere contraria alla permanenza di tratti, di costumi e, soprattutto, di monumenti dell’antichità. Poi se uno va a vedere trova che nei fatti al Cairo, nella Siria e ancora di più nel mondo persiano ci sono molti agganci al passato, anche al passato preislamico, che sono stati utilizzati e messi al servizio dell’immagine del re e della società. Chiaramente i concetti della disciplina antiquaria – tutto ciò che precede l’archeologia moderna nel senso elaborato da Inghilterra, Germania, Francia e Italia nel XIX secolo – fanno parte della vita sociale. Alcune società cercano di ideologizzarli, basta pensare a Stalin, Hitler o alla retorica attuale di Putin contro i cosiddetti ”nazisti”, ma si potrebbe pensare anche alle guerre coloniali. Quando ero studente la guerra in Algeria incorporava il tema della “colonizzazione utile” secondo la quale i francesi avrebbero portato in Algeria la medicina, l’economia moderna, ecc. Questa ideologia coloniale non riflette la storia in senso profondo, e il modo con il quale i francesi e gli italiani hanno cercato di confiscare il passato romano, sia con il regime della Terza Repubblica e il colonialismo francese, sia con i fascisti di Mussolini, rimanda all’utilizzazione ideologica (all’abuso) degli strumenti dell’archeologia.

A un certo punto nel libro cita André Leroi-Gourhan secondo il quale le prime “collezioni” di reperti, scoperte in livelli post-musteriani nella grotta di Arcy-sur-Cure, composte da oggetti curiosi (tra cui alcuni fossili) selezionati e messi da parte da quelle genti preistoriche, sono il primo segno di una coscienza estetica. Secondo lei sono anche il segno dell’accorgersi dello spessore del tempo? Accorgersi che esistono oggetti appartenenti a un tempo diverso dal proprio.

Sarebbe un po’ pretenzioso affermarlo. Questi oggetti sono stati messi da parte e il fatto che costituiscano un piccolo deposito fuori dal circuito della funzionalità e del riclicaggio ne fa degli oggetti di interesse, ma cosa ci sia dietro non si sa bene. Alla sua domanda posso rispondere attraverso un esempio egiziano. Nel Museo Egizio di Torino c’è un fossile di riccio di mare dell’Eocene, proveniente da Eliopoli e di datazione incerta, sul quale è stato scritto “trovato a sud della cava dal sacerdote Tjanefer”.  È il primo oggetto noto, che viene dai tempi lontani della paleontologia, sul quale lo scriba che l’ha trovato ha iscritto dove l’ha trovato e ha messo il suo nome per confermare la scoperta. Siamo in un’epoca più recente, non nei 40-50.000 anni fa del Paleolitico, ma è un indizio della presa di coscienza del fatto che alcuni oggetti, anche di minimo interesse, se vengono messi da parte sono legati a un certo concetto del tempo.

Abbiamo parlato di rovine del passato e di rovine del presente. Come immagina le rovine del futuro? Le sembrano una specie in estinzione, e ha mai “giocato” con quella figura retorica (tanto usata nella letteratura europea a partire dal XVIII secolo) che consiste nell’immaginare un futuro nel quale le città imponenti del presente saranno finite in rovina?

È un tema che riconosciamo in Occidente almeno da Tucidite. Lo storico greco fa un paragone tra Atene e Sparta e confronta quelle città che non hanno un centro cultuale e architettonico con le altre come Atene che con monumenti come l’Acropoli mirano alla bellezza e a una cultura architettonica. La relazione tra rovine e futuro è già presente nel mondo greco e lo è parzialmente nel mondo mesopotamico quando i re vanno a cercare le tavolette iscritte, sepolte nel cuore degli antichi templi, e quando le trovano esaltano la loro capacità nel mettere in moto una storia molto antica, dimenticata dai predecessori. C’è una bellissima iscrizione nella quale uno di questi re della Mesopotamia indirizza una preghiera ai suoi successori, ai quali dice: se sei una persona devota e un giorno ti capiterà di trovare la mia iscrizione, ti prego di leggerla e di conservarla. Questi sono indizi di un interesse per il futuro.

Quanto a cosa sarà delle nostre città nel futuro, questo è legato alla presenza umana nella natura e nell’ambiente. Quando vediamo minacciati non solo monumenti antichi ma anche monumenti della natura come la barriera corallina dell’Australia, si capisce bene come i meccanismi che sono in moto portino alla distruzione e alla eradicazione di molte cose. C’è un paradosso nel fatto che quelli che chiamiamo monumenti storici in Occidente si stiano salvando, ad esempio la città di Oradour sur Glane, nel sud della Francia, distrutta dai nazisti e dopo il 1945 mantenuta esattamente com’era dopo la strage; solo che oggi, 70 anni dopo, la domanda è: come conservare queste rovine? Questo è un tema insito nella relazione tra rovine e futuro. Un altro è chiedersi, lo fanno scrittori come Le Cleziò o alcuni pittori famosi, cosa rimarrà delle nostre città e dei monumenti che consideriamo grandi tra 2000, 10000, 50000 anni, se l’universo continuerà a svilupparsi con il ritmo corrente. La mia risposta a questa domanda è quella del ciclo: tutte le cose materiali si degradano, ma alcune in qualche giorno, alcune in qualche mese, altre in secoli o millenni. Questa dimensione dovrebbe essere integrata nei progetti architettonici, soprattutto nei progetti di autostrade, ferrovie, aeroporti. In Spagna e nel sud dell’Italia alcune strutture sono state costruite e sono già in rovina prima di essere state utilizzate. La stessa cosa sta accadendo anche in Cina, con tutti i problemi legati al fatto che ci sono centinaia di migliaia di appartamenti non più accessibili né abitabili

In Italia c’è un esempio, forse unico, di rovina che è stata nello stesso tempo cancellata e mantenuta. È il Cretto di Alberto Burri, in Sicilia, a Gibellina. La città vecchia, distrutta dal terremoto del Belice nel 1968, è stata cementificata dall’opera dell’artista, nella seconda metà degli anni Ottanta. Una sorta di ricostruzione simbolica della città, composta da 22 cubi in cemento che evocano la struttura urbana inglobandone, nello stesso tempo, i ruderi originali. Una città che funziona come un memoriale e opera d’arte e non più come una città; nello stesso tempo, ha cementificato, conservato, i resti originali. C’è nella storia antica qualche esempio comparabile e questo intervento?

Nel catalogo della mostra viene presentato Il caso di Gibellina. Sì, nella Mesopotamia antica, ma anche nel mondo cinese, questo fenomeno è accaduto. Sulle rovine del passato si costruisce il futuro. Questo è possibile perchè i cinesi, come i sumeri, sono capaci di leggere iscrizioni con scritture molto antiche. Nella Mesopotamia quando un re trova un’iscrizione del suo predecessore, come le dicevo ribadisce e sottolinea la sua presenza dicendo: ho trovato questa iscrizione perché sono stato eletto da Dio, nessuno prima di me l’aveva trovata, rispettando il passato faccio ricostruire il tempio come si deve. La ricostruzione reinterata discende dal fatto che nel mondo mesopotamico anche i templi e i palazzi sono in argilla, quindi fragili, diversamente che in Egitto. Nel mondo egiziano c’è questa famosa iscrizione di un figlio del faraone Ramses II, il quale dice: mentre scavavo una vasca di fronte a un santuario, per ripristinare tutti i riti del tempio, ho trovato la statua del mio più lontano antenato, un sacerdone di nome Kawab, a sua volta figlio di faraone (Cheope). In questo modo lui testimonia la volontà di stabilire una relazione con il passato. Jan Assmann, che è mancato qualche settimana fa, nel suo libro “La memoria culturale” [Enaudi 1997] si è interessato a questi fatti, alla ristrutturazione del passato al servizio del presente. La riutilizzazione può essere legata alla manipolazione dei testi attraverso le iscrizioni, attraverso la deposizione di oggetti o mediante l’uso di spazi che sono resi leggibili e sono integrati nel processo generale. In questo rientra anche la tradizione cinese delle iscrizioni gigantesche sulle montagne, nelle quali si riporta il nome di chi l’ha fatta fare e che valgono come prova del passaggio di un tale re o di un altro in quella zona.

A partire dal basso Medioevo avviene un processo di storicizzazione delle rovine pagane. Le rovine non fanno più paura, si potrebbe dire, vengono addomesticate, come lei scrive. Quali sono i requisiti necessari perché una rovina sia addomesticata?

Dipende dalla società, non è lo stesso per tutte. Nel mondo medievale, nel VI-VIII secolo, il problema più difficile era quello di cristianizzare il paesaggio e quindi anche di utilizzare le costruzioni romane o più antiche per farne dei luoghi accessibili ai cristiani. I Padri della chiesa sviluppano allora tutta una serie di strategie che consistono in preghiere da recitare quando si trova un monumento antico, o in modalità diverse per utilizzarlo, quando è ancora utilizzabile, per il culto cristiano, oppure nel farne una cava per riutilizzare i materiali da costruzione per gli edifici cristiani. Esistono anche delle procedure per reimpiegare i vasi. C’è una preghiera – si chiama il rituale di Jumièges, dal nome dell’abbazia in Francia, ma si ritrova anche in Germania – apposta per cristianizzare l’uso dei reperti ritrovati nel sottosuolo. In questa preghiera si dice che con l’aiuto del nostro Signore Gesù Cristo possiamo far uscire da questi vasi il maligno, il diavolo, e trasformarli in oggetti utilizzabili per il culto cristiano. Queste pratiche le ritroviamo nel cristianesimo del medioevo, in un certo senso nel culto delle reliquie nella Roma del XII-XIII secolo, nelle poesie di Ildeberto di Lavardin,  l’arcivescovo di Tours, che è il primo a dedicare una poesia alle rovine di Roma.

Al reimpiego fisico (riutilizzo e conversione di spazi, dei materiali da costruzione, conversione di uso di oggetti, …) si accompagna sempre una strumentalizzazione ideologica?

Sì, certamente. La strumentalizzazione è necessaria anche perché questi oggetti e queste costruzioni sono in buona parte inintelligibili per quelli che le scoprono. Dunque, questi rituali e queste pratiche ordinate dai vescovi, dagli abati dei più grandi monasteri, sono un modo per recuperare degli oggetti che hanno un uso economico e un uso cultuale. Il recupero ideologico può essere legato al recupero puramente economico. Ad esempio, nella Roma del Quattrocento tante di queste scoperte archeologiche sono legate all’edilizia, all’estensione della città medievale che si sta trasformando, di nuovo, in una città imperiale.

Nel mondo contemporaneo occidentale si privilegia il restauro filologico dell’“originale”, diversamente le tradizioni cinese e giapponese mettono in atto una sorta di strategia antirovina ricostruendo periodicamente i templi e gli edifici importanti (un esempio noto è il tempio di Ise in Giappone, che sin dall’VIII secolo viene ricostruito ogni 20 anni). Diverse pratiche e teorie del restauro che derivano non solo dall’uso di materiali da costruzione differenti ma da una diversa concezione della storia. Questa ha dato origine anche a differenti tipi di archeologia? Si fa archeologia in modi diversi o i principi base della ricerca archeologica, dei metodi, degli obiettivi, possono oggi essere considerati universali?

È chiaro che non si scava una capanna come si scava una casa romana o un tempio. Prima parlavo del colonialismo francese e  Philippe Leveau, mio collega e storico dell’Africa romana, aveva identificato una difficoltà nella pratica dell’archeologia francese in Algeria: gli archeologi si interessavano a quelle che ritenevano rovine romane, costituite da tegole e pietre, ma i romani, così come i berberi romanizzati, avevano utilizzato anche altre tecniche costruttive, con legno e paglia, che però non sono state viste dai colonizzatori, non preparati a guardare il suolo con l’occhio del protostorico che sa riconoscere altre tracce oltre alle mura in pietre. Pertanto, è chiaro che la rappresentazione che la gente ha del passato influisce sullo scavo e sul restauro. Per i giapponesi e i cinesi gli oggetti hanno un ciclo, che può essere di 20 anni, come per il tempio di Ise in Giappone, o di 50-60 anni ma non c’è nulla di inquietante, per loro, nel fatto di restaurare totalmente, mentre già nel mondo romano c’è qualche esitazione sulla dottrina del restauro, ci si pone già il problema di come restaurare. Il pensiero successivamente viene elaborato, molto lentamente, fino a Raffaello, B. Castiglione  e alla nascita del concetto di protezione e tutela dei monumenti a Roma e nel mondo occidentale. Ma tutto questo ci porta alla domanda: a cosa servono i monumenti antichi? La nostra teoria è quella non di rifare ma di mantenere, e questo mantenimento è un modo di rallentare l’effetto del tempo; a un certo punto, però, le cose crollano e quindi o si lasciano crollate o si rifanno da capo, con tutti i rischi insiti nell’aggressività delle tecniche moderne. Lo diceva già Chateaubriand: le rovine della natura sono lente, le rovine degli uomini sono veloci e questa rapidità ha delle conseguenze deleterie sul mantenimento del paesaggio antico.

Lei si è occupato molto di storia dell’archeologia, di rovine in pietra, di monumenti. Come si rapporta invece all’archeologia che studia gli oggetti prodotti in serie, la ceramica, i manufatti quotidiani, quelli sempre un po’ uguali uno all’altro?

Il contributo dell’archeologia moderna è stato quello di rispettare e dare lo stesso valore alla costruzione di un sito e al suo abbandono, grazie all’uso del metodo stratigrafico e alla relazione tra questo metodo e la tipologia degli oggetti che possiamo ritrovare. Il concetto di preistoria è nato quando gli archeologi si sono convinti che certi strati dimostravano la coesistenza di animali estinti e di industrie litiche prodotte dall’uomo, e dunque hanno assegnato a quest’ultime – sulla base del livello paleontologico in cui si trovavano – una referenza cronologica. Oggi i tempi dell’archeologia sono variati. L’archeologia come tale, come tecnica di estrazione dal suolo di oggetti e di vestigia, è una creazione intellettuale che critica la disciplina antiquaria in quanto a differenza di quest’ultima usa i paradigmi della stratigrafia, della tecnologia e delle tipologie. Questi elementi sono strutturati in una teoria generale che si impone alla metà dell’Ottocento. La rivoluzione moderna dell’archeologia è dovuta principalmente a due cose, a mio parere: la prima è la datazione al radiocarbonio, che ha consentito di avere una datazione naturale e non più solo basata sulle seriazioni tipologiche, la seconda è l’affermazione della stratigrafia: uno scavo non ha senso se il risultato non ci dimostra come è stato costruito e abbandonato il sito investigato. In gioventù ho fatto molte esperienze archeologiche nel Mediterraneo e in Francia e ho visto svilupparsi queste tecniche che hanno trasformato l’archeologia, così come i metodi e le tecnologie nuove hanno trasformato la medicina: oggi la medicina consente l’esplorazione e la conoscenza del corpo umano a un livello che era impensabile per i medici degli anni Trenta del secolo scorso. La stessa cosa avviene per l’archeologia, basta pensare a tutte le tecniche non invasive che consentono di vedere cosa c’è nel sottosuolo prima di scavare direttamente, alle tecniche della fisica moderna, della scienza, che concorrono alla ricostruzione dei modi di vita e delle relazioni con l’ambiente delle persone e delle popolazioni del passato. Per esempio, la lettura del dna fossile, consente nello scavo delle necropoli, di individuare i tipi fisici, i legami tra le popolazioni antiche e le presenti, talvolta persino i legami familiari

Il capitolo conclusivo si intitola “L’impunità delle rovine”. Il titolo mi ha molto incuriosita. Come mai lo ha scelto?

Il termine impunità mi è venuto leggendo il racconto di Kafka sulle rovine della Grande Muraglia [“Durante la costruzione della muraglia cinese”, scritto nel 1917 e pubblicato postumo nel 1931] e altri scrittori come Borges. Per impunità intendo dire che i politici e chi ha il potere economico non prendono in considerazione – salvo eccezioni – il ruolo del passato nelle decisioni economiche e così facendo sono andate in malora tante opere interessanti del passato. Quando parlo di impunità delle rovine riprendo una parola del poeta surrealista Benjamin Péret il quale dice che le rovine sono abbandonate da quelli che non hanno idea di che cosa siano. Questa ignoranza culturale e intellettuale porta a distruzioni che testimoniano la cecità dei politici e delle società. Kafka critica il concetto stesso di muraglia, si chiede a cosa serva la muraglia; alla fine da un punto di vista funzionale non serve a nulla, non ha impedito l’arrivo delle orde che hanno distrutto l’ordine dell’impero cinese. Potremmo dire lo stesso di altre costruzioni, dunque l’impunità delle rovine per me è legata al fatto, ben espresso soprattutto dall’ideologo rivoluzionario Volney nel suo famoso libello sulle rovine [“Le Rovine, ossia meditazione sulle rivoluzioni degli imperi”, 1791, in Italia riedito da Mimesis nel 2016], che le condotte criminali, i processi di violenza delle società lasciano tracce, queste tracce sono le rovine, che anche se non si possono difendere direttamente con la loro presenza mettono in dubbio le certezze e i modi con i quali le società moderne pensano di essere strutturate per durare. La durabilità viene messa in crisi dal concetto di rovina.

Nell’introduzione ha scritto, sulla traccia di B. Péret : “Gli esseri umani fanno parecchia fatica a ricordare la propria infanzia e, quando a volte ci riescono, non è che per denigrarla meglio”. Un pensiero che rimanda all’uso, all’abuso, che si fa a volte dei ricordi, anche materiali.

Il suo essere archeologo ha condizionato il modo in cui guarda al suo passato personale? In altre parole, l’archeologia le ha insegnato a trovare un equilibrio tra memoria e oblio di sé?

Sì certamente, questa dimensione fa parte di me. La mia famiglia è arrivata dall’Ucraina ai tempi dell’impero austro-ungarico, quasi tutti hanno dovuto emigrare a causa dell’antisemitismo, mentre la parte della mia famiglia che non ha potuto emigrare è stata  sterminata dai nazisti in Romania negli anni Quaranta. Questa è la mia esperienza familiare, ma il mio interesse di ragazzo verso l’archeologia e le civiltà del passato lontano era un modo di prendere le distanza da un passato che esercitava pressione sulla vita della mia famiglia negli anni Cinquanta e Sessanta. Quando vedo, con tristezza immensa, cosa sta succedendo in Siria o in Palestina mi rendo conto che queste violenze, invece che sparire come si sperava, si sono ancora sviluppate e minacciano l’ordine e la pace nell’Europa e nel mondo. Per me l’archeologia è stata, come dire, un modo di affrontare la mia vita personale. Ho anche avuto molte possibilità, rispetto a quelle che hanno oggi i giovani nel mondo del lavoro. Quando ero io studente era facile trovare un posto di lavoro. Non ho mai proposto candidature; quando mi sono affacciato nel mondo del lavoro, dopo il 1968, c’erano tante occasioni per i giovani di formarsi e di trovare un impiego. La dottrina attuale dei monumenti storici è arrivata dopo e così anche la relazione tra i servizi archeologici, l’amministrazione dei monumenti e dei musei, che è un problema cardinale del futuro e del presente.

Mi piace chiudere le interviste con una domanda che non c’entra niente, la prendo da un libro di Max Frisch, Diario di coscienza, dove ogni capitolo inizia con una sequenza di domande su vari temi della vita. Sono domande semplici, talvolta un po’ sconvenienti e spiazzanti. Non mi risponda se non lo ritiene opportuno. La domanda che ho scelto per lei è questa: Avete paura della morte e da quale anno di età?

La morte è un’esperienza tremenda e uno più invecchia più la vede nella scomparsa degli amici e della famiglia. Questa bruttezza di una vita che si spegne l’ho vista di recente nella morte del mio caro amico François Lissarrague, un iconologo con il quale ho lavorato quasi tutta la mia vita professionale. È mancato improvvisamente alla stazione Châtelet di Parigi, mentre tornava dalla Corsica, per un problema di cuore. È tremendo quando ci si trova ad affrontare da un giorno all’altro una assenza importante, ma lo è anche quando si vedono declinare le forze di una persona con la quale si aveva una relazione permanente. Io ho avuto la fortuna di lavorare con Jean-Pierre Vernant che non solo era un grandissimo studioso ma anche una persona che si era assunta delle responsabilità enormi durante l’occupazione tedesca. Fare il suo cordoglio, sopravvivere alla sua perdita, è stato difficile. Ma fare il cordoglio degli amici, dei familiari, è parte del nostro destino, è una preparazione alla morte nel senso di Montaigne. Soprattutto quando uno arriva a una certa età e guarda indietro a tutti quelli che lo hanno accompagnato… Insomma, la cosa più bella della vita sono gli incontri e la morte mette un termine a questi incontri. Per resistere bisogna tentare di mettere in rapporto, in relazione, il proprio lavoro quotidiano con quello dei predecessori e di tutte le persone che ti hanno aiutato a crescere. La domanda di Max Frisch mi fa pensare a tutto questo.

 

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Quando tutto è possibile: a 50 anni dalla rivoluzione portoghese. Intervista a Giulia Strippoli https://www.carmillaonline.com/2024/04/25/quando-tutto-e-possibile-a-50-anni-dalla-rivoluzione-portoghese-intervista-a-giulia-strippoli/ Wed, 24 Apr 2024 22:01:51 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=82134 di Luca Cangianti

Cinquant’anni fa, poco dopo la mezzanotte Rádio Renascença trasmette una canzone: Grândola Vila Morena di José Alfonso. È il segnale a lungo atteso. Il Movimento delle forze armate, costituito da militari progressisti, abbatte una dittatura fascista durata 48 anni e chiede alla popolazione di rimanere a casa. La gente però fa di testa propria e così un colpo di stato che doveva metter fine a una guerra coloniale dispendiosa e priva di speranze di vittoria, si trasforma in una rivoluzione travolgente. Nelle fabbriche si creano le commissioni dei lavoratori che epurano gli elementi fascisti ed esercitano il controllo sulla [...]]]> di Luca Cangianti

Cinquant’anni fa, poco dopo la mezzanotte Rádio Renascença trasmette una canzone: Grândola Vila Morena di José Alfonso. È il segnale a lungo atteso. Il Movimento delle forze armate, costituito da militari progressisti, abbatte una dittatura fascista durata 48 anni e chiede alla popolazione di rimanere a casa. La gente però fa di testa propria e così un colpo di stato che doveva metter fine a una guerra coloniale dispendiosa e priva di speranze di vittoria, si trasforma in una rivoluzione travolgente. Nelle fabbriche si creano le commissioni dei lavoratori che epurano gli elementi fascisti ed esercitano il controllo sulla produzione. Nei quartieri nascono le commissioni degli abitanti che gestiscono occupazioni, asili nido e centri polifunzionali in cui vengono erogati mutualisticamente servizi di ogni tipo. Infine sorgono le commissioni dei soldati con cariche elettive e revocabili, come in tutti gli altri casi. Si tratta di una trama sociale di organismi autonomi dai partiti e dal sindacato unico neocorporativo che ricordano i soviet russi del 1905 e del 1917, i consigli italiani del 1919-20 e quelli cileni del 1972-73. È un potere parallelo che pratica la democrazia di base e compete con quello dello stato per diciannove mesi, cioè fino al colpo di stato del 25 novembre 1975 in seguito al quale la situazione politica è ricondotta entro i binari della democrazia parlamentare. Giulia Strippoli – ricercatrice di Storia contemporanea all’Universidade Nova di Lisbona – ha dedicato alla rivoluzione portoghese due saggi contenuti in un volume scritto insieme a Sandro Moiso, Riti di passaggio. Cronache di una rivoluzione rimossa. Portogallo e immaginario politico (Mimesis 2024).

Cosa sanno oggi i portoghesi della rivoluzione del 1974-75?
Farei una distinzione tra il colpo di stato del 25 aprile 1974 che abbatte la dittatura e il periodo di mobilitazione rivoluzionaria più intensa chiamato Prec (Processo revolucionário em curso) che va fino al colpo di stato liberal-democratico del 25 novembre del 1975, passando per sei governi provvisori e due tentativi di golpe reazionari, quello del 28 settembre 1974 e quello dell’11 marzo 1975.
La data del 25 aprile è consensuale: è una celebrazione trasversale, a differenza di quanto avviene in Italia per il giorno della Liberazione. Il consenso si deve in gran parte al fatto che il centro-destra non ha voluto rimanere escluso da una data così fondamentale. È consensuale come festa perché per alcuni – per le componenti di sinistra – fu la fine del fascismo e l’inizio della rivoluzione, per altri fu l’inizio della democrazia in Portogallo, associata all’idea di modernizzazione del paese. Il Prec, invece, è conflittuale perché nella sua analisi storica confliggono diverse interpretazioni: quelle che intravedevano la possibilità di un passaggio rivoluzionario ad un nuovo modo di produzione; quelle che affidavano alla rivoluzione il mero compito di far transitare il Portogallo dalla dittatura dell’Estado Novo alla democrazia parlamentare; quelle che vedono nei mesi rivoluzionari solo disordine e caos. Per questi motivi l’opinione pubblica portoghese è abbastanza informata sul 25 aprile e molto meno sul Prec.

Ci sono movimenti politici che si ispirano al Prec?
I due partiti che lo rivendicano sono Partito comunista portoghese – anche se ha contribuito alla sua sconfitta, avallando il colpo di stato del 25 novembre 1975 – e il Bloco de Esquerda, che si formò nel 1999 dalla convergenza di alcune organizzazioni di estrema sinistra di provenienza principalmente maoista e trotskista. Nell’uso pubblico della storia il Bloco si rifà spesso al Prec per evidenziare lo svuotamento neoliberista delle conquiste rivoluzionarie in materia di diritto alla salute, alla casa e al lavoro.

Giulia Strippoli

Perché ti sei occupata di questi temi?
Ho iniziato a studiare la storia del fascismo e della resistenza in Portogallo, di cui i manuali non parlavano, grazie a un corso seminariale di storia delle sinistre europee con Aldo Agosti, in cui commentavamo i capitoli del libro di Donald Sassoon Cento anni di socialismo. Il capitolo sulla fine dei regimi in Portogallo, Spagna e Grecia suscitò in particolare la mia attenzione. Poi mi dedicai al Sessantotto italiano e alla formazione della sinistra rivoluzionaria: durante il dottorato lessi le varie annate del quotidiano “Lotta continua” e venni a sapere da Enrico Artifoni, professore di Storia medievale, che qualche decennio prima, come tanti giovani militanti, era stato affascinato dalla rivoluzione portoghese, che centinaia di italiani erano andati in Portogallo per partecipare alla rivoluzione.

E così ti sei messa a studiare anche la parte più soggettiva di questa esperienza rivoluzionaria, cioè le memorie degli italiani che, per citare una frase di Sandro Moiso, andarono in Portogallo «per veder sorgere un mondo nuovo».
Ti racconto un aneddoto. Quando nel 2018 venne qui a Lisbona Franco Lorenzoni – uno di quei militanti italiani – andammo alla prima di uno spettacolo teatrale che poi è stato ripreso anche nel film documentario Rua do Prior 41 di Lorenzo d’Amico de Carvalho. In quella circostanza che stimolava i ricordi, mi venne l’idea di farlo parlare al telefono con una persona che aveva conosciuto più di quarant’anni prima condividendo l’esperienza straordinaria della rivoluzione. Si trattava di Lionello Massobrio, il regista di La vittoria è certa, un film incredibile sulla lotta per l’indipendenza dell’Angola. Insomma, Lionello risponde al telefono e Franco fa: «Ciao Lionello, sono Franchino, ti ricordi?» Io mi commossi perché lui per me era Franco Lorenzoni, un uomo di più di sessant’anni, un ex militante rivoluzionario di Lotta continua, un maestro elementare. Quel diminutivo mi ha fatto rivedere il ventenne ancora presente all’interno dell’uomo maturo. È come se l’entusiasmo e lo stupore di aver assistito a quegli eventi non fossero stati scalfiti dal tempo.

Quali caratteristiche hai riscontrato nel leggere e nell’ascoltare questi racconti?
Mi ha sorpreso costatare che, a differenza di molti altri esempi storici, queste memorie non sono state amareggiate dalla sconfitta e dai difficili anni successivi. Inoltre non mi è capitato mai di assistere ad atteggiamenti reducistici e autocelebrativi. Quei giovani di cinquant’anni fa non si sono trincerati nella retorica dell’ultima possibilità. Le memorie sono tutte soggettive, ma sono anche generalizzabili. Io ci vedo uno spaccato generazionale.

Cosa può ancora insegnare la rivoluzione portoghese a chi è attivo nelle lotte sociali?
Ci insegna che la storia non è lineare e la spontaneità delle masse rende possibili le cose più incredibili: i militari dicono alla popolazione «restate a casa, ci pensiamo noi» e invece la gente scende in piazza e rivoluziona tutto: fabbriche, banche, scuole, università, teatri, compagnie aeree, acqua, elettricità. Questa sensazione che con la rivoluzione tutto diventa possibile è fortissima nella memoria degli italiani che parteciparono agli eventi del 1974-75. Posso raccontarti un altro aneddoto?

Basílica da Estrela, Lisbona

Certo.
Lo riprendo da un memoriale di Lionello Massobrio che meriterebbe di essere pubblicato. Qualche giorno prima della proclamazione dell’indipendenza dell’Angola, confessa a un militare rivoluzionario che gli sarebbe piaciuto andare in quel paese dove infuriava la guerra civile e da cui tutti i portoghesi scappavano. Il militare positivamente sorpreso da questa manifestazione di coraggio (o d’incoscienza) gli dà un biglietto scarabocchiato e gli dice di consegnarlo in una caserma dell’aviazione militare sulla collina. Lì sarebbe arrivato un Boeing che avrebbe portato lui e il suo cameraman in Africa. Lionello rimane molto perplesso e insospettito dalla semplicità con la quale il suo desiderio sembrava realizzarsi. Era sicuro di finire in qualche guaio, forse in prigione.

E invece?
Invece l’aereo arriva, scarica i militari in fuga dall’Angola e imbarca i due cineoperatori che viaggiano da soli nella pancia del velivolo fino a destinazione, senza controllo di bagagli, né di passaporti.

Mi sembra un’ottima metafora di come i processi rivoluzionari rendono possibili cose impensabili.
Già, e pensa che a destinazione ritrovarono persino un loro amico del Mir cileno che gli organizza una festa di benvenuto.

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Tutto il mondo è Palestina. Un’intervista su resistenza, Asia Occidentale e dintorni. https://www.carmillaonline.com/2024/04/22/82221/ Sun, 21 Apr 2024 22:20:47 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=82221 di Jack Orlando

A sei mesi dal 7 ottobre, tra resistenza, genocidio ed escalation internazionali, la Palestina si conferma non solo uno dei più importanti nodi strategici della questione mediorientale, ma un prisma attraverso cui è possibile vedere un mondo che va delineandosi. Un mondo dove sempre meno contano le parole e le intuizioni europee. Ci sembra necessario quindi provare ad assumere punti di vista altri, in grado di superare schemi arrugginiti, e per farlo crediamo che il metodo migliore sia confrontarsi con chi, da fuori ed oltre noi, si trova ad affrontare gli stessi temi con occhi diversi. [...]]]> di Jack Orlando

A sei mesi dal 7 ottobre, tra resistenza, genocidio ed escalation internazionali, la Palestina si conferma non solo uno dei più importanti nodi strategici della questione mediorientale, ma un prisma attraverso cui è possibile vedere un mondo che va delineandosi. Un mondo dove sempre meno contano le parole e le intuizioni europee.
Ci sembra necessario quindi provare ad assumere punti di vista altri, in grado di superare schemi arrugginiti, e per farlo crediamo che il metodo migliore sia confrontarsi con chi, da fuori ed oltre noi, si trova ad affrontare gli stessi temi con occhi diversi.
Quella che segue è una lunga chiacchierata con Silvano Falessi, militante di lungo corso e partecipante della Global Campaign To Return To Palestine (qui).
Una lega internazionale animata sia da singoli che organizzazioni, partecipata da oltre ottanta paesi nel mondo, il cui obbiettivo è quello di fornire supporto alla causa palestinese, seguirne e divulgarne gli sviluppi ma, soprattutto, è uno spazio di confronto e approfondimento tra soggetti estremamente eterogenei in grado di sviluppare posizioni condivise pur nelle differenze specifiche.
L’ultima conferenza internazionale della Campagna si è tenuta a Pretoria, Sudafrica, nello scorso dicembre, poche settimane prima che la diplomazia sudafricana accusasse pubblicamente Israele di genocidio, portandolo davanti alla Corte Internazionale di Giustizia.

Per cominciare vorrei chiederti, dal punto di vista di un’organizzazione internazionale, come valuti lo scenario in atto in Palestina e soprattutto le sue implicazioni a livello internazionale?

Anzitutto vorrei partire dalla “Giornata della Terra” del 30 marzo che, nel suo quarantottesimo anniversario, si è intitolata “Tutto il mondo è Palestina”. Questo già un po’ risponde alla domanda: quello che sta avvenendo a Gaza non è solo un fatto relativo alla Palestina e ai palestinesi ma un evento che riguarda tutto il mondo.
Gli avanzamenti e gli arretramenti che si determineranno in questo momento saranno degli sviluppi di portata globale; non è semplicemente uno scontro tra colonizzati e colonizzatori. Dentro c’è un simbolismo in cui tutti ormai, data l’ampiezza la durata dello scontro, si identificano in un modo o nell’altro.
E tutti in questo scontro, non identificano soltanto il sionismo di insediamento israeliano come nemico, ma il sionismo internazionale, ossia quello che è la sua forma generale, il suo retroterra strategico, ossia il mondo occidentale e in particolar modo le sue istituzioni.
In primis la NATO e l’Unione Europea, che costituiscono la base materiale oltre che culturale e politica della dell’azione sionista anche oltre la Palestina.
Non a caso lo scontro con il sionismo, inteso come politica d’occupazione coloniale e apartheid, non riguarda solo la Palestina ma tutte quelle parti del mondo in cui un meccanismo del genere si è determinato.
Basti solo pensare che nell’Asia Occidentale, quello che noi attualmente chiamiamo in maniera eurocentrica Medio Oriente, l’entità sionista non occupa solo la Palestina ma anche parti del Libano e della Siria; la NATO a sua volta controlla militarmente porzioni di Siria e Iraq.
Per cui è evidente come sia in atto una dinamica di ampia portata in cui si identifica un po’ tutta la quella parte del pianeta che, in un modo nell’altro, noi potremmo definire extra occidentale; ma in particolar modo per quello che oggi viene definito come il Sud Globale, quell’umanità che ha subito secoli di colonizzazione da parte delle potenze occidentali. Il simbolismo e la rilevanza politica dello scontro in atto sono racchiusi in questo elemento comune.

Credo infatti che sia molto importante evidenziare un aspetto di ciò che dici, ossia la proiezione del sionismo, il fatto che non si limiti semplicemente al colonialismo di insediamento nella Palestina Storica ma si estende agendo su tutto il territorio circostante; c’è quindi una politica di aggressione imperiale rispetto a tutti i paesi della regione…

Se ci pensiamo bene, questa proiezione è congenita nel sionismo perché è nato nelle cancellerie europee, in particolar modo nell’Impero britannico (ad esempio con la Dichiarazione di Balfour e le promesse a Rothschild) a cui serviva sul momento come testa di ponte nella regione.
Poi è diventato effettivamente operativo nel momento in cui, dopo la Seconda Guerra Mondiale, il processo di decolonizzazione formale è iniziato a procedere velocemente; di fronte alla quale si è pensato di sostituire il colonialismo formale con quello sostanziale della Palestina, ma anche con una proiezione “informale” del neocolonialismo sul territorio mediorientale.
Non a caso “Israele” è un partner della NATO, anche se non ufficialmente per non disturbare una parte di interlocutori internazionali, ma “Israele” in quanto tale è inserita nel dispositivo politico unitario della NATO a tutti gli effetti; ne è anzi uno degli attori principali di questa proiezione.
In questo senso è interessante analizzare i concetti di avanzamento e arretramento in termini generali: alla fine di quest’ultimo scontro le idee di vittoria e di sconfitta non potranno essere valutate per come le intendiamo classicamente, piuttosto dovranno essere intese come un processo di arretramento o avanzamento a livello non solo specifico, ma internazionale.
In questo senso se perde l’entità sionista sarà un’avanzata non solo della Resistenza arabo-palestinese ma di tutto il Sud globale.
Se invece si avrà un prevalere delle istanze sioniste, questo in realtà non sarà neanche percepito come un arretramento; perché di fatto dal 7 ottobre si è dato un passaggio che già ha determinato un avanzamento assoluto non più negabile, che significa innanzitutto che la proiezione imperial-sionista sull’area non è più un fatto ineludibile, non c’è più quella invincibilità, quell’impossibilità di scontrarsi con la sua forza.
Questo non è un dato tattico ma strategico a cui bisogna aggiungere che, dopo oltre sei mesi, la Resistenza palestinese sia ancora in grado di reggere l’onda d’urto fenomenale dell’entità sionista.
Noi oggi parliamo di genocidio e non c’è onda d’urto più potente di un di genocidio. Il fatto che la Resistenza ancora sia in piedi significa che gode dell’appoggio della maggior parte della popolazione palestinese, questo anche è un risultato strategico che nessuno può negare.
L’altro aspetto di avanzamento collettivo è che si è ristabilita, dal 7 Ottobre in poi, la questione palestinese non più come una questione “identitaria” ma una questione internazionalista.
Perché nello scontro con l’entità sionista non sono coinvolti direttamente solo i palestinesi ma molti altri attori: la Resistenza libanese, quella irachena, gli yemeniti, che erano i paria del mondo nel paese più povero dell’Asia occidentale, che tuttora tengono testa a una coalizione internazionale e hanno interrotto uno dei canali di transito commerciale più importanti del mondo. In questo senso si dimostra una composizione di quella parte di mondo arabo e islamico che prima non era così evidente. Quello che alcuni definiscono l’Asse della Resistenza e che emerge rafforzato.

A livello macroscopico, nello scacchiere che definiamo Sud globale ci sono tutta una serie di attori estremamente attivi, anche se non interessati direttamente dalle dinamiche regionali in senso stretto; penso ad esempio al Sudafrica, al Brasile di Lula, l’Irlanda o anche l’Indonesia. Possiamo dire che si stiano schierando al fianco della Palestina anche per ridefinire proprio questo quadro di rapporti tra Sud e Nord globale?
Il fatto che l’ONU sia uno dei terreni di scontro di questa contesa sembra significativo perché da un lato abbiamo chi ha costruito quest’ordine, cioè il mondo occidentale, che ora cerca di svincolarsene sentendolo troppo stretto, mentre dall’altro troviamo invece tutti gli altri paesi che sono entrati in seconda battuta, spesso in posizione subalterna anche dentro le Nazioni Unite, ma che usano proprio quell’organismo per far valere le proprie ragioni, rendendolo un terreno di contesa.

Sì, in questo senso forse sarebbe più corretto dire che quello che sta avvenendo in particolare in Palestina, ma in realtà su tutta l’Asia Occidentale, è un’occasione per il Sud del mondo per riequilibrare il proprio rapporto con una buona parte del mondo occidentale, quello a cui è legata una matrice storica di sopraffazione e colonialismo.
Si potrebbe parlare anche della Cina e dei BRICS, ma il problema non è quello. Piuttosto c’è da chiedersi com’è che la parte più povera del mondo vive le contraddizioni internazionali di una fase storica che dura dalle colonie: cinque secoli in cui il Sud del mondo ha sempre subita questa sopraffazione da parte occidentale; ecco che questa è vista come l’occasione per riequilibrare i rapporti.
C’è tutta una parte del mondo africano che sta sfruttando l’occasione per regolare i suoi conti in sospeso con la secolare sopraffazione europea, non solo il Sudafrica con la sua proattività, con il ruolo di paese più forte del continente, sia economicamente e politicamente sia storicamente, essendo la nazione dell’Apartheid e della vittoria su un meccanismo segregazionista che è molto assimilabile ai dispositivi di governo (sionista) della Palestina.
Ma se parliamo di tutto quello che sta avvenendo nell’Africa occidentale francofona, dal Mali al Niger fino alle elezioni in Senegal, vediamo una spinta a estromettere l’ingerenza e l’egemonia europea incarnata dalla Francia, che per secoli è stata il tallone di ferro che ha schiacciato le possibilità d’emancipazione di quelle aree.
Qualcosa di simile vale anche per l’America Latina; basti vedere le posizioni espresse dalla Colombia che solo qualche tempo fa erano impensabili, essendo stata per decenni una pedina controrivoluzionaria in mano all’imperialismo statunitense, molto foraggiata dalla macchina bellica sionista; il fatto che oggi si interrompano le relazioni con l’entità sionista è un’ulteriore dimostrazione che questa è vista come un’occasione storica per regolare i conti e tentare di riequilibrare le relazioni internazionali.
In questo senso è giusto parlare di avanzamento e arretramento: perché non ci sarà né una vittoria assoluta né una sconfitta assoluta.
Non è immaginabile che chiunque avanzi o arretri si dia per vincitore o sconfitto definitivo. Non sarà così perché ogni risultato è legato alle dinamiche internazionali complessive.
Però oggi come oggi, comunque vada a finire, a più di sei mesi dal 7 Ottobre si può dire che comunque la causa palestinese e indirettamente la causa del Sud del mondo, è sicuramente avanzata perché quello che è successo e che sta succedendo anche ora, che non ha precedenti in questo secolo.

Tornando invece al Sudafrica e quindi alla questione dell’ONU, qual è il rilievo effettivo del fatto che il Sudafrica abbia portato Israele, accusandolo di genocidio, alla Corte Internazionale di Giustizia? Quanto quel processo effettivamente pesa su Israele e sulla sua percezione anche a livello mondiale, considerando che una buona metà della partita si gioca sul piano dell’opinione pubblica? Inoltre, dato che l’ultima conferenza della Campagna Globale per il Ritorno in Palestina si è tenuta proprio in Sudafrica, che ruolo ha giocato in questo passaggio?

Posso dire con orgoglio che l’idea di portare a processo l’entità sionista in un tribunale internazionale è nata proprio in quell’occasione. Nello scorso dicembre la Campagna si è riunita in Sudafrica in occasione del Decimo Anniversario della morte di Nelson Mandela, per cui si è pensato che proprio il Sudafrica fosse in quel momento la tappa giusta per il suo sviluppo a livello internazionale, soprattutto perché i simbolismi erano molto evidenti; quindi all’interno della conferenza si è creato un gruppo di lavoro specifico per approfondire e studiare quali potessero essere gli elementi in grado di mettere all’angolo internazionalmente lo stato israeliano.
Va precisato che ha un senso politico aver portato a processo “Israele” alla Corte Internazionale dell’Aia non tanto per il valore di per sé della Corte Internazionale o per il responso di processabilità. Più semplicemente è stato un passaggio in cui politicamente è stato sancito per la prima volta che “Israele” potrebbe essere uno Stato genocida ed è questo che ha effettivamente un valore politico in sé.
All’atto pratico non è cambiato niente sul campo di battaglia in terra di Palestina, anzi se possibile le cose sono anche peggiorate; ma lo scopo era mettere in risalto un dato politico con la convinzione che, qualsiasi fosse stato il responso, sarebbe stata una vittoria.
Poteva darsi che il Tribunale, come poi è avvenuto, decidesse di esporsi solo a metà, riconoscendo la processabilità ma non formalizzando una sentenza di colpevolezza di genocidio. Però ha anche dimostrato che non poteva non riconoscere ciò che sta avvenendo e questa comunque è già una prima vittoria.
Ma se il Tribunale Internazionale non avesse riconosciuto nulla e rifiutando qualsiasi ipotesi di genocidio, che poi era la posizione soprattutto degli Stati Uniti e di tutto l’ambiente NATO, allora si sarebbe dimostrato che quell’istituzione non funziona in maniera imparziale.
Se invece avesse avuto più coraggio e avesse sanzionato direttamente, con provvedimenti concreti, sarebbe stata una vittoria completa.
Per cui la valutazione è stata di tipo politico generale: facciamola, perché qualsiasi sarà responso sarà una vittoria. È stata pensata in questi termini, non perché ci si affida a una dubbia istituzione internazionale per risolvere qualcosa che solo la Resistenza sul campo potrà risolvere, su questo c’è grande consapevolezza.
L’altro aspetto del riferirsi al Tribunale Internazionale è il concepire lo scontro in atto come conflitto su più livelli, non solo uno scontro con mezzi militari ma anche con mezzi pacifici, tutti questi metodi possono concorrere a ottenere il risultato voluto.
Oggi opporsi a “Israele”, uno Stato che è comunque sotto processo per genocidio, è più semplice e dirlo pubblicamente non può più passare per antisemitismo, questo anche è un risvolto ideologico importante. Insomma, c’era poco da perdere ma tutto da guadagnare; era un megafono che ha fatto sì che oggi tutte le piazze del mondo parlino di genocidio.

In questo avanzamento, come tu dici, è centrale la dimensione simbolica che ha permesso di sdoganare il termine genocidio e farlo assumere a livello di massa. Però forse era relativamente facile far passare questo concetto all’opinione pubblica davanti a quello sta che succedendo.
Molto più difficile invece è riuscire a superare un preconcetto islamofobo molto diffuso. Nel 7 ottobre, ad esempio, alcuni hanno riconosciuto immediatamente un’azione di Resistenza, molti ci hanno visto esclusivamente un’azione violenta e deplorevole, secondo un classico registro democratico-umanitario, ma soprattutto trovano scandaloso il solo associare l’idea di Resistenza al fatto che a portarne la bandiera fosse Hamas, una formazione islamista.
Questa cosa a un certo punto si è arginata, più nelle piazze che nei discorsi mediatico-politici ovviamente.
Un po’ perché le piazze filo-palestinesi hanno rifiutato qualsiasi distinzione tra una Resistenza buona ed una cattiva, ma anche dal fatto che la mobilitazione internazionale fuori dall’Occidente ha sgito molto sul campo di una “solidarietà di fede”, una solidarietà del mondo islamico di cui gli Houti possono essere un esempio, anche se non esaustivo, di come si sia messa in moto non solo un’azione di vicinanza ma una vera e propria pratica antiimperialista. Ci troviamo quindi in un corto circuito in cui bisogna riconoscere legittimità per la prima volta ad una Liberazione i cui valori restano alieni ai nostri, in cui non c’è il socialismo come bandiera unificatrice. Per la prima volta ci si confronta esplicitamente con una pratica di autodeterminazione che esce completamente dai nostri schemi di ragionamento, perché non gioca più su un discorso di matrice europea come poteva essere per la fase della “decolonizzazione”. Siamo quindi immersi in un paradigma inedito…

È una delle ricadute che rientrano in quella logica di avanzamento irreversibile che si è determinata dal 7 Ottobre e dai suoi effetti ancora in corso, che hanno messo in discussione una visione dell’Arena Internazionale fondamentalmente eurocentrica, che vedeva tutto ciò che si muoveva a livello internazionale con le lenti di un movimento di chiara matrice Europea, nelle cui categorie esisteva semplicemente il meccanismo del Socialismo, che però non è più elemento preponderante dentro la dinamica internazionale ormai da un trentennio buono. Ma anche perché questo protagonismo estraneo alla concezione “occidentale” effettivamente mette in discussione l’assunto per cui tutto il mondo non ruota più intorno ad una logica eurocentrica.
Lo stesso fatto di non chiamare l’area Medio Oriente ma Asia Occidentale è già una messa in discussione tutto ciò che finora siamo stati abituati a leggere come realtà.
Oltretutto avanzamento ha significato anche aver un po’ disintossicato gli ambienti politici e sociali qui da noi, perché tutto sommato il problema dell’islamofobia non mai è stato centrale se non nei paesi occidentali, che hanno condotto per un quarto di secolo la “Guerra al Terrore”, di cui l’islamofobia è stata un meccanismo primario di coesione ideologica e culturale.
Oggi tutto questo è messo in discussione perché, se all’indomani del 7 ottobre era difficile affrontare la discussione sulla Resistenza, in sei mesi si è riusciti a scalfire e modificare anche insospettabili “eurocentrici”, che oggi sono costretti a riconoscere che il problema di ciò che sta avvenendo in Palestina e dintorni non è un fatto dell’islam, ma è un fatto anticoloniale.
Questo è un dato di fatto oggi inoppugnabile. Che la Resistenza arabo-palestinese venga presentata nei termini di uno scontro tra Hamas e Israele è una costruzione tutta occidentale e sionista; in realtà per qualunque palestinese o arabo è uno scontro contro il sionismo non di Hamas ma della Resistenza palestinese.
Su questo i palestinesi fanno molta attenzione e un risultato in tal senso è dovuto proprio alla loro determinazione sin dall’inizio a configurare la questione come uno scontro tra la Resistenza palestinese contro l’entità Sionista e non come uno scontro frontale tra due fazioni, pur consapevoli che i rapporti di forza all’interno della Resistenza palestinese sono determinati dalla potenza di fuoco della struttura militare messa sul campo. Di fatto togliendo ossigeno al collaborazionismo palestinese dell’ANP e quello arabo delle Petrolmonarchie.
È innegabile che oggi si facciano operazioni congiunte di Hamas insieme al Fronte Popolare o insieme alla Jihad Islamica piuttosto che al Fronte Democratico.
In questo senso la stessa Campagna Globale per il Ritorno in Palestina non è determinata solo dalle forze della Resistenza arabo-islamica, ci sono dentro componenti internazionali laiche o marxiste senza nessun problema e senza che nessuno sollevi il fatto che il Sudafrica, che sicuramente non può essere configurato come potenza islamica, si sia fatto carico di rappresentare le istanze arabo-palestinesi di fronte al Tribunale di Giustizia Internazionale.
Questo smottamento della narrazione eurocentrica è confermato ad esempio dal confronto nello stesso Tribunale Internazionale tra Nicaragua e Germania. Perché il Nicaragua si è presentato come parte accusatoria rispetto alla complicità tedesche nel genocidio, la stessa Irlanda oggi sta dalla parte dell’accusa al sionismo. L’avanzamento è palpabile.
Si aggiunga che la presenza nei paesi occidentali di grandi componenti immigrate ha fatto sì che oggi la narrazione di ciò che avviene in Palestina si sia anche adeguata alla composizione sociale di chi si è mobilitato e che, a differenza di venti anni fa, è composta non sono solo di indigeni ma di seconde e terze generazioni figlie di immigrati; soprattutto la componente araba e palestinese ha stabilito su cosa muoversi e su cosa tacere, anche scontrandosi con quelle istanze indigene che sentenziavano “Né con uno né con l’altro”, a cui hanno risposto chiaramente “con la Resistenza, contro l’entità sonista”.
E questo è anche il frutto di una battaglia politica latente ma comunque condotta, dove le parti più coscienti del Movimento indigeno si sono schierate apertamente su questa linea nelle manifestazioni per la Palestina, dove oggi non c’è più spazio per una posizione equidistante o che in qualche modo ricalca le istanze istituzionali.
Sono le istituzioni italiane che oggi sono schierate apertamente col sionismo mentre le piazze, le università, non hanno più una posizione equidistante ma sono chiaramente dalla parte della Resistenza dal momento in cui il concetto di “Potenza genocida” ha rotto l’indugio e il pudore verso quella narrazione dell’unica democrazia in Medio Oriente e del valore morale dell’esercito sionista è stato spazzato via dagli eventi. Spazzato via sia per le capacità della Resistenza sia dall’opera di macelleria che sta facendo l’entità Sionista sotto gli occhi di tutti.
Quando si ammazzano quasi 40.000 persone e di queste il 70%, se non di più, è costituito da bambini e donne non regge più una narrazione vittimista, sono talmente evidenti il torto e la ragione, che è assolutamente indifendibile qualsiasi equidistanza.
Per cui torniamo al concetto di avanzamento e arretramento: questo enorme sacrificio fatto dai palestinesi ha ristabilito le categorie di giustizia, di torto e ragione, di colono e colonizzato e così via. È un merito che va riconosciuto a prescindere ed è di valore universale.

Questo momento di scontro in Palestina si inserisce dentro una tendenza alla guerra che è un acceleratore esploso già due anni fa in Ucraina e sembra ormai un processo irreversibile molto chiaro e determinato. Ancora un anno fa gli attori istituzionali più democratici o più ottimisti, potevano dirsi coinvolti nell’aiuto all’Ucraina poiché paese aggredito; a un certo punto non solo sono scivolati verso un registro sempre più sciovinista, ma hanno dovuto adottare un doppio registro, estremamente ipocrita e difficile da mantenere, rispetto alla Palestina dove le condanne verso i crimini israeliani sono estremamente reticenti.
Prova ne è la reazione generale alla rappresaglia iraniana dopo che l’aviazione israeliana ne ha bombardato l’ambasciata a Damasco, in una provocazione senza precedenti.
Si sono insomma iniziate a creare le condizioni per cui parlare tranquillamente del fatto che la guerra è una realtà tornata concretamente e che di qui a un paio d’anni si assisterà probabilmente a un conflitto di proporzioni molto più grandi e devastanti.
In questa fase però il bellicismo è ancora una volontà politica delle classi dirigenti sostanzialmente autoreferenziale, senza alcuna partecipazione o condivisione popolare, c’è uno scollamento netto tra quello che è il sentire della popolazione e ciò che sono la narrazione mediatica e la volontà istituzionale. Un abisso evidente anche da tutte le statistiche in merito.
In mezzo in questa tendenza alla guerra, che spazi di mobilitazione si aprono a partire dalla questione palestinese e dalla sua capacità di mobilitare globalmente?

Quando si dice “tendenza alla guerra”, dal mio punto di vista, non credo che rispetto al passato ci sia stata un’accelerazione, perché basta pensare alla “guerra al terrore” che ha contraddistinto già tutto questo secolo, all’invasione dell’Iraq e dell’Afghanistan, eventi che hanno coinvolto enormi masse di forza materiale e umana dall’Occidente. Per dire: a un certo punto in Iraq era presente mezzo milione di occidentali legati alle operazioni militari.
Il problema è che questa tendenza alla guerra è insita al capitalismo in quanto tale, ne è una componente essenziale, anche perché nell’assetto del capitalismo, soprattutto occidentale, la sezione di capitale collegata al comparto militare-industriale ha preso il sopravvento.
In questo senso, dalle “nostre” parti, ciò che c’è di economicamente produttivo è più legato alla dinamica della guerra che non in altre latitudini.
Ma la novità è il fatto che oggi l’imperialismo è diventato più aggressivo perché sembra stia perdendo terreno; la presenza italiana nel Mar Rosso è sintomatica di quella proiezione delle classi dirigenti capitaliste privo un riscontro sociale né materiale o economico; questo lo dimostrano anche gli eventi in Ucraina dove la base produttiva occidentale, tanto terziarizzata da aver scelto di esternalizzare anche le risorse umane piuttosto che costruirle, non è in grado di garantire una base materiale per uno scontro generalizzato.
In questo senso, paradossalmente, più si allargherà e protrarrà il conflitto, più la tigre si dimostrerà di carta.
Non a caso si parla della re-immissione della coscrizione obbligatoria: per fare una guerra come loro vorrebbero bisogna avere il personale; questo è uno dei limiti che si sta palesando in Ucraina, dove non solo si necessita del “capitale umano” da sacrificare, ma la narrazione bellica deve reggere e questo è un punto debole perché, per quanto si veda lo sforzo bellicista fatto attraverso il mainstream mediatico, il consenso sociale è minimo.
Oggi non si può dire certo che la popolazione italiana si voglia lanciare nell’avventura. Non regge perché sono masse nella maggior parte dei casi politicamente amorfe o passive, ma che non scalpitano certo per andare a farsi massacrare per garantire i profitti alle multinazionali o la gloria alla nazione.
È certo che rispetto al pericolo sono ancora troppo passive, ma la realtà è che non c’è proprio culturalmente e psicologicamente una popolazione in Occidente disposta a fare la guerra.
Questo è un fatto di cui va tenuto conto, nonostante un quarto di secolo di narrazione bellicista molto improntata sulla proiezione all’esterno del capitalismo occidentale, non è stata amalgamata una base sociale disponibile da mandare “al macello”. Quelle europee non sono società “pronte” ad affrontare questi scenari, sono le classi dominanti che vorrebbero affrontarle anche senza esserne in grado. Questo è, da punto di vista storico, un fatto positivo – nel rifiuto della guerra imperialista -, è evidente che anche qui si è scollata la società, che è polarizzata al suo interno: le élite vogliono andare a fare guerra ma non ci vanno direttamente, servono le classi sottomesse per farla, che però attualmente non sembrano disponibili a farsi ammazzare, come poteva essere durante la Prima Guerra Mondiale, o per altri versi nella Seconda. Non c’è alcun entusiasmo bellicista all’interno delle società occidentali.
Questo non significa che l’animale ferito non diventi più aggressivo quando è stretto all’angolo, perché se la dinamica che è in corso di avanzamento di altre istanze internazionali avverse rispetto all’Occidente ne limita il campo d’agibilità, potremmo assistere a delle scelte isteriche e dissennate, che saranno però dei colpi di coda.
Ciò che probabilmente sta avvenendo in questo momento storico è il fatto che il processo di perdita della supremazia dell’Occidente rispetto al resto del mondo sia abbastanza irreversibile. Una sorta di “Crollo del Muro di Berlino” in salsa occidentale, per cui quella arabo-palestinese potrebbe essere una picconata decisiva.
Si può dire che tutto questo apra una finestra di solidarietà internazionale che potrà essere, in prospettiva, trasformata in una logica internazionalista e di classe.
Perché, oggi come oggi, da questa perdita di supremazia a guadagnarci non saranno solo i popoli oppressi, colonizzati o segregati, ma potranno essere gli stessi proletari dei paesi occidentali, cui spazzare via una classe dominante strategicamente indebolita è necessario più che mai. In questo senso vediamo un possibile punto di incontro tra le istanze del Sud globale e le possibili istanze di classe nell’occidente capitalista, e da questo punto di vista potrebbe essere un’occasione storica importante. Certo, come tutte occasioni, o le sfrutti o le perdi.
Se l’occasione si incontra con l’organizzazione diventa opportunità, se invece la si attraversa nella disorganizzazione e nella frammentazione allora passerà e basta.

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Gli altri la chiamano bellezza https://www.carmillaonline.com/2024/04/02/gli-altri-la-chiamano-bellezza/ Tue, 02 Apr 2024 05:00:59 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=81660 Intervista a Daniele Manacorda sull’uso dei beni culturali e delle loro immagini

di Valentina Cabiale

Le immagini del patrimonio culturale. Un’eredità condivisa?, a cura di Daniele Manacorda e Mirco Modolo (Pancini Editore), raccoglie gli Atti del Convegno svoltosi a Firenze 12 giugno 2022, promosso dalla fondazione Aglaia, sul tema dell’utilizzo delle immagini dei beni culturali di patrimonio statale.

La produzione e l’uso delle immagini dei beni culturali sono stati liberalizzati, per le finalità di studio e di ricerca, dall’Art Bonus (2014). Restano escuse le finalità commerciali, con fine di lucro, per le quali è necessaria la concessione di un permesso e [...]]]> Intervista a Daniele Manacorda sull’uso dei beni culturali e delle loro immagini

di Valentina Cabiale

Le immagini del patrimonio culturale. Un’eredità condivisa?, a cura di Daniele Manacorda e Mirco Modolo (Pancini Editore), raccoglie gli Atti del Convegno svoltosi a Firenze 12 giugno 2022, promosso dalla fondazione Aglaia, sul tema dell’utilizzo delle immagini dei beni culturali di patrimonio statale.

La produzione e l’uso delle immagini dei beni culturali sono stati liberalizzati, per le finalità di studio e di ricerca, dall’Art Bonus (2014). Restano escuse le finalità commerciali, con fine di lucro, per le quali è necessaria la concessione di un permesso e il pagamento di un canone.

I contributi del volume si interrogano sulle limitazioni che lo Stato pone ai cittadini sull’uso di un bene immateriale e su tutte le questioni connesse, che sono molte e hanno a che vedere con la relazione che intratteniamo con il passato e con la sua riproduzione in immagini e copie digitali. Gli autori, pur con opinioni molto varie, si pongono tendenzialmente a favore di una liberalizzazione totale, sin dal primo intervento, quello dell’archeologo Daniele Manacorda, che espone un decalogo pro-liberalizzazione. La questione – di cui Mirco Modolo traccia un profilo storico-critico e legislativo – è ancora più sentita dopo l’uscita, sotto l’egida del ministro Gennaro Sangiuliano, del DM 161/2023 (Linee guida per la determinazione degli importi minimi dei canoni e dei corrispettivi per la concessione d’uso dei beni in consegna agli istituti e luoghi di cultura statali) che stabilisce le tariffe dovute per la riproduzioni di immagini, anche su riviste scientifiche (nell’ambito dei beni culturali la stragrande maggioranza delle riproduzioni è destinato all’editoria).

È importante avere chiaro che non si sta parlando del bene culturale in sé, della cosa, ma della sua riproduzione fotografica e digitale. Beni immateriali, quindi, che sono presi in considerazione dal Codice dei Beni culturali (Codice Urbani) solo in modo tangente (Art. 107/108). La legislazione evidenzia la natura particolare del bene culturale immateriale, diversa da quella dei beni culturali di altra tipologia (ad esempio i prodotti letterari, tutelati da diritti sino a 70 anni dalla morte dell’autore). Da questa prassi contradditoria discende he l’utilizzo di una quartina di Dante a fini commerciali è lecita, mentre non lo è quello della Venere del Botticelli; è possibile reinterpretare Petrarca o Verdi senza dover pagare canoni o chiedere permessi, mentre le opere di Michelangelo conservate in collezioni ed enti pubblici sottostanno a una sorta di “copyright di Stato” senza limiti temporali. E questo avviene in una società in rapida digitalizzazione, in culture dell’immagine dove conta quanto reperibile o riproducibile on-line, e dove molti istituti culturali esteri applicano politiche di open access delle proprie collezioni. In Italia, solo la Fondazione Museo Egizio di Torino, che è un ente privato, ha attribuito alle immagini dei propri beni un pubblico dominio scegliendo la via della “Creative Common Zero License”. La necessità della digitalizzazione del patrimonio culturale è all’ordine del giorno, intendendo con digitalizzazione, come sottilinea Laura Moro, la riproduzione di immagini di alta qualità, e quindi di risorse interrogabili, relazionabili, corredate di metadati corretti. In questa direzione andrebbe il Piano nazionale di digitalizzazione del patrimonio culturale, un documento, approvato il 30 giugno 2022, che definisce in che modo il Ministero della cultura, di intesa con le Regioni, intende organizzare il processo di trasformazione digitale dei vari settori culturali (https://docs.italia.it/italia/icdp/).

Le limitazioni all’uso delle immagini vanno in controtendenza rispetto a questo processo: in altri termini, se le possiamo utilizzare con certi limiti, per qualcosa sì e per qualcos’altro no, a cosa serve digitalizzare se non a creare archivi di difficile e limitato accesso?

Il Codice Urbani, ormai ventennale, è stato scritto pensando a un mondo prevalentemente analogico. Inoltre, il contrasto è evidente anche nei confronti delle normative internazionali (in particolare con la Convenzione di Faro) e con la considerazione, nel rapporto tra cittadini e patrimonio culturale, di quella che, nella Premessa del volume, Carolina Megale chiama la “quarta dimensione”, che “ribalta il punto di osservazione e che pone al centro della riflessione non più il bene culturale in sé ma le persone e il valore che essere gli riconoscono. La quarta dimensione è il valore relazionale del patrimonio culturale, ovvero il valore che la comunità gli riconosce”.

Ne parliamo con Daniele Manacorda, già professore ordinario di Metodologie della ricerca archeologica, Università degli studi Roma Tre, consigliere di amministrazione della Soprintendenza speciale Abap di Roma, e membro della Commissione scientifica delle Scuderie del Quirinale.

Daniele Manacorda

Secondo te il DM 161/2023 è semplicemente uno strumento per fare cassa (anche se le analisi ne dimostrano la scarsa rendita e applicabilità, dal momento che la riscossione dei diritti di immagine ha elevati costi amministrativi) o ci vedi dietro una qualche strategia, una idea, sui beni culturali?

NOTA: l’intervista è stata realizzata a febbraio 2024. Il 21 marzo è uscito il DM 108 che modifica alcuni punti del precedente DM 161/2023.

Non credo ci sia una strategia. Il ministro Gennaro Sangiuliano si è portato a Roma alcuni fedelissimi, tra i quali Antonio Leo Tarasco, nominato responsabile dell’Ufficio Legislativo. Tarasco è anche presidente della Sic (Società per l’Ingegneria Culturale), una società che ha come finalità dichiarata quella di fare soldi con le immagini. Ed è noto alle cronache per aver scritto un libro sul diritto al patrimonio culturale [Diritto e gestione del patrimonio culturale, Laterza 2019] al quale ho dedicato fin troppo spazio [D.Manacorda, Patrimonio culturale, libertà, democrazia. Pensieri sparsi di un archeologo incompetente a proposito di Diritto e gestione del patrimonio culturale, “Il patrimonio culturale, 2020]. In sintesi, Tarasco sostiene che aumentando di molto i canoni delle immagini e i fee per il prestito delle opere d’arte nelle mostre, nonchè i biglietti di ingresso ai musei, ecc, si potrebbe raggiungere il pareggio del bilancio o addirittura ridurre il debito pubblico. Le immagini come grande panacea per il bilancio dello Stato. Vorrebbe istituire, lo ha scritto nel suo libro, una sorta di agenzia di spionaggio mondiale che vada a cercare in tutto il mondo chi usa le nostre immagini senza pagare. Un compito in realtà impossibile, anche solo per il fatto che ci sono decine e decine di normative e diritti diversi in ogni singolo stato. L’Italia non riuscirà mai a fare nulla di tutto questo. E infatti a Stoccarda stiamo perdendo la causa contro la Ravensburger, dopo aver mandato gli avvocati di stato e speso un fracco di soldi [il riferimento è alla causa intentata dalle Gallerie dell’Accademia di Venezia alla celebre azienda tedesca, rea di aver messo in commercio nel 2009 un puzzle che riproduce l’Uomo Vitruviano di Leonardo].

Il DM 161 è il prodotto di questa politica. Chi lo ha scritto dice di fare riferimento all’art. 20 del Codice Urbani, dove si parla soltanto della tutela fisica del bene, ma in questo caso si usa quell’articolo per imporre la previa verifica dell’uso che tu farai dell’immagine del bene. È una censura preventiva. Il tutto purtroppo è accompagnato da alcune recenti sentenze del giudice civile che fanno spavento, in quanto parlano di diritto all’immagine degli oggetti [si veda ad esempio la sentenza del Tribunale di Firenze del 20/04/2023, con la quale l’editore di una rivista è stato condannato a un risarcimento pari a 20.000 euro per danno non patrimoniale da violazione del “diritto all’immagine” del bene culturale, in questo caso il David di Michelangelo, accostato sulla copertina della rivista a un celebre modello]. Come se un pezzo di marmo, una tela dipinta avessero diritto all’immagine. Le sentenze parlano di valore simbolico, del genio italiano. Io sono molto più preoccupato da questi secondi aspetti ideologici. Dell’inattuabilità del decreto e dei suoi scarsi risvolti economici prima o poi qualcuno si renderà conto. Mentre i secondi aspetti rimandano all’esistenza di uno Stato etico che dice a te cittadino che cosa puoi fare o non fare con le immagini. È una censura non tollerabile in una democrazia occidentale. Poi, in seguito a tutte le proteste di universitari, musei, archivi, biblioteche, forse sono sorti dei dissidi interni e Tarasco è stato rimosso dall’incarico di Capo dell’Ufficio Legislativo [a gennaio è stato nominato Direttore generale degli Archivi del Mic]. Mi auguro che si stia arrivando a un punto di svolta. Se è rimasto un minimo di acume politico dovrebbero rendersi conto che non è conveniente cavalcare questa assurdità. Ma quello del lucro, del rapporto tra economia e cultura, è un tema delicatissimo di politica culturale.

 Riguardo a questo: spesso tra gli addetti ai lavori (e nell’opinione pubblica) sono attivi dei preconcetti ideologici sui beni culturali, pregiudizi anche linguistici che hanno una ricaduta sulle azioni che pensiamo di poter fare o non fare. Penso ad esempio alle parole “uso” e “lucro”, che a qualcuno fanno storcere il naso quando abbinate ai beni culturali. Giustamente nel libro ricordi: “non conosco nella storia umana nessuna circostanza in cui un prodotto culturale sia stato creato e diffuso al di fuori di un contesto economico”. In che momento della storia occidentale moderna, o anche solo italiana, si è creata questa frattura tra economia e cultura?

La domanda è interessante. Ho sempre pensato che le posizioni ideali non stanno messe su una retta ma su un cerchio, e alla fine gli estremi si incontrano. Nella politica dei beni culturali si fondono, talvolta inaspettamente, posizioni in apparenza distanti. Non c’è niente di strano che un governo a trazione Fratelli d’Italia ragioni in termini di Stato etico, cioè di uno Stato che ritiene che uno dei suoi compiti sia quello di indirizzare e controllare i comportamenti dei cittadini, e per farlo deve tenere in mano non solo le leve economiche (che sulla questione dell’uso delle immagini dei beni culturali sono in realtà poco rilevanti, come detto) ma anche quelle dei potenziali valori simbolici. Poi nel momento in cui il Ministero decide di usare la Venere di Botticelli come testimonial per favorire il turismo, si crea una contraddizione interna di cui forse non si rendono conto. Ma, a parte questo, c’è tutta una tradizione della sinistra progressista, storicista, idealista – che è largamente maggioritaria nel mondo della politica dei beni culturali, nella cultura umanistica e storico-artistica, in parte anche archeologica – che vede nel patrimonio culturale uno strumento di elevazione culturale del popolo (quando ci pensa, al popolo, perchè una parte di questa tradizione di fronte alla divulgazione si ferma, come se fosse qualcosa che abbassa il livello elitario della cultura). Questa componente di sinistra ha alcune consolidate radici in una visione di Stato etico di alta natura: uno Stato che, essendo la massima espressione del pubblico, rappresenta gli interessi pubblici. Nonostante il fatto che, ormai anche a livello costituzionale, ciò che è statale non coincida con ciò che è pubblico e lo Stato abbia il dovere di favorire le iniziative dal basso.

Alcuni colleghi pensano che lo Stato abbia il diritto di fare lucro sul bene culturale perchè rappresenta tutti noi e quindi anche il bene del pubblico. Ma c’è una contraddizione evidente. Nei corridoi delle Soprintendenze incontriamo spesso questa mentalità da Stato controllore, al tempo stesso c’è l’idea che così facendo si protegge il bene pubblico, ma da chi? dai cittadini che sono cattivi e lo mettono in discussione. La pratica della tutela novecentesca è stata sempre ispirata a questa ideologia. Quindi da una parte c’è il controllo, dall’altra la volontà delle cosidette anime belle di garantire la massima diffusione possibile della conoscenza del bene; in realtà, alla fine, è proprio questo feticcio dello Stato malinterpretato che impedisce alla società di comportarsi liberamente. In questa idea di Stato è attiva un’alleanza impropria che si forma contro i cittadini ai quali viene tolta una libertà banale e fondamentale: quella di vedere un’immagine, farsi venire un’idea, esserne ispirati e lavorarci sopra. I limiti della libertà sono dati dal diritto altrui, e quale diritto altrui stai ledendo quando ti ispiri all’immagine di un’opera d’arte o a quella di un coccetto rotto? Se uso quell’immagine, dovrebbe essere il riscontro sociale a dirmi se ho fatto una cosa bella, brutta o della quale non si è accorto nessuno. Ho comunque cambiato il modo di vedere un piccolo pezzo di mondo. A me sembra una cosa banale. Eppure spesso incontro, nelle persone più impreviste, un atteggiamento di censura e contrario alla liberalizzazione dell’uso delle immagini. Ma allora, mi chiedo, perchè non applicare questa normativa a tutto il resto? Se l’essere proprietà dello Stato è la condizione giuridica per imporre un canone di concessione su un bene (al David di Michelangelo come all’osso di pollo che si trova in uno scavo archeologico, perchè a livello di legge sono la stessa cosa), allora tutto ciò che è demaniale deve essere sottoposto allo stesso regime: perchè non mettere una tassa sulle foto delle bellezze naturali, delle Dolomiti, del Vesuvio? Il punto è che la cultura idealistica impone un primato dell’arte, qualche volta declinato insieme alla storia, qualche volta assolutizzato, che poi aspira a sè anche i nostri cocci e i nostri ossi di pollo. Tre, quattro, cinque, dieci oggetti e immagini iconiche, per la loro natura per così dire eccezionale, diventano rappresentanti dei milioni di altri possibili oggetti che producono immagini. Qualche giurista propone di fare come in Francia, dove è tutto libero tranne una cinquantina di siti e opere del patrimonio (la Gioconda, la Tour Eiffel, …) sui quali c’è una privativa pubblica. La critica che i giuristi avveduti fanno alla situazione italiana è che il diritto d’autore, una volta scaduto,  si trasforma impropriamente in un diritto reale di proprietà, che permette allo Stato di imporre un canone d’uso in quanto detentore del bene che ha in custodia. Ma questo diritto dominicale è privo di perimetri e, a differenza del diritto d’autore che dura 70 anni, è eterno. È una contraddizione giuridicamente insostenibile.

Lo Stato quindi agisce come un proprietario e fa qualcosa che non permette di fare liberamente ai suoi cittadini. Si pensi alla campagna pubblicitaria, molto criticata, che hai richiamato prima, con la Venere di Botticelli in versione influencer. Un’azienda privata per utilizzare la stessa immagine avrebbe dovuto chiedere un permesso e versare un canone. Lo Stato lo fa liberamente. Di fronte a questo non sarebbe necessario, lo chiedo come provocazione certamente ingenua, chiedere una modifica del Codice dei Beni Culturali, una modifica radicale, di sostanza: quella di esplicitare che patrimonio pubblico non significa patrimonio dello Stato. Dire che quei beni e quelle immagini sono di qualcuno, foss’anche dello Stato, è l’errore di base; innesca di default il meccanismo della proprietà. Mentre quei beni sono di tutti perché non sono di nessuno.

Certo, ma anche su questo c’è molta confusione. C’è chi sostiene che il Codice Urbani riguardi tutto il patrimonio pubblico quindi anche quello delle regioni, delle province, ecc. e chi invece riconosce parecchia libertà di movimento, come auspicherei, ai vari enti autonomi. Però non è facile per i comuni aprire un contenzioso con il governo. Al di là di questi aspetti – chi è il proprietario? – c’è un altro punto che non viene quasi mai tirato in ballo come se si fingesse di non conoscerlo, ed è quello relativo alla Convenzione di Faro, ratificata dall’Italia con grande ritardo [Convention on the Value of Culturale Heritage for Society, siglata nel 2005 e ratificata dall’Italia nel 2020]. La convenzione non è una legge ma una policy, si tratta di linee di indirizzo, non di indicazioni normative. In ogni caso, la Convenzione di Faro ha ribaltato il concetto. Non esiste il diritto del patrimonio culturale. Sono le popolazioni che hanno diritto a un patrimonio, che sia pubblico o no. Chi ne è proprietario deve indirizzarsi in quel senso. Il nostro ministero ha sempre detestato la Convenzione di Faro perché la percepiva come una minaccia al proprio potere assoluto sul patrimonio: non è un caso se ci ha messo 15 anni per ratificarla. Si è anche cercato di distinguere ontologicamente il concetto di ‘patrimonio’ (la res, il bene materiale) da quello di ‘eredità’ (per qualcuno, solo chiacchiere). Però oggi la ratifica c’è e non si può far finta che non esista. La Convenzione di Faro entra in contrasto anche con le anime belle che si sentono investite di un compito (al di là della conoscenza, che è il loro primo obiettivo), quello della trasmissione ad altri del senso di quello che hanno conosciuto: la vedono come una operazione pedagogica, top-down. Gli archeologi che si pongono questo problema restano comunque una minoranza, tra gli storici dell’arte sono degli animali vaganti – ma in realtà è dal confronto paritario con il pubblico, con il proprietario-utente che si ricavano spunti di riflessione. È qualcosa che si comincia a vedere nei musei che hanno un buon progetto di comunicazione, a partire dalle didascalie, dagli apparati digitali: si tratta di processi lenti, ma da questo punto di vista l’Italia è irriconoscibile rispetto a 10 anni fa. C’è una grande richiesta dal basso di conoscenza, di informazione, di coinvolgimento.

Ho cominciato a occuparmi di questo problema una decina di anni fa grazie alle ‘prediche’ che sentivo fare da Tomaso Montanari, presentato un po’ come il guru del patrimonio culturale. Andai alla presentazione di un suo libro [Istruzioni per l’uso del futuro, Minimum Fax 2014] e mi sembrò di avere davanti, insieme con tanti altri colleghi, uno con l’elmetto in testa, barricato da qualche parte come se ci fosse il nemico alle porte. Ma dove stiamo, in che anno stiamo? – mi sono chiesto. Mi sono comprato il libro, e quando nelle prime pagine ho letto che l’art. 9 della Costituzione affida alla Repubblica “cioè allo Stato” la tutela, ho pensato che se il guru del patrimonio culturale identifica la Repubblica con lo Stato significa che c’è ancora tanta, tanta strada da fare. Poi mi sono messo a scrivere una recensione che è diventata un piccolo libro [L’Italia agli italiani. Istruzioni e ostruzioni per il patrimonio culturale, Edipuglia 2014] di cui la cosa più interessante forse è il glossario, scritto in risposta a quello di Montanari.

 Un contro-glossario?

Sì. Credo che bisogna sempre pensare che, senza dare i voti, senza insultare e predicare, dobbiamo cercare che cosa c’è nelle posizioni degli altri in cui possiamo eventualmente ritrovarci, che possiamo condividere, su cui innescare un dibattito. Lo sforzo di quella recensione è stato di tirare fuori tutto quello che si poteva da quel libro secondo me molto discutibile. Dieci anni dopo, non so quanto regga.

Torniamo alla questione dell’approccio morale ai beni culturali. Chi difende la normativa esistente, e quindi è contro la liberalizzazione dell’uso delle immagini dei beni culturali, si rifà agli articoli 107-108 del Codice Urbani che, parlando di uso dei beni, richiedono “forme compatibili con il carattere artistico o storico, l’aspetto e il decoro del bene culturale”. Quasi come se il bene avesse una identità morale da difendere. Andrea Brugnoli nel volume scrive: “Pretendere che ci sia un potere di controllo del detentore del bene sull’utilizzo della sua immagine può essere accettato solo se ammettessimo di vivere in uno stato etico”. Qual è il fine e l’interesse di un tale controllo morale sulle immagini del bene? Che cosa si controlla controllando il rapporto tra i cittadini e i beni culturali (e le loro immagini)?

Ovviamente non so rispondere, non sono nella testa degli altri. Penso comunque che la pulsione che sta dietro la normativa corrente sia strettamente economica, finanziaria. Quella cosa è mia e ci voglio fare soldi io. Non c’è stata inizialmente una volontà di argomentare questo diritto, che peraltro è paradossale: tu non puoi fare lucro con le immagini, perché contamini cultura e economia, ma io Stato invece posso farlo in regime di monopolio! Però le sentenze dei giudici che abbiamo richiamato prima includono elementi ideologici che l’attuale classe politica ha accolto con molto favore, perchè le danno la possibilità di uscire dalle secche di un impossibile confronto tecnico-finanziario, e di ergersi a tutelatori e valorizzatori del genio italico, del simbolo.

La presa di posizione ideologica è venuta dopo, quindi?

Secondo me sì. Mirco Modolo nel libro ha fatto un bellissimo lavoro storico sull’evoluzione della questione dell’uso delle immagini, ed è evidente che la progressiva introduzione di queste royalties non è mai stata di ordine ideologico, ma sempre finanziario. Ci sono stati vari peggioramenti ma sempre discendenti da fini economici e amministrativi, sin da quando la commissione Franceschini nel 1965 si era espressa per la liberalizzazione. Nei successivi 60 anni ha sempre prevalso la tendenza bottegaia. La mentalità del ministero (non di tutti, ma quella prevalente) è: metto delle tasse per dirti continuamente che questa roba è mia e non tua. Non vedo un progetto di altro tipo. Poi a volte, nella storia, funziona così: si presenta casualmente una circostanza che dà avvio a una nuova lettura ideologica. Bisogna stare attenti a non farlo diventare uno scontro politico. D’altra parte tutta la sinistra progressista è ancora intrisa di spirito novecentesco e fatica a dare risposte alle domande di questo secolo, sta lì abbarbicata in luoghi dove l’intellettuale studia e conosce, poi se se la sente a cascata divulga, ma sempre con l’idea che i primi nemici del bene culturale siano i cittadini. Ovviamente non penso che non ci siano cittadini ostili ai beni culturali, non ho una visione irenica della società.

Vedi un periodo in particolare in cui si è creata questa frattura tra beni culturali ed economia?

Bisognerebbe porre la domanda a uno storico dell’età moderna. Più che un problema di frattura, è un problema di costruzione ideologica di questa frattura. La questione mi pare enormente peggiorata nella seconda metà del Novecento e in questo penso che l’idealismo abbia una grande responsabilità: la separazione dell’arte dalla vita, dalla società, dalla storia, e il pensiero dell’assolutezza dell’arte. Che, poi, sono cose che tolgono tutto il divertimento. Una delle cose belle del nostro lavoro è vedere come la stessa cosa non sia mai stata la stessa cosa. Ho polemizzato più volte con il mio amico Carlo Pavolini, che continua a scrivere contro i progetti di valorizzazione di ogni tipo. Per lui al Colosseo non si può fare nulla, nè madrigali del Cinquecento nè sfilate di moda nè reading di poesia; non ci può essere niente perchè i siti archeologici devono essere rappresentati in quanto tali. Io gli domando: ma che significa in quanto tali? Il Foro è stato costruito 2000 anni fa, poi è stato mangiato in tutti i modi, ci hanno fatto la calce, le stalle, lo hanno riempito di fango, è andato sepolto, poi 200 anni fa lo hanno ritirato fuori: di cosa stiamo parlando, quindi? Del momento in cui è stato inaugurato, che già il giorno dopo era diverso dal giorno prima? Che cosa significa ‘in quanto tale’? La risposta naturalmente non viene, non può venire, perchè ‘in quanto tale’ a mio modo di vedere significa ‘il modo in cui la nostra generazione di intellettuali impegnati ha percepito quel sito, quel manufatto, come memoria della storia’. Ma anche il nostro comportamento di oggi è memoria della storia, quello che ho detto o fatto ieri o l’altro ieri o una settimana fa. Tutto è parte della memoria storica e la percezione di noi stessi a 5 anni, a 10 a 20 a 30 o a 70 non è sempre la stessa. La percezione del patrimonio non può che essere dinamica e mai una sola, altrimenti non si spiegherebbe perchè qualcuno distrugge i Buddha di Bamiyan o perchè in Palestina si scavano certi siti archeologici e se ne distruggono altri. Sono molto stupito quando vedo in persone onestissime, coltissime, come Pavolini, queste posizioni. Ovviamente lui sarà altrettanto stupito della mia.

Marcel Duchamp1919 L.H.O.O.Q

Riguardo alla questione del primato dell’arte di cui dicevi prima, mi viene in mente anche un’altra contraddizione. Ci sono delle eccezioni alle limitazioni nell’uso delle immagini dei beni culturali: penso a quando quest’uso ricade nella sfera artistica, in quella riconosciuta come tale. Ci sono dei casi storici notissimi come la Gioconda coi baffi di Duchamp oppure il torso di Venere versione bondage, stretto dalle corde, di Man Ray. Ma anche casi contemporanei: le fotografie di Mimmo Iodice, ad esempio, o la recente mostra Vita Dulcis di Francesco Vezzoli a Palazzo delle Esposizioni a Roma: nel caso di un artista molto celebre, il libero riuso (artistico certo, ma con un evidente ritorno economico) sembra essere consentito.

Venere-restaurata-1936-Man-Ray-Museum-Boijmans-Van-Beuningen

I casi si potrebbero moltiplicare. È sempre avvenuto che un artista abbia ripreso e modificato ciò che un altro aveva precedentemente prodotto. Ma il fatto è che per fortuna non esiste una legge che definisce chi è artista e chi non lo è, che cosa sia arte e che cosa non lo sia. E spero che una tale legge non ci sia mai! Attribuire un privilegio di libertà agli artisti sarebbe distruggere alle fondamenta il senso dell’articolo 3 della Costituzione. No. Se un artista può alterare come meglio crede un’opera fatta da altri, devono poterlo fare tutti. Ci penserà il confronto culturale e sociale a giudicare quel che è stato fatto, non una norma amministrativa.

Vorrei porti una domanda riguardo alla Convezione di Faro e a quella che Carolina Megale nell’introduzione al volume chiama “quarta dimensione”, ovvero “il valore relazionale del patrimonio culturale, ovvero il valore che la comunità gli riconosce”. Se accettiamo la quarta dimensione, allora forse dovremmo anche accettare, come posizione legittima, quella delle persone che non riconoscono un valore al patrimonio culturale e non hanno interesse verso la conoscenza e il mantenimento del passato materiale. C’è possibilità di dibattito, di confronto, con la quarta dimensione riluttante?

Chi non riconosce questo valore ha tutto il diritto di farlo; l’articolo 21 della Costituzione riconosce la più ampia libertà di pensiero. Ma non può avere diritto di distruggerlo, non può impedire agli altri di riconoscerlo. E infatti l’articolo 9 impone alla Repubblica il sacrosanto esercizio della tutela, che non è solo salvaguardia di un valore ma impegno nella sua diffusione.

Nel volume Daniele Malfitana e Antonino Mazzaglia sostengono che esistono “ulteriori limitazioni e ostacoli all’accesso e al libero utilizzo delle immagini che fanno appello alla natura ‘inedita’ del dato oppure alla sussistenza di motivi di interesse e di studio”. È una questione ben nota agli addetti ai lavori: spesso i materiali e i dati in corso di studio non sono liberamente consultabili e accessibili da altri, perché chi li sta studiando – o dice di stare facendolo, spesso da molti anni – in qualche modo ritiene di averne la proprietà intellettuale e un diritto esclusivo allo studio (la presunta “riserva di pubblicazione”). In questo modo bloccando, spesso per lunghi e non determinabili periodi, la conoscenza di dati che sono pubblici. Insomma: si esercitano dei ‘diritti d’autore’ su qualcosa che non è creato (l’autore non è il creatore del dato), sul quale quindi non può sussistere una proprietà intellettuale derivata dall’atto creativo. Hai scritto un decalogo per la liberalizzazione dell’uso delle immagini; non sarebbe il caso di scrivere un decalogo anche contro il concetto di proprietà o paternità intellettuale, quantomeno nell’ambito della ricerca archeologica, e quando tale proprietà legittima la non-accessibilità dei dati ad altri?

Campagna pubblicitaria Arma Lite, 2014

Be’, intanto non direi che l’archeologo non crea il suo dato. Il problema è complicato e non ho una risposta univoca. Appartengo a coloro che si indignano tutte le volte che vedono queste privative usate senza ritegno, senza limiti di tempo, arrogantemente. Che si sia universitari o funzionari pubblici, in ogni caso il prodotto del lavoro spesso è stato ottenuto con finanziamenti pubblici. Penso che l’idea di proprietà intellettuale debba essere mantenuta, perchè le informazioni che tiro fuori da un coccio inserito in un contesto non erano già presenti nel coccio stesso, sono io archeologo ad aver fatto un’attività intellettuale per ricostruire quel contesto e inserirlo in un discorso sul paesaggio storico. È quindi giusto che mi si riconosca un diritto, certo non di durata 70 anni come il diritto d’autore (quello mi verrà riconosciuto se scriverò un romanzo sullo scavo) ma un diritto che deve essere chiaramente limitato e con norme che permettano di verificare il rispetto dei limiti. Al tempo stesso, però, ci dovrebbero essere anche le condizioni per lo studio e la pubblicazione. Molti non riescono a pubblicare per oggettive difficoltà, altri magari per una certa gelosia. Non credo però che sia una questione risolvibile con un diktat. Se penso a me stesso e ai colleghi, mi dico: chi non ha un inedito nel cassetto scagli la prima pietra. Ho pubblicato 5 volumi, 7 tomi, sugli scavi della Crypta Balbi a Roma. Il sesto volume, circa 1000 pagine, è arrivato al 90% di stesura ma non è stato pubblicato. Non ci sono ancora riuscito e mi dispiace moltissimo perchè ogni anno che passa mi sento sempre meno in grado di farlo. Ma il nostro è un lavoro di équipe e quando questo collettivo – com’è normale che accada – si disfa, perchè è fatto di tante vite personali, a volte non si finisce il lavoro. Purtroppo è così.

Foro romano, Basilica di Massenzio durante Olimpiadi del 1960

È una questione complessa e di nuovo intrecciata con quella economica, perchè spesso lo studio, la scrittura per la pubblicazione rientrano tra gli aspetti dati per scontati, che si devono fare gratuitamente.

Sì, ma d’altra parte chi è in grado di dare delle tempistiche sul tempo di pubblicazione di uno scavo archeologico? È difficile fare previsioni in partenza e quindi inserirle in termini contrattuali. Tu sai che scaverai un’area di 200 mq, puoi ipotizzare 2 m di stratigrafia archeologica e quindi un totale di metri cubi e fare ipotesi sulla durata di uno scavo, ma più complicato è prevedere i tempi dello studio post-scavo: quanto tempo, quante analisi, quante persone da pagare?

Le nuove direttive sull’archeologia preventiva tentano di regolamentare la questione pubblicazione, anche se non sono forse di facile attuazione. Ma, a parte questo, proprio perchè uno non sa se e quando arriverà a una pubblicazione completa, forse dovrebbe fare in modo di rendere disponibili potenzialmente a tutti almeno i dati grezzi: la documentazione base (schede, foto, disegni) prodotta durante lo scavo archeologico.

Ma infatti vedo che i notiziari delle Soprintendenze pubblicano molto di quello che accade. Quando una cosa viene pubblicata di fatto è sdoganata.

Fino a un certo punto, perchè se un archeologo chiede di poter studiare dati e materiali di un certo scavo (non “suo”) potrebbe trovare degli ostacoli.

Li trova di sicuro.

In una situazione ideale due équipe distinte dovrebbero poter lavorare sulla documentazione e sui materiali di uno stesso scavo e arrivare a due pubblicazioni distinte. Questa sarebbe una reale libertà di ricerca.

Magari, sarebbe bellissimo. Non succede mai, però potrebbe essere il tema di una ricerca europea: fare studiare a tre équipe diverse gli stessi dati prodotti in uno scavo condotto da altri. Sarebbe un gioco, ma anche una cosa seria.

Anche per ragionare su quanto e in quanti modi diversi gli archeologi sono ‘creatori’ dei dati, delle interpretazioni…

Anche se ci sono bellissimi esempi di interpretazioni ricostruttive ‘postume’ di scavi non stratigrafici condotti da altri, penso però che nessuno, mai, si metterebbe a pubblicare uno scavo non suo. Perchè di solito ha degli interessi particolari su un certo scavo: perchè lì sono usciti quei determinati cocci, quella statua, quel bollo d’anfora, quell’insieme di frutti e di semi, quelle monete. Studia al massimo quella determinata parte. Sono però convinto che quando conosci solo una parte di un tutto, in realtà non conosci bene neanche la parte. È la pubblicazione di uno scavo che governa il tutto.

In una recente presentazione del libro “Le immagini del patrimonio culturale” al Museo Egizio di Torino, hai incitato alla disobbedienza civile sulla questione dell’uso delle immagini. Tu hai già disobbedito?

(sorride) Disobbedisco nel senso che in genere mi disinteresso della provenienza delle immagini. Se so da dove viene un’immagine, lo scrivo (Rossi 1999, pagina x); quando è una cosa che ho con me, chissà da quando,  scrivo “Foto archivio autore”. Se poi qualcuno ha qualcosa da dirmi, che me la dica. Che mi facciano causa. Poi, certo, non è il singolo che deve fare giustizia, ma forse cambierebbe qualcosa se i singoli cambiassero atteggiamento. Consiglierei a tutti di sentirsi più liberi, perchè non ti verranno mai a cercare. E se ti vengono a cercare, certo sarebbe meglio essere più organizzati, con una associazione di consumatori. C’è da sperare che le varie associazioni di archeologi presenti in Italia prima o poi mettano in piedi un ufficio di tutela.

Campagna pubblicitaria Levi’s, 1973

Ma sono coraggiosi gli archeologi?

Può non essere giusto chiedere ai singoli di essere coraggiosi. Però è anche vero che i cambiamenti nascono spesso dalle scelte dei singoli. Il giovane archelogo o storico dell’arte che si mette a fare da solo una battaglia contro i mulini a vento quali strumenti ha per tutelarsi? Per un vecchio professore in pensione è più facile. Però è anche una questione di consapevolezza. C’è chi ha una maggiore propensione a comportamenti con schiena dritta e chi la piega perchè non considera la questione un fatto negativo. D’altra parte, noi universitari abbiamo accettato senza discutere quella cosa ignobile che è la valutazione delle riviste con le fasce A, B, C. Ce la siamo fatta imporre senza tentare neanche di opporci. È una parodia di una valutazione scientifica. Tutte le categorie hanno bisogno di qualcuno che imbocchi la strada. Un tempo si chiamava il ruolo delle avanguardie, ma le avanguardie possono anche portare sulla strada sbagliata.

Ti sembra possibile un’avanguardia archeologica (per molti, un ossimoro che farà sorridere)?

Be’, negli anni ‘70, mi sono trovato casualmente a partecipare a un’avanguardia, che era quella della scuola di Andrea Carandini, che indubbiamente ha indicato la strada del nuovo: l’introduzione sistematica della stratigrafia nel campo dell’archeologia classica e la sua concettualizzazione, la centralità del lavoro manuale da parte dell’archeologo, l’apertura alle praterie infinite della storia della cultura materiale, la necessità anche morale della ricostruzione bi- e tridimensionale degli insediamenti e quindi l’importanza della narrazione, e potrei contiuare… Una delle fortune della mia vita è di averlo incontrato.

Pensi che il cambiamento nei modi di rappresentazione e riproduzione (dai disegni alle fotografie alle copie digitali potenzialmente sempre più realistiche) abbia instaurato una diversa percezione del bene culturale?

Secondo me è una rivoluzione fondamentale. Ha dato degli strumenti praticabili e molto efficaci alla speranza e vocazione di chi, minoritario in un mondo che studiava per sè, si poneva il problema di come restituire anche socialmente  il senso di quello che aveva studiato. Oggi puoi raccontare in termini più comprensibili e affascinanti quello che altrimenti spesso rimaneva nella penna. I puristi dicono “eh ma quella ricostruzione è un po’ inventata”. Sì, certo, è difficile accontentare la filologia esasperata. Si tratta di entrare nell’ordine di idee che tutte le ricostruzioni sono ammesse purchè ci sia l’onestà di dire dove inventi e perchè; dove usi un dato certificato, dove invece è tutta fantasia. Ma se pensiamo a tutte le polemiche stucchevoli che ci sono state per cento anni sulle ricostruzioni fisiche, sulle anastilosi architettoniche: era un mondo che si divideva e in buona parte era contrario alle anastilosi, perchè per la filologia esasperata è meglio che il monumento stia giù per terra piuttosto che tirato in piedi e reso comprensibile. Tuttora i puristi sono in disaccordo con certe anastilosi fatte a Roma; per loro va bene l’area archeologica abbandonata ai gatti con le colonne giù per terra, poi magari dà un po’ fastidio il fatto che qualche senza tetto ci dorma dietro, o qualche turista ci mangi il panino sdraiato sopra.

Campagna pubblicitaria Levi’s, 1973 (Adamo d Eva di Lucas Cranach)

Qual è il tuo punto di vista sull’Intelligenza artificiale, pensando ai potenziali usi in ambito archeologico (ricostruzioni virtuali, sistemi di elaborazione e processione dei dati, ma anche la creazione di falsi reperti)?

Non sono in grado di discettare di intelligenza artificiale, ma credo che se essa permetterà di gestire una quantità di dati altrimenti ingestibile, finalizzata alla possibile ricostruzione veritiera o plausibile di un dato ma anche evidentemente alla sua falsificazione, allora non potrà che essere un elemento positivo. Non mi spaventa, non nell’ambito dell’archeologia. Ho sempre pensato che, in ogni caso, noi non causiamo la morte di nessuno. Possiamo fare errori macroscopici o dire stupidaggini, ma finisce lì. Tutt’al più abbiamo dato a qualcuno la possibilità di mettersi in mostra dimostrando la nostra stupidaggine. Insomma, dovremmo un pochino ridimensionare la nostra disciplina. Se ci libereremo dal feticismo, allora ci libereremo anche dal feticismo delle nostre ricostruzioni. Abbiamo il grande privilegio di occuparci di cose importanti e significative di cui l’umanità non può fare a meno ma al tempo stesso teniamone anche la scala giusta. È molto più facile fare del male distruggendo il patrimonio culturale in termini ideologici che costruendone uno falsificato. A meno che quella falsificazione non sia indirizzata a un fine negativo, cosa che c’è sempre stata. Le dittature del Novecento l’hanno praticata continuamente.

Se le future tecnologie permetteranno la realizzazione di riproduzioni digitali esatte dell’originale, anche nelle sue componenti materiali e tattili (quindi se permetteranno di prendere in mano un oggetto virtuale, di sentirne il peso reale, la consistenza, di toccarne la superficie), sarà ancora possibile difendere la materialità “originale”? Che, per la maggior parte dei manufatti archeologici, non è materialità d’autore (l’opera d’arte) ma è una materialità povera e anonima. Difendere la materialità significa difendere il Museo.

Intanto potrebbe essere il momento in cui nei musei ti faranno finalmente toccare le cose. Un tempo chi andava a pregare davanti a un’immagine della Madonna di Donatello o di Raffaello la toccava pure. Mi rendo perfettamente conto del motivo per cui non possiamo toccare le cose, però ogni volta mi dà molto fastidio. Nei nostri musei si potrebbero creare degli spazi dove le cose si possono toccare. Quanti musei ci sono in cui in un angolo ci sta una cassetta di cocci e i ragazzini sono invitati a dividerli per colore o per tipo? Non accade perché si dice: no, per carità, quei cocci hanno un numero di inventario, sono parte del demanio indisponibile dello Stato…

Se anche accadesse quello che prospetti, immagino che a quel punto la materialità digitale sarà presente anche in tanti altri aspetti della vita quotidiana: forse quando mangeremo un piatto di spaghetti virtuale penseremo di stare mangiando un vero piatti di spaghetti.

Nei prossimi mesi che cosa ti piacerebbe scrivere e studiare?

I sogni nel cassetto? Sto terminando un lavoro sul paesaggio urbano e antiquario sul primo miglio della via Appia tra XI e XVIII secolo. Poi ho in mente diverse cose da scrivere. Una riguarda un tema a cui tengo molto, quello delle Tre Grazie, a cui ho dedicato tre o quattro studi che mi hanno molto affascinato. Le Tre Grazie sono molto presenti nell’immaginario collettivo moderno, tutti le conoscono, l’arte contemporanea le ha rielaborate in vari modi. La lettura moderna è quanto di più lontano dalla visione antica: sono ragazzine nude, algide, graziose e un po’ scostanti. Mentre mi sono convinto che le Grazie, che hanno una nascita molto antica nella genealogia mitica, sono alla base dell’origine delle prime società umane, all’uscita dal circolo della vendetta e all’avvio del circolo del dono, della reciprocità e quindi del patto sociale. Nel mondo greco e poi romano questo culto è collegato con tanti elementi: l’iniziazione degli efebi in Grecia, la gestione delle frumentazioni ellenistiche e romane, il rapporto con la Luna e le sue fasi, il rapporto con la dea Fortuna nelle sue due diverse forme: Aglaia, ovvero la fortuna che ti coglie, e Kairos, la fortuna che tu ti prendi, rappresentata come un bel giovane con i capelli rasati e un ciuffo che devi afferrare quando ti passa accanto correndo. Kairos è la fortuna dell’uomo ellenistico che si fa da sé, mentre Aglaia è la fortuna che ti prende anche se tu non hai alcun merito, se non quello di stare al posto giusto nel momento giusto. Se la Grazia centrale incrocia il tuo sguardo, allora hai fortuna. Così ho capito perché noi diciamo ‘hai avuto un bel culo’. È il sedere di Aglaia. Tu ne vedi la schiena, ma lei gira la testa e rivolge a te il suo sguardo. L’universo collegato con le tre Grazie ha a che fare con la gestione delle società classiche e poi a un certo punto scompare, entra nel privato. Rimane come garante del patto di fedeltà coniugale, è un soggetto che trovi spesso nei sarcofagi di sposi, nelle terme, nei luoghi di frequentazione ma all’interno di un mondo più privato. Fino a che il Cristianesimo lo abolisce sulla base del rifiuto del corpo, anche se nel mondo classico si trattava di tre ragazze nude ma senza implicazioni sessuali: era la nudità della trasparenza, dell’assenza di macchie, della chiarezza del patto. Il Cristianesimo dopo averle condannate le ha riammesse con i tre re Magi che portano doni e con le tre virtù teologali (fede, speranza carità sono esattamente le tre Grazie). Su questo tema non mi va di scrivere un volume, vorrei comporre un libro dove c’è un’immagine e, a fronte,  una didascalia lunga una pagina.

E poi c’è un’altra cosa che vorrei fare, dato che per tutta la vita mi sono divertito a ragionare sulle parole. Ho una cartella che si chiama “Archeologia delle parole” dove mi appunto quello che gli altri di solito non si domandano e che io mi domando sempre, in particolare perché una cosa si dica in quel determinato modo, specialmente per quanto riguarda gli aspetti geografici, etnici e non solo. Non sono un linguista e dirò ai linguisti di non aprire il libro, di non leggerlo, per non irritarsi; e magari ne avrebbero ragione, considerato il mio dilettantismo. Io mi irrito invece quando in certi dizionari leggo, per esempio, ‘Amore, dal latino amor…’. E che ci faccio? Qualche giorno fa sono andato a parlare presso un’associazione di medici che si occupa del rapporto tra il patrimonio culturale – loro lo chiamano bellezza – e il benessere, la salute. Non sapevo bene che dire. Per prima cosa ho detto che non dovrebbero parlare di bellezza, perché bellezza è un termine abusato, che non dice nulla: io parlerei piuttosto di armonia. E mi sono chiesto: perché si dice armonia? Sono andato a cercare l’origine del termine e mi sono molto divertito. Uno pensa che l’armonia sia accordare note musicali, oppure l’armonia di due menti, qualcosa di astratto. Invece originariamente l’armonia è un oggetto: una specie di perno che tiene insieme, congiunge, due cose. Si usava specialmente per fare i carri. È un oggetto che congiunge. Galeno, in età imperiale avanzata, lo usa per dire “rimedio” e la parola entra così nella sfera medica. Mi sono reso conto che harmonia e farmaco sono la stessa parola. L’armonia, i carri, il farmaco, vengono tutti dallo stesso concetto che è quello di congiungere, restituire unità a ciò che è lacerato. L’armonia rimette insieme. E allora ho capito perché gli inglesi chiamano arm il braccio: perché congiunge l’arto alla spalla. Di questi giochi con le parole se ne possono fare molti, a volte saranno stupidaggini, a volte ci azzeccano, certo è molto divertente. Quindi un giorno o l’altro mi regalerò questa archeologia delle parole.

Un libro, invece, scritto da qualcun altro e che vorresti aver scritto tu?

Leggo abbastanza per quanto in maniera molto lenta. Un libro che mi è rimasto dentro e che mi è parso di una bellezza straordinaria, forse letto una decina di anni fa, è A un cerbiatto somiglia il mio amore di David Grossman. È la storia di una donna che ha un figlio sotto le armi, vive nell’angoscia che venga qualcuno a casa a dirle che il figlio è morto, e allora decide di fare una lunga gita in un parco naturalistico, con l’idea che, per tutto il tempo in cui lei non starà a casa, non potranno venire a dirle che suo figlio è morto e quindi così lei gli salverà la vita. È un libro di grande intensità; mentre lo leggevo pensavo che forse era dai tempi di Guerra e pace che non leggevo un libro così profondo.

Mi piace chiudere le interviste con una domanda che non c’entra niente, la prendo da un libro di Max Frisch, Diario di coscienza, dove ogni capitolo inizia con una sequenza di domande su vari temi della vita, dell’esistenza. Sono domande semplici e talvolta un po’ sconvenienti, spiazzanti. La domanda che ho scelto è questa: Invidi talvolta gli animali che hanno l’aria di fare a meno della speranza, per es. i pesci in un acquario?

(ride) No. A parte che non so se i pesci non conoscano la speranza. Immagino che la conoscano sotto forma istintuale: almeno la speranza di trovare il cibo e quella di perpetuarsi nella specie, anche se magari nel comportamento del pesce non raggiunge un alto livello di consapevolezza. Speranza è una parola bellissima. Ho vissuto tutta la vita alla luce della speranza. Spero di non averla mai confusa con l’illusione. La speranza è sempre collegata con quello che per noi archeologi è il contesto. L’intensità e la forza di quella speranza è legata al contesto che hai: se la applichi a un contesto che non te la può giustificare è un’illusione, ma in caso contrario è uno stimolo.

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A noi due! Conversazione con Gianluigi Bodi su “Un posto difficile da raggiungere” 2/2 https://www.carmillaonline.com/2024/02/15/a-noi-due-conversazione-con-gianluigi-bodi-su-un-posto-difficile-da-raggiungere-2-2/ Thu, 15 Feb 2024 21:00:54 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=81229 di Alessandro Cinquegrani

Un tema che ritorna spesso è il lavoro, soprattutto in chiave negativa come perdita del lavoro, o anche come attaccamento morboso e insensato a una macchina. È un tema classico, declinato da tanti autori anche in opere recenti. Però nella tua prosa non lo percepisco come un tema socialmente sensibile, ma piuttosto sempre come una questione privata. Sbaglio? O è una prospettiva che vuoi mantenere?

Penso che la tua analisi sia corretta. Il lavoro, fin da quando sono piccolo, ha sempre rivestito un ruolo importante per me. Io ho iniziato a lavorare praticamente da ragazzino e l’idea che c’era [...]]]> di Alessandro Cinquegrani

Un tema che ritorna spesso è il lavoro, soprattutto in chiave negativa come perdita del lavoro, o anche come attaccamento morboso e insensato a una macchina. È un tema classico, declinato da tanti autori anche in opere recenti. Però nella tua prosa non lo percepisco come un tema socialmente sensibile, ma piuttosto sempre come una questione privata. Sbaglio? O è una prospettiva che vuoi mantenere?

Penso che la tua analisi sia corretta. Il lavoro, fin da quando sono piccolo, ha sempre rivestito un ruolo importante per me. Io ho iniziato a lavorare praticamente da ragazzino e l’idea che c’era alla base era sempre quella del: non puoi non fare nulla. Diciamo che molti hanno ottimi ricordi delle estati di quando erano bambini, i miei si aggirano tutti attorno al lavoro perché l’estate era quel momento dell’anno in cui perdevo il contatto con i coetanei e mi infilavo in un mondo popolato da adulti. Però non lo dico con uno sfondo di vittimismo, era così per molti di noi, almeno all’epoca. C’era chi lavorava nei campi e veniva trattato come un adulto, c’era chi dava una mano nel negozio dei genitori, c’era che veniva mandato a fare l’apprendista in qualche bottega artigiana. Per questo motivo, per quel che mi riguarda, il lavoro è prima di tutto una questione personale. Non è che non veda l’esistenza di una questione sociale e non ne voglio nemmeno sminuire l’importanza, ma quella questione sociale si riverbera i milioni di questioni personali e nelle storie che racconto lo sfondo sociale si fa da parte per mostrare le persone che con il lavoro ci devono vivere, che devono nutrire i familiari, che devono vestire i figli.
Non so se manterrò sempre questa prospettiva, magari un giorno mi verrà voglia di affrontare la questione a un livello più alto, ma al momento non credo di averne gli strumenti più che altro perché la società in cui viviamo cambia a ritmi così vertiginosi che spesso mi rendo conto di non riuscire stare al passo.

“Racconto di Natale”

Eros e Thanatos: un grande tema archetipico, per lo più declinato sul fondo della festa. Mi viene in mente Eyes Wide Shut, dove pure questi temi vengono declinati sullo sfondo della festa e l’Eros resta soltanto alluso e inespresso come avviene nel tuo racconto. Ho notato però che quando affronti questi grandi temi che vanno al di là del tuo personaggio più tipico ricorri al doppio, come se avessi bisogno di una mediazione, come se non riuscissi a guardare direttamente queste cose ma delegassi un personaggio narrante a vedere e interagire con questi grandi archetipi. Succede qui e succede per Il vecchio in bicicletta, dove pure c’era un altro grande tema assoluto, per così dire, come l’utopia. Mentre sei molto diretto col tuo personaggio tipico, l’uomo solo e disprezzato dagli altri, qui sembra quasi ci sia un’esitazione dell’autore, il bisogno di guardare l’immagine riflessa piuttosto che la cosa in sé. Ti riconosci in questa lettura?

Credo di capire quello che dici. Io stesso mi sono reso conto che, almeno all’inizio, avevo bisogno di porre una certa distanza tra me e quello che scrivevo. Negli anni ho cercato di individuare il motivo di questo distanziamento ma mi sono reso conto che non ce n’era uno solo, che i motivi erano molteplici e che cambiavano mano a mano che cambiava il mio modo di scrivere. Inizialmente il distanziamento mi serviva per mascherare una certa mancanza di fiducia e l’insicurezza di chi muove i primi passi e non è convinto di riuscire a difendere la propria opera. Poi mi è servito per prendere confidenza con i temi che ciclicamente tornavano e che ora sento più miei. In un certo senso era come studia-re un manuale di meccanica prima di mettersi a smontare il motore. Nel racconto che hai appena letto il tema del doppio c’è ed è evidente, ma a mio modo di vedere l’ho utilizzato non come strumento di distanziamento ma come alter ego del protagonista. Nella mia visione di questo racconto è come se i due uomini siano in realtà una stessa persona. Se vogliamo, citando un vecchio film pop come “Sliding Doors” il protagonista è sempre lo stesso che però ha fatto due scelte diverse: Eros e Thanatos.
Durante tutto il racconto la domanda del protagonista che rimane sottointesa è: E se lo avessi fatto io? A me serviva, narrativamente parlando, che questa domanda fosse ben presente e che il lettore ricordasse il momento iniziale del racconto anche quando i toni si fanno più festosi.

Un altro punto che lega questo racconto a Il vecchio in bicicletta (e forse anche al Gatto morto) è il fatto che entrambi nascono da una immagine, direi da una visione. Mentre altri nascono da un personaggio o da una situazione. Sapresti ricostruire il processo creativo dei tuoi racconti? Capire da dove nascono?

Io non so come funzioni per gli scrittori di serie A, non so se abbiano un modus operandi sempre uguale a se stesso e se lo seguono pedissequamente. A me non capita. Mi piacerebbe avere un metodo unico, arrivare a possedere quello che a volte viene chiamato “mestiere”. Non è così.
Il più delle volte, te lo confermo, tutto parte da un’immagine. Qui sono partito dall’immagine di un uomo che stava camminando molto vicino all’orlo del binario e mi sono chiesto cosa sarebbe successo se… Anche ne “Il vecchio in bicicletta” è andata così. Mi piace partire da un’immagine per creare attorno a essa una storia compiuta, un’interpretazione di quell’immagine che coinvolga personaggi e trama.
Altre volte parto da una domanda, un classico What if?
Ma mi è anche capitato di avere avuto la necessità di buttare fuori qualcosa che avevo dentro, di elaborare uno stato d’animo, di dare una risposta personale a questioni più grandi di me.
Non so se quella che ti sto dando sia una risposta “professionale”, ma è la migliore che posso darti al momento.
In generale ti direi che i miei racconti nascono da un’esigenza che è quella di immaginare, di creare storie, di far vivere i personaggi. Questo è il fine ultimo. Il seme che porta a questo risultato ha probabilmente nature diverse e chissà, forse in futuro mi specializzerò in un metodo unico.

“Limonium Vulgare”

Scommetterei almeno un paio di centesimi sul fatto che questo racconto è stato scritto prima degli altri. La ragione è eminentemente tecnica. Ricordo bene il momento in cui la tua scrittura è cambiata. Ci conoscevamo da poco, era forse una decina di anni fa, e parlavamo molto di questi temi. A un certo punto hai capito, quasi come un’illuminazione che la scrittura letteraria è diversa dalla scrittura tradizionale, da quella imparata a scuola. Hai scoperto la velocità che – lo dice bene Simonetti – è la caratteristica principale della nostra letteratura. Per ottenere questa velocità, il modo più semplice e immediato è la frammentazione dei periodi. Si tratta di una tecnica anche molto criticata, ma credo che ci sia modo e modo di utilizzarla. Ho l’impressione che all’inizio ricorressi a questa tecnica in modo più rigoroso, mentre poi hai cominciato a utilizzarla in modo forse più personale poiché ne avevi assorbito la tecnica. Ecco, mi sembra che questo racconto appartenga al periodo più rigoroso. I periodi sono più brevi, più frammentati. Però devo dire che la cosa funziona e il racconto scorre molto bene. Ma l’altra cosa molto efficace è che forse proprio in virtù di questa tua ricerca, hai costruito un personaggio che ha lo spazio che deve avere. Nei primi racconti avevamo parlato del rischio di ingombrare un po’ i personaggi, cioè che la tua figura di autore finisse non dico per soffocare ma almeno per stare addosso ai personaggi, senza lasciare loro la possibilità di esprimersi completamente. Ora invece crei un personaggio a tutto tondo, con una sua storia, una sua parabola e un suo destino. E proprio questa libertà che lasci al personaggio permette agli altri personaggi di crescere meglio. Pensa al padre: è certamente il personaggio minore più efficace della raccolta (almeno fin qui). Mi capita di dire in alcuni corsi di scrittura che se un autore mette tutto se stesso nel personaggio principale resta poco da dare agli altri. Qui riesci invece a gestire il sistema dei personaggi nel modo migliore pur narrando il tuo tema, cioè il male del mondo. Probabilmente conta il fatto che la protagonista sia una donna, quindi necessariamente è sufficientemente lontana da te. Non è una domanda, in effetti, ma se davvero questo racconto è stato scritto prima degli altri, forse potrebbe essere l’occasione per un bilancio sull’evoluzione della tua scrittura.

Inizio con il dirti che in effetti la prima versione di questo racconto risale a parecchi anni fa. La struttura di base era la stessa, l’ambientazione pure, cambiavano alcuni particolari minori e cambiava il finale. Quando, più di recente, ho deciso di riscriverlo perché la storia continuava a piacermi e perché secondo me la protagonista e il padre avevano delle potenzialità ho voluto mantenere inalterata la voce e la struttura. Ecco quindi che è rimasto quell’utilizzo rigoroso della frammentazione del periodo.
Detto questo, non so se sono in grado di fare un bilancio dell’evoluzione della mia scrittura. Un bi-lancio secondo me viene bene quando si è profondamente consapevoli della propria scrittura e dei propri mezzi e a me pare di non essere ancora riuscito a raggiungere una forma definitiva, come se fossi ancora nel pieno di una fase di profonda evoluzione.
Un paio di cose però penso di averle capite. Rispetto alle prima cose che scrivevo che erano molto più asfissianti credo di aver imparato a far respirare un po’ la storia. Mi capitava di scrivere un racconto e siccome si trattava comunque di una storia cupa tutto il tono del racconto restava cupo e il ritmo era quasi monotono. Mi sono reso conto che per rendere ancora più buie le zone d’ombra c’è bisogno di un po’ di luce.
Di conseguenza credo di aver fatto qualche passo in avanti anche sulla gestione del ritmo all’interno del racconto e anche sulla costruzione della trama.
Si tratta di un work in progress naturalmente perché, per come la vedo io, sono solamente all’inizio di un percorso che mi auguro mi porti a guadagnare una certa lucidità e consapevolezza in riferimento alle cose che scrivo.

Un personaggio distante da te, dicevo, ma anche, finalmente, ricorri a un’ambientazione che è molto tua, che conosci molto bene e che è estremamente suggestiva: quella di un luogo di villeggiatura molto noto, Jesolo, con le sue dinamiche stagionali e le ricadute che questo ha sulla popolazione. Ma lo racconti in modo molto autentico, senza stereotipi, proprio perché lo conosci bene: penso ad esempio al padre della protagonista che lavora nei campi, o alla metafora dell’Islanda. Io credo che questa sarebbe l’ambientazione perfetta per un romanzo. Che rapporto hai con questi luoghi dove sei cresciuto?

Quando sentivo dire che uno scrittore dovrebbe scrivere solo di ciò che conosce mi veniva un attacco di depressione perché, devo ammettere, c’è poco che io conosca davvero. Ho una buona dose di curiosità, mi piace imparare cose nuove ma “conoscere” per quel che mi riguarda ha un significato pro-fondo.
Come dici bene tu, Jesolo e Cavallino (il posto in cui sono vissuto fino ai trent’anni) sono la mia terra, sono un paesaggio che conosco bene, hanno delle dinamiche che conosco (o almeno conoscevo).
Anni fa ho scritto un racconto che aveva come ambientazione proprio questo scenario e l’ho presen-tato a un concorso letterario. Mi è stato detto che non se ne poteva più di racconti ambientati in provincia. Ecco, quel commento sprezzante devo dire che mi ha ferito e ha prodotto un blocco di parecchi mesi. Se dovevo scrivere di quello che conoscevo e quello che conoscevo aveva rotto le scatole che spazio c’era per me?
Il tuo primo libro, che io considero uno dei libri più belli che io abbia mai letto e che tuttora mi per-seguita, aveva un’ambientazione provinciale, ma nel secondo, che trovo altrettanto meraviglioso, il respiro è molto più ampio e l’ambientazione è tutt’altro che provinciale.
Io credo che tu abbia trovato il modo per andare oltre perché hai una profonda conoscenza dei temi e della materia che da vita a “Pensa il risveglio”.
La domanda “che spazio c’è per me?” è una domanda che in parte resta ancora aperta anche se al momento mi preoccupa meno. Quello che mi preoccupa è riuscire a scrivere perché non è affatto scontato.
Ho iniziato a scrivere un romanzo ambientato a Cavallino perché ho sentito la necessità di farlo e perché mi pareva di aver trovato la storia giusta da raccontare. Avrà un’ambientazione provinciale? Certo. Sarà un problema? Non ne ho idea ed è prematuro pensarci. Adesso mi interessa portarlo a termine prima di andare in pensione.
Per quel che riguarda il mio rapporto con i luoghi in cui sono cresciuto penso che non sia molto diver-so dal rapporto che tante persone hanno con i luoghi che li hanno visti crescere: odio e amore.
Dal punto di vista paesaggistico il Litorale del Cavallino è uno spettacolo. Barena da una parte, spiag-gia e mare dall’altra. Quando il cielo è limpido, dalla parte della Barena si vedono le montagne e i tramonti sono sempre uno spettacolo di colore.
Quando mi capita di tornare da quelle parti mi trovo sempre bene e l’andarsene è sempre carico di nostalgia.
D’estate Cavallino viene invaso da centinaia di migliaia di turisti e in autunno tutto sparisce nella nebbia. In fin dei conti è un luogo bipolare.
Forse però lo sto sentendo più mio ora di quando non ero ragazzo. Quando ero ragazzo ero convinto che mi stesse stretto, ero certo che “lì fuori” c’era qualcosa che mi aspettava. Non c’era.

“Willa non si allontana mai di casa”.

Ma cosa ti hanno fatto di male i gatti?

Immaginavo che prima o poi qualcuno se ne sarebbe accorto. Alcuni di questi racconti sono stati pubblicati su rivista nel corso degli anni per cui la presenza di gatti, alcuni dei quali destinati a brutta fine, non era mai stata così massiccia come ora.
In realtà i gatti non mi hanno fatto nulla di male e pur non avendone nemmeno io li adoro.
La loro presenza ha a che fare con due cose ben precise. La seconda, sì, inizio dalla fine, è relativa a una cosa detta da Murakami e che ho letto qualche tempo fa. Penso fosse un’intervista che aveva a che fare con “L’uccello che girava le viti del mondo” romanzo che io all’epoca trovai eccezionale. In quell’occasione Murakami disse all’intervistatore che gli capitava di inserire almeno un gatto in ogni cosa che scriveva perché la prima volta che l’aveva fatto era stato pubblicato e quindi si era convinto che i felini gli portassero fortuna. A me è capitata una cosa simile quindi quando posso inserisco sempre un gatto.
Ma la ragione principale in realtà è la prima. Per me il gatto incarna vari aspetti dell’essere umano. In-carna l’indipendenza, l’indolenza, il fascino, la pericolosità e tante altre caratteristiche. I gatti sono animali misteriosi. In questo racconto il gatto rappresenta la sanità mentale che viene distrutta dalla malattia.

Questo è quel tipo di racconto che lascia una sensazione strana nel lettore, una sensazione di sospensione, il bisogno di sapere, di capire di più. È così che funziona un racconto: quando continua a lavorare nella tua testa per giorni e non se ne va. In più dai forma a qual-cosa che conosciamo ma a cui non sappiamo dare un nome, diventa qualcosa di mitologico. Per fare questa operazione, letterariamente eccellente, c’è bisogno di una grande fiducia nei propri mezzi e anche nel lettore. Non c’è bisogno di spiegare, di dare formule e soluzioni. Ho l’impressione che l’autore di questo racconto sia diverso da quello dei primi, quello mi sembrava più esitante, meno fiducioso, aveva bisogno di dire, di rendere esplicito. Credo che qualcosa di decisivo sia cambiato. Non è necessariamente un giudizio di merito, anche se io preferisco questo autore, mettermi accanto a lui e guardare con stupore le vicende di questi personaggi.

Io e te ne abbiamo parlato di recente. Nei giorni successivi alla pubblicazione di “Un posto difficile da raggiungere” mi sono arrivati alcuni feedback di lettori forti e competenti. Ciò che mi ha sorpreso è stato constatare che ognuno di loro, come è ovvio che sia, aveva uno o due racconti che preferiva rispetto agli altri, ma che questi racconti raramente combaciavano. Qualcuno ha amato molto “La macchina che produce gli ingranaggi” che, se non ho capito male, rientra un po’ nel filone del “rende-re esplicito” mentre altri hanno apprezzato di più “Willa non si allontana mai da casa” e “Gli inquilini del piano di sotto” che invece potremmo far rientrare nei racconti “fiduciosi”.
Potrei essere tentato di dirti che la diversità che vedi sia una questione di pura e semplice evoluzione della scrittura, ma non sono sicuro che sia davvero solo questo aspetto a differenziare i racconti. Credo che una parte della differenza nasca anche dal tipo di storia che ho raccontato. Nel caso de “La macchina che produce gli ingranaggi” ho lavorato molto di più sul dettaglio, ho sentito l’esigenza di raccontare attimo per attimo alcune scene perché io stesso le vedevo nella mia mente dipanarsi attimo per attimo.
Con “Willa non si allontana mai di casa” invece, forse anche per il fatto che l’input iniziale me l’ha dato l’immagine di un cielo oscuro illuminato da lampi e con i tuoni che sembravano colpi di tamburo, ho proceduto in maniera diversa, con un taglia e cuci, se mi permetti il termine, più intenso e calcolato. Inoltre, in questo racconto, non era importante per me che il lettore arrivasse alle mie stesse conclusioni, ma che percepisse una sorta di perturbazione nell’anima del personaggio principale.

“La statua sulla colonna”

Anche questo racconto è come il precedente. Crea un mito macabro, lavora forse sugli stessi temi dei primi racconti, ma la sua dimensione irrazionale crea uno spazio dell’immaginazione inedito. La statua è proprio il simbolo del perturbante. Si ha la sensazione di affondare nell’inconscio. Quasi che siano nati in uno stato di trance visionaria. Ti ci riconosci?

Il perturbante mi affascina molto, non c’è dubbio. Amo poi quei racconti in cui la narrazione resta sempre in bilico tra il naturale e il soprannaturale, quei racconti in cui tutto sembra filare per il verso giusto e poi, un singolo elemento, ci fa capire che quello che abbiamo letto fino a ora non ha nulla a che vedere con il mondo che ci circonda ma si incastona in una realtà altra che può essere inquietante e spaventosa.
La statua di questo racconto è una specie di idolo, qualcuno a cui si presenta un sacrificio. Inizialmente è una presenza garbata mentre alla fine è un catalizzatore della pazzia.
In una delle domande precedenti hai parlato di “racconto sull’ansia”. “La statua sulla colonna” è la mia idea dell’ansia. Non tanto per quel che riguarda la statua, ma per il rito che compie il protagonista, un rito che fino alla fine sembra essere unico, ma che invece si rivela parte di una serialità terrificante.

Un altro cambiamento riguarda la forma brevissima. Mi sembra sia perfettamente nelle tue corde. Associ a questa forma un genere così perturbante o è un caso?

Mi fai una domanda a cui non avevo mai pensato e non so se ho una risposta concreta da darti, posso però provare a riflettere.
Non credo di associare la forma breve al perturbante, o almeno non a livello coscio. Credo più semplicemente che mi sia più congeniale, raccontando certe storie, mantenere un numero di battute più basso per non diluire troppo la forza della storia.
Credo, per quel che mi riguarda, che nel raccontare storie perturbanti sia necessario trovare un equilibrio che permetta di delineare una cornice ben chiara, portare i lettori in un luogo bene preciso che possa essere ben raffigurato e poi, una volta messi a loro agio ecco che arriva il colpo di accetta sulla nuca.
Questa però è solo una mia idea e, ti ripeto, non avendoci mai pensato prima, non so se in futuro scriverò un racconto perturbante di ottantamila caratteri.

“Gli inquilini del piano di sotto”

Ecco un altro mito macabro, questi racconti hanno una compattezza molto efficace. Mi chiedo se per te questi inquilini abbiano un significato preciso o meno. A me come lettore piace pensare che non ce l’abbiano: in fondo è questo il fascino di raccontare storie invece di dire cose.

Giusto oggi, una persona che ha letto la raccolta, mi ha scritto per dirmi che il suo racconto preferito è stato “Gli inquilini del piano di sotto” perché i carnivori sono la metafora perfetta di questa società che ci sta cannibalizzando.
Io quando ho scritto questo racconto non stavo pensando assolutamente alla nostra società, ma pensandoci bene capisco perché a questa lettrice sia venuto in mente questo paragone e tutto sommato direi che è pure calzante.
Questo racconto nasce dall’influenza di uno dei migliori romanzi italiani degli ultimi dieci anni e cioè “La carne” di Cristò. Io non uso mai la parola capolavoro, ma per questo libro credo che sia utilizzabile. Volevo riprodurre quelle atmosfere cupe e carnali che mi avevano tanto affascinato, ma l’influenza principale, quella che mi aveva portato a scriverne una prima versione almeno una ventina di anni fa, deriva del racconto “La casa occupata” di Julio Cortázar. Anche in questo caso un racconto perturbante.
Comunque, quando dici che ti piace pensare che gli inquilini non abbiano un significato preciso, sposi la mia stessa linea di pensiero. A me interessava giocare con l’atmosfera, con il senso di angoscia, con la paura per qualcosa di più grande di noi. Vedi? Forse sto parlando ancora di ansia, non è un caso che la versione definita sia nata durate il marzo della prima quarantena Covid. Credo che questa sto-ria abbia assorbito molto del mio stato d’animo.

Poi anche qui c’è la scrittura. L’io narrante scrive prima della sua fine. Forse è un paradigma del tuo modo di intendere la scrittura? Almeno in questi racconti così estremi, così “ultimi”.

L’io narrante scrive prima della sua fine perché vuole lasciare traccia del suo passaggio, vuole lasciare un pezzo di sé anche quando non ci sarà più e, nel suo caso, è disposto anche a lasciare un’immagine terribile.
Non l’avevo pensata in questi termini ma credo che al di là del piacere di raccontare storie, anche io, come molti, scrivendo cerco di aggirare le restrizioni della morte. Forse ho la speranza che ci sia qual-cosa di mio anche dopo che il mio corpo fisico non ci sarà più e i miei neuroni avranno smesso di produrre elettricità.
L’idea della letteratura che rende immortali mi ha sempre affascinato. Ovviamente qui vanno fatte le dovute distinzioni. Per quel che mi riguarda si tratta di un’immortalità relativa, diciamo legata alla cerchia familiare, mentre per altri grandi scrittori si tratta di un’immortalità assoluta. Tutti leggono Kafka, Shakespeare, Dante e altri scrittori di questo calibro. Io non punto a tanto ovviamente, ma la speranza è che ci sia qualche mia storia buona al punto da sopravvivermi. Non so se sia un segnale di arroganza, io la vedo più come paura di ciò che è inevitabile.

“Mi basta Gesù”

Se non sbaglio è la prima volta che parli, sia pure in un modo tragicamente grottesco, di re-ligione o almeno di mito evangelico. Che rapporto hai con la religione? E in più: pensi che questo abbia a che fare con la tua idea di scrittura? Voglio dire: dalle risposte precedenti si evince che tu hai un’idea molto alta della letteratura che addirittura avrebbe il potere di so-pravviverti. È un’idea che per esempio io che dedico la mia vita lavorativa e non solo alla letteratura non ho minimamente. Proprio questa forza di sopravvivere alla propria morte è co-munemente demandata alla religione, invece tu affidi questa sacralità alla letteratura.

Io non possiedo il dono della fede. Invidio che ce l’ha, ma a me manca. Penso che si possa partire da qui per identificare il mio rapporto con la religione. E credo anche, come fai notare tu, che questa mancanza abbia a che fare anche con il rapporto che ho con la letteratura e la scrittura. A volte mi rendo conto di cercare nei libri qualcosa di cui sento l’assenza, cerco di riempire un vuoto passando da un romanzo all’altro anche se mi rendo conto che quel vuoto non si riempirà mai nemmeno se do-vessi leggere tutti i libri mai pubblicati. E forse è anche per questo motivo che ho un’idea molto alta della letteratura. L’ho sempre avuta. Se dovessi cercare di capirne il motivo credo che dovrei tornare all’adolescenza. In casa mia non c’erano molti libri, anzi, praticamente nessuno, ma mia zia lavorava in una biblioteca per cui mi capitava ogni tanto di andarla a trovare e mi piaceva girare per gli scaffali, prendere in mano un libro, leggerne alcune pagine e poi rimetterlo al suo posto. Ho iniziato a leggere con più costanza verso i diciassette anni e quando mi sono trovato tra le mani libri come “Niente di nuovo sul fronte occidentale”, “La linea d’ombra” o “I dolori del giovane Werther” ho avuto una rea-zione molto forte. Prima di tutto mi sono reso conto che gli autori di quei libri erano morti, ma la loro opera circolava ancora. Poi ho capito che mi sarebbe piaciuto far sentire agli altri le emozioni che avevo provato anche io con dei testi tutti miei. Purtroppo per me, essendo dotato anche di qualche tara caratteriale, il tutto si è risolto con un conflitto tra la voglia di scrivere e l’idea di non esserne de-gno che nonostante tutto continua ancora. Questo è anche uno dei motivi per cui, quando mi acco-stano a uno scrittore famoso, quando cioè mi dicono: sai, questa cosa mi ha ricordato il primo Fante, io non sono mai come rispondere e finisco per fare scena muta. Io capisco bene che l’accostamento non è un accostamento di valori ma di affinità di temi o magari di somiglianza alla lontana eppure mi pare sempre “blasfemo”.
In questo racconto la religione viene accostata a uno dei maggiori simboli del pop che l’umanità abbia mai prodotto e a me piaceva giocare su questo binomio perché entrambi gli elementi, in qualche mo-do, fanno parte di un sistema di fede. Ho voluto metterli sullo stesso piano.

Un tema che nella tua vita è molto importante è quello della paternità, e in particolare del bi-sogno di protezione verso i figli. Nei tuoi racconti non compare molto se non qui e forse in Limonium vulgare. Come mai tocchi così poco un tema che ti è così caro secondo te?

Bella domanda. Pensa che per quel che mi riguarda quello del rapporto padre e figlio è un tema che ho trattato anche troppo. Probabilmente la mia percezione è diversa perché questo rapporto è il nucleo di un romanzo inedito a cui ho lavorato per anni e quindi ho l’impressione di essere sempre imprigionato in questa tematica. Pensandoci bene, in questa raccolta, anche ne “Il rito” c’è un rapporto padre e figlio, mentre in “Un gatto morto sul ciglio della strada” c’’è, sullo sfondo, una paternità mancata.
Non posso prevedere il futuro ma, siccome questo è sicuramente uno dei temi a cui tengo di più, sono quasi certo che in futuro tornerò a sporcarmici le mani. Soprattutto riguardo alla protezione nei con-fronti dei figli e l’ansia di controllare tutte le minacce sapendo che si tratta di un’impresa folle.

“Bar posta”

Questo racconto parla di “Un posto difficile da raggiungere” e infatti il protagonista ci arriva per puro caso dopo alcune vicissitudini. Questo posto è una sorta di cronorifugio privato, per dirla con Gospodinov. Pensi che possa essere una delle chiavi di lettura dell’intera raccolta? Una sorta di rifiuto del presente e un desiderio di rifugio in un passato irraggiungibile?

“Bar posta” è indubbiamente un rifugio. La sua genesi ha a che fare con la mia infanzia. Prima di tutto il Bar posta in qualche modo esiste davvero. E’ semplicemente un collage di alcuni luoghi che ho frequentato da bambino quando andavo in vacanza in Toscana con i miei genitori. Avevo dei parenti lì, li andavamo a trovare tutte le estati e quando facevamo una gita tra i tornanti restavo sempre affascinato da questi piccoli locali che sembravano provenire da un’altra epoca. Erano completamente diversi da quelli che ero abituato a frequentare io nel mio paese. C’era, in questi posti, la sensazione che il tempo andasse a una velocità diversa, più lenta e che una parte del mobilio provenisse da un’epoca lontanissimo. Nel posto in cui andavo c’era davvero una saletta sotterranea in cui avevano messo una cabina telefonica, c’erano davvero gli anziani che giocavano a carte, guardavano il Giro d’Italia e bestemmiavano. E c’erano i gagliardetti, la polvere depositata, le file di liquori dai colori e dai nomi più improbabili. Ho semplicemente preso da dentro di me qualcosa che mi aveva affascinato quando ho sentito la necessità di rallentare il ritmo. Di ascoltarmi meglio. Questo è quello che fa il protagonista, inizia ad ascoltarsi.

Il protagonista di questo percorso a ritroso nel tempo è il solo, mi sembra, tra i tuoi personaggi che abbia un buon lavoro e una sorta di realizzazione professionale. Eppure è proprio lui a vivere in modo più esplicito il desiderio di tornare a un passato più umile. C’è in questo anche una critica sociale? E – te la pongo come provocazione – non c’è un po’ un rischio che il messaggio sia che si stava meglio quando si stava peggio, cioè una sorta di messaggio qualunquistico, fuori dalla realtà, secondo cui i poveri sono felici e i ricchi piangono?

Quella che tu poni come provocazione è un dubbio che mi ha accompagnato fin dalle prime fasi di stesura di questo racconto. Se il lettore dovesse percepire che il messaggio è appunto “ i poveri sono felici e i ricchi piangono” allora significherebbe che ho scritto un racconto che non funziona perché il mio messaggio, se davvero un messaggio vuole esserci, non ha nulla a che fare con la bellezza del mondo bucolico. A me interessava guardare all’aspetto del ritmo che ognuno di noi imprime nella propria vita e alla successione di tappe, spesso serrate, che ci costringiamo a toccare per sentirci realizzati.
“Bar posta” non è un racconto sul passato meraviglioso e puro messo a confronto con il presente orrido e cattivo, ma è un racconto che parla di tempo, di assaporare le cose con calma, di riscoprire il gusto per le piccole cose. Niente di tutto ciò è impedito al ricco. Il protagonista non decide di lasciarsi tutto alle spalle buttando alle ortiche una vita di sacrifici, ma decide di fermarsi un attimo, guardarsi attorno, vivere l’esperienza che gli è capitata per caso. Poi io sono convinto che ci sia una certa saggezza nelle cose di una volta, ma che la stessa saggezza possa essere ritrovata anche oggi, deve so-lo essere scovata e per farlo c’è bisogno di poco rumore di fondo.

“Invictus Maneo”

Carino il gioco di parole del titolo con lo zaino Invicta. Ma mi piace come sei in grado di creare un’atmosfera passata attraverso oggetti, canzoni, programmi televisivi. Però vorrei tornare sulla genesi dei racconti e sul rapporto con la realtà perché mi pare che questo racconto aiuti molto a ragionare su questo. Tu in Inghilterra sei stato da studente, forse proprio a Reading (non mi ricordo esattamente), dove è ambientato il racconto. Non so se ci sia un reale discrimine ma provo a chiederti: un racconto come questo secondo te serve a raccontare quella tua esperienza, ovviamente trasfigurandola narrativamente, oppure Reading è lo sfondo di un racconto che poteva anche essere ambientato altrove?

Sì, io ho fatto l’Erasmus a Reading un posto che non avevo mai sentito nominare e che poi è diventato importantissimo per la mia vita. Al di là di questo aspetto autobiografico, credo che questo racconto potesse nascere solo con lo sfondo di Reading e in un certo senso è profondamente legato all’avventura Erasmus.
I due protagonisti di questo racconto si trovano a condividere uno stesso luogo. Il fatto di essere italiani in terra straniera, come spesso succede, li avvicina anche se a dirla tutta non sembrano avere molti punti in comune. Ma la cosa più importante, per me, è che i due protagonisti vivono la città in maniera diversa, per uno di loro è un punto di partenza mentre per l’altro è un punto di arrivo. Tu parli di atmosfera creata con oggetti, canzoni, programmi TV. Io credo che siano i dettagli apparentemente più insignificanti a rendere più credibili le storie che scriviamo. Nei gli anni novanta fino ai primi anni duemila, se all’estero vedevi uno zaino Invicta sapevi che chi ce l’aveva sulle spalle era un italiano. E sapevi che quello zaino sarebbe stato pieno di spillette e scritte e che quelle scritte sarebbero cambiate in base alla boy band del momento. Sono questi dettagli che mi tengono ancorato a una storia.
Cerco di concludere. In questo racconto non ho voluto raccontare la mia esperienza da studente Erasmus, ho voluto provare a raccontare ciò che succede nel momento in cui incontri una persona in un dato momento della tua vita, una persona che non hai mai visto prima e non vedrai dopo, ho voluto provare a raccontare delle cose che ci lasciamo addosso quando ci avviciniamo l’un l’altro, quelle spillette che attacchiamo ai nostri zaini.

Torni al tema del doppio, dell’essere o non essere l’altro che si incontra casualmente. Si sente molto qui il mistero della vita, o meglio direi delle vite potenziali, delle sliding doors. Io direi che questo mistero è il bello della vita, invece sembra che a te spaventi, forse perché incontrollabile. È così?

Adesso di parlo di pagina bianca. Quando mi metto a scrivere e ho davanti una pagina bianca molto spesso mi si affaccia davanti agli occhi un turbinio di linee e simboli, quasi una matassa. Da quella matassa io devo estrapolare qualcosa che abbia un senso. Voglio raccontare una storia, ho magari già chiaro il personaggio principale, ciò che gli può succedere e magari ho addirittura il finale. Sembra una situazione vincente, no? Eppure io, davanti a quella pagina bianca, davanti a quel groviglio indistinto che mi si para davanti continuo a chiedermi: qual è la strada giusta? Qual è l’unica strada che deve percorrere questa storia? La strada che può rendere questa storia unica.
E quindi sì, si stratta di lavorare continuamente sulle sliding doors, di scegliere di volta in volta da quale parte del bivio girare.
Poi quando ho messo il punto finale mi fermo a pensare se ho davvero scritto la migliore versione di ciò che avevo in mente, se invece non debba tornare indietro di qualche pagina e, a quel bivio lì, prendere l’altra strada.
Non sono spaventato da queste infinite possibilità perché in effetti, mal che vada, il racconto resta nel cassetto assieme a gli altri. Mi rendo conto però che a volte mi capita di pensarla in questi termini anche in relazione alla vita di tutti i giorni e so che utilizzare lo stesso sistema pensato per i racconti è impossibile. So che le sliding doors nella vita ci sono e so che spesso nemmeno ci accorgiamo di averne attraversa una eppure la tendenza a rimuginare sul “What if” è sempre presente.
Penso sia una delle cose più efficaci per generare ansia per cui sto cercando di lavorarci un po’ su per limitare la sua presenza nella mia vita.

“Il bambino interiore al campeggio”

Il bambino interiore rappresenta in qualche modo l’aspettativa altrui, se capisco bene, l’invito implicito ad essere o non essere in un certo modo. Il protagonista lo scopre in modo inaspettato e inconscio, da una persona che quasi disprezza forse anche per le differenze sociali. Sembra che lo viva come una pressione negativa, però alla fine ha un influsso positivo sul protagonista. Come interpreti questa pressione inconscia che in fondo è in tutti noi?

Qui torniamo in qualche modo ai racconti che sono legati al territorio in cui ho passato la mia infanzia, la mia adolescenza e in cui sono diventato adulto.
Il bambino interiore è, nel racconto, quella parte del nostro cervello che ci avvisa che stiamo per rag-giungere una tappa ben precisa o che dobbiamo lasciarci alle spalle un momento della nostra vita. Per chi ha vissuto la stagionalità rigida che vivono gli abitanti delle mete turistiche sa che anno dopo an-no alcune dinamiche si ripropongono. Aprono i campeggi, iniziano ad arrivare i primi turisti tedeschi, poi arrivano i turisti danesi, poi ritornano i tedeschi e infine, in massa, arrivano gli italiani e poi, a settembre, quello che era in principio uno spiazzo verde costellato di roulottes, tende e camper, diventa di nuovo uno spazio vuoto e desolato. L’anno dopo riparte tutto da capo e, di anno in anno, inizi a pensare che il tempo non vada veramente avanti, che tutto sia bloccato in un perenne ora fatto si spiagge e pelle abbronzata.
A un certo punto per me è arrivato il bambino interiore che, in fin dei conti, non ha fatto altro che dirmi: guarda che è ora di andare avanti, per te è ora, puoi andare avanti mantenendo un contatto con il bambino che è in te, quello che sguazzava tra i cavalloni, ma credimi, è meglio se ti muovi perché per te qui non c’è altro.
Il protagonista prende la decisione che fa per lui, altri restano e per loro va bene così, non tutti affrontiamo lo stesso percorso.

Non me l’aspettavo e me ne compiaccio: il tuo romanzo a variazioni finisce bene, il tuo protagonista trova una propria dimensione nella maturità, nella famiglia. Che sia proprio questo il posto difficile da raggiungere? La serenità della famiglia? Forse alla fine l’hai raggiunto anche tu, nonostante le paure, le angosce rappresentate in questo libro, quel posto così difficile e in fondo così semplice? Te lo auguro.

Alessandro Busi, scrittore e psicologo, dopo aver letto il mio libro mi ha scritto per dirmi che gli era sembrata una raccolta piena di speranza. A me piace pensare che lui abbia ragione perché, anche se qualcuno, in passato, mi ha detto che scrivo sempre cose tristi, per me la speranza sta anche nel far intravedere che c’è uno spiraglio tra le nuvole che abbiamo davanti a noi.
Il protagonista di “Un gatto morto sul ciglio della strada” avrà vita facile dopo il finale del suo racconto? Assolutamente no. La protagonista di “Limonium Vulgare” avrà la vita e il lavoro che desidera? Non ne ho idea, me lo auguro, ma non lo posso sapere. So però che davanti a lei c’è uno sprazzo di luce e so che farà di tutto per seguirlo.
Sì, forse il posto difficile da raggiungere è una certa serenità di animo che, per quel che mi riguarda, significa anche sapere accettare i miei limiti e i miei difetti in quanto essere umano imperfetto e capa-ce di errare. Non so se ho raggiunto quel posto, so che mi sembra che la strada sia quella giusta e intanto metto un piede davanti all’altro.

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A noi due! Conversazione con Gianluigi Bodi su “Un posto difficile da raggiungere” 1/2 https://www.carmillaonline.com/2024/02/08/a-noi-due-conversazione-con-gianluigi-bodi-su-un-posto-difficile-da-raggiungere-1-2/ Thu, 08 Feb 2024 21:00:38 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=81065 di Alessandro Cinquegrani

Quando è uscito il mio secondo romanzo Pensa il risveglio, mi è capitato di chiedermi come mi sarebbe piaciuto confrontarmi coi lettori. E mi sono risposto – devo ammetterlo – che mi sarebbe piaciuto spiarli durante la let-tura: e non solo spiarli e trovarli in poltrona o a letto o seduti su una sdraio in spiaggia o sulla scrivania, ma conoscere i loro pensieri, le loro previsioni, le loro perplessità e emozioni. Così quando è uscito il libro dell’amico Gianluigi Bodi Un posto difficile da raggiungere (Arkadia 2023) e mi sono riproposto di fare qualcosa di insolito per celebrarlo, [...]]]> di Alessandro Cinquegrani

Quando è uscito il mio secondo romanzo Pensa il risveglio, mi è capitato di chiedermi come mi sarebbe piaciuto confrontarmi coi lettori. E mi sono risposto – devo ammetterlo – che mi sarebbe piaciuto spiarli durante la let-tura: e non solo spiarli e trovarli in poltrona o a letto o seduti su una sdraio in spiaggia o sulla scrivania, ma conoscere i loro pensieri, le loro previsioni, le loro perplessità e emozioni.
Così quando è uscito il libro dell’amico Gianluigi Bodi Un posto difficile da raggiungere (Arkadia 2023) e mi sono riproposto di fare qualcosa di insolito per celebrarlo, mi sono posto nella posizione di quel lettore che volevo spiare e mi sono aperto via via che leggevo all’interlocuzione con lui. Posizione rischiosa, me ne rendo conto, poiché si rischia di mostrarsi vulnerabili, di prendere piste che poi si riveleranno sbagliate, di assumere posi-zioni che poi, a lettura completata, possono essere smentite.
Ma il rischio si può prendere per un amico. E io avevo un vantaggio: questo è un libro di racconti, che dunque hanno una certa autonomia, anche se – lo si vedrà via via nell’intervista -, questa autonomia è in parte smentita. Oltre al rischio, però, c’è un vantaggio, ovvero quello di provarsi in un genere nuovo: l’intervista in fieri, la ri-flessione che si sviluppa leggendo e non si ricompone a posteriori, come spesso capita. Dalla quale emergono sempre ipotesi ma anche dubbi, tracce, rielaborazioni. Qualcosa di nuovo, mi sembra, rispetto a recensioni e interviste che giocoforza riprendono moduli noti. La formula è semplice: per ogni racconto ho fatto due do-mande a Gianluigi e gliele ho scritte prima di leggere il racconto successivo. Il titolo di ogni sezione è semplicemente il titolo del racconto che si trova nel libro.
A conti fatti, il gioco è stato utile, forse troppo lungo, ma utile a me e – spero – anche a lui, perché la progressiva mutazione del lettore ha suscitato qua e là la reazione dell’autore. È un gioco speculare a quello della scrittura in cui all’azione dell’autore corrisponde la reazione del lettore che si cerca di intuire e di anticipare. Non me ne voglia Gianluigi (al quale concedo tutti gli opportuni scongiuri) se concludo con una frase del celebre saggio di Roland Barthes sulla morte dell’autore: «per restituire alla scrittura il suo avvenire, bisogna rovesciarne il mito: prezzo della nascita del lettore non può che essere che la morte dell’Autore» (ma simbolica, simbolica!). Viene allora in mente la celebre dedica-sfida che Bufalino appose a esergo delle sue Menzogne della notte: a noi due!

“Il potere taumaturgico di Mike Bongiorno”

Mi pare che la scelta di Mike Bongiorno come correlativo oggettivo di un’epoca sia molto efficace. È il tempo della televisione, della scatola delle meraviglie nella quale tutto è bellissimo e tutto è possibile. Tu associ giustamente quel mondo all’epoca dei nonni: sono loro che subiscono questo fascino. Da allora ad oggi le cose sono molto cambiate, la televisione non ha più quel ruolo, che è stato assunto dai social che però hanno logiche molto diverse. Come interpreti questo passaggio epocale? O meglio: come lo interpreti tu e come lo interpreta il tuo protagonista per il quale uscire da quel mondo rappresenta quasi un rito di passaggio verso la maturità. Ma c’è anche qualcosa di nostalgico nel tono del racconto?

Parto dalla tua ultima domanda. C’è sicuramente un tono nostalgico nel racconto che forse è dovuto al fatto di aver vissuto l’epoca della nascita delle TV commerciali quando ero molto piccolo. C’era la sensazione, o forse il messaggio era molto esplicito ma io lo coglievo solo marginalmente, che tutto fosse possibile e che tutto fosse a portata di mano. Per un bambino che viveva in un piccolo paese quel tipo di sollecitazioni aveva-no un grande potere anche sui sogni e le mete future da porsi. Oggi mi rendo conto che quel messaggio, quel “se puoi vuoi” è sbagliato e ha implicazione che si sono riverberate nei decenni e che hanno procurato ferite profonde non solo sulla psiche delle persone, ma anche sulla società e l’ambiente che ci circonda.
Tornando al racconto però mi viene da dire che Mike Bongiorno sia il simbolo di una nuova fede, qualcuno che approfittando della fiducia che le persone nutriva per il mezzo televisivo ha instillato nelle menti più suggestionabili un nuovo credo consumistico. Non sono un teorico dei mass media e non sono uno studioso dei social, ma mi pare abbastanza evidente che pur essendosi evoluto il mezzo, e avendo, come dici tu, logiche diverse, c’è ancora questo potere quasi mistico che influenza i fruitori dei social network. Un potere che forse deriva proprio dall’epoca delle prime TV commerciali nelle quali ci è stato insegnato a credere a ciò che proveniva dall’altra parte del tubo catodico perché scintillante, perché privo di conflitti e, in fin dei conti, saturo di bellezza. E non si poteva non credere a qualcosa che era così bello. Oggi si tende non a ciò che è bello, ma a ciò che da una versione dei fatti più consona ai nostri gusti personali, quasi come se cercassimo in ogni notizia una dose di serialità televisiva.
Per quel che riguarda invece la voce narrante di questo racconto l’atteggiamento nel nonno sembra quasi quel-lo di un devoto a un culto pagano, sembra al limite della pura superstizione. Lo guarda un po’affascinato e un po’con distacco, ma in ogni caso non può non rendersi conto degli effetti tangibili che il buon Mike ha prodotto nello stile di vita della famiglia. In fin dei conti è come se si rendesse conto che nemmeno lui, che ha studiato e si è “emancipato”, può fuggire dal fascino della TV.

Quando leggo mi è inevitabile mettere in relazione la scrittura che trovo con la mia, e lo faccio tanto più con te che sei un amico. Mi pare che in questo racconto – ma anche in altri – tu abbia una grande capacità di creare un clima, un ambiente molto credibile e concreto, però per come intendo io la scrittura, mi pare che manchi, diciamo così, il colpo di grazia al lettore, cioè mi pare manchi quasi la scena madre. Io ho il problema contrario, l’assenza di frequenti scene madri mi metterebbe in imbarazzo, come se non donassi abbastanza al lettore. Sei d’accordo con questa lettura del tuo racconto? E, se sì, da dove credi nasca questa scelta, dalla tua conoscenza del minimalismo americano? Dalle lezioni di scrittura che hai frequentato? E forse, prima di queste domande: è una scelta consapevole?

Mi fai riflettere su una cosa a cui non avevo mai pensato in questi termini. Se, come dici tu, manca una scena madre, la cosa non mi disturba. O almeno diciamo che non mi disturba in questo racconto. E il motivo per cui almeno in questo racconto non mi disturba è che nello scriverlo sono partito dall’idea di raccontare un momento storico ben preciso attraverso gli occhi di un bambino che vede dipanarsi davanti a sé un cambia-mento a cui saprà dare un’interpretazione personale solo decenni dopo. Volevo che il fulcro della narrazione fosse quello di una crescita emotiva e non ero interessato a costruire una scena madre rivelatrice. Poi, come dici tu, questo tipo di narrazione da qualche parte deve arrivare e per quel che mi riguarda non ho mai fatto mistero di essere stato affascinato da Carver e dal suo scrivere asciutto. Poi sai, possiamo stare qui a discutere se sia lo stile di Carver, se sia lo stile di Gordon Lish, se sia davvero minimalismo oppure no, ma il succo è che nel momento in cui sono venuto a contatto con i racconti di Carver mi sono trovato davanti una lettera-tura fatta di piccole storie, di drammi personali, di leggere sfumature emotive e devo dire che l’ho amata fin da subito. Detto questo, non voglio imitare Carver, non voglio scrivere come lui (anche perché mi sarebbe impossibile) ma vorrei, se mi fosse possibile, proseguire un percorso di scrittura che mi si addica e che mi assomigli.
Anni fa mi sono imbattuto in una definizione della scrittura di Carver che trovo molto aderente al vero, pur-troppo non ricordo più dove l’avessi letta e di chi fossero le parole. Le storie di Carver sono come stanze sature di gas, si aspetta un’esplosione che invece non arriva mai. Sono andato a memoria e ho parafrasato, ma il senso mi pare quello e mi pare anche abbastanza chiaro. Spesso, non sempre, in quello che scrivo, non c’è l’esplosione, ma la stanza è ben satura di gas.

“La macchina che costruisce gli ingranaggi”

Questo è un racconto che colpisce molto. Sembra un racconto sulla fabbrica e sul lavoro ma non lo è. I personaggi fanno scelte inaspettate, a volte inspiegabili e questo dipende proprio dal fatto che il tema non è il lavoro né la fabbrica. Il tema è l’ansia, che porta a volte a un desiderio di annullamento di sé: quell’annullamento di sé che nel racconto chiami: «il punto che è necessario raggiungere», con chiaro riferimento al titolo. È un tema portante, mi pare, nella tua letteratura. E proprio per questo nel racconto l’evento straordinario diviene ordinario, il racconto di un fatto eccezionale rappresenta la quotidianità, per chi conosce cosa sia l’ansia. Sbaglio?

Non sbagli. L’ansia è un tema ricorrente di questa raccolta e credo che ciò sia dovuto al fatto che nel periodo in cui ho scritto questi racconti l’ansia non era una semplice compagna di viaggio ma era diventata una presenza ingombrante. Il suo ruolo era accresciuto senza quasi che me ne accorgessi e senza che riuscissi a dare un nome a certi pensieri che formulavo poco prima di andare a dormire. Con il senno di poi, dopo aver avuto modo di esplorare meglio il mio rapporto con gli stati ansiosi, mi sono reso conto che molte delle cose che ho scritto erano influenzate dal tentativo di dare una risposta alle cose che sentivo. Più avanti nella lettura troverai un altro racconto profondamente legato all’ansia che si intitola “La statua sulla colonna” che forse, per certi versi, è il meno consolatorio di tutto il libro, ma che fotografa un momento preciso in cui sembrava non ci fosse una via d’uscita o un modo per liberarsi di lei.
In questo racconto che si sviluppa quasi esclusivamente all’interno di uno dei classici capannoni industriali dell’area trevigiana il protagonista è alla fine del suo percorso lavorativo, è passato attraverso continui tagli di personale e la possibilità di uscire dalla scena lavorativa era sempre dietro l’angolo. In un certo senso quello che tu chiami fatto straordinario gli darebbe la possibilità di andarsene a modo suo, con i suoi tempi, prendendo una decisione e non subendola. Vede uno spiraglio di fuga da quell’ansia che negli anni l’ha divorato. Ma in lui non c’è solo l’ansia, c’è anche l’idea di aver fatto un lavoro “inutile”, che non ha influito minimamente nelle vite delle persone. Pensa di non aver lasciato il segno e quindi, l’evento straordinario, per quanto negativo, sembra metterlo di fronte al fatto che invece un’influenza il suo lavoro ce l’ha avuta.
Come dici tu però non si tratta di un racconto sulla fabbrica o sul lavoro, credo sia più un racconto sull’ansia, sulle aspettative disattese e, più in generale, sull’insoddisfazione, tema, quest’ultimo, che secondo me si addice molto agli scrittori.

Questa parabola sull’ansia, mentre rende il racconto molto bello, secondo me, perché riesce a farsi allegoria di altro, pone anche qualche insidia di carattere tecnico che riguarda il punto di vista. Mi sembra infatti che la voce narrante oscilli di tanto in tanto tra il narratore onnisciente e la falsa terza persona. Io credo che questo derivi dal punto precedente, ovvero dal fatto di raccontare una cosa (un episodio in fabbrica) mentre in realtà ne stai raccontando un’altra (l’ansia), quindi a volte sei dentro il tuo personaggio (falsa terza persona), a volte sei dentro di te (narratore onnisciente). Di fronte a questa affermazione un narratologo professionista mi dirà che il narratore onnisciente comunque non è l’autore e quindi il problema resta meramente tecnico. Ma noi che scriviamo sappiamo quanto sia di-verso entrare nei panni di un personaggio o entrare nei panni di un narratore tanto astratto da tendere all’infinito – senza arrivarci – dove quell’infinito è la figura reale dell’autore. Ora, vengo alla domanda: quello del punto di vista è un problema che ti sei posto? Ci hai lavorato magari in fase di riscrittura?

Tutte le questioni tecniche mi affascinano e, magari esagerando, mi tolgono il sonno. Anche se tendo sempre a privilegiare l’aspetto emotivo di un racconto ho in grandissima considerazione la tecnica forse perché mi rendo conto che non sono ancora del tutto in grado di padroneggiarla o anche perché a volte non riesco a cogliere completamente tutti gli aspetti tecnici. Mi auguro ovviamente che anche questo faccia parte di un pro-cesso di crescita e che poco a poco sappia far mio i ferri del mestiere per poterli utilizzare con competenza sulla mia idea di letteratura. Tornando alla tua domanda posso risponderti che sì, mi sono posto il problema del punto di vista, non tanto nella stesura iniziale che, per questo racconto, è stata portata a termine quasi di getto, ma nelle successive riletture. Credo che, passaggio dopo passaggio, alcune sbavature siano state corrette, ma in realtà mi sono reso conto fin da subito che il personaggio principale, per quanto lontanissimo da me come esperienza vita, era una mia emanazione diretta. Si parla spesso di empatia nei confronti dei personaggi, nel caso di questo racconto l’empatia nei confronti del protagonista è stata talmente tante che mi ha reso difficile staccarmi da lui e distanziarmene completamente. Credo che questo produca quell’effetto oscillante tra narratore onnisciente e falsa terza persona di cui parli della tua domanda. Ho cercato per quanto possibile di raccontare una storia partendo dal narratore onnisciente perché avevo bisogno di mettere un po’ di distanza tra me e il protagonista, ma anche perché, molto banalmente, nella narrazione c’erano degli aspetti e delle informazioni che ritenevo importanti e che solo così sarei riuscito a mettere all’interno del quadro. A un certo punto però sempre che il narratore onnisciente parteggi per il protagonista e faccia il tifo per lui, che si senta coinvolto nella storia e questo secondo me lo fa virare verso una falsa terza persona. Ti mentirei se di dicessi che la cosa è stata voluta fin dall’inizio, ma a risultato concluso mi è sembrato che questa labilità di confini potesse funzionare anche in virtù del fatto che scrivevo di lavoro mentre parlavo d’altro.

“Il rito”

Qui compare un altro tuo grande tema, la famiglia. Che però è una famiglia piena di enormi difetti, a tratti terribile, sede di difficili rapporti di forza e spesso volta a censurare le individualità. In questo caso è una famiglia ricca o almeno molto benestante, affarista, col padre padrone che almeno a paro-le tiene alla famiglia, ma poi la distrugge con amanti e insulti ai figli. Oltre a una generale osserva-zione su questo, ti chiedo: nel testo non ci sono indicazioni di natura geografica, ma quanto può contare secondo te, nella tua narrativa, il Veneto, che sembra avere molte delle caratteristiche negative che tu descrivi?

A volte basta non nominare una cosa per evocarla. Il Veneto, in questo racconto ma anche in altri, c’è tutto. Diciamo che questo racconto raccoglie quando mi è capitato di vedere nel corso degli anni. Per motivi personali mi sono spesso trovato a girare tra tre provincie diverse, Venezia, Treviso e Rovigo e anche se mi rendo conto che il tessuto alla base di queste tre province è diverso, sotto molti aspetti ho trovato che ci siano forti elementi che le accumunano.
A me sta molto a cuore il tema della famiglia, sia quando si tratta di mostrarne gli effetti positivi, sia quando si tratta di mostrare quelli negativi. In particolare, in questo racconto, mi interessava calcare su questi ultimi. Il padre padrone di questa famiglia è un uomo che si è elevato sugli altri grazie al fiuto per gli affari. Ha fatto strada grazie ai soldi. Ciò che più gli interessa è che venga mantenuta sempre una perfezione di facciata e che tutto sia controllabile secondo i suoi desideri. Ho voluto calcare un po’ sui personaggi cercando di stare sull’orlo della stereotipizzazione perché, per quando sia surreale io queste persone, negli anni, le ho conosciute davvero. Ho visto all’opera il potere subdolo dei genitori nei confronti dei figli, la manovre nemmeno troppo velate per cercare di conformarli a un’ideale per il quale prima viene l’immagine che si mostra agli altri e poi viene tutto il resto.
Io non so se questa sia una caratteristica esclusiva del Veneto anche se tendo a escluderlo, ma in un’ambiente in cui la prima domanda che ti fanno è: quanto ti pagano? La figura del figlio per me era emblematica di una diversità osteggiata dall’ambiente famigliare, quasi derisa. Volevo che il figlio fosse l’elemento della narrazione che svolge il compito mostrarti che l’imperatore è nudo.

C’è ancora una questione tecnica che mi fa riflettere ed è, in questo caso, l’uso o non uso dell’ironia. Mi interessa la postura del lettore. Il racconto è in prima persona, noi dovremmo stare facilmente vicino al personaggio protagonista ma quello che gli accade è grottesco e questo ci porta lontano da lui. È il procedimento ironico che utilizza per esempio DeLillo: Rumore bianco è in prima persona, ma quello che accade ai personaggi è così grottesco che noi non ci identifichiamo in Jack ma lo guardiamo dall’esterno, da una posizione vicina a quella dell’autore. È la cosiddetta ironia di DeLillo. Ciò che capita al tuo personaggio mi porterebbe lì, da quelle parti, un’ironia amara con cui si possono trattare anche argomenti tragici (del resto Rumore bianco parla dell’angoscia della morte). Però, ecco il punto, secondo me tu lo vivi molto seriamente. La boutade del regalo grottesco, per te è una tragedia. Questo mi spiazza come lettore, perché ho l’impressione di non essere in perfetta sintonia con te.

Anche in questo caso mi porti a fare delle riflessioni che non avevo ancora del tutto messo a fuoco. Non so se sia io a vivere il grottesco di questo racconto molto seriamente oppure se in realtà non sia il personaggio a viverlo in maniera seria. Il fatto è che a un certo punto il lettore potrebbe accorgersi che non c’è una via di fuga per il protagonista, potrebbe rendersi conto che i regali preziosi e costosi che il festeggiato non può nemmeno capire ma che valuta solo in base al loro costo non sia una cosa così tanto innocua. Mi rendo conto che in questo racconto ho calcato molto sul pedale del grottesco perché volevo che a delle risate iniziali subentrasse una presa di posizione forte che ponesse il lettore al fianco del protagonista.
La tragedia di cui parli tu forse è la mancanza di uscita da questa situazione che alla fine sembra diventare evidente anche al protagonista. Quell’ironia iniziale che si trasforma in grottesco poi lascia spazio a un senso tragico di impotenza anche perché, soprattutto quelli che dovrebbero essere dalla tua parte, e qui sto pensando alla sorella del protagonista, lo usano come fosse una semplice pedina priva di valore al di fuori del gioco.

“Un gatto morto sul ciglio della strada”

All’inizio del racconto precedente, il protagonista dice di riuscire a parlare con l’analista so-lo di animali e bambini. Qui un animale – un gatto che peraltro porta un nome umano – ha un ruolo decisivo per il protagonista e per lo svolgimento della narrazione. Che cosa rappresenta per te il mondo animale?

Nel caso del racconto precedente il binomio bambini/animali aveva a che fare con un certo tipo di purezza e con tutta una serie di comportamenti non costruiti. Un uccello raccoglie dei ramoscelli per costruirsi il nido e non per mostrarli con orgoglio agli altri uccelli. Questo era il motivo per cui il protagonista de “Il rito” riesce a parlare di questi argomenti. Per come sta vivendo la sua vita gli sembra che di sentirsi più affine a quel modo di vivere piuttosto che a quello della sua famiglia.
Ne “Un gatto morto sul ciglio della strada” il gatto del racconto sostituisce nella vita del protagonista la presenza di un figlio. Il protagonista è stato messo nella condizione di pensare di essere una persona inutile, non in grado di badare a se stessa e quindi nemmeno capace di badare a un altro essere umano.
Per quel che riguarda ciò che rappresenta per me il mondo animale posso solo darti una risposta molto personale. Credo che gli animali siano capaci di agire senza preconcetti e senza dietrologia. Questa è una cosa che farebbe bene anche agli esseri umani. Legandomi al racconto precedente, il padre agisce per mantenere uno status quo di potere, per lui ogni scelta deriva dall’utilità che questa comporta, ma deriva anche dalla risposta a una domanda che si ripete sempre uguale a se stessa: cosa penseranno gli altri di me se mi comporto così?
A me piace pensare che nel mondo animale questo tipo di pensiero sia limitato o quasi assente. Soprattutto se ci riferiamo ad animali in cattività e non ad animali domestici che, vivendo a stretto con-tatto con gli esseri umani, hanno finito per assomigliarci un po’ troppo.

Quello degli animali non è il solo elemento di continuità. C’è anche una famiglia che in modo persino troppo esplicito (anch’io credo che la famiglia sia la sede di complessi rapporti di forza, ma credo che questi restino per lo più impliciti e non detti) disprezza il protagonista. Sembra che esista una precisa continuità tra i racconti. Io penso da sempre che ogni scrittore scriva sempre la stessa storia sia pure in forme diverse, tuttavia qui questa prossimità mi pare più palese, quasi che sia – come diceva Kundera che pure faceva operazioni simili – un romanzo a variazioni, ovvero un romanzo a cui manca la continuità di tempo e spazio ma ha una compattezza d’altro tipo, per lo più tematica o appunto fondata sull’identità del personaggio. Tu percepisci questa continuità?

Qui devo andare un po’ per ordine. Prima di tutto i racconti che sono stati inseriti in questa raccolta sono frutto di una selezione che ne ha esclusi altri. Un’esclusione che non ha nulla a che vedere con la qualità, a bontà tecnica o con qualche altro parametro di questo livello. Sono stati esclusi perché non mi sembravano affiatati con gli altri, erano buoni racconti che però raccontavano altro rispetto a quello che volevo trasmettere con questa raccolta. Quindi, in riferimento a quella che tu chiami “continuità” mi verrebbe da dirti che era voluta e che mi fa piacere che si percepisca.
Inoltre ho cercato di mettere assieme alcuni temi a me cari e ne ho lasciati fuori altri che, pur essendomi altrettanto cari, rischiavano di rendere la raccolta troppo eterogenea.
Detto questo, anche io penso che ogni scrittore scriva sempre la stessa storia che nella scrittura ci sia un continuo processo di rimescolamento della materia narrativa. Pare evidente anche a me che alcuni temi siano ricorrenti in questa raccolta e che a volti siano più palesi perché il modo che ho scelto per raccontarli li mette più al centro della narrazione, mentre in altri casi sono quasi temi secondari legati al principale in un rapporto causa effetto che però li lascia comunque in secondo piano. Credo che la famiglia sia un nucleo di storie potenzialmente infinito.
Capisco quello che intendeva dire Kundera e mi fa molto piacere che intraveda in questa raccolta un “romanzo a variazioni”. Tu sai che il mio primo tentativo nel mondo editoriale è stato un romanzo per racconti che purtroppo non ha avuto fortuna. In quel caso l’unità del romanzo per racconti era data da un luogo, mentre per quel che riguarda “Un posto difficile da raggiungere” ho voluto, o almeno ho cercato, di dare una continuità di temi e l’idea era un po’ quella di raccontare gli stessi temi da angolazioni diverse per provare a renderli a trecentosessanta gradi. Non so se ci sono riuscito ma il fatto che si percepisca questa compattezza mi fa molto piacere.

“Capitani coraggiosi”

Questo racconto, soprattutto se messo in relazione ai precedenti, mi ha posto subito un interrogativo che credevo di natura tecnica ma forse non lo è. Come dicevo, secondo me, sei molto bravo a costruire delle ambientazioni molto concrete, a entrare nelle pieghe del tuo protagonista, a gestire le sue reazioni in modo inaspettato per il lettore. Però quello che mi convince meno sono i personaggi minori, sono tutti cattivi cattivi cattivi, o, se mi permetti, stronzi stronzi stronzi. Io penso che uno scrittore debba porsi con empatia e complessità con tutti i personaggi, anche i minori. In una conversazione con Nicola Lagioia lui diceva, molto efficacemente secondo me, che, quando scrive un saggio o un articolo, i politici corrotti per esempio sono disegnati come persone spregevoli senza riserve ma quando scrive un romanzo (parlava allora della Ferocia) l’autore prova empatia e compassione anche per quei personaggi. E’ la stessa ragione per cui Cerami, forse un po’ provocatoriamente, diceva che non si può scrivere un romanzo su Hitler, proprio perché non ha sfumature, non ha bar-lumi di luce.
Proprio a partire da queste considerazioni, pensavo a questo aspetto come un difetto tecnico dei tuoi racconti. Poi però ci ho ripensato, anche in virtù della nostra conoscenza e ho pensato che questa è davvero la tua visione del mondo: quella dell’uomo che sta solo sulla terra e non trova appigli o pertugi di salvezza e per il quale l’altro rappresenta sempre un’insidia o una minaccia. Così al di là di questioni tecniche, i racconti hanno cominciato a insinuare una angoscia strisciante che via via si sta facendo opprimente: ed è questo un merito della letteratura, costringerci a percepire il disagio, per farci uscire diversi dall’esperienza della lettura. Non è una domanda, ma vorrei capire le tue riflessioni su questi aspetti.

Io capisco bene quello che dici e capisco bene il pensiero di Lagioia e posso dirti che sono molto d’accordo con questa visione. C’è però un ma. Quando ho iniziato a scrivere, per qualche motivo che forse ha a che fare con la mia frequentazione con Carver, mi sono ritrovato a scrivere una serie di racconti un cui, alla fine, anche i personaggi più cattivi ne uscivano bene. Mi mancava il “coraggio” di andare in profondità nel fango e nel sangue. Ora, una cosa del genere può andare bene quando è funzionale al racconto. Se vuoi raccontare la storia un uomo cattivo perché gli hanno mostrato che nella vita c’è solo quello allora ci sta che lo scrittore cerchi di illuminare anche gli aspetti bui del suo animo e fare in modo che il lettore provi pena anche per chi sulla pagina nasce cattivo.
Poi però mi sono ricordato di un episodio di quando ero ancora alle scuole elementari. In classe con me avevo un bambino che era a tutti gli effetti la figura perfetta del bullo. Manesco, irriverente, lingua tagliente con compagni e maestre. Ecco, io mi ricordo perfettamente che quasi per confortarmi, quasi a cercare uno spiraglio in quella situazione, mi ritrovavo a pensare che da adulto non avrebbe potuto altro che migliorare e diventare una persona migliore. Non è successo, anzi, la sua vita è costellata di arresti e reati. La mia visione di bambino è stata distrutta dai fatti della vita e io questo non l’ho più scordato.
Vero è che, conoscendoci, sai anche come la vedo io su molti aspetti e in effetti quella dell’uomo solo è una tematica che mi sta molto cara, ma credo che in questo racconto subentri anche l’influenza che ha avuto Stephen King. In alcuni libri di King, anzi, in praticamente tutti, l’antagonista principale è una declinazione del male puro. Una persona, un’entità, una cosa, capace solo di perseguire il male, incapace di redenzione, incapace anche solo di concepire l’idea che ci sia una redenzione possibile. In questo racconto ma anche in altri, ho voluto inserire quella visione tremendamente cupa di King. Volevo che il protagonista si scontrasse con il male e volevo che uscirne vincitore, per lui, significasse esserne contagiato.

Finora è l’unico racconto in cui parli della lettura, che in fondo è parte importante della tua vita. In questo caso sembra essere il referente della marginalità (il ragazzino che legge è trattato come uno sfigato, e la lettura è causa e conseguenza di tutto questo). Però, almeno per un attimo, e forse senza troppa convinzione, la lettura è anche un elemento di possibile riscatto, è ciò che potrà permettere al tuo protagonista un avvenire migliore dei bulletti che gli fanno del male. Tu sei un lettore forte, che ruolo ha nella tua vita la lettura?

Credo di avere un rapporto con la lettura che in qualche modo dipende molto da come sono io come persona. Ci sono periodi in cui leggo tantissimo e ci sono periodi in cui leggo molto poco e con fatica. Direi che si tratta di un rapporto un po’ bipolare ma non posso farci nulla. Ho però vissuto la lettura in maniera diversa nel corso degli anni. Sono stato preso in giro perché leggevo, mi è stato fatto nota-re che se leggevo troppo significava che disprezzavo il posto da cui venivo e le mie origini cosa che non è assolutamente vera. Mi è stato anche detto che leggevo le cose sbagliate e che i libri giusti mancavano dalla mia libreria. Assurdità di questo tipo.
Per il protagonista di “Capitani coraggiosi” la lettura è più semplicemente un modo per allontanarsi dalla realtà, non dover pensare a una situazione familiare poco piacevole, ai rapporti con i coetanei malsani e a una forma fisica sgraziata. Nelle pagine dei libri che legge più che esserci la possibilità di riscatto c’è una via di fuga. Certo, è il protagonista stesso a un certo punto a dire che si augura che i suoi compagni restino al palo mentre lui spicca il volo, ma lui si riferisce allo studio più che alla lettura.
Comunque, tornando al “lettore forse” non posso non ammettere che la lettura, soprattutto negli ultimi dieci anni, ha avuto un ruolo molto importante nella mia vita. Leggere è diventato un po’ anche studiare, smontare il giocattolo per capisce come funzionano i meccanismi e cercare di riprodurli quando poi scrivo. La lettura è parte di, passami il termine, aggiornamento professionale; è una spinta a cercare di fare sempre meglio sulla pagina.

“Il Vecchio in bicicletta”

Il bello di porti le domande durante la lettura credo sia che si vede formarsi un parere via via anziché ricostruirlo poi secondo un progetto complessivo. In questo caso vorrei dirti che Il vecchio in bicicletta è il racconto più bello, quello che apre a una certa visionarietà, che fa convergere elementi realistici e aspetti surreali, e lo fa mantenendoli in un equilibrio che è sempre difficile. C’è la realtà drammatica (la perdita del lavoro, la guerra) che diventa naturalmente quasi una favola. A pensarci lucidamente non so se sia davvero in assoluto il racconto più bello, ma è il racconto di cui, come lettore, avevo bisogno. Lo si capisce bene dalle domande al racconto precedente: era esattamente il momento di prendere un po’ d’aria, il momento dell’ironia positiva: ed è arrivato proprio quando io ne avevo bisogno. Mi rinsaldo sempre più nell’idea della compattezza di questa raccolta, che ha i tempi narrativi di un ro-manzo, le salite e discese emotive al momento giusto. So che hai scritto i racconti in tempi diversi e solo a posteriori organizzato la raccolta. Mi chiedo perciò se anche nel tuo percorso di scrittura questo racconto abbia avuto un ruolo particolare o meno, se sia nato in un conte-sto diverso dagli altri e ti abbia dato diverse emozioni di scrittura.

Quando ero ragazzo ero un consumatore folle di musica. La musica è arrivata prima dei libri. All’epoca spendevo tutti i soldi che avevo per comprarmi le prime audio cassette e poi i primi CD. E quando mi innamoravo di una ragazza, e capitava spesso, mi mettevo lì con pazienza a estrapolare traccia dopo traccia per creare la giusta compilation, quella che potesse poi mostrare senza ombra di dubbio alla ragazza chi ero veramente. Però le audiocassette non le consegnavo mai e la maggior par-te delle ragazze per cui bruciavo d’amore non se ne sono nemmeno mai accorte.
Quando ho iniziato a pensare a questa raccolta di racconti mi sono chiesto subito come costruirla e mi sono ricordato del periodo del taglia e cuci con le cassettine. Ho cercato di posizionare i racconti in modo che non fossero tutti raggruppati per tematica e che ogni tanto ci fosse uno stacco rispetto ai racconti precedenti. Quindi mi fa piacere che tu abbia notato questo stacco subito dopo il climax del finale del racconto precedente. Mi viene da pensare che forse quelle audiocassette in gioventù avrei dovuto consegnarle.
Per quel che riguarda il racconto devo dire che nasce tutto dall’immagine dell’anziano in bicicletta che trasporta i rami. Mi piacerebbe poter dire che è tutta farina del mio sacco ma in realtà quell’anziano esiste o meglio, esisteva. Per un periodo, durante la quarantena, lo vedevo passare a velocità lenta e sulle spalle aveva rami enormi. Mi chiedevo come facesse a stare in equilibrio, ma soprattutto mi chiedevo che se ne facesse di tutti quei rami.
In quel momento mi sembrava che nemmeno la propria abitazione fosse un posto sicuro dove stare e quando ho iniziato a fare ipotesi sull’utilizzo che quell’anziano poteva fare di tutto quel legname mi è sembrato che la mia ipotesi nascondesse molto del momento in cui tutti stavamo vivendo.
Non so se questo racconto abbia un ruolo particolare nel mio percorso di scrittura, so che è stato molto liberatorio scriverlo e che alla fine, una volta messo il punto finale, mi sono sentito come se non ci potesse essere una conclusione diversa.

(continua)

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Hegel: un ”cane morto” molto vivace. Intervista a Vladimiro Giacché https://www.carmillaonline.com/2024/01/19/hegel-un-cane-morto-molto-vivace-intervista-a-vladimiro-giacche/ Thu, 18 Jan 2024 23:01:10 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=80786 di Luca Cangianti

Nel “Poscritto alla seconda edizione” del Capitale Marx stigmatizzava la generale disposizione a trattare Hegel da «cane morto», si professava suo discepolo ed evidenziava l’imprescindibile necessità della dialettica per afferrare il funzionamento del modo di produzione capitalistico. Tuttavia, se in Marx vediamo la dialettica al lavoro, rimane pur sempre aperta la questione di che cosa sia nello specifico. Certo, ci si può rivolgere direttamente a Hegel per togliersi la curiosità, ma il pensiero di questo filosofo è notoriamente esposto con un linguaggio spesso oscuro. Per accostarci a questo pensatore, quindi, un’opera come Hegel. La dialettica di Vladimiro Giacché (Diarkos, [...]]]> di Luca Cangianti

Nel “Poscritto alla seconda edizione” del Capitale Marx stigmatizzava la generale disposizione a trattare Hegel da «cane morto», si professava suo discepolo ed evidenziava l’imprescindibile necessità della dialettica per afferrare il funzionamento del modo di produzione capitalistico. Tuttavia, se in Marx vediamo la dialettica al lavoro, rimane pur sempre aperta la questione di che cosa sia nello specifico. Certo, ci si può rivolgere direttamente a Hegel per togliersi la curiosità, ma il pensiero di questo filosofo è notoriamente esposto con un linguaggio spesso oscuro. Per accostarci a questo pensatore, quindi, un’opera come Hegel. La dialettica di Vladimiro Giacché (Diarkos, 2023, pp. 240, € 18,00) risulta di grande utilità. Nella nuova edizione (la prima era uscita nel 2020 in piena pandemia), l’autore ha ulteriormente semplificato il linguaggio (in verità già ampiamente chiaro), arricchito la parte antologica e aggiornato i riferimenti alle nuove edizioni critiche.

LC – Hegel viene considerato da molti il filosofo della reazione prussiana. Eppure da giovane scrive opere sovversive (che si guarda bene dal pubblicare), sostiene la necessità dell’abolizione dello stato e manda alle stampe testi politici anonimi. Poi, nel corso di tutta la vita, intreccia rapporti con rivoluzionari, liberali ed ebrei fino ad aiutare un prigioniero politico. Insomma, che tipo di filosofia è quella di Hegel? Ha ragione Marx a ritenerla rivoluzionaria o di contro Popper a sostenere che fosse reazionaria?

VG – Popper sicuramente non ha ragione. Di contro alle opere giovanili e a quanto contenuto nelle lettere, è vero che nei volumi pubblicati e specialmente nella Filosofia del diritto si avverte un adeguamento alla situazione politica vigente. Ma il tema va affrontato in termini più filosofici che politici. Il problema è come interpretiamo il rapporto tra razionale e reale. Come noto, per Hegel «ciò che è reale è razionale”. Ma questo non significa affatto che tutto ciò che esiste, per il fatto stesso di esistere, sia razionale. Uno stato cattivo può ben esistere, ma per Hegel è “non-vero”, cioè inadeguato, imperfetto. Inoltre – Engels lo ha spiegato molto bene – il nesso realtà-razionalità in Hegel non può esser considerato in termini statici: in questo senso si può dire che era razionale il feudalesimo, ma anche il capitalismo che l’ha sostituito. La filosofia di Hegel è basata sulla processualità delle cose e sulla realtà della contraddizione. Questa non è un fallimento del pensiero, ma una sfida per il pensiero, che deve essere capace di comprenderla. Una filosofia del genere non si presta a giustificare un ordine economico e giuridico immutabile. Alla base del pensiero hegeliano c’è l’inquietudine.

LC – Nel tuo libro sottolinei l’importanza attribuita dalla filosofia hegeliana alla «capacità del soggetto di essere una struttura autocentrata, in grado di conservarsi e mantenersi in unità con sé nel rapporto con l’esterno» e noti come la Fenomenologia dello spirito sia stata pubblicata in Germania proprio quando erano diffusi i romanzi di formazione. In «queste opere letterarie – sostieni – veniva descritto il duro e necessario cammino, costellato di difficoltà e sconfitte, attraverso cui il protagonista della narrazione poteva infine giungere alla conquista della verità su se stesso e sulla vita.» Queste affermazioni mi fanno tornare in mente il viaggio dell’eroe così come concepito da Joseph Campbell e Christopher Vogler, ma anche da Carl Jung. Sono similitudini che vedo solo io o c’è qualcosa di più sostanziale?

Vladimiro Giacché

VG – Hegel definiva i filosofi come «eroi della ragione pensante» e la stessa struttura della Fenomenologia è debitrice al modello letterario dei romanzi di formazione, quali il Wilhelm Meister di Goethe e l’Heinrich von Ofterdingen di Novalis. Bisogna tuttavia fare tre precisazioni.
La prima: la riflessione di Hegel è focalizzata sul concetto di soggettività e ha come riferimenti storici in primo luogo fonti filosofiche: Kant – che rivendica alla centralità del soggetto il processo conoscitivo -, l’irriducibilità dell’Io fichtiano e in misura minore la nostalgia romantica nei confronti dell’assoluto; in questo contesto per Hegel il soggetto (sia esso un essere umano, un organismo vivente o un sistema politico) è ciò che fa perno su di sé nel rapporto con l’altro, è la capacità di confrontarsi con il mondo esterno senza venire sopraffatti e senza perdere la propria identità; è questo che Hegel definisce «essere presso di sé nell’altro».
Seconda precisazione: Hegel non è un filosofo dell’originario. Per filosofia dell’originario intendo quelle concezioni che presuppongono una perfezione originaria perduta e da recuperare: alla fine del viaggio l’eroe si limita insomma a recuperare qualcosa che aveva perduto. Il ritorno di Hegel, invece, non è un vero ritorno, perché è il raggiungimento di una situazione più ricca. In una delle sue lezioni Hegel paragona l’idea assoluta (il punto d’arrivo della Scienza della logica) «al vecchio che pronuncia le stesse frasi religiose del fanciullo, ma per lui queste frasi hanno il significato di tutta quanta la sua vita». L’attenzione di Hegel non è rivolta al punto di partenza, ma al punto di arrivo, in quanto questo comprende in sé tutto il percorso compiuto: «l’interesse – afferma – sta nell’intero movimento».

LC – Insomma, il viaggio del soggetto hegeliano sembra un viaggio che non finisce, che, guarda caso, assomiglia agli itinerari più eterodossi della narratologia, quelli in cui l’eroe non torna a casa a restaurare l’ordine sconvolto dall’incidente scatenante, ma riparte per nuove avventure come l’Ulisse dantesco e il Che. Adesso però non dobbiamo dimenticarci della terza precisazione che avevi annunciato.

VG – Certo, si tratta di una caratteristica della soggettività hegeliana che non è in linea con molte tendenze contemporanee: il soggetto per Hegel non è un’entità ricombinabile a piacimento; l’autocoscienza nel suo confronto vincente con il mondo esterno non può plasmarsi fisicamente, psicologicamente, culturalmente a piacere. L’idea di un’identità indefinitamente plasmabile è estranea all’orizzonte hegeliano. Il soggetto hegeliano non è qualcosa di immobile, si evolve e cresce nel confronto e nello scontro con la realtà. Ma non è liquido.

LC – Tu, anche per motivi professionali, ti sei occupato molto di economia, anzi direi che sei più conosciuto come economista, malgrado la tua originaria formazione filosofica. In cosa può esser utile Hegel in una disciplina apparentemente così prosaica?

Non esiste un’economia hegeliana, anche se Hegel nella Filosofia del diritto si è occupato di questa disciplina studiando Adam Smith, riflettendo sul pauperismo e sulla società civile. Per rispondere alla tua domanda, tuttavia, bisogna tornare al nucleo della sua filosofia, al suo modo di pensare: Hegel offre un metodo che consente di reagire produttivamente alla sfida della complessità, quando le variabili in gioco sono molte, gli interessi in ballo molteplici, la linea causale non unica né univoca. Questo pensatore si trovava poco a suo agio con la meccanica newtoniana del suo tempo proprio perché il suo metodo alludeva ante litteram alla cibernetica, alla considerazione di dinamiche di azione e reazione, di correlazione tra quantitativo e qualitativo. Tutti strumenti concettuali ancora validi. Faccio un esempio: nelle crisi che abbiamo vissuto, prima del 2008 e poi del 2011, il sistema produttivo italiano ha avuto un cambiamento quantitativamente importante riducendosi di un quarto. Ciò ha provocato un mutamento qualitativo che impedisce ormai di riferirsi a questa formazione economico-sociale negli stessi termini di prima. La morfologia economica dell’Italia è ormai sostanzialmente differente rispetto a 15 anni fa. Un altro esempio: tutta l’insistenza sull’austerità e sul debito pubblico elevato che necessiterebbe di restrizioni di bilancio per contenere il deficit è profondamente anti-dialettica. Non considera infatti che la restrizione di bilancio può ridurre il denominatore, cioè la crescita, più del numeratore. Poi ci si sorprende (almeno chi è in buona fede) che alla fine della “cura” il debito sia aumentato! Non si capisce che ci sono delle interdipendenze che trascurate possono avere effetti opposti a quelli perseguiti.

LC – Nella storia del marxismo abbiamo avuto pensatori che hanno riconosciuto il debito di Marx nei confronti di Hegel e altri che lo hanno negato. Come si spiega questa divergenza di giudizio?

VG – Questi posizionamenti vanno collocati nella cultura del tempo. Le letture antihegeliane di Marx in Italia nascono come una critica alle correnti marxiste influenzate dallo storicismo crociano; in Francia nascevano da una forte egemonia dello strutturalismo, evidente in Althusser per esempio. C’erano inoltre elementi di critica politica nei confronti dei rispettivi partiti comunisti, sia in Italia che in Francia, ritenuti colpevoli di aver assorbito nelle loro culture politiche impostazioni storicistiche e umanistiche considerate sbagliate. In verità, al netto di queste considerazioni, non vanno dimenticate due cose: in primo luogo Marx – dopo la critica giovanile agli esiti politici dell’hegelismo di destra – nei Grundrisse e nel Capitale utilizza una quantità impressionante di strutture concettuali hegeliane; in secondo luogo, ritiene che gli strumenti teorici offerti da Hegel, in particolare in riferimento al concetto di soggettività, siano utili a illustrare l’automovimento del capitale, la sua struttura e la sua articolazione. Per Marx Hegel è stato decisivo per leggere la realtà economica in opposizione all’economia borghese del suo tempo. Ecco perché Lenin nei Quaderni filosofici diceva che se non si capisce Hegel non si capisce nemmeno Marx. E qui voglio infine ricordare Brecht che nel Me-ti definiva la dialettica come il «Grande Metodo»: un metodo che «permette di riconoscere nelle cose dei processi» e che «insegna a porre delle domande che rendono possibile l’azione». Trovo questa definizione di grande importanza, perché fa emergere come alla dialettica sia inerente un elemento intrinsecamente trasformativo.

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La storia degli anonimi, la storia di quasi tutti. Intervista a Marcella Frangipane https://www.carmillaonline.com/2023/10/27/la-storia-degli-anonimi-la-storia-di-quasi-tutti-intervista-a-marcella-frangipane/ Fri, 27 Oct 2023 05:00:25 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=79387 di Valentina Cabiale 

Marcella Frangipane è professoressa ordinaria di Preistoria e Protostoria e ha insegnato fino al 2018 all’Università di Roma La Sapienza. Autrice di più di 180 pubblicazioni, ha condotto ricerche sul campo in Italia, Messico, Egitto e Turchia. Dal 1990 è divenuta la direttrice del Progetto di scavi e ricerche ad Arslantepe, Malatya (Turchia), che ha condotto fino al 2019, contribuendo attivamente all’iscrizione del sito nel Patrimonio dell’Umanità dell’UNESCO (2021).

Lo scavo di Arslantepe è stato il progetto della sua vita ed è divenuto il cuore e la principale fonte di [...]]]> di Valentina Cabiale 

Marcella Frangipane è professoressa ordinaria di Preistoria e Protostoria e ha insegnato fino al 2018 all’Università di Roma La Sapienza. Autrice di più di 180 pubblicazioni, ha condotto ricerche sul campo in Italia, Messico, Egitto e Turchia. Dal 1990 è divenuta la direttrice del Progetto di scavi e ricerche ad Arslantepe, Malatya (Turchia), che ha condotto fino al 2019, contribuendo attivamente all’iscrizione del sito nel Patrimonio dell’Umanità dell’UNESCO (2021).

Lo scavo di Arslantepe è stato il progetto della sua vita ed è divenuto il cuore e la principale fonte di ispirazione della sua attività di ricerca, incentrata su temi come la nascita della disuguaglianza, l’origine della centralizzazione economica, dello Stato e della burocrazia, l’urbanizzazione e le politiche economiche delle prime elites di governo nel Vicino Oriente, con particolare riferimento all’Anatolia e alla Mesopotamia.

Nel 2023 è uscito, per le edizioni Il Mulino, “Un frammento alla volta. Dieci lezioni dall’archeologia”, un saggio divulgativo che affronta i temi principali delle sue ricerche.

L’intervista è avvenuta in una tarda mattinata di luglio del 2023, all’ombra immobile di un albero.

Per oltre trent’anni sei stata la direttrice della missione archeologica ad Arslantepe, un importante sito protostorico in Anatolia dove scavi dal 1976. Lo scrittore ed entomologo Frederik SjÖberg ha osservato (L’arte di collezionare mosche, Iperborea 2015) come spesso i naturalisti, gli entomologi, passino anni o l’intera esistenza su un’isola. Quei confini ristretti sono il limite che definisce la loro attività, il loro studio: non un ostacolo ma il perimetro entro il quale approfondire gli argomenti che interessano. Un limite che libera. Arslantepe è la tua isola?

Arslantepe

Sicuramente sì. Devo premettere che prima di Arslantepe ho lavorato altrove. Quando ho cominciato la mia carriera, dopo la laurea, ho avuto una borsa di studio dell’Università La Sapienza con la quale il mio professore mi mandò in Messico perché voleva avviare a Roma un nuovo corso sulla Mesoamerica. Là ho trascorso 3 anni molto formativi perché sono venuta a contatto diretto con la New Archaeology americana, ovvero con quegli archeologi che stavano riscoprendo l’idea dell’archeologia come antropologia, come studio profondo dei meccanismi antropologici nella vita delle comunità antiche. Per me è stata una bellissima esperienza; poi non ci sono stati finanziamenti e la cosa non è andata avanti, sono tornata e da allora ho iniziato a lavorare a Arslantepe. Ho lavorato anche nel Basso Egitto, però Arslantepe è diventato in effetti la mia isola, il luogo dove ho potuto sviscerare nel profondo tanti elementi che erano emersi anche nelle precedenti esperienze: per esempio la nascita delle società gerarchiche e di certi meccanismi economici. Arslantepe è un tell, ovvero una collina artificiale costituita dal sovrapporsi di decine e decine di insediamenti per millenni, racchiude la storia lunghissima di quel sito e di quella regione ma anche riflette quella delle regioni intorno. Le sue relazioni con le altre popolazioni, che sono variate nel tempo (nella fase più antica erano più dirette verso la Mesopotamia, poi verso l’Anatolia centrale, poi verso quella orientale), la sua posizione di confine culturale e geografico e la lunghezza dell’abitare sempre nello stesso posto ricostruendo i villaggi e le case, hanno permesso di studiare non solo la sua storia particolare e la storia riflessa delle altre comunità ma anche l’evoluzione, lo sviluppo interno, i meccanismi con cui le società si modificano. Per questo sono convinta che la ricerca archeologica sia un mestiere che richiede tempi lunghi. In pochi anni scopri la presenza in uno strato di un dato momento storico, di un’altra fase nello strato successivo, ma non capisci i processi che hanno dato loro forma e ne hanno determinato i cambiamenti. Per capire quella che Fernand Braudel ha chiamato la “storia profonda”, cioè l’andare dentro alle cose, devi lavorarci molto tempo perché la ricostruzione è complessa e avviene un frammento alla volta. Partiamo da piccoli frammenti della vita materiale sopravvissuti al passare del tempo e per ricomporli in un quadro storico generale ci vuole moltissimo tempo. Così, come l’entomologo studia tutti gli insetti di un’isola e le loro interazioni, io credo che sia necessario per noi archeologi fare lo stesso. È proprio partendo da quel sito, Arslantepe, che ho potuto studiare approfonditamente per moltissimi anni, che ho poi avuto la possibilità di spaziare su tematiche vaste e su altre aree geografiche.

Com’è nato Un frammento alla volta? È una macro-sintesi che racconta l’origine di fenomeni fondanti della storia profonda dell’umanità: lo stato, i meccanismi di potere, la burocrazia, la famiglia, il vivere in comunità, le prime città, la specializzazione del lavoro… Hai sentito l’urgenza di raccontare fin dove può arrivare l’archeologia?

Sì, esattamente. Non è un caso che questa esigenza l’abbia sentita e la senta tuttora, alla fine della mia carriera, dopo tanti anni di studio e di ricerca sul campo. È accumulando e costruendo conoscenza che ti si aprono domande e cerchi risposte su tanti quesiti fondamentali. Anche perché vedendo come viene trattata l’archeologia nei media, nei documentari – con questa idea della scoperta, del tesoro, della cosa sensazionale – ho pensato che bisognava assolutamente cercare di far capire a un pubblico il più vasto possibile, non solo di studiosi, che cosa fa davvero l’archeologia e quali sono le sue potenzialità come scienza globale, cioè che raccorda tante scienze diverse (credo che nessuna scienza sia così integralmente interdisciplinare); e poi, soprattutto, far capire che cosa può fare l’archeologia per la nostra vita presente. Per questo ho usato quelle tematiche attuali. Andare a cercare l’origine di molti fenomeni e meccanismi sociali ci permette di capire come si sono evoluti nel tempo e quindi, poi, di riflettere su di noi, su come siamo oggi e domandarci se c’è una possibilità di cambiare il corso della storia. In ogni campo le possibilità sono state varie, alcune sono state prevalenti e hanno vinto, però le strade che si aprivano erano anche altre. Riflettere su questi meccanismi significa capire se abbiamo qualche strada alternativa alla nostra vita oppure se siamo obbligati a seguire un percorso già segnato.

Una delle domande che volevo porti – a questo punto la anticipo, anche se un po’ hai già risposto – era proprio in merito alle alternative. Soprattutto pensando alla questione della famiglia: nel libro ricostruisci l’origine della famiglia sulla base della forma e della suddivisione interna delle abitazioni e scrivi che nella struttura e relazioni di quelle prime famiglie si trovano il germe delle disuguaglianze sociali, dell’organizzazione gerarchica della società, del potere e dello stato. Studiando questi argomenti, hai mai avuto l’impressione che le cose sarebbero potute andare diversamente, che si sarebbe potuto imporre un altro tipo di famiglia e quindi di società?

È la domanda delle domande, era proprio questo il cuore della riflessione. Per questo ho mostrato nel libro diversi tipi di famiglie, nati in diverse società e ambienti naturali. L’interazione con l’ambiente naturale è importante; non è una questione di determinismo ambientale, che lì sei costretto a fare così e in quell’altro posto sei costretto ad essere in un altro modo. È l’interazione che le comunità umane stabiliscono con quell’ambiente a determinare il loro sviluppo, per questo ho confrontato il caso della Mesopotamia meridionale, dove sono nate gerarchie sociali ed economiche da famiglie già gerarchizzate, con altre aree geografiche. La Mesopotamia era un ambiente arido con problemi di controllo dell’acqua e di gestione dell’agricoltura, che però potenzialmente poteva diventare molto produttiva, e in quel contesto è sorta la necessità di strutturare la società in forma gerarchica perché c’era bisogno di un coordinamento. Tutto questo ha portato allo sviluppo di disuguaglianze non solo perché chi gestiva (per esempio la canalizzazione dell’acqua o lo scambio interno tra prodotti diversi) aveva dei privilegi che gli venivano assegnati dalla comunità stessa, ma perché gestendo certe produzioni finiva con l’appropriarsi di esse o di parte dei prodotti. All’inizio, probabilmente, si tratta di una disuguaglianza sociale, di prestigio: vengono assegnati dei ruoli da leader a quelli che nella scala gerarchica generata dai sistemi di discendenza sono considerati di status più elevato. Ma poi, a un certo punto, quel privilegio diventa altro. Scatta un meccanismo per cui queste persone approfittano del loro ruolo e invadono altri campi, soprattutto quello economico. E quando la disuguaglianza diventa economica è molto difficile tornare indietro. Però ci sono società in cui questo passaggio sarebbe potuto non avvenire. Per esempio, le società più antiche antiche (neolitiche) del nord del Mesopotamia erano tendenzialmente egualitarie, perché lì le caratteristiche del territorio con ampie distanze, montagne, pianure, diversi tipi di climi, ha fatto sì che queste comunità si organizzassero in attività di gruppo: non la singola famiglia che produce e consuma, diventando in alcuni casi privilegiata e capace di gestire il surplus, ossia la produzione in eccedenza, a proprio vantaggio, ma comunità che gestivano collettivamente la produzione e il consumo, con diversi gruppi che si specializzavano in una specifica attività, per esempio nella pastorizia, nella caccia, nell’agricoltura. Questi gruppi poi dovevano scambiarsi i prodotti e farlo in modo tendenzialmente egualitario. Uno può dire: ma come lo so? Lo so perché la ricerca archeologica ci permette di vedere nei resti dei villaggi i segni materiali delle diverse strutture organizzative; le case, per esempio: se sono tutte uguali, se ce ne sono di più grandi e importanti; gli oggetti contenuti nelle case. Le comunità del nord della Mesopotamia avrebbero forse potuto continuare su una strada di sostanziale uguaglianza, ma hanno avuto l’impatto delle comunità del sud che sono arrivate lì e hanno offerto ai capi-comunità un modello da emulare.

Che è sembrato più appetibile…

Sì, ed è cambiato tutto. Ma è sempre così? La domanda è: ogni volta che una società di eguali incontra una società di diseguali prevale sempre e necessariamente la disuguaglianza? A questo non so dare una risposta ma credo che dobbiamo porci il problema. È inevitabile andare sempre nella direzione della progressiva disuguaglianza economica? È chiaro che un coordinamento è necessario, e quindi avere dei capi; in una società complessa come la nostra sarebbe impensabile essere tutti uguali nel vero senso del termine. Il problema è quando la disuguaglianza economica diventa rilevante e determina i rapporti sociali e politici, diventando quindi potere sugli altri. Studiare l’origine di questo meccanismo può essere utile, certo non è detto che oggi sia ancora possibile fare marcia indietro.

Nel tuo libro mi ha stupita l’assenza di nomi di re, dinastie, battaglie, l’assenza di epigrafi. Quando si studiano storie del Vicino Oriente antico o dell’Egitto si legge una sequenza di dinasti e di invasioni: è la storia raccontata dai vincitori, dai detentori del potere. I resti materiali oggetto dell’archeologia sono fonti alternative di costruzione della storia e di storie: la “storia degli anonimi”, come la definiva l’archeologo Salvatore Puglisi. L’archeologia è un po’ in tensione tra queste due possibilità di storia, quella dei vincitori e quella di tutti. Però è anche vero che un reperto materiale che rimanda a un’individualità precisa per quanto anonima (l’impronta di un piede su un mattone, un errore di tornitura su un vaso, una sepoltura con caratteristiche anomale) è emotivamente toccante, anche per un archeologo esperto, perché ci vediamo una persona. Questo mi fa venire in mente una cosa che mi ha detto un’amica antropologa (Anna Delfina Arcostanzo), con la quale si parlava del fatto che le persone del passato, e le loro relazioni con le cose, per lo più “mancano”, ovvero se ne conservano pochissime tracce e resti; lei mi ha fatto notare che non solo mancano ma anche “ci mancano”, tanto che le andiamo a cercare, a diseppellire. Perché a molti di noi mancano così tanto tutti questi anonimi del passato?

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Non a tutti mancano, dipende dal tipo di interesse e sensibilità. Credo che sia invece comprensibile che ci manchino, perché il passato è qualcosa che non passa, è qualcosa che resta. Resta una piccola cosa, resta quello che riusciamo a ricostruire, però in ogni caso si tratta di cose che ci segnano, che ne siamo consapevoli o no. Basta pensare alla storia delle famiglie: ti raccontano del tuo bisnonno, che non hai mai conosciuto, e quel racconto diventa parte di te, anche se non è la tua storia reale, non l’hai vissuta, però è la storia della tua famiglia e questo si riflette su di te. Così vale anche per le comunità. Andiamo a ritrovare, anche emotivamente, questa presenza e materialità della vita, soprattutto noi pre-protostorici che non abbiamo i testi scritti. I testi vanno sempre interpretati perché sono un punto di vista, mentre noi abbiamo a che fare con una realtà non mediata: frammentaria, poca, ma reale. Mi ricordo un episodio, di quando stavamo costruendo ad Arslantepe il magazzino per i materiali archeologici nella casa della missione. Avevamo steso i mattoni crudi ad asciugare e avevamo un cane che era un disastro, zampettava dappertutto lasciando le impronte sui mattoni, invano cercavamo di scacciarlo. Quell’anno stavamo scavando uno dei piccoli templi all’interno del palazzo del IV millennio e rimuovendo uno strato di mattoni crollati è venuto fuori un mattone con l’impronta di un cane. Per me è stata un’emozione fortissima perché ho visto la mia vita, con il cane che saltellava sui mattoni, e la loro, e ho pensato: chissà quanto l’hanno cacciato per non fargli rovinare i mattoni. Questi momenti ti avvicinano innegabilmente ai tuoi antenati. I passati sono passati fino a un certo punto.

Tornando al libro e all’idea di archeologia che permette di costruire storie alternative, una cosa che mi è piaciuta molto sono i paralleli tra le varie aree geografiche. L’archeologia può servire per destrutturare il modo lineare di raccontare la storia? Quella temporalità lineare – una civiltà dopo l’altra – che definisce la narrazione nelle discipline storico-artistiche.

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Certamente, l’aspetto comparativo è fondamentale. Io sono partita da un’isola, che è stata Arslantepe, ma quando ti poni delle domande devi allargare lo sguardo e allora ti accorgi delle differenze con altre aree. Avendo lavorato in Egitto, conoscevo bene quella storia e comparandola con la Mesopotamia meridionale ho visto delle differenze fondamentali in quella che apparentemente è la stessa cosa: la nascita dello Stato, delle prime forme statali con potenti monarchi che controllano la società. Poi ho visto che la situazione in Anatolia occidentale è del tutto diversa, lì non ci sono mai state agli inizi forme statali mature; il primo stato in Anatolia è quello degli Ittiti, più tardo quindi, rispetto alle fasi formative dello Stato, e che comunque copia il modello dal mondo mesopotamico. Le differenze sono profonde e ti aiutano a capire che non c’è un’evoluzione unilineare, che le possibilità sono tante e diverse a seconda delle circostanze ambientali – dove ti trovi e quali sono le risorse che quell’ambiente ti offre – ma anche sociali. Da lì nascono storie diverse. Questa è una di quelle cose che ho molto assorbito nei miei anni messicani perché lì ho fatto un seminario con alcuni famosi studiosi, tra cui Kent V. Flannery, William T. Sanders, che avevano questa tendenza alla comparazione, molto più evidente rispetto ai colleghi europei. Di recente sono stata invitata a un workshop in Arizona sulle economie pre-moderne, dove sono state confrontate tutte le economie antiche: la Mesopotamia, gli Inca, gli Aztechi, l’Europa dell’età del Bronzo, Roma. Forse gli americani a volte esagerano, la comparazione deve essere cauta e rigorosa, ci devono essere gli stessi elementi per poterla instituire, però è utile: comprendi tante cose quando capisci che c’è, c’è stato, anche un altro modo per fare quella stessa cosa.

Nel libro riporti un aneddoto risalente a uno dei primi anni ad Arslantepe. Un giorno Salvatore Puglisi fece capire al fotografo dei reperti che doveva interrogarsi sull’oggetto prima di fotografarlo, perchè fotografarlo senza prima osservarlo e coglierne in qualche modo l’anima, equivaleva a creare un ibrido, un pesce fuor d’acqua. Un pesce lo si fotografa nell’acqua oppure cotto, in pentola – diceva Puglisi. Per un archeologo il pesce, il reperto, ha senso soltanto nel suo contesto, in relazione ad altri, al luogo, alle vite passate. “Iniziavamo a capire” – scrivi – “come guardare oltre l’oggetto, alla sua storia e alla sua vita, prima che il tempo lo trasformasse in una «rovina»”. Ti viene naturale, ormai, guardare oltre l’oggetto?

Direi di sì, mi viene naturale perché la prima cosa che mi domando, quando lavoro sul terreno e con i materiali, è con che cosa quel reperto stava. Cioè l’associazione, la relazione. Quell’oggetto di per sé non significa nulla, inizia a prendere significato quando lo contestualizzo, lo ricolloco nel suo ambiente. Che c’era vicino? Un focolare, un altro oggetto? Così capisci come funzionava e viveva. Anche il reperto in sé ti può dire delle cose; è il frutto di lavoro, di manipolazione, ti rivela come è arrivato a essere quello che è. Per esempio sulle ceramiche, sugli oggetti di pietra e di metallo facciamo analisi chimiche per vedere la composizione dei materiali per sapere da dove vengono, se da vicino o da lontano, quindi se il manufatto è frutto di commercio o è stato prodotto in loco. Oggi sulle ceramiche si fanno le analisi dei residui alimentari anche quando non si vedono, perché c’è sempre qualche molecola intrappolata nella terracotta; quindi preleviamo dei campioni, in accordo con il restauratore (per non togliere frammenti la cui assenza potrebbe impedire la ricomposizione del vaso), su cui fare analisi biochimiche. Così si può ricostruire se quel vaso ha contenuto latte o prodotti derivati del latte, cereali, carne. Quindi ci sono due piani: l’analisi dell’oggetto in sé che contiene la storia di chi l’ha fatto e la storia di chi l’ha usato, e l’analisi “oltre l’oggetto”.  Anche l’oggetto singolo può rivelare tante cose. Però poi è importante vedere con cos’altro viveva.

Secondo te da quando esiste l’archeologia moderna è cambiato qualcosa nel nostro atteggiamento e nella nostra relazione con le cose? Sapere che esistono delle figure come gli archeologi ci influenza, ci fa cambiare qualcosa in quello che lasciamo, e quindi in quello che resta?

Credo che dovremmo esserne molto più influenzati. C’è una visione distorta dell’archeologia: si tende a vedere il tesoro, l’oggetto speciale, antichissimo e quindi di valore. Mentre dovremmo capire molto di più come gli oggetti parlano, a prescindere che siano di valore o meno, e come sono parte della nostra storia. Questo modo di guardare gli oggetti antichi ci aiuterebbe a vivere anche gli oggetti di oggi in un modo diverso. A conservare certe cose non perché preziose ma perché ci parlano del nonno, del padre, di quel momento particolare. Secondo me succede poco.

Prima, a un certo punto, hai definito l’archeologia una scienza. È davvero una scienza? Perché molti archeologi affermano con forza che lo è, come se così facendo la elevassero rispetto alle discipline umanistiche?

Arslantepe – Lavoro sui materiali in situ

Per me l’archeologia è una scienza come l’antropologia, la letteratura. Le scienze umane sono scienze. Diverse da quelle naturali (le cosiddette ‘scienze dure’), con altre prospettive, metodologie, finalità. L’archeologia è una scienza anche per l’approccio interdisciplinare con scienziati, economisti, sociologi, storici ma principalmente perché ricostruisce scientificamente, rigorosamente, un mondo del passato. Ma c’è una cosa per cui l’archeologia non è ancora una scienza, secondo me. Riguarda il metodo. Purtroppo non c’è ancora un comportamento metodologico uniforme. È chiaro che ogni sito è diverso da un altro, ogni problematica è diversa, però ci sono delle regole di base, per esempio su come si scava, che non possono non essere seguite. Questo ancora non accade in archeologia, e questo non la rende una scienza. Scienza significa che quando parli con un altro collega devi poterti fidare dell’informazione che ti dà, e fidarsi significa sapere come ha ottenuto i suoi dati. Mentre noi spesso non lo sappiamo. È un gravissimo handicap.

Secondo te quale ne è la ragione?

Arslantepe Edificio delle Udienze nel Palazzo del IV mill. aC. MG_8903 rit. m

Un po’ deriva dalla storia della disciplina, che è stata diversa a seconda del paese. Sono stata di recente in Germania e ho visto che i tedeschi scavano in un modo completamente diverso dal nostro. Un modo che io personalmente non approvo. Bisognerebbe confrontarsi ma nessuno ha il coraggio di farlo; il modo in cui si lavora diventa tradizione, abitudine radicata. C’è un mio ex allievo che da anni mi dice di scrivere un libro sul metodo e sulla documentazione di scavo. Non lo voglio fare non perché non penso sia importante ma perché temo le reazioni dei colleghi, che potrebbero essere negative. Perché se uno si sente dire, seppur implicitamente, “stai sbagliando tutto”, si irrigidisce. Lo temo e quindi non lo voglio fare esplicitamente, lo farò in un altro modo. Stiamo preparando i vari volumi della serie di Arslantepe, li stiamo pubblicando periodo per periodo, proprio per dare preminenza al contesto; le analisi in ogni volume saranno divise non per categorie di materiali, ma per periodi storici. Nel primo volume ci saranno la storia del sito, degli scavi archeologici, la sequenza cronologica e stratigrafica generale e, primo per ordine di importanza, la descrizione dettagliata della metodologia di scavo e di documentazione. Non la impongo a nessuno ma è la nostra. I colleghi, vedendo i risultati, potranno valutare se quella metodologia ha funzionato oppure no.

“Tutto il futuro esiste nel passato” è una frase di Truman Capote che riporti nel libro. Mi fa venire in mente altri riferimenti al passato, da Agamben che ha scritto che il vero spazio di accesso al presente è il passato, a Lalla Romano, che più volte è ritornata sul concetto del passato come spazio di libertà, anche da reinventare: riferendosi in particolare al suo spazio autobiografico, ha detto che il passato è l’unico campo realmente modificabile, l’unico spazio di manovra. In Ritorno a Ponte Stura (Einaudi, 2000) ha scritto: “Nelle origini c’è tutto quello che sarà. Non è determinismo, termine odioso, ma libertà. Parola sacra. // Memoria è libertà? Deve esserlo. La memoria è sacra, ma non è un carcere. // Amare la memoria è anche amare il futuro.”
Si torna all’idea del limite, perché il passato (proprio perché passato) è uno spazio limitato. Un limite che però serve: il perimetro entro il quale spaziare. La riscrittura del passato – proprio e di tutti, personale e collettivo – è anche un esercizio di libertà?

Assolutamente sì. Molto bella questa frase. Sapere come sono avvenute le cose, conoscere le origini, non è una prigione che ingabbia. Perché le cose, come dicevo prima, hanno avuto tante possibilità. Capire che c’erano alternative ti permette di legare in modo libero, aperto, questo passato con il presente. Di leggerlo in una chiave che è comprensione ma non è dogma. L’archeologia scompone la storia; ma quello scomporre è esattamente la storia. È appunto questo spazio di libertà. Destrutturare significa comprendere, continuare a crescere e a capire. L’idea del passato come una cosa scritta per sempre e definitiva è un’idea sbagliata. Ampliando il discorso, questo vale anche per l’idea della verità nella scienza. Durante la pandemia c’è stato un grande equivoco su questa questione: medici e scienziati davano ognuno la propria versione come verità e questo ha creato sfiducia nella gente che vedeva i contrasti tra un’opinione e l’altra senza comprendere che questo fa parte della scienza. Noi non abbiamo verità, ci avviciniamo continuamente a una qualche verità ma lo facciamo per passi ed errori, è il modo di procedere di tutta la scienza. Questo senso di libertà rispetto al passato, sapere che puoi vedere cose diverse da quelle viste finora; questo passato che si allarga, cresce, ti invade, è una visione che condivido.

Arslantepe. Lavoro di documentazione e rimozione dei materiali in situ DSC01217

Parliamo di archeologia al femminile. Nella tua carriera ti è capitato di incontrare ostacoli determinati dal fatto di essere donna?

 Ostacoli, nel vero senso della parola, no. Anche perché non ho avuto figli, un fattore che purtroppo a volte condiziona le colleghe perché, per come è concepito nella società il ruolo della donna, il nostro mestiere che ci impone di passare diversi mesi fuori casa crea più difficoltà a chi ha una famiglia da gestire. In questo senso sono stata favorita. Diciamo però che ho dovuto “combattere” contro la mentalità dei colleghi maschi, che spesso faticano a vederti in una posizione di apice. Ostacoli non ne ho incontrati, ma modi di guardare paternalistici sì. Il paternalismo mi ha dato molto fastidio. Quel dire, parlando di te, “è molto brava, aiutiamola” e commenti simili che non si fanno con un maschio. Poi, certo, ho lavorato in un paese islamico, tendenzialmente maschilista, ma lì non ho avuto nessun problema. Si è creato un rapporto bellissimo con la comunità e con gli operai, mi hanno accettata sin da subito, anche perché anche chi mi aveva preceduto era stata una donna, molti stimata e amata (Alba Palmieri), quindi ho avuto la strada aperta. Dal momento in cui si sono fidati, sono diventata una persona, né donna né uomo: una persona. Mi invitavano alle cerimonie di circoncisione dove le donne non erano ammesse, io non andavo ma sentivo che mi percepivano come una persona indipendentemente dal sesso. È stato molto bello, però te lo devi conquistare.

Secondo te ci sono delle peculiarità di una archeologia al femminile?

Ci sono molte donne nell’archeologia, un po’ per un fatto pratico, perché è un mestiere che non porta soldi, è difficile, non fa facilmente far carriera, quindi gli uomini lo lasciano volentieri alle donne. Però è anche un mestiere che trovo molto adatto alle donne. L’attenzione verso le cose, verso la memoria, secondo me è una caratteristica più presente nelle donne. Quindi credo che siano due i fattori: quello pratico – il mestiere non è appetibile – e il fatto che le donne spesso riescono a fare bene questo lavoro perché hanno questo tipo di cura e di sensibilità.

Mi piace chiudere le interviste con una domanda che non c’entra niente, la prendo da un libro di Max Frisch, Diario di coscienza, dove ogni capitolo inizia con una sequenza di domande su vari temi della vita, dell’esistenza. Quella che ho scelto per te è questa: Chi avresti preferito non incontrare mai?

Non è una domanda facile. Forse qualche collega, di cui ovviamente non faccio il nome, per i danni fatti non a me in particolare ma ai giovani. Parlo di persone nell’ambito universitario, nell’accademia, che presentano questo mestiere, l’attività di ricerca, come una carriera da scalare e si pongono di fronte ai giovani come quelli che li possono aiutare, proteggere, raccomandare. Questo atteggiamento causa un danno enorme. Ho avuto degli studenti che sono purtroppo caduti in questa trappola, affidandosi a docenti che gli facevano balenare maggiori possibilità di successo. Io non l’ho mai fatto, perché non l’hanno fatto i miei maestri. Da Salvatore Puglisi, Alba Palmieri, Enrica Fiandra ho ricevuto l’insegnamento ad essere principalmente persone. Non ho fatto una carriera veloce, sono diventata professore ordinario molto tardi rispetto a tanti colleghi. Anche nei riconoscimenti. Qualche anno fa mi hanno associata all’Accademia Nazionale dei Lincei, dopo che la National Academy of Science americana mi aveva cooptato. I riconoscimenti mi sono venuti prima dall’estero e poi in Italia. Non ho mai sgomitato, non lo dico come piaggeria o forma di presunzione, però è vero. Non l’ho fatto perché l’ho imparato, anche dai miei genitori. Non solo è disonesto ma soprattutto, per me, non è importante. Quello che è importante è crescere, imparare, lavorare a qualcosa di realmente utile. È l’unico modo vero per lasciare un segno. E questo ho sempre cercato di insegnarlo agli studenti. Quelli che colgono questo spirito in modo positivo, in sintonia con questi obiettivi, mi hanno seguita, e non sono pochi. Con chi mi ha preceduto e con loro abbiamo formato una Scuola, che spero duri ancora a lungo. Qualcuno è stato invece attratto dalle allodole della carriera facile. I docenti di questi ragazzi sono coloro che avrei preferito non incontrare mai.

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