Interventi – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sun, 05 Jan 2025 22:06:42 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 La coscienza di Gustav (appunti meyrinkiani) 6 https://www.carmillaonline.com/2025/01/04/la-coscienza-di-gustav-appunti-meyrinkiani-6/ Sat, 04 Jan 2025 21:00:32 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=86017 di Franco Pezzini

(Per le parti precedenti, cfr. qui)

Pipistrelli, succhiatempo e volti verdi (1916)

Non esiste – spiega Meyrink – un unico modo per ricercare la conoscenza: e  tutta la vita non è altro che “domande formate” ogni volta diverse e risposte che ognuno comprende in modo differente, per poter seguire la strada del proprio cuore. A fronte di un alfabeto ebraico di sole consonanti, ognuno deve trovare le vocali segrete, che schiudono un senso destinato a lui solo – altrimenti la parola viva si sclerotizzerebbe in un dogma morto.

Nessuna sorpresa dunque se la produzione di Meyrink guarderà [...]]]> di Franco Pezzini

(Per le parti precedenti, cfr. qui)

Pipistrelli, succhiatempo e volti verdi (1916)

Non esiste – spiega Meyrink – un unico modo per ricercare la conoscenza: e  tutta la vita non è altro che “domande formate” ogni volta diverse e risposte che ognuno comprende in modo differente, per poter seguire la strada del proprio cuore. A fronte di un alfabeto ebraico di sole consonanti, ognuno deve trovare le vocali segrete, che schiudono un senso destinato a lui solo – altrimenti la parola viva si sclerotizzerebbe in un dogma morto.

Nessuna sorpresa dunque se la produzione di Meyrink guarderà ad agenzie sapienziali diverse e in modo molto libero: lo stesso sincretismo in fondo molto sfumato che nel Golem ammanta l’affannosa ricerca di un sé superiore, recupera con misura gli antichi spunti – tanto vivi a inizio Novecento in un intero orizzonte di riflessioni teo/antroposofiche – su una sophia perennis di universale verità al di là delle singole tradizioni religiose, e che pervaderà le opere successive. Grazie a una perizia narrativa non comune in questo genere di opere, e che riconduce a coerenza impianti simbolici estremamente variegati e senza cesure tra Occidente e Oriente, Meyrink si colloca così nella stessa tradizione dell’amico Kubin, su una lunga tradizione di poeti visionari (da Dante a Jakob Böhme, a William Blake, a Hoffmann…): e la sua scrittura offre una strana vita propria, un’esistenza vibrante a cose altrimenti morte e rigide – come il golem, in fondo.

Tale lavoro sul suo primo grande lavoro finirà con il trovare seguito nella successiva produzione di racconti – in realtà sempre meno – e soprattutto di romanzi di Meyrink.

Per quanto riguarda i racconti, va ricordata la raccolta Pipistrelli, più precisamente Fledermäuse. Sieben Geschichten (Kurt Wolff, Lipsia 1916), che incontrerà l’attenzione di Jung e accorpa ad alcuni testi dal “Simplicissimus” altri nuovi. Dalla rivista viene in particolare La visita di Johann Hermann Obereit nel Paese delle Succhiatempo (J. H. Obereits Besuch bei den Zeit-Egeln, “Simplicissimus”, 47, 1916): vi scopriamo come i desideri vani degli uomini popolino la realtà di larve vampiresche, e solo chi riesca a estirparli conosce una rinascita spirituale e può porre l’epitaffio “Vivo” sulla propria tomba (come in effetti Meyrink farà).

Mentre, per i testi nuovi inseriti nella raccolta, la straniante novelette Meister Leonhard (Meister Leonhard), rielabora l’elemento autobiografico del difficile rapporto con la madre – descritta come oppressiva, agitata e superficiale, con “un irrequieto volo a zig zag da pipistrello” –, uccisa accidentalmente dal figlio, che lei ha interrotto mentre sta consumando un atto carnale con la serva Sabine poi risultata sua sorella. Da confidenza dolente gravida di colpa (lo scrittore non ha ucciso sua madre, ma forse qui spurga simili vaghe fantasie) e di rincrescimento (la mancanza di dialogo col padre, di cui pure intuisce il valore), il testo diventa così altro. La lotta contro l’insensatezza nel segno di quella sorta di svastica templare che è la croce di Satana – “quattro gambe umane in corsa, piegate ad angolo retto all’altezza delle ginocchia” – racconta dunque la storia tortuosa di un percorso verso una coscienza superiore, tra richiami ai Templari e al Bafometto, a un satanismo/luciferismo d’antan e a Meister Eckart.

Sempre nella raccolta, un’altra novelette nuova dai toni apocalittici congrui all’epoca, I quattro fratelli della luna (Die vier Mondbrüder: Eine Urkunde), ripropone in chiave onirica, tra incubo e grottesco, il tema della fine del genere umano, richiamando tra l’altro l’amicizia e la stima per Alfred Kubin di Meyrink – come peraltro qui si chiama il narrante stesso, cameriere personale del conte di Chazal, poi del magister Peter Wirtzigh. Interessante l’apparire nella storia, fitta di richiami alla luna e alle macchine, di una maschera espressionista alla Hoffmann poi presente anche in altre opere meyrinkiane, il cadaverico dottor Sacrobosco Haselmayer, ospite del conte il 21 luglio di ogni anno. La chiave allucinatoria dell’insieme fa esplodere ogni certezza identitaria sul narrante.

Per i romanzi, dello stesso anno di Pipistrelli è Il volto verde (Das grüne Gesicht. Ein Roman, Kurt Wolff, Lipsia 1916; attingo qui all’edizione Adelphi, 2012), che inizialmente avrebbe dovuto intitolarsi L’Ebreo errante. Un romanzo strano, chiaramente espressionistico che interesserà Jung; un romanzo molto più esoterico del Golem, anche se si tratta di intendersi sull’aggettivo. Di nuovo, troviamo una riflessione sull’interiorità e l’urgenza di recuperare un senso vero alla vita, quindi soprattutto filosofico e mistico in una Storia giunta alla crisi. Certo rispetto al romanzo precedente l’approccio per il lettore è meno agevole e fluido, come a forzarlo a uno sforzo di comprensione su una materia ostica. Anzi, la dimensione esoterica finisce col riguardare anzitutto la forma: in tutta la prima parte il lettore vaga alle prese con strani incontri, eventi bizzarri, maschere grottesche e veggenti più o meno improbabili. Poi lentamente i fili si stringono e la storia prende forma. Sembra esoterica anche la struttura, quattordici capitoli (sette e poi sette, numero simbolicamente rilevante per rosacroce e cabalisti, e divisi da una profonda cesura) con una visione finale.

 

Nel momento in cui, verso il 1915, Meyrink è alla ricerca di un nuovo orientamento, e si rivolge deliberatamente alle dottrine esoteriche orientali, è chiaro che gli elementi grotteschi debbono a poco a poco scomparire dalle sue opere letterarie.

Certo, nei suoi romanzi degli Anni Venti, Das grüne Gesicht e Walpurgisnacht, troviamo dei personaggi, dei motivi e persino una sorta di intermezzi grotteschi che ostacolano lo svolgersi dell’azione e irritano o divertono il lettore […] [Helga Abret-Brauner, Grottesco e fantastico nei racconti di Meyrink, in AA. VV., Meyrink scrittore e iniziato, Basaia, Roma 1983],

 

mentre nell’ultima parte della sua produzione il grottesco scomparirà.

Sul piano letterario Il volto verde è una creazione curiosa (viene persino da domandarsi se alcuni personaggi e magari episodi non siano recuperati dal primo impianto del Golem, con il proliferare di bozzetti poi stralciati per migliorare struttura e coesione), ma i bassifondi di Amsterdam – in particolare della zona ebraica – sono evocati in modo molto felice e i personaggi efficacemente descritti. L’azione non vi ha troppa importanza, ed è portata avanti non tanto da meccanismi di trama quanto dalle dinamiche tra personaggi.

 

Creando personaggi doppi e personaggi complementari, che spesso simboleggiano contemporaneamente il successo o la sconfitta, i diversi stadi sulla via dello sviluppo esoterico, crea un vasto scenario, colorito e plastico, in cui si stacca con tanto maggior chiarezza l’evoluzione dell’ “eroe” Fortunat Hauberrisser. [Joseph Strelka, “La faccia verde”, in AA. VV., Meyrink scrittore e iniziato, cit.]

 

E per seguire il filo dei simboli occorrerà sgranare episodio dopo episodio. Prepariamoci a un vagare febbrile, a tratti ciondolante.

Come detto, stavolta la storia si ambienta non a Prega ma ad Amsterdam, dove uno straniero visita in Jodenbreestraat – la “via larga ebraica” insediamento di molti transfughi ebrei dalla penisola iberica, e dove visse anche Spinoza – la “Bottega delle Meraviglie” di tal Chidher Grün. Un negozio pieno di oggetti bizzarri, sostanzialmente di accessori per prestidigitazione: teschi di cartapesta che sputano cartigli con profezie, cartoline erotiche, icone di suocere con labbra chiuse da lucchetti, manette, libri dei sogni egizi, scarafaggi finti, garanzie di qualche successo sociale come “‘il terrore dello scompartimento’ (un sistema infallibile per allacciare relazioni stabili durante i viaggi in treno, a uso dei commessi viaggiatori) consistente in zanne di lupo da fissarsi sotto i baffi”… e molto altro.

Nel locale, l’elegante viaggiatore austriaco nota un figuro dai tratti balcanici intento a leggere un giornale, ma anche una commessa propria connazionale, una graziosa signorina bionda. Questa riesce a vendergli il gioco di prestigio chiamato “I turaccioli volanti” e tenta di spiegargli il trucco, ma vengono interrotti dall’irrompere di “un gigantesco zulù dalla barba nera e crespa e le labbra tumide” con un chiassoso impermeabile a scacchi e una lancia in mano. Introdotto costui – che apprenderemo chiamarsi Usibepu, lavora al circo Carrè e al suo paese è uno stregone – e buttato fuori un tipo che lo segue lanciando sputi, la spiegazione sui turaccioli riprende, ma il visitatore dubita di riuscire a imparare e ripetere la manipolazione. Emerge invece che Usibepu conta di tornare in patria con una buona quantità di trucchi nuovi per far colpo sui compatrioti, e il figuro dall’aria balcanica – il signor Zitter Arpád di Bratislava – gli sta appunto insegnando una serie di giochi di prestigio alquanto macabri.

Insomma trucchi, e non solo:  in uno scaffale il visitatore nota una serie di volumi dal taglio dorato siglati da titoli come Storia della società corale accademica di Bonn e La cura delle emorroidi nell’antichità classica, ma che all’interno racchiudono la birichina “Biblioteca di Sodoma e Gomorra, Raccolta di scritti per scapoli impenitenti”. Mentre un vecchio ebreo in caffettano appare intento a scrivere nel retro, da un orologio a muro spunta al posto del cucù un busto femminile discinto che canta una canzonetta sconcia…

Stranito da quell’ Hellzapoppin’, lo straniero se ne andrebbe se non si sentisse oppresso da una tale astenia da piombare a sedere, meditando sull’insensatezza delle cose: ecco di nuovo come Pernath un antieroe modernista, con una dimensione interiore difficile, demotivato a vivere e un po’ depresso. Sospetta anzi che esista qualche patologia causata da “quel senso di morte che spira da tutte le cose create dall’uomo, siano esse belle o brutte”: il suo amico barone Pfeill sostiene che questo sia l’effetto tossico dei quadri appesi – ciò che spiegherebbe lo stato di sofferta tristezza tradito dalle immagini dei santi cristiani a fronte della serenità delle statue del Buddha. Lo straniero ha una posizione profondamente scettica verso le proposte di società e civiltà, e oltretutto nella “Bottega” il bisbiglio tra il figuro balcanico e Usibepu sta cullandolo facendolo assopire. Anche se poi si risveglia con “la sensazione di aver ricevuto una sconvolgente quantità di rivelazioni”, di cui trattiene come precipitato un’unica frase:

 

Raggiungere il sorriso eterno è più difficile che scovare fra le migliaia di tombe su questa terra il teschio portato sulle spalle in una precedente vita; l’uomo dovrà aver pianto tutte le sue vecchie lacrime prima di poter osservare il mondo con occhi nuovi, sorridendo.

 

Ancora nel sonno – ma convinto di essere sveglio – vagheggia così di costringere le cose a rivelargli il loro vero significato; ritiene di aver scoperto che “tutto si morde la coda, come dice il [suo] amico Pfeill” e in assenza di insegnamenti più saggi fantastica di ritirarsi nel deserto come il Battista a nutrirsi di cavallette e miele selvatico. Ma una voce (plausibilmente sempre nel sogno) lo irride: fa tante fantasie e poi è così scemo da pagare in argento uno stupido giochino come quello dei turaccioli? Non distingue una bottega delle meraviglie dal mondo reale e non intuisce “che nei libri della vita c’è qualcosa di diverso da ciò che è stampato sul dorso? Lei dovrebbe chiamarsi Grün, non io” (nel senso di Grün come “verde” ma anche come “ancora inesperto, immaturo”). A parlargli è il vecchio ebreo proprietario del negozio, con una benda nera sulla fronte, occhi profondissimi e un colore del volto tendente al verde oliva e con riflessi bronzei: “così doveva essere la pelle degli uomini preistorici, che si diceva avesse il colore dell’oro verde scuro”. E infatti gli confida di essere sulla terra dai giorni dell’apparire della luna: ha visto uomini che erano scimmie, e in fondo lo sono ancora e guardano in basso. Continuano a scoprire ulteriori dimensioni dell’infinitamente piccolo, ma così si può continuare indefinitamente senza risultati.

 

Io sono colui che affissa lo sguardo al basso e all’alto; il pianto l’ho scordato, ma non ho ancora imparato a sorridere. Il diluvio universale ha inumidito i miei piedi, ma non ho mai conosciuto nessuno che avesse motivo di sorridere; può anche darsi che non l’abbia notato, e che passandogli accanto abbia tirato dritto.

Ora è un mare di sangue a lambirmi i piedi, e proprio adesso dovrebbe presentarsi uno a cui è dato sorridere? Non credo proprio. È più probabile che dal fuoco sgorghi l’acqua.

 

Comunque quel volto gli toglie il respiro, e tornerà come un’ossessione lungo tutto il romanzo.

Lo straniero acquista ancora un teschio di cartapesta che sputa dalle mandibole rotolini di carta con profezie, e se lo fa spedire a casa, prima di uscire frastornato. Apprendiamo qui che si chiama Fortunat Hauberrisser ed è un ingegnere (Fortunat è il nome – purtroppo beffardo, a fronte della triste vicenda che lo attende – del figlio di Gustav).

Ripensiamo al discorso di questa sorta di Ebreo errante. Quando il romanzo appare l’Europa è in guerra, e lui ha raccontato “Ora è un mare di sangue a lambirmi i piedi”; ma nel secondo capitolo che adesso inizia veniamo informati che la guerra è finita “generando conflitti politici interni sempre più aspri”. In sostanza si tratta di un’ucronia, con un’ideale fenditura tra il conflitto reale che pesa sulla vicenda, cioè la Prima Guerra mondiale, e la pace virtuale di un affannato, immaginario dopoguerra, che comunque conduce lì stranieri di ogni nazionalità, per permetterne un insediamento duraturo o anche solo transitorio. L’esodo riguarda però più i benestanti, afflitti dalla pressione fiscale nei propri paesi, che gli strati poveri della popolazione: le entrate di uno spazzacamino o di un macellaio sono in questa situazione molto superiori allo stipendio di un professore universitario, portando gli intellettuali alla dispersione e riempiendo i vecchi alberghi olandesi in un clima di totale incertezza. Come vedremo, a dispetto delle sferzate ai borghesi preoccupati dal soldo, Meyrink talora vi si avvicina pericolosamente.

Nel caffè “De vergulde Turk”, labirintico e fumoso, una signora attende stizzita il barone Pfeill senza rendersi conto che è già arrivato in un altro angolo del locale, assieme all’amico ingegner Hauberrisser: la signora intende vendergli biglietti per una festa in maschera e il barone prende la faccenda – e l’agitazione di lei – con ironia lieve. No, gli bastano quattro biglietti, non cinque: e la dama (la classica professionista della carità ferma in superficie) se ne va innervosita.

Senza notare che è arrivata una bambina, nipote del calzolaio Klinkherbogk, portando una busta e avvertendo il barone che si è sbagliato e ha pagato mille fiorini invece di dieci: Pfeill le lascia benevolo la cifra in più e la congeda nella commozione del calzolaio. Non volendo toccare l’episodio per delicatezza, Hauberrisser gli chiede se conosca la leggenda dell’Ebreo errante, il leggendario calzolaio di Gerusalemme che avendo impedito il riposo a Gesù diretto al Golgota, si trova costretto a vagare fino al suo ritorno. Pfeill riferisce all’amico varie storie sul tema (compresa la tradizione che lo chiama Chidher, il Verde, guarda caso come il proprietario della “Bottega delle Meraviglie”), commentando la stranezza che subito prima gli fosse tornato alla memoria un certo ritratto visto a Leida molto tempo addietro. E descrive un volto di carnagione olivastra che l’ha perseguitato a lungo, persino nei sogni: un volto che ora inquieta l’amico perché pare descrivere proprio l’uomo dalla faccia verde incontrato. L’amico gli chiede cosa pensi degli ebrei, e il barone risponde che

 

“[…] Per lo più sono corvi senza penne […] Ma di tanto in tanto fra loro compaiono delle aquile, questo è certo. Per esempio Spinoza”.

“Dunque non sei antisemita”.

“Neanche per sogno. Se non altro perché non ho alcuna stima dei cristiani. […]”.

 

Gli ebrei esagerano troppo, i cristiani sono troppo superficiali – almeno secondo il barone. Lo scambio è particolarmente interessante a fronte delle accuse a Meyrink dei nazionalisti antisemiti.

Allontanatosi il barone, Hauberrisser tenta di darsi ragione delle strane coincidenze inanellatesi, ma la spiegazione telepatica non basta. Può trattarsi di coincidenze, e del resto, “se gli uomini che si somigliano avessero anche un destino simile?”, legato a forma del corpo e lineamenti del viso, come la vita pare confermargli. Anche l’astrologia non basta a spiegare, deve trattarsi di ben altri “pianeti che circolano nel sangue, intorno al cuore”… ma solo ora Hauberrisser nota un certo tipo vestito di bianco, con panama e monocolo. E riconosce il “professor” Zitter Arpád della “Bottega delle Meraviglie”, ora senza baffi e con capelli diversamente acconciati per chissà quali loschi traffici. Hauberrisser finge dunque di non averlo riconosciuto, neanche quando il tipo gli si presenta improbabilmente come un conte polacco, simula antichi rapporti con la famiglia di lui e racconta una serie di clamorose panzane – alle quali l’ingegnere non abbocca, mostrando scarso interesse. Poi il tipo affetta disprezzo verso gruppi di ebrei chassidim, inizia a pontificare sull’esplosione dell’isteria religiosa e di idee messianiche persino in Africa, dove sarebbe comparso un “Elia nero” operatore di miracoli… e a Mosca ha conosciuto anche un capo zulù che opera la magia grazie a un feticcio. Ora ha saputo che si trova in Olanda e lavora in un circo… ma l’ingegnere lo molla e se ne va.

In realtà Hauberrisser è stato preso da una violenta agitazione. Camminando, si imbatte nel circo cui è aggregato Usibepu (ovviamente è lui il presunto operatore di magie del conte polacco), ma rinuncia a fermarvisi.

 

C’era nell’aria qualcosa di imponderabile, di informe, che sferzava i suoi nervi – quella stessa ansia enigmatica e velenosa che in alcuni momenti, ancor prima di partire per l’Olanda, lo aveva oppresso con forza tale da spingerlo suo malgrado ad accarezzare il pensiero del suicidio [come Pernath, ricordiamo].

Quale poteva essere l’origine di questa ricaduta?

 

E finisce con l’associarla all’inquietudine dei fanatici religiosi, per avendo motivazioni diverse. L’aveva avvertita già molto prima della guerra, ma era riuscito a reprimerla con lavoro e svaghi. Più tardi l’aveva interpretata come un presentimento del sanguinoso conflitto. Ma ora tornava quasi come disperazione – e un po’ tutti gli parlavano di simili emozioni. Abbastanza impressionante leggere oggi queste pagine, in paesi psicologicamente depressi come il nostro e nel confronto tra demotivazione sociale e agenzie predatorie (di cui il trasformista cialtrone Arpád è una buona rilettura letteraria). Non è neppure troppo strano che al termine della guerra la pace interiore non sia affatto tornata.

 

La causa era molto più profonda.

Spettri – giganteschi, informi e riconoscibili solo dalle terrificanti devastazioni che producevano –, spettri evocati all’apposito tavolo da vecchi avidi e ambiziosi durante riunioni segrete, avevano fatto milioni di vittime acquietandosi poi per qualche tempo, almeno in apparenza. Ma ora il più terribile di tutti i fantasmi, da lungo ormai in attesa, risvegliato dai miasmi di una civiltà finta, in decomposizione, sollevava appieno il suo capo di Medusa dall’abisso, e scherniva l’umanità dicendole che era stata soltanto una ruota della tortura quella che essa aveva fatto girare – e avrebbe continuato a far girare per sempre, pur conoscendone le conseguenze – nella speranza illusoria di ottenere la libertà per le generazioni a venire.

 

Torniamo così idealmente all’immaginario del racconto Il gioco dei grilli e in realtà di parecchi testi anche non meyrinkiani sui presunti influssi occulti dietro la prima guerra mondiale. Ma idealmente si prepara anche il clima del successivo romanzo La notte di Valpurga.

Nelle ultime settimane Hauberrisser pareva aver superato il disgusto nei confronti della vita vagheggiandone una da eremita urbano, ma ora riaffiora il vecchio disagio. Le facce intorno non sono quelle di chi vuole divertirsi e rilassarsi, ma presentano solchi e rughe con segni di sradicamento, come i volti nelle raffigurazioni di sfrenate danze di appestati medioevali o stormi d’uccelli in preda al panico, in un abbrutimento eccitato e degradante. Mentre ruggiti e odori acri dal circo gli ricordano l’antica immagine di un’orsa incatenata in un serraglio ambulante, che ancora si pente di non aver riscattato. Forse a gridare vendetta fino al Giudizio Universale saranno gli spettri degli infiniti animali torturati dagli uomini. Ma in fondo, si domanda, lui ha mai compiuto un’azione di qualche rilevanza? Ha studiato e costruito macchine poi arrugginite (qui si può pensare al tema della macchina in I quattro fratelli della luna), dando il proprio contenuto alla generale inutilità…

È il tramonto, e l’ingegnere si fa condurre fuori Amsterdam con una vettura fin troppo lenta: arriva a vedere la campagna, i canali, mulini e pascoli, lasciando che l’inquietudine trascolori in malinconia. Mentre calano le ombre, ha la sensazione che la sua testa sia una prigione in cui è rinchiuso lui stesso: poi torna agli abitati, si fa lasciare dalla vettura e prosegue a piedi verso il suo appartamento, lungo canali maleodoranti fitti di chiatte immobili, tra gente che si raccoglie per la sera e porte che odorano di pesce e sudore, nell’opprimente desolazione dei porti olandesi (grande la suggestione pittorica di queste pagine). Per un attimo desidera di abbandonare quell’Amsterdam tanto cupa e triste per tornare a città più luminose a lui familiari, ma il senso tossico di decadenza e degrado di quelle soffoca la nostalgia.

Imbocca poi vie eleganti dove prostitute e protettori si sono ora insediati, e portieri in livrea al piano terra, mentre finestre aperte a rimorchiare clienti nei piani alti lasciano un sapore di squallore e di morte. Entra infine in un locale a metà tra il varietà volgare e il ristorante, popolato da canzonettisti e comici grotteschi e da un pubblico spiacevole. Trovando posto a un tavolo con quattro madame borghesi piuttosto stagionate: si sente additato dalla gente intorno e non capisce, tanto stordito dagli assurdi numeri dello spettacolo da ritrovarsi alla fine quasi solo nella sala. Dove fervono il traffico degli inservienti per cambiare l’aria nello spazio chiuso – con un enorme ventilatore e spruzzi di profumo – e i preparativi per l’arrivo di un altro pubblico molto più elegante, che ora riempie tutto il locale.

Hauberrisser si trova di nuovo al tavolo con quattro signore, ora un’anziana e tre giovani e belle russe. Intorno è il tipo di pubblico raffinato, né fatuo né profondo, che i filistei di ogni nazionalità invidiano e odiano: e a un tratto sul palco, illuminata da minuscole lampadine, appare la scritta “La Force d’Imagination!”. Uno spettacolo straniante non descritto, ma lasciato alluso, sconvolge il Nostro, che esce dal locale con un senso di orrore, “l’indistinta, soffocante paura dell’ignoto a lui da tempo familiare: l’improvvisa consapevolezza dell’inarrestabile degrado dell’umanità” (cosa ha fatto l’intrattenitore, davanti a tutti?). La scena che contrappone ai filistei un pubblico più raffinato e in fondo putrido può leggersi come sintomatica di un’avversione che conduce Meyrink più vicino allo spirito borghese da lui tanto sferzato, in una contraddizione almeno apparente ma comprensibile conoscendo la sua vita e i suoi tormenti interiori. Anche certi suoi commenti aciduli verso Thomas Mann, pure diviso tra arte e valori borghesi – e con cui dunque, in teoria, una maggiore sintonia sarebbe stata possibile – dà conto di contraddizioni mai composte, probabilmente per le amarezze di un’esistenza. Mentre – si è osservato – la visione apocalittica del Volto verde potrebbe in fondo proiettarsi nello scenario de La montagna incantata.

Ma quando il Nostro gira un angolo si trova davanti alla serranda abbassata della “Bottega delle Meraviglie”, in un edificio che pare un enorme teschio umano. Torna a casa domandandosi se la visione dell’uomo dal volto verde sia stata un sogno – tanto più che nel ricordo ricostruisce elementi paradossali, come il fatto che il vecchio ebreo sembrasse non posare i piedi per terra e risultare trasparente. Comincia a dubitare dei propri sensi, e vagheggia che nello spazio “ogni avvenimento che si sia verificato una volta esiste in eterno come immagine conservata nella luce”. Insomma ci sarebbe la possibilità di far rivivere il passato… e prende ad avere l’impressione che lo spettro del vecchio ebreo gli cammini accanto.

Raggiunge casa, dove è arrivato il pacchetto con il teschio di cartapesta e si corica, ma viene destato da un rumore che finisce con l’imputare a quel giochino nella scatola. Gli è caduto sul viso un rotolo “di carta fitto di caratteri sbiaditi”. Si riaddormenta, rivedendo in sogno le figure grottesche che ha incontrato negli ultimi giorni.

Intanto il barone va a visitare nella sua casa sontuosa l’amico ebreo dottor Sephardi (il cognome parlante richiama i sefarditi, gli ebrei della penisola iberica che, come Spinoza, avrebbero avuto un ruolo importante ad Amsterdam). Non lo vede da anni, e vorrebbe confrontare con lui alcuni ricordi sul quadro dell’Ebreo errante di cui ha parlato con Hauberrisser. Scopre allora che stranamente, dopo anni, Sephardi l’aveva cercato proprio quel giorno: e lo trova in compagnia della bellissima signorina Eva van Druysen, figlia di un amico del padre. Ancora più surrealmente, la signorina è giunta lì da Anversa per confrontarsi con Sephardi proprio sul dipinto in questione, presuntamente esposto a Leida nella collezione Oudheden: peccato che, andando sul posto, abbiano appreso che quel quadro non c’era mai stato… Perché le interessa tanto? Il fatto è che il defunto padre era ossessionato da un’apparizione che gli occupava la mente, era convinto che fosse “vicino il tempo in cui all’umanità sarebbero stati strappati gli ultimi punti d’appoggio, e una tempesta spirituale avrebbe spazzato via qualsiasi cosa che mano d’uomo avesse mai costruito”. Si salverà solo – diceva – chi avesse visto “dentro di sé il volto verde bronzeo del Precursore, dell’Uomo primordiale, di colui che mai assaporerà la morte”. Che non è uno spettro, ma anche se si presentasse così, in realtà è l’unico uomo sulla terra che non può essere definito tale. La sua benda nera in fronte nasconderebbe il simbolo della vita eterna, invece che mostrarlo come Caino: “Non posso dirti se sia Dio; non lo capiresti”. Passati gli anni, allo scoppiare della guerra la giovane aveva pensato che la tempesta spirituale evocata dal padre si riferisse a quell’evento: no, spiega Sephardi, la guerra ha solo diviso l’umanità in due fronti che non possono più capirsi, chi ha visto l’inferno e chi la riduce a inchiostro da stampa – e il dottore ammette di trovarsi tra questi ultimi. In effetti la giovane pensa che il padre si riferisse al non-poter-vivere-e-non-poter-morire che affligge ora il mondo (una suggestione, per inciso, che pare emergere in tutte le epoche di forte ridefinizione del mondo: si pensi solo alla Ballata del vecchio marinaio di Coleridge, 1798, con la sinistra partita a dadi tra Morte e Vita-in-Morte).

Parlando col dottore è dunque emerso il discorso del famoso ritratto che pare non esistere, a dispetto della memoria del barone – che per questo è venuto dal dottore, davvero gliel’aveva descritto anni prima? Veniva forse da un suo sogno? un tempo quell’immagine lo perseguitava… il dottore sospetta che il volto fosse emerso a Pfeill in stato ipnotico, a rivelargli quella “seconda vita, eterna” vissuta solo nel sonno profondo e dimenticata da svegli. La “rinascita” di cui parlano i mistici cristiani gli pare un risveglio dell’Io in un regno indipendente dai sensi esterni.

Si noti che il volto verde richiamato ossessivamente nel romanzo vi risulta un simbolo esoterico

 

straordinariamente diversificato: essa possiede un aspetto positivo ed un aspetto negativo che è esaminato, compreso e spiegato in modi estremamente differenti dai diversi personaggi del romanzo in funzione della loro origine e del loro grado di evoluzione interiore, senza che, tuttavia, tali spiegazioni si escludano l’una con l’altra. Piuttosto, a volte si completano, ed altre testimoniano anche della tendenza sincretica di un atteggiamento esoterico.

[…] la faccia non appare soltanto ad Hauberrisser. Essa agisce piuttosto come un campione di valore supremo, infallibile, la cui apparizione (e non-apparizione), mutevole per stile ed intensità, può fornire al lettore chiavi sicure sullo stato e la natura dello sviluppo interiore di tutti i personaggi. [Joseph Strelka, “La faccia verde”, cit.]

 

Classico del resto dell’esoterismo non è solo un atteggiamento di tipo sincretico ma un procedere per aggregazione astorica di dati, fattispecie “simili” eccetera. D’altronde occorrerebbe considerare l’ipotesi che l’accumulo di significati differenti del simbolo usato da Meyrink rispondesse anche a una logica narrativa, letteraria, di suggestione ricorrente e appunto ossessiva, ipnotica: l’enfasi sul romanzo esoterico qui non è senza basi, ma occorre non dimenticare che comunque si tratta di un romanzo.

A proposito di mistici cristiani, Sephardi annuncia che lui e la signorina quella sera andranno a una riunione di un gruppo confessionista, nello Zee Dyk (ora non più quartiere di malavita ma di tranquilli artigiani: c’è solo una bettola malfamata, la “Prins van Oranje”, e dovremo entrarvi). L’invito arriva da un vecchio eccentrico collezionista di farfalle, tale Jan Swammerdam, che crede di essere il re Salomone (il nome si ispira a quello di un famoso naturalista di Amsterdam). La zia della ragazza, signorina de Bourignon, dama di carità del convento delle beghine – l’ennesima beghina ridicola della produzione di Meyrink –, va da lui tutti i giorni. Pfeill si stupisce che Swammerdam sia ancora vivo, racconta di averlo frequentato da ragazzino quando catturava rettili, anfibi e insetti – guadagnandosi l’ingresso in una società entomologica – e il poverissimo Swammerdam era più abile di lui nella caccia. Il vecchio aveva la fissazione di poter catturare un certo tipo di scarabeo stercorario verde, e i ragazzini si divertivano a seminare falsi indizi con sterco di pecora: ma un giorno, il falso non aveva impedito che lui trovasse davvero l’insetto. La moglie morta gli era apparsa nel sonno assicurandogli che l’avrebbe trovato… e alla commozione di lui, i monelli si erano sentiti in colpa.

La scena successiva vede il dottor Sephardi ed Eva van Druysen raggiungere la “nuova Gerusalemme” dei devoti, dove la zia di lei li saluta come re Baldassarre ed Eva. Ci sono Jan Swammerdam (“re Salomone”) e la sorella (“Sulamith”), il vicino di casa Lazarus Eidotter (“Simone il crocifero”, un vecchio ebreo russo), la signorina Mary Faatz dell’Esercito della Salvezza (“Maria Maddalena”), un giovane commesso butterato della drogheria di sotto (“Ezechiele”) – mentre la zia si presenta come “Gabriella, la forma femminile dell’arcangelo Gabriele”. Relativizzando le amenità devote della consorella, Swammerdam racconta che in quella casa c’è un vero profeta, il calzolaio Anselm Klinkherbogk (detto a sua volta, scopriremo più tardi, “Abram”); rimarca che non sono spiritisti – le cui idee Meyrink disprezza –, ma assorbono la forza dei nomi spirituali che recano, e presentano (tutti, meno Lazarus Eidotter) sorta di stimmate che la signorina van Druysen richiama all’isteria, ma lui spiega come di tipo non patologico. Poi Swammerdam presenta il caso di Klinkherbogk, e come un evento mistico gli abbia donato la “Parola Interiore” (che palesa la verità in una lingua misteriosa): Sephardi è scettico su simili profezie del subconscio, ma poi ripensa alla storia dell’insetto verde e tace. Nel clima sovraeccitato emergono notizie e siparietti improbabili – Eidotter resuscitato da “Abram”, ma forse aveva solo perso i sensi; “Ezechiele” che cade in trance profetizzando per il Logos, ma in realtà sembrano crisi di abbrutimento per la vita che conduce… ed Eva si rende conto della fatica di un’anima nell’ambito di una classe sociale non privilegiata. Come osserva la zia, “Melchiorre” è il barone Pfeill che aveva mandato soldi tramite la nipotina del calzolaio, e il re dei Mori “Gaspare” (che si rivelerà Usibepu) non è lontano; ma la nipotina ora annuncia che devono andare di sopra, dove “il nonno sta vivendo la seconda nascita”.

Segue un dialogo mistico molto profondo di Eva con Swammerdam, che la invita a interpellare il proprio spirito, l’intervento altrui è fuorviante. La meta è vedere se stessi con gli occhi di Dio, liberi da logiche di prove e punizioni, in vista di un progetto di guarigione interiore. Ma per giungere più rapidamente alla grande meta, occorre ordinare alla propria più intima essenza di guidare senza soste per la via più breve. Eva chiede cosa succederebbe se lei volesse a un certo punto tornare indietro da quel percorso mistico, e lui la esorta a non far troppi giuramenti, a non prendersi troppi impegni solenni. Del resto i voti, spiega lui, possono essere stati presi in una vita precedente o persino nel sonno profondo. Ed Eva medita che “Ogni lamentela riguardo alla presunta ingiustizia del destino doveva ammutolire di fronte al pensiero che ciascuno percorreva soltanto la strada che si era scelto”.

Swammerdam la invita comunque a non preoccuparsi se non trovasse alcun senso nelle attività del loro gruppo: a volte un sentiero scende verso il basso ma è la via più breve per salire, a volte “la febbre della guarigione spirituale assume l’aspetto di una diabolica putrefazione”. E anche il mischione di Antico e Nuovo Testamento  dei loro nomi spirituali non è senza senso, in quanto cammino da Adamo a Cristo… Per capire queste scene, va detto che Meyrink considera il fanatismo religioso come parallelo al materialismo, e paragona le due posizioni a Scilla e Cariddi; ma mantiene la cifra della complessità lasciando il problematico, sensibile e profondo Swammerdam in compagnia di figuri ridicoli o tragici (come il veggente Klinkherbogk, un Laponder meno profondo e sopra le righe alla deriva di trance pericolose, dove Meyrink critica esperienze pneumatiche d’epoca). Nei fatti, i nomi spirituali proclamati con troppa disinvoltura dalla zia di Eva, finiranno con il rivelare una propria mistica fatalità… A quanto pare, per questo gruppo surreale Meyrink si ispira al circolo mistico di Darmstadt ispirato dall’opera del calzolaio Jacob Böhme (1575-1624) e del cantante lirico, direttore d’orchestra massone Johann Baptist Krebs (noto con gli pseudonimi Johann Baptist Kerning e JM Gneiding, 1774-1851), il cui esercizi di yoga praticati da Meyrink per anni gli avrebbero alla fine recato danni fisici.

Davanti alla porta della soffitta la caricaturale signorina de Bourignon si bea del sorgere nel padre “Adam” dell’uomo spirituale proprio in quel solstizio d’estate: il calzolaio ha infatti sentito piangere dentro di sé, sintomo di “seconda nascita”. Klinkherbogk siede al tavolo da lavoro, davanti alla boccia di vetro da artigiano, e le persone affluite – compresi Eva e Sephardi – lo osservano: il profeta fissa il globo di vetro, poi cita alcune parole bibliche dall’episodio di Sodoma e infine emette una profezia calamitosa, triste anche verso se stesso, prima di ricadere in estasi.

Intanto nella losca osteria “Prins van Oranje”, dove sta la sformata cameriera Antje, detta (in onta a ogni preoccupazione di body shaming) la “scrofa del porto”, cinque figuri si sono riuniti a un tavolo. C’è il padrone, ex-timoniere; lo zulù Usibepu; un agente di varietà “gobbo e con dita simili a zampe di ragno, lunghe e orribili”; il losco professor Zitter Arpád, con abiti adatti al locale; un “indiano” in smoking bianco, figlio di un proprietario terriero dalle colonie, che vive lì ed è sveglio solo di notte per giocare e bere, perdendo sempre di più. Fino a mezzanotte sono costretti dalle dinamiche tra loro a giocare onestamente (del resto l’“indiano” è troppo ingenuo per barare, e lo zulù conosce troppo poco i segreti della magia bianca), ma a quel punto l’attenzione cala e i due extraeuropei vengono rapidamente depredati.

Ma Arpád vuole soprattutto carpire a Usibepu il segreto della camminata sui carboni ardenti, oltre a guardare con interesse la notizia che il calzolaio Klinkherbogk si sia fatto cambiare all’osteria un biglietto da mille fiorini. Reso euforico dall’alcool, dalla cena e dalla presenza della cameriera, Usibepu rischia d’essere accoltellato dai marinai gelosi di Antje. Circa i carboni ardenti, sfidato dal professore, dà prova delle proprie capacità: scivola in una grottesca trance, si mette nudo a danzare, poi impallidisce e si piazza immobile sui tizzoni – da cui alla fine esce illeso.

A quel punto “Maria Maddalena” viene a convocare l’africano per la riunione del gruppo religioso dal calzolaio. Zitter Arpád allunga le orecchie (è il tipo dei mille fiorini) e cerca di porre domande a Usibepu, affettando conoscenze di cultura africana che tuttavia quello demolisce. Lui non è iniziato alla magia Obeah T’changa, spiega, ma è un grande stregone Vidû T’changa, “serpente verde velenoso Vidû”, che non è un serpente animale: “serpente verde degli spiriti con volto di uomo. Serpente Vidû è un Souquiant. Suo nome Zombi”. Zitter Arpád che non capisce più niente e chiede lumi. Usibepu spiega:

 

Souquiant è un uomo che può cambiare pelle. Vive in eterno. Uno spirito. Invisibile. Può fare ogni magia. Zombi era il padre dei neri. Gli zulù suoi figli prediletti. Discesi dal suo lombo sinistro. […] Ogni re zulù conosce nome segreto di Zombi. Quando lo invoca Zombi appare come grande serpente velenoso Vidû con volto verde di uomo e sacro segno su fronte. Se zulù vede Zombi per la prima volta e Zombi ha faccia velata, allora zulù deve morire; ma se Zombi appare con segno su fronte coperto e volto verde scoperto, allora zulù vive ed è Vidû T’changa, grande stregone e signore del fuoco. Io, Usibepu, Vidû T’changa.

 

Ai fini del romanzo, non è così importante entrare nello specifico del discorso. Meyrink attinge ai dati antropologici delle ricerche d’epoca, e può non essere immediato riportare i dati a quanto troviamo oggi documentato (si pensi solo all’uso del termine Zombi, qui non un cadavere vivente come oggi di solito inteso). Più utile rifarsi a testi di riviste occultistiche d’epoca, come l’articolo Obeah Wanga, in “Light. Journal of Psychical, Occult and Mystical Research”, 9 novembre 1895: Obeah (“che uccide”, in sostanza uno stregone) indica pratiche magiche e religiose originarie dell’Africa centrale e occidentale, ricollegabili dunque ai sincretismi d’oltre Atlantico, e implicanti rapporti con tre tipi di entità, cioè revenant, zombi (intesi però spesso come spiriti), e Souquinant, spiriti separati dai corpi di appartenenza. L’Obeah vede in azione una sola persona, “mentre T’changa richiede i poteri uniti di un uomo e una donna, che agiscono in presenza di un Totem o Feticcio, nella forma di un Serpente Sacro” (ibidem). Quanto a Souquiant, sembra accedere alla costellazione onomastica di Soucouyant, Soucouyans, Soucriant, Sukuyâ eccetera, di assonanza francese e in uso specialmente nel folklore sincretico caraibico per un mutaforma. In sostanza Usibepu si sente offeso dall’essere etichettato come Obeah T’changa, stregone cattivo, mentre richiama i suoi poteri al più nobile Vidû, “attratto” nella simbolica del Volto verde.

Zitter Arpád non sa che farsi di quelle spiegazioni, ma si offre a “Maria Maddalena” come interprete con l’africano: lei però non è interessata, riesce a farsi capire egualmente da Usibepu e lo conduce all’alloggio del calzolaio. Questi ricade in stato di sonnambulismo: ed è in tale momento sospeso, quando Eva ha “l’impressione che un angelo sterminatore stesse emergendo tastoni dalla terra” che all’aprirsi lento della porta compare l’immagine del nero. Ma il calzolaio scatta in piedi rantolando che è lì di nuovo “il Terribile, con la maschera verde sul volto, colui che mi ha dato il nome di Abram e il libro da ingoiare” (si pensi al libro inghiottito in Apocalisse 10, 8-10) e ricade a sedere. Usibepu commenta allora che “Il Souquiant è dietro di lui” – poi il silenzio cala. Eva è terrorizzata, ha “la sensazione che un essere invisibile stesse attraversando la stanza con orrenda lentezza”. L’apparizione della gazza parlante Jakob non migliora la situazione… ma alla fine lasciano lì il calzolaio in trance con la nipotina addormentata, spingendo fuori anche Usibepu che ha adocchiato i soldi del veggente. Chiudono la porta a chiave.

Klinkherbogk sta sognando di traversare il deserto in groppa a un asino, con la piccola Katje (“Isacco”) al fianco e preceduto da un uomo dal volto velato. Nel sogno sacrifica la bambina come Abramo sta per fare con Isacco, e a quel punto l’uomo che li guidava svela il proprio volto: lo fa perché lui abbia la vita eterna, ma insieme cancella dalla propria fronte il simbolo della vita perché quella vista non consumi più la mente del calzolaio. “Poiché la mia fronte è la tua fronte e il mio volto è il tuo volto. In questo, sappilo, consiste la ‘seconda nascita’: tu sarai con me una cosa sola e riconoscerai che la tua guida verso l’albero della vita sei stato tu stesso”. Molti hanno visto il suo volto ma ignorano che quella sia la “seconda nascita”. Certo, la morte verrà a lui ancora una volta prima del passaggio della porta stretta, ma poi entrerà nel regno: e a quel punto “Abram” vede che il volto dell’interlocutore è di oro verde e riempie l’intero cielo (inevitabile ricordare, sia pure con diversi sottotesti simbolici, il finale de Il gioco dei grilli). Ma, allo sparire dell’uomo, lentamente torna in sé, trovandosi in mano la lesina insanguinata del suo lavoro, e nella penombra il corpo della nipotina che in stato sonnambulico ha ucciso con un colpo mortale. In preda all’angoscia vorrebbe farla finita e trova la porta chiusa dall’esterno; ma dalla catena che pende dalla parete esterna Usibepu, attratto dal denaro, si arrampica e balza nella stanza. Il veggente, alla deriva del ricordo del sogno, stende le braccia verso l’uomo che ha fatto irruzione: questo, terrorizzato, si avventa su di lui e gli spazza il collo. Poi si riempie le tasche dell’oro del calzolaio, e ne getta il corpo nel canale sottostante. L’immagine negativa del nero (ne ritroveremo un’eco ne La notte di Valpurga) risponde a stereotipi diffusi tra Otto e Novecento, da Poe a Verne a Stoker a tanti altri, e non stupisce – di certo non è in sé un marcatore ideologico che rimandi alle speculazioni razziali tanto care a certa destra italiota. D’altra parte, come vedremo, anche su Usibepu, Meyrink ci riserverà delle grosse sorprese.

Lontano dal teatro di tanta atrocità, Hauberrisser si sveglia, e scopre che il rotolo di carta cadutogli sul viso nella notte era stato lasciato in un ripiano sopra il letto da un precedente inquilino. Presenta un testo quasi illeggibile per inchiostro sbiadito e muffe da umido. Quel che resta pare tuttavia l’abbozzo di un lavoro letterario, senza nome né data: e sembra emergervi a un certo punto il nome fatale di Chidher Grün, per cui l’ingegnere resta terrorizzato. Diffidando di se stesso, dalla governante signora Ohms apprende che il precedente inquilino era un uomo molto ricco e strambo, poi la casa è rimasta vuota per parecchio tempo. Da quanto si legge nel manoscritto, la storia è quella di un uomo che lotta contro la sfortuna, pessimista come l’ingegnere: ma pur considerando una generale mancanza di progresso dell’umanità – che a grandi numeri gira in tondo – l’ignoto autore deve ammettere come alcuni individui abbiano invece saputo fare passi avanti. Purtroppo l’impossibilità di leggere lo scritto nella sua totalità rende impossibile capire come c’entri Chidher Grün: ma al pensiero di recarsi alla “Bottega” e interpellare il vecchio ebreo, Hauberrisser si domanda che colpa ne abbia costui, se il suo nome lo “perseguita come un coboldo”. Si chiede anzi se davvero gli importi della faccenda, e il disgusto della vita si riaffaccia in lui: così chiude a chiave il misterioso manoscritto, meno una pagina su cui legge il nome Chidher Grün, e che infila nel portafogli. Ma a quel punto arriva un telegramma dell’amico Pfeill che lo invita a un tè purtroppo fin troppo frequentato (e dove sospetta s’infilerà anche il finto conte polacco).

Da una carrozza si fa condurre nella Jodenbreetstraat, e insomma attraverso la Judenbuurt del ghetto – di cui viene offerta una vivida descrizione – giunge infine alla “Bottega delle Meraviglie”. Alla sua richiesta di parlare col principale, la commessa comunica che “il professore è partito ieri per un periodo di tempo indeterminato” ma Hauberrisser non stava chiedendole del ciarlatano balcanico: vorrebbe parlare qualche minuto con il vecchio signore ebreo dietro lo scrittoio. Lei ribatte che quella è una ditta cristiana, “gli ebrei non sono ammessi” e non ce n’era nessuno. Lui domanda allora chi sia il Chidher Grün citato nell’insegna, la ragazza ribatte allibita che il nome riportato è Zitter Arpád: e, uscito a controllare, Hauberrisser deve ammettere che è proprio così, la commessa ha ragione…

Confuso al punto da dimenticare lì il bastone da passeggio, l’ingegnere esce e si perde nei vicoli, tra edifici storti (pensiamo a quelle del Caligari), botteghe, cortili deserti dove “Tutto era come morto”. A un tratto si siede a riflettere domandandosi come sia possibile che lui, in fondo abbastanza giovane, ragioni come un vecchio. Fin oltre i trent’anni era stato schiavo delle passioni, ma forse la riflessività che gli era cresciuta dentro in modo nascosto. Recupera dunque la pagina del manoscritto dal portafogli, e che trova singolare corrispondenza con le proprie meditazioni. La voce narrante considerava la propria ignoranza di essere stata padrona del proprio destino senza saperlo, per aver “sottovalutato la magica potenza dei pensieri”, considerando “l’azione un gigante e il pensiero una chimera. Ora, chi impara a muovere la luce può manovrare le ombre, e con loro il destino; chi cerca di ottenere ciò tramite le azioni è soltanto un’ombra che combatte inutilmente con le ombre”. Ma tutto questo viene generalmente poco capito: “È l’ambiguità della lingua che ci separa. […] noi osserviamo i precetti quando dovremmo infrangerli e li infrangiamo quando dovremmo osservarli”. Gli uomini troppo spesso sono “accecati da una falsa umiltà, che li fa indietreggiare terrorizzati e barcollanti come bambini dinanzi alla propria immagine riflessa, e temono di essere folli quando giunge l’ora… e il suo volto li guarda”.

Le frasi recano sollievo al Nostro. E in fondo, riflette, gli strani eventi legati al nome di Chidher Grün fanno di lui un fortunato. Pregusta le lettura del manoscritto ma ora deve correre al tè dell’amico. E succede qualcosa di curioso: non lontano dalla panchina gli appare, con la sua tuta, quel che risulterà l’apicultore del convento, “Lo sciame gli era scappato ma ora ha ripreso la regina”.

La storia proseguirà ancora a lungo, ma già è chiara sul piano stilistico l’enfasi espressionistica sul grottesco, i personaggi “caricati”, le visioni fantastiche, il tessuto di allegorie, metafore e simboli, con una serie di temi come la città mostruosa. Si è osservato come il primo capitolo, alla “Bottega delle Meraviglie”, costituisca in fondo una grande metafora del mondo, e i primi capitoli evocano il sapore di calamità che grava su tutto un orizzonte d’epoca.

L’ingegnere si avvia, giunge a una piazza e si fa condurre da un’auto a casa dell’amico. Tra le mille immagini sfreccianti lungo il percorso una sola gli resta fissa negli occhi, quella dello sciame recuperato attorno alla regina. Un simbolo: così in fondo, pensa, il suo corpo è uno sciame di cellule attorno a un nucleo nascosto. Se riuscirà a vedere sotto una luce nuova le cose rese mute dall’abitudine, si dice, il mondo risorgerà davanti ai suoi occhi.

(6-continua)

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Il nuovo disordine mondiale / 27 – Crisi europea, guerra, riformismo nazionalista e critica radicale dell’utopia capitale https://www.carmillaonline.com/2025/01/02/il-nuovo-disordine-mondiale-27-crisi-del-capitale-guerra-riformismo-nazionalista-e-critica-radicale-dellesistente/ Thu, 02 Jan 2025 21:00:52 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=86178 di Sandro Moiso

“Vorrei solo riuscire a comprendere come mai tanti uomini, tanti villaggi e città, tante nazioni a volte sopportano un tiranno che non ha alcuna forza se non quella che gli viene data” (Etienne De La Boétie. Discorso sulla servitù volontaria, 1548-1552)

E’ davvero straordinario come l’attenzione alle trasformazioni reali del mondo e dei rapporti economici e sociali che le sottendono finisca col nascondere troppo spesso il fatto che anche il capitalismo non è altro che il frutto di un’utopia. Dimenticando così che, come tutte le utopie, anche quella attualmente ancora predominante può essere negata e rovesciata [...]]]> di Sandro Moiso

“Vorrei solo riuscire a comprendere come mai tanti uomini, tanti villaggi e città, tante nazioni a volte sopportano un tiranno che non ha alcuna forza se non quella che gli viene data” (Etienne De La Boétie. Discorso sulla servitù volontaria, 1548-1552)

E’ davvero straordinario come l’attenzione alle trasformazioni reali del mondo e dei rapporti economici e sociali che le sottendono finisca col nascondere troppo spesso il fatto che anche il capitalismo non è altro che il frutto di un’utopia. Dimenticando così che, come tutte le utopie, anche quella attualmente ancora predominante può essere negata e rovesciata nel suo contrario.

Un’utopia che, per quanto “concreta” e già interagente nella Storia, ha, come qualsiasi altra, la necessità di delineare dei piani e delle prospettive di perfezionamento e realizzazione del proprio sogno di un mondo ideale. In cui, però, la perfezione corrisponde alla massimizzazione dei profitti e dello sfruttamento della forza lavoro a favore dell’appropiazione privata della ricchezza socialmente prodotta da parte di pochi.

Per questo motivo, per giungere alla critica radicale di quella che Giorgio Cesarano1 definiva l’”Utopia capitale”, è sempre utile leggere e interpretare le voci dei suoi difensori, motivo per cui può rendersi necessaria la lettura di un articolo di Matthew Karnitschnig, Europe’s Economic Apocalypse, pubblicato su «Politico» a fine dicembre.

Karnitschnig è un giornalista che ha lavorato come redattore per Bloomberg, Reuters e Business Week, per poi trasferirsi al «Wall Street Journal» e diventare in seguito capo dell’ufficio tedesco dello stesso quotidiano finanziario, con sede a Berlino. Con il lancio della filiale europea del portale statunitense «Politico» con il gruppo Axel Springer nel 2015, è diventato capo dell’ufficio tedesco di Politico.eu. Per precisione è qui giusto ricordare che «Politico» è un quotidiano statunitense fondato negli Stati Uniti nel 2007, diventato in breve tempo uno dei media più importanti della politica di Washington e successivamente acquisito nel 2021 dalla Axel Springer Verlag.

In tale articolo Matthew Karnitschnig si accontenta, per così dire, di tracciare il ritratto di una crisi economica europea che definisce giustamente come apocalittica e che in gran parte dipende dalle differenti scelte fatte dall’economia americana rispetto a quella europea nel corso degli ultimi decenni.

Prima di iniziarne la lettura è però sempre meglio ricordare che già Marx ed Engels, nel Manifesto del Partito comunista (1848), avevano colto nel capitalismo la sua capacità fondamentale di unificare il mercato mondiale. Ciò che allora era ancora un fenomeno destinato a concentrare nelle mani del capitale europeo, inglese soprattutto, una parte considerevole della ricchezza mondiale, oggi è diventato normale, coinvolgendo un maggior numero di attori nella competizione per l’accaparramento dei mercati e della ricchezza planetaria. Così, mentre tutti si affannano ancora a disquisire sulla fine o meno della globalizzazione, occorre ricordare che Engels in un suo testo tardivo aveva individuato nello sviluppo capitalistico cinese il momento culminante nella marcia espansiva del capitalismo e Rosa Luxemburg, proprio nel suo testo L’accumulazione del capitale (1913), aveva colto i precisi limiti del mercato mondiale e la necessità dell’imperialismo come fase della concorrenza spietata tra i differenti capitalismi nazionali, obbligati proprio da questa ad abbattere ogni confine di carattere nazionale sia fuori che dentro casa.

L’uso intensivo del termine globalizzazione, purtroppo, ha nascosto da qualche decennio a questa parte queste semplici scoperte vecchie più di un secolo, per dipingere una situazione di novità che di tal fatta non porta con sé proprio nulla. Compreso l’uso smoderato degli strumenti finanziari per compensare le difficoltà e i ritardi di un’accumulazione contesa ormai fra troppi player.

Se negli anni Novanta, infatti, la globalizzazione era sembrata lo strumento più avanzato del controllo del capitalismo occidentale sul resto del mondo, appare ora chiaro che, come aveva affermato Giulio Tremonti sulla rivista «Aspenia» già allora, la miseria delle buste paga dell’Oriente non soltanto europeo ha finito col rientrare nelle buste paga dell’Occidente. Ovvero il basso costo del lavoro in tanta parte del mondo, e soprattutto in alcuni dei paesi più industrializzati posti al di là dei confini dell’Occidente (Cina e India per esempio), ha finito col rendersi necessario anche là dove per una breve occasione storica, la seconda metà del XX secolo, la classe operaia e i lavoratori in genere avevano potuto usufruire di alti salari e notevoli garanzie di carattere sociale.

Alla fine del secondo conflitto mondiale erano stati proprio gli Stati Uniti a premere sull’Europa affinché fosse realizzato un sistema di welfare utile a stabilizzare i rapporti tra le classi per abbassare la conflittualità sociale e aumentare i consumi interni, in un momento in cui prima della ripresa europea e italo-tedesca in particolare a seguito delle ricostruzioni post-belliche, gli Stati Uniti rappresentavano, con i loro stabilimenti intonsi, la fabbrica del mondo, sia per quanto riguardava i consumi materiali che per quelli immateriali (cinema, spettacolo, musica, etc.).

Sfuggivano a questo schema, certo, i paesi dell’Europa orientale o del cosiddetto «socialismo reale» in cui però le garanzie sociali erano accompagnate da una produttività lavorativa bassa e rivolta più alla produzione di beni legati alla produzione di beni e a quella dell’industria pesante, che non alla produzione e al consumo di massa, strumenti invece indispensabili per la costruzione di una comunità basata sui principi dell'”utopia capitale” (qui). Il tutto aggravato da una spesa militare molto elevata per poter mantenere paritari i rapporti di forza con l’Occidente all’interno della Guerra Fredda o presunta tale.

Sono quelli che gli storici dell’economia chiamano i «Trenta ruggenti», gli anni che vanno dal 1945 al 1975 e che vedono il capitale occidentale, europeo e nordamericano, dominare la scena economica mondiale. Anni in cui la protesta operaia e le lotte sociali, per quanto combattive, potevano ancora essere accontentate nelle loro richieste di fondo. Sia che si trattasse di miglioramenti sul piano lavorativo e salariale che su quello, formale, dei diritti.

Anni in cui i partiti di sinistra, almeno in Occidente e in Europa in particolare, poterono immaginare di governare il corso degli eventi socio-economici e politici insieme a quelli di centro e centro-destra, spingendo per soluzioni socialdemocratiche condivise con i partit centristi e di carattere repressivo nei confronti dell’estremismo di sinistra. Il tutto con il corollario di un’estrema destra che tornava svolger il ruolo di arma di riserva per mantenere al loro posto le spinte più estreme in direzione del rinnovamento.

Questo quadro, qui estremamente semplificato per ragioni di spazio e tempo, si incrinò a partire dalla metà degli anni Settanta, quando le vittorie delle lotte anticoloniali iniziarono a ridurre non tanto l’influenza dell’imperialismo occidentale sul resto del mondo quanto, piuttosto, le entrate e i sovrapprofitti di cui anche la classe operaia occidentale aveva potuto usufruire grazie al basso costo delle materie prime e del plusvalore massicciamente estorto in altre parti del globo o in paesi ancora non del tutto autonomi nel loro rapporto con il centro dell’accumulazione mondiale.

Primo momento in cui, come adesso2, gli Stati Uniti iniziarono ad approfittare di una crisi energetica, allora principalmente petrolifera, di cui a fare le spese fu, ancora una volta come ai nostri giorni, l’Europa occidentale nel suo insieme, sprovvista com’era di materie prime come gas e petrolio. Materie intorno alle quali lo scontro tra i teorici di un’autonomia energetica europea e dipendenti e rappresentanti delle Sette sorelle si era fatto particolarmente virulento e non soltanto sotterraneo se si pensa all’eliminazione dell’italiano Enrico Mattei. Fondatore dell’ENI e promotore di accordi con l’Algeria, appena giunta all’indipendenza, per il suo gas e il suo petrolio.

Sette sorelle fu una definizione coniata proprio da Enrico Mattei, per indicare le compagnie petrolifere che formavano il Consorzio per l’Iran e che dominarono la produzione petrolifera mondiale dagli anni 1940 sino alla cosiddetta crisi del 1973. La nascita delle Sette sorelle può essere fatta risalire alla firma degli accordi di Achnacarry siglati nel 1928 fra i rappresentanti delle compagnie petrolifere Royal Dutch Shell, Standard Oil of New Jersey (poi Exxon) e la Anglo-Persian Oil Company (APOC, diventata poi British Petroleum), cui si aggiunsero in seguito: Mobil, Chevron, Gulf e Texaco. E fu proprio questo l’accordo che Mattei osò sfidare, pagandone le conseguenze il 27 ottobre 1962, in un incidente aereo dalle modalità mai sufficientemente chiarite, ma in cui furono probabilmente coinvolti servizi segreti francesi e anglo-americani.

A far precipitare la situazione era stata la decisione dell’Eni di riconoscere ai paesi produttori di petrolio del Nord Africa e del Vicino Oriente il 75 % anziché il 50 % delle royalty. Oltre a intaccare i profitti delle Sette sorelle, l’iniziativa configurava una politica estera italiana conflittuale col Paese guida dell’Occidente e cogli stessi equilibri determinati dalla seconda guerra mondiale. Nei progetti dell’imprenditore l’Italia, povera di materie prime e privata delle colonie, avrebbe dovuto ricostituire una propria zona d’influenza nel bacino del Mediterraneo, cioè in un’area che Usa, Gran Bretagna e Francia consideravano di loro esclusiva pertinenza. Mentre, a partire dal 1958, Mattei aveva proceduto all’acquisto di ingenti quantitativi di petrolio sovietico.

Tutte scelte rispetto alle quali il Dipartimento di Stato USA aveva risposto bollando la politica energetica dell’Eni come neutralista, terzomondista e incubatrice di sentimenti anticoloniali e anti occidentali. A far precipitare la situazione concorsero, da ultimo, l’appoggio accordato da Mattei a un progetto di lega fra alcuni paesi arabi del Nord Africa, un suo possibile incontro con esponenti libici interessati a detronizzare re Idris e a concedere all’Eni i diritti di ricerca petrolifera detenuti da società americane, e un incontro coi governanti algerini in calendario per i primi di novembre[ del 1962. In particolare quest’ultimo era visto con particolare preoccupazione dalla Francia che, con gli accordi di Evian del 18 marzo 1962, riteneva di essersi assicurata l’esclusiva degli idrocarburi algerini.

Chiuso, a solo titolo di esempio degli scontri inter-imperialistici per il controllo delle materie prime, il capitolo Mattei, occorre ritornare a quello che è il motivo di fondo di questa riflessione ovvero l’analisi della situazione economico-politica attuale e le sue possibili conseguenze di classe. In America e in Europa. Europa che, come ai tempi di Mattei, non ha visto diminuire affatto le sue divisioni e dispute nazionali e imperiali, ma che comunque ha perso molte chance di rendersi indipendente dall’azione statunitense.

Due destini interni, prima di tutto, all’Occidente, che come stringhe di un DNA politico ed economico si avvolgono l’una all’altra senza soluzione di continuità e senza altra soluzione che un collasso di una delle due parti o dell’Occidente intero. Da qui le differenti analisi, per impostazione politica e scopi, che ne scaturiscono. Spesso accomunate, però, dal sentore di una crisi cui l’unica uscita sembra essere quella di una guerra allargata (su scala mondiale).

Una prospettiva, quest’ultima, che prevede il coinvolgimento delle classi meno abbienti, di quella media impoverita e di quella operaia, nel nazionalismo guerriero, che si promette unico capace di difenderne gli interessi, in un mondo di cui l’Occidente ha contribuito ad abbattere i confini. Così da spingere, con le differenti forme di populismo nazionalista a ristabilire i privilegi perduti. Sia che si tratti della classe operaia che ha votato per Trump, sia delle simpatie di un parte della stessa nei confronti dei populismi e dei partiti di destra in Europa. Dove, occorre ricordarlo sempre, il semplice coinvolgimento della stessa classe negli ideali del nazionalismo populista o fascista, non significa che questi siano rivendicabili anche a sinistra oppure interpretabili come manifestazioni politiche di ripresa della lotta di classe. Come sintomi del disagio, sia negli USA che in Europa, sicuramente ma non come base per possibili future alleanze.

Da questo punto di vista l’articolo di Matthew Karnitschnig è efficace nel rivelare il piano del capitale, in tutta la sua possibile spietatezza, e vedremo subito il perché, tralasciando le minacce dell’amministrazione Trump, che pure aprono l’articolo di Karnitschnig, e concentrando l’attenzione su ciò che l’analista espone con ferrea lucidità.

Sfortunatamente, Trump è solo un sintomo di problemi molto più profondi. Anche se l’UE è concentrata su Trump e su ciò che potrebbe fare in futuro, quando si tratta dell’economia europea, non è lui il vero problema. In definitiva, tutto ciò che sta facendo con le sue persistenti minacce tariffarie e la sua ampollosità sta alzando il sipario sul traballante modello economico europeo. Se l’Europa avesse una base economica più solida e fosse più competitiva con gli Stati Uniti, Trump avrebbe poca influenza sul continente.
Il grado in cui l’Europa ha perso terreno rispetto agli Stati Uniti in termini di competitività economica dall’inizio del secolo è mozzafiato. Il divario nel PIL pro capite, ad esempio, è raddoppiato oppure, secondo altri parametri, è aumentato del 30%, principalmente a causa della minore crescita della produttività nell’UE. In parole povere, gli europei non lavorano abbastanza. Un dipendente tedesco medio, ad esempio, lavora più del 20% in meno rispetto ai suoi colleghi americani.
Un’ulteriore causa del calo della produttività in Europa è l’incapacità delle imprese di innovare.
Secondo il Fondo Monetario Internazionale (FMI), le aziende tecnologiche statunitensi, ad esempio, spendono più del doppio di quanto spendono le aziende tecnologiche europee in ricerca e sviluppo. Mentre le aziende statunitensi hanno registrato un aumento della produttività del 40% dal 2005, la produttività della tecnologia europea è rimasta stagnante. […] “L’Europa è in ritardo nelle tecnologie emergenti che guideranno la crescita futura”, ha detto Christine Lagarde nel suo discorso a Parigi. È un eufemismo. L’Europa non è solo in ritardo, non è nemmeno in gara. [poiché] è rimasta molto indietro rispetto agli Stati Uniti e alla Cina. L’Europa non ha mai raggiunto il suo obiettivo di spendere il 3% del PIL in ricerca e sviluppo, il principale motore dell’innovazione economica. In effetti, la spesa per tale ricerca da parte delle aziende europee e del settore pubblico rimane ancorata a circa il 2%, più o meno dove era nel 2000.[Così] gli investimenti dell’Europa in ricerca e sviluppo “non sono solo troppo pochi, ma una quantità considerevole sta fluendo nelle aree sbagliate”3.

Alcuni lettori potrebbero a questo punto storcere il naso di fronte a quello che lo scomparso Emilio Quadrelli avrebbe definito come una sorta di “determinismo economico”, ma è soltanto a partire dal piano del capitale che è possibile comprendere quale sarà il terreno di scontro per la classe nell’immediato futuro e quali le possibili iniziative da prendere e le parole d’ordine con cui accompagnarle. Senza l’illusione di trovarle già belle pronte nella minestra riscaldata della democrazia compartecipativa o, peggio ancora, della destra cosiddetta sociale e populista. Ma continuiamo con la lettura di Karnitschnig.

È qui che entra in gioco la Germania. Il piccolo sporco segreto della spesa europea in R&S è che la metà di essa proviene dalla Germania. E la maggior parte di questi investimenti confluisce in un settore: l’automotive.
[…] Se non altro, l’Europa è stata abbastanza coerente. Nel 2003, i principali investitori aziendali in ricerca e sviluppo nell’UE erano Mercedes, VW e Siemens, il gigante tedesco dell’ingegneria. Nel 2022 erano Mercedes, VW e Bosch, il produttore tedesco di componenti per auto. […] Sebbene l’Europa rappresenti oltre il 40% della spesa globale in ricerca e sviluppo nel settore automobilistico, le decantate case automobilistiche tedesche sono riuscite in qualche modo a perdere il treno dei veicoli elettrici. Questo fallimento è al centro del malessere economico della Germania, come dimostra il recente annuncio di VW che avrebbe chiuso alcuni stabilimenti tedeschi per la prima volta nella sua storia. Il settore automobilistico tedesco, che impiega circa 800.000 persone a livello nazionale, è stato la linfa vitale della sua economia per decenni, contribuendo più di qualsiasi altro settore alla crescita del paese. […] La crisi del mondo automobilistico tedesco è solo la punta dell’iceberg. Il paese sta lottando per far fronte a una serie di altre sfide complicate che stanno minando il suo potenziale economico. Il più grande: un uno-due tra una società che invecchia rapidamente e una carenza di lavoratori altamente qualificati. […] Detto questo, al ritmo con cui le aziende industriali tedesche stanno licenziando i lavoratori, la carenza di manodopera potrebbe presto risolversi, anche se non in senso positivo. Solo nelle ultime settimane, aziende del calibro di VW, Ford e il produttore di acciaio ThyssenKrupp, solo per citarne alcuni, hanno annunciato decine di migliaia di licenziamenti4. Di fronte ad alcuni dei costi energetici più alti del mondo, al costo della manodopera e alla regolamentazione onerosa, molte grandi aziende tedesche stanno semplicemente alzando la posta in gioco e delocalizzando in altre regioni. Quasi il 40 per cento delle aziende industriali tedesche sta prendendo in considerazione una mossa del genere, secondo un recente sondaggio5.

All’interno di un quadro del genere è chiaro che le minacce di Trump potrebbero avere conseguenze disastrose come sottolinea l’artico pubblicato su «Repubblica» il 20 dicembre e già precedentemente citato.

Le possibili nuove restrizioni sulle importazioni di auto europee negli USA potrebbero costare 25 mila posti alle case automobilistiche. È quanto riporta lo Spiegel riportando i risultati di un’analisi della società di consulenza manageriale Kearney. Secondo il rapporto, fino a 25 mila posti di lavoro sarebbero a rischio presso Volkswagen, Mercedes-Benz, Bmw e Stellantis che hanno un business particolarmente grande negli Stati Uniti, così come i 1.000 maggiori fornitori europei, anche se alcuni dei produttori producono negli stabilimenti statunitensi.
“Ogni anno vengono esportati circa 640.000 Veicoli dall’Europa agli Stati Uniti: a seconda dello scenario, i dazi potrebbero portare a perdite di fatturato comprese tra 3,2 e 9,8 miliardi di dollari a livello di produttore, il che a sua volta avrebbe un impatto sui fornitori” spiega Nils Kuhlwein, partner di Kearney. In un primo scenario, le tariffe saranno trasferite integralmente ai clienti statunitensi. Il calcolo mostra che con tariffe del 10, 15 o 20 per cento, la domanda di veicoli importati potrebbe diminuire di 60.000 a 185.000 unità. Ciò significherebbe perdite di vendite per i produttori a prezzi di vendita di fabbrica fino a 9,8 miliardi di dollari, per i fornitori fino a 7,3 miliardi di dollari. Se le case automobilistiche trasferissero invece le tariffe ai loro fornitori, i loro risultati potrebbero diminuire fino a 3,1 miliardi di euro se venissero trasferiti i costi aggiuntivi del 60%, il che metterebbe in pericolo 25 mila posti di lavoro6.

A questo punto. esporre le ultime considerazioni di Karnitschnig sulla gravità e le ragioni di fondo della “crisi europea” per poi poter tirare le fila di quale potrebbe essere il futuro che ci aspetta in quanto europei e le contraddizioni su cui far conto per un’eventuale, ma per ora scarsamente visibile, ripresa della lotta di classe.

Essendo la più grande economia dell’UE, le disgrazie economiche della Germania si stanno ripercuotendo in tutto il blocco. Ciò è particolarmente vero nell’Europa centrale e orientale, che negli ultimi decenni le case automobilistiche e i macchinari tedeschi hanno trasformato nella loro fabbrica de facto. Che tu acquisti una Mercedes, una BMW o una VW, ci sono buone probabilità che il motore o il telaio dell’auto siano stati forgiati in Ungheria, Slovacchia o Polonia.
Ciò che rende la crisi dell’industria automobilistica tedesca così intrattabile per l’Europa è che il continente non ha nient’altro su cui contare. Anche qui, il contrasto con gli Stati Uniti è netto.
Nel 2003, le aziende che hanno investito di più in ricerca e sviluppo negli Stati Uniti sono state Ford, Pfizer e General Motors. Due decenni dopo, è la volta di Amazon, Alphabet (Google) e Meta (Facebook). Dato il livello dominante di questi attori e del resto della Silicon Valley nel mondo della tecnologia, è difficile vedere come la tecnologia europea possa mai giocare nella stessa lega, tanto meno recuperare.
Uno dei motivi è il denaro. Le startup statunitensi sono generalmente finanziate attraverso il capitale di rischio. Ma il bacino di capitale di rischio in Europa è una frazione di quello che è negli Stati Uniti. Solo nell’ultimo decennio, le società di venture capital statunitensi hanno raccolto 800 miliardi di dollari in più rispetto ai loro concorrenti europei, secondo il FMI.
Invece di investire i loro soldi nel futuro, gli europei preferiscono lasciarli in contanti in banca, dove circa 14 trilioni di euro di risparmi europei vengono lentamente divorati dall’inflazione.
[…] Quindi, se le auto e l’IT sono fuori, l’UE potrebbe semplicemente appoggiarsi alle tecnologie del 19° secolo in cui ha sempre eccelso come le macchine e i treni, giusto? Sfortunatamente, è qui che entrano in gioco i cinesi. Secondo una recente analisi della BCE, il numero di settori in cui le imprese cinesi competono direttamente con le aziende dell’eurozona, molte delle quali sono produttrici di macchinari, è salito da circa un quarto nel 2002 ai due quinti di oggi.
Con l’Europa che si trova ad affrontare una crescita stagnante, una competitività in calo e le tensioni con Washington – per citare solo alcuni punti critici – ci si potrebbe aspettare un robusto dibattito pubblico su un ampio programma di riforme.
Magari. Il rapporto di Draghi ha avuto circa un giorno di copertura nei principali media del continente e poi è stato rapidamente dimenticato. Allo stesso modo, il suono perpetuo dei campanelli d’allarme da parte del FMI e della BCE cade nel vuoto.[…] Ciò è probabilmente dovuto al fatto che gli europei non stanno davvero provando alcun dolore, almeno non ancora.
Sebbene l’UE rappresenti una quota sempre più ridotta del PIL mondiale, è in testa a tutte le classifiche globali per quanto riguarda la generosità dei sistemi di protezione sociale dei suoi membri. Con il peggioramento delle prospettive economiche della regione, tuttavia, gli europei si trovano di fronte a un brusco risveglio. [Mentre] paesi come la Francia, […] avranno difficoltà a mantenere un generoso stato sociale. Parigi spende attualmente più del 30% del PIL per la spesa sociale, tra le le più alte al mondo. Molti altri paesi dell’UE non sono molto indietro.
Se le fortune economiche dell’Europa non si invertiranno presto, questi paesi dovranno affrontare alcune decisioni difficili [Così] Il risultato probabile è una radicalizzazione della politica […] Il cui successo è tanto più inquietante se si considera che il peggio delle sofferenze economiche deve probabilmente ancora venire7.

Potrebbero bastare queste righe di Karnitschnig a delineare il quadro di quanto sta avvenendo in Europa, intorno a noi. Ma chi scrive, per amor del vero e non soltanto per rigirare, per così dire, il coltello nella piaga politica, intende sfruttare il quadro illustrato dal giornalista tedesco-americano per sottolineare come questo esprima un punto di vista preciso, quello del capitale e della sua utopia e, ancor più, di quello europeo se vorrà risollevarsi dalla situazione di scarsa competitività in cui si trova attualmente. Un quadro pienamente allineato con quello già esposto da Mario Draghi alcune settimane or sono e in cui la ricostruzione delle catene del valore è già pienamente evidente di per sé. Un quadro che ci mostra come lo stesso capitalismo sia oggi sempre più deciso a non concedere alcunché alla spesa sociale o al miglioramento e protezione delle condizioni di lavoro e dei diritti collettivi reali. Come dire: non c’è più trippa per i gatti, non illudiamoci.

Qualsiasi illusoria alleanza o ammucchiata elettorale, in un contesto in cui non è più possibile aspirare per via parlamentare alle conquiste ottenute nel corso dei fatidici “Trenta ruggenti“, non farà altro che dare fiato ai movimenti nazionalisti e populisti di destra o rosso-bruni che della fasulla promessa della difesa del risparmio europeo, degli interessi nazionali (facendo finta che questi davvero corrispondano a quelli delle classi sociali meno abbienti) e dei confini giuridici e politici che li racchiudono hanno fatto la loro bandiera. Bandiera che non può assolutamente essere fatta propria da chi ancora voglia rovesciare l’ordine economico e sociale esistente.

Non possono più esistere interessi comuni in Europa tra borghesia e proletariato, tra capitale e lavoro. Fin dai tempi della Comune di Parigi del 1871 che chiuse, almeno in questo continente, definitivamente la porta a qualsiasi ipotesi di collaborazione tra interessi contrapposti come quelli di classi storicamente nemiche giurate. Furono il fascismo, il nazismo e la pratica poltica dell’Internazionale ex-comunista stalinizzata a riproporre, purtroppo con successo, quell’ipotesi negli anni Venti e Trenta e con i processi resistenziali a prolungarla ancora oltre il secondo dopoguerra. Ma il trionfo di quell’ipotesi di collaborazione tra le classi significò, esattamente come nel caso del Primo macello imperialista ad opera delle socialdemocrazie, la partecipazione e il coinvolgimento in una guerra per la spartizione del mercato mondiale tra le più atroci e devastanti della Storia trascorsa fino ad allora. Sempre in nome, sostanzialmente, di un’utopia già condannata a morte dalle sue stesse insanabili contraddizioni.

Difendere l’interesse nazionale come alcuni, a sinistra e a destra, ancora fanno non significa altro che preparare una guerra in cui i cittadini e i lavoratori dovrebbero accettare qualsiasi sacrificio, pur di difendere i loro meschini e sempre irraggiungibili interessi individuali. Una rivendicazione che in qualche modo già sta alla base di tanto razzismo e di tanta xenofobia, utili soltanto a dividere un proletariato sempre più variegato, impoverito e in costante ricomposizione, sia sul piano internazionale che su quello interno ad ogni singolo paese.

In un contesto in cui l’utopia capitale, che per alcuni era giunta a un tal punto di sviluppo da far parlare della “fine della Storia“, un’idea che rispecchiava l’ottimismo culturale appartenente all’epoca del suo trionfo apparente8, quando sembrava che stesse per aprirsi un’era di prosperità globale, garantita dai valori liberal-democratici, ha rivelato l’errore insito nel sogno che ciò fosse possibile e nell’illusione «che il modello si sarebbe auto-perpetuato come un eterno punto di riferimento per l’umanità»9.

Una situazione foriera di sempre più devastanti guerre imperialiste e, dal punto di vista del rovesciamento dell’attuale modo di produzione o della sua difesa ad oltranza, di guerre civili inevitabili. In cui soltanto l’audacia della rivendicazione dell’internazionalismo al di sopra di ogni confine, del rifiuto della guerra e dei compromessi in nome degli interessi nazionali e la negazione radicale dei principi su cui si basa la forza dell’utopia capitale, fondendo insieme nella prassi rivoluzionaria la soggettività barbara della lotta di classe e l’oggettività delle condizioni date, potrà contribuire al superamento definitivo di tutto ciò che ancora opprime la maggioranza delle donne, dei lavoratori e dei giovani, migranti e non, al di qua e al di là dell’Oceano Atlantico.


  1. Giorgio Cesarano (1928-1975) rimane una delle figure centrali, ma anche una delle più rimosse, dell’attività politico-culturale italiana del secondo dopoguerra. Poeta, autore teatrale e televisivo, traduttore e soprattutto, a partire dal 1968, critico del capitalismo e militante dell’ala più radicale espressa dal movimento di contestazione dell’ordine esistente costituitosi in Italia proprio tra il ’68 e il ’77.  

  2. Si vedano in proposito le minacce di Trump sui dazi e sull’obbligo di acquisto di gas e petrolio americano da parte dei paesi europei: Trump minaccia l’Europa: “Dazi senza fine se non aumenteranno gli acquisti di gas e petrolio da noi”, «la Repubblica», Affari & Finanza -20 dicembre 2024. Minaccia comunque già anticipata nelle dichiarazioni di Ursula von der Leyen che ha dichiarato a novembre, con una più che evidente menzogna sui costi, che l’Ue prenderà in considerazione la possibilità di acquistare più gas dagli Stati Uniti: «Riceviamo ancora molto Gnl dalla Russia e perché non sostituirlo con quello americano, che è più economico per noi e fa scendere i prezzi dell’energia», «Corriere della sera», 20 dicembre 2024. In un contesto in cui gli Stati Uniti sono già il principale fornitore di Gnl e petrolio dell’Ue. Nella prima metà del 2024, hanno fornito circa il 48% delle importazioni di Gnl del blocco, rispetto al 16% della Russia.  

  3. M. Karnitschnig, Europe’s Economic Apocalypse, «Politico», dicembre 2024.  

  4. Nel corso delle ultime settimane è stato però annunciato un accordo sindacale sulla base del quale alcune dcine di migliaia di lavoratori lasceranno il lavoro su base volontaria mentre la chiusura degli stabilimenti è momentaneamente rimandata. Accordo giunto in seguito alla crisi del governo semaforo di Sholz che anticipa elezioni politiche che di qui a qualche mese potrebbero stravolgere ilquadro poltico tedesco.  

  5. M. Karnitschnig, cit.  

  6. Trump minaccia l’Europa: “Dazi senza fine se non aumenteranno gli acquisti di gas e petrolio da noi”, cit.  

  7. M. Karnitschnig, cit.  

  8. F. Fukuyama, La fine della Storia e l’ultimo uomo, 1992.  

  9. G. Segre, Perché siamo alla fine della fine della storia, «La Stampa», 27 dicembre 2024.  

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Elogio dell’eccesso / 6: Flannery O’Connor e la rivelazione della fede in una Chiesa senza Cristo https://www.carmillaonline.com/2024/12/30/elogio-delleccesso-6-flannery-oconnor-testimone-di-una-chiesa-senza-cristo/ Mon, 30 Dec 2024 21:00:23 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=86004 di Sandro Moiso

L’estate è stata molto arida quassù e il riuscire nuovamente ad andare a messa ogni giorno mi ha lasciato indifferente – mi vengono in mente pensieri orribili per meschinità e egoismo anche con l’Ostia sulla lingua (22 settembre 1947, Iowa City – A Prayer Journal)

L’altra sponda dell’Atlantico ha dato alla letteratura universale, fin dall’Ottocento, alcune autrici che vanno sicuramente annoverate tra le sue massime espressioni. Dalle poesie di Emily Dickinson (1830-1886) al femminismo di Mary McCarthy (1912-1989), intima amica di Hannah Arendt; dai racconti di Lucia Berlin (1936-2004) (per una loro recensione si veda di Sandro Moiso

L’estate è stata molto arida quassù e il riuscire nuovamente ad andare a messa ogni giorno mi ha lasciato indifferente – mi vengono in mente pensieri orribili per meschinità e egoismo anche con l’Ostia sulla lingua (22 settembre 1947, Iowa City – A Prayer Journal)

L’altra sponda dell’Atlantico ha dato alla letteratura universale, fin dall’Ottocento, alcune autrici che vanno sicuramente annoverate tra le sue massime espressioni. Dalle poesie di Emily Dickinson (1830-1886) al femminismo di Mary McCarthy (1912-1989), intima amica di Hannah Arendt; dai racconti di Lucia Berlin (1936-2004) (per una loro recensione si veda qui ) ai romanzi e racconti di ambiente western della canadese Annie Proulx. E proprio quest’ultima ci deve far riflettere sul fatto che alcune delle migliori espressioni letterarie basate sulle storie del West sono state frutto della penna di donne e non di uomini, come ancora troppo spesso un certo femminismo di maniera spinge a credere e come invece dimostra, ad esempio, la raccolta di racconti di Dorothy M. Johnson (1905-1984) da cui sono stati tratti tre dei film di genere più famosi di tutti i tempi: L’uomo che uccise Liberty Valance (John Ford, 1962), Un uomo chiamato cavallo (Elliot Silverstein, 1970) e L’albero degli impiccati (Delmer Daves, 1959)1.

Ma la più importante e straordinaria esperienza letteraria femminile made in USA è stata sicuramente quella di Flannery O’Connor (1925-1964), la cui vita fu segnata da un lupus eritematoso sistemico, ereditato dal padre, che l’avrebbe condotta alla morte non ancora quarantenne.

All’età di sei anni, Flannery insegnò a un pollo a camminare all’indietro e fu la prima occasione di celebrità. Gli inviati di una rivista filmarono la piccola “Mary O’Connor” con il suo pollo e quelle immagini fecero il giro del paese. Flannery disse in seguito: «C’ero anch’io con il pollo. Ero là solo per assisterlo, ma fu il momento culminante della mia vita. Tutto quello che è accaduto dopo, è stato solo una anticlimax».

Questa attenzione per i volatili da cortile l’avrebbe accompagnata sempre, anche quando nei primi anni Cinquanta le fu diagnosticato il lupus, motivo per cui fece ritorno alla fattoria di famiglia a Milledgeville, che avrebbe rinominato Andalusia e dove si sarebbe circondata di tutto quanto più le piaceva, sostanzialmente libri e animali da cortile. Così negli anni avrebbe allevato tacchini, quaglie, oche, fagiani, galline. Come avrebbe scritto in una lettera: «Dove viviamo io e mia madre c’è molto spazio e mi sono comperata alcuni pavoni e sto seduta per ore sui gradini del cortile a studiarli. Ho intenzione di diventare l’Autorità Mondiale sui Pavoni, e spero che una volta o l’altra mi offrano una cattedra alla Facoltà di Pollamologia.» Come avrebbe annotato Fernanda Rossini, in un suo saggio sulla vita e le opere di Flannery O’Connor:

Nonostante i frequenti rimbrotti della madre e le lamentele dello zio Louis, arriverà a possederne una trentina o più, decisa ad averne un numero sufficiente per inciampare in uno di loro ogni volta che esce di casa. Sono uccelli dal piumaggio e dal portamento maestoso che non ha scelto a caso di allevare, poiché, come lei stessa affermava: «Nella simbologia medievale rappresenta la Chiesa: gli occhi sono gli occhi della Chiesa […]. Il pavone rappresenta la Trasfigurazione, di cui è senz’altro uno dei simboli più belli». Nelle sue storie i pavoni, seppur animali comuni negli ambienti rurali, non sono mai presenze fortuite. Le piace osservarli, dipingerli e capita che raccolga e regali ad amici e visitatori le penne della ruota che l’animale cambia2.

Finì così col descriverli anche in un suo saggio intitolato The Kings of Birds.
Il lettore di queste righe deve perdonare il percorso apparentemente tortuoso e di scarso rilievo con cui ci si avvicina alla personalità di un’autrice le cui aspettative di vita erano di cinque anni al momento della scoperta della malattia, ma che sopravvisse per quasi altri quindici.

Un’autrice sprofondata, autenticamente, nella fede tipica e nella letteratura del Sud degli Stati Uniti, che già aveva dato autori del calibro di William Faulkner. Una letteratura intrisa spesso di comicità, tragedia e grottesco che in seguito, per molti versi sarebbe rientrata nella definizione di “American Gothic”, comprendente romanzi quali Santuario dello stesso Faulkner fino ai migliori racconti di autori come Joe Lansdale, ma che affondava le sue radici nella visionarietà di Edgar Allan Poe.

Tutti i suoi romanzi e racconti sono intrisi da una visione della vita cinica, violenta, spietata ma, allo stesso tempo, anche incommensurabilmente umana. Storie che vedono protagonista un’umanità povera, spesso diffidente, per la quale la religiosità, quasi sempre primitiva e al limite dell’eresia, rappresenta, apparentemente, l’unica possibile consolazione.

Infatti al centro delle sue opere spesso c’è l’incontro tra uomini e soprattutto donne e ragazze di campagna con personaggi travestiti da predicatori e uomini di Dio. Non che non lo siano nei fatti, ma certo poco onesti e disinteressati. Opere in cui la sensualità del Sud stride con la rigidita delle norme della fede o delle svariate congregazioni che animano quelle comunità e di cui l’autrice, pur essendo dichiaratamente cattolica, ci rende edotti.

Tra il gennaio 1946 e il settembre 1947, O’Connor tenne un diario che è sostanzialmente una raccolta di preghiere. In queste annotazioni raccontò la sua vita e, attraverso suppliche quasi sempre poco spirituali e molto materiali, cercò di intrattenere un dialogo con Dio. Come ebbe a scrivere ancora in A Prayer Journal, pubblicato soltanto nel 2013: «Per favore, Dio, aiutami a essere una brava scrittrice… Se devo faticare per il mio lavoro di scrittrice, caro Dio, lascia che sia al Tuo servizio. Mi piacerebbe essere santa in modo intelligente.»

Come si è già detto, Flannery era una fervente cattolica che viveva nella Bible Belt, il profondo Sud, e da qui discendevano le contraddizioni che animavano le sue opere, anche se occasionalmente ebbe modo di tenere conferenze su argomenti religiosi, viaggiando anche parecchio nonostante la salute cagionevole.

Pur avendo scritto complessivamente 32 racconti e solo 2 romanzi, O’Connor divenne famosa soprattutto per i due romanzi La saggezza nel sangue (Wise Blood,1952)3 e Il cielo è dei violenti (The Violent Bear It Away,1960)4. Dal primo fu tratto, nel 1979, un film, diretto da John Houston, che venne girato a Macon nella contea di Baldwin in Georgia, proprio nei pressi di quella che era stata la residenza della O’Connor.

La trama del film e del romanzo vede al centro la figura di Hazel Motes che, traumatizzato da piccolo dal nonno predicatore, una volta terminato il servizio militare, incontra un predicatore di strada cieco, Asa, che lo convince a seguire il suo stesso cammino. Hazel si forma così un’idea tutta sua di Gesù Cristo e decide di predicarla. Non è come la maggioranza dei predicatori che cercano solo di tirar su un po’ di dollari con le loro parole, lui è convinto e predica un Gesù che non è morto in Croce per noi e perciò il peccato non esiste. Per fare ciò fonda una propria Chiesa, quella della “Verità senza Cristo”, finendo in un mondo completamente nuovo per lui, in cui si muovono truffatori, “lolite” e poveri di spirito in cerca d’affetto. Così ben presto si troverà a vivere situazioni difficili da affrontare, tra opportunisti e falsi predicatori, e a farne le spese sarà alla fine proprio lui.

E’ interessante notare che Asa, come Omero, è cieco. Un visionario senza la possibiliztà di vedere, finendo col rappresentare l’assurda cecità di chi si affida alla religione stessa. Un dubbio che pervade il romanzo, il film, la stessa Flannery; sempre in bilico tra fede e disperato tentativo di in/validarne i contenuti per il tramite di un metodo “popperiano” di falsificazione dei dogmi e delle verità date “una volta per tutte”.

Anche se è in racconti come A Good Man is Hard to Find (1955)5, cui si sarebbe direttamente ispirato Joe Lansdale per il suo Da mani bizzarre (By Bizarre Hands , 1989)6, che l’autrice raggiunge i vertici della sua scrittura e di una visione personalissima di un mondo contadino, ignorante ed egoista, in cui apparentemente il volere di Dio si sposa con le convenienze famigliari, fino ad esserne trasformato secondo le circostanze. Racconti che da soli basterebbero a fracassare tutte le narrazioni salvifiche, politiche, perbenistiche e religiose delle infinite chiese evangeliche o pentecostali su cui si fonda, ancora ai nostri giorni, tanto conservatorismo e razzismo statunitense.

Madri che consegnano, letteralmente, le proprie figlie, ad individui evidentemente poco raccomandabili, pur di liberarsi di un peso in famiglia, in un contesto in cui è evidente l’assoluta assenza di qualsiasi Grazia divina e un misticismo, quello dell’autrice, che si sforza di trovare “altro” nella pratica religiosa, anche se cattolica. Tutti racconti, che in mezzo a situazioni grottesche e personaggi memorabili sottolineano la presenza di un fattore imponderabile nell’esistenza dell’essere umano grazie all’introduzione nella trama di circostanze imprevedibili e a una profonda indagine sui comportamenti umani. Cercando di rintracciare anche nel suo sé quella certezza in Cristo che, come dimostrano le frasi messe in epigrafe, potrebbe consolarla o premiarla ma che, in realtà, sa già in partenza di non poter trovare.

Non a caso, quindi, i suoi saggi e le sue lettere sulla scrittura sono contenuti in due raccolte intitolate, rispettivamente, Nel territorio del diavolo7 e Sola a presidiare la fortezza8.

I miei pensieri sono così lontani da Dio. Potrebbe anche non avermi creata. E la sensazione che ricavo dallo scrivere queste pagine dura circa una mezz’ora e sembra una farsa. Non desidero alcuna sensazione superficiale e artificiale suscitata dal coro [della chiesa]. Oggi ho dato prova di essere insaziabile – di biscotti ai cereali e di pensieri erotici. Non c’è nient’altro da dire su di me. (Flannery O’Connor, 26 settembre 1947)


  1. D. Johnson, L’uomo che uccise Liberty Valance, Mattioli 1885, 2024 (racconti scritti in lingua originale tra il 1949 e il 1957)  

  2. Si veda: F. Rossini, Flannery O’Connor. Vita, opere, incontri, Edizioni Ares, Milano 2021, pp. 120-121.  

  3. Traduzione italiana di Marcella Bonsanti, con una nota di Fernanda Pivano, Garzanti, Milano, 1985; Prefazione di Fernanda Pivano e Postfazione di Luca Doninelli, Garzanti, Milano 2002-2010. 

  4. Traduzione di Ida Omboni, Einaudi, Torino, 1965; Longanesi, Milano, 1969; Introduzione e biobibliografia di Marisa Caramella, Collana Einaudi Tascabili. Torino, 1994; Collana Letture, Einaudi, Torino, 2008. In seguito nella traduzione di Gaja Lombardi Cenciarelli con Prefazione di Marco Missiroli, minimum fax, Roma, 2020.  

  5. Un brav’uomo è difficile da trovare, in F. O’Connor, La vita che salvi può essere la tua, traduzione di Ida Omboni, Einaudi, Torino, 1968 oppure in Un brav’uomo è difficile da trovare, traduzione Gaja Cenciarelli, con una postfazione di Joyce Carol Oates, minimum fax, Roma, 2021 e, ancora, in Tutti i racconti (The Complete Stories, 1971), a cura e con un’introduzione di Marisa Caramella, traduzione di Ida Omboni e Marisa Caramella, 2 voll., Bompiani, Milano, 1990.  

  6. Ora in J. R. Lansdale, In un tempo freddo e oscuro e altri racconti, Giulio Einaudi Editore, Torino 2006.  

  7. F. O’Connor, Nel territorio del diavolo. Sul mistero di scrivere, a cura di Robert e Sally Fitzgerald, ed. italiana a cura di Ottavio Fatica, traduzione di Giovanna Granato, Theoria, Roma, 1993, oppure con prefazione di Christian Raimo, Roma, minimum fax, 2003.  

  8. F. O’Connor, Sola a presidiare la fortezza. Lettere (The Habit of Being: Letters Of Flannery O’Connor, 1988) a cura di Ottavio Fatica, traduzione di Giovanna Granato, Einaudi, Torino, 2001; ed. aumentata (con le lettere dal 1948 al 1964), Minimum Fax, Roma, 2012. Entrambi i testi sono ora raccolti in Un ragionevole uso dell’irragionevole. Saggi sulla scrittura e lettere sulla creatività, Prefazioni di Christian Raimo (2002) e Ottavio Fatica (2012), Roma, minimum fax, 2019,  

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György Lukács, un’eresia ortodossa / 3 – Dal “popolo” al popolo. Il proletariato come classe dirigente https://www.carmillaonline.com/2024/12/26/gyorgy-lukacs-uneresia-ortodossa-3-dal-popolo-al-popolo-il-proletariato-come-classe-dirigente/ Thu, 26 Dec 2024 21:00:03 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=85443 di Emilio Quadrelli

Nel paragrafo “Il proletariato come classe dirigente” Lukács ripercorre tutto il lavoro compiuto da Lenin all’interno del movimento rivoluzionario dell’epoca per far emergere il proletariato come classe dirigente dentro la rivoluzione russa. Sulla scia di quanto argomentato in precedenza, l’attualità della rivoluzione, Lenin combatte una battaglia teorica, politica e organizzativa per costruire l’autonomia politica del proletariato in quanto classe dirigente del processo rivoluzionario. È bene ricordare che ciò non avviene nel corso delle giornate insurrezionali del 1905 e, tanto meno, dopo il febbraio del ’17, ma piuttosto in anni apparentemente cupi come quelli che caratterizzano la fine [...]]]> di Emilio Quadrelli

Nel paragrafo “Il proletariato come classe dirigente” Lukács ripercorre tutto il lavoro compiuto da Lenin all’interno del movimento rivoluzionario dell’epoca per far emergere il proletariato come classe dirigente dentro la rivoluzione russa. Sulla scia di quanto argomentato in precedenza, l’attualità della rivoluzione, Lenin combatte una battaglia teorica, politica e organizzativa per costruire l’autonomia politica del proletariato in quanto classe dirigente del processo rivoluzionario. È bene ricordare che ciò non avviene nel corso delle giornate insurrezionali del 1905 e, tanto meno, dopo il febbraio del ’17, ma piuttosto in anni apparentemente cupi come quelli che caratterizzano la fine dell’ottocento e il primo novecento russo. Anni in cui, per un verso, si osserva lo sviluppo industriale e agrario del capitalismo all’interno del sistema feudale russo, dall’altro la crisi politica del populismo e l’affermarsi di un movimento borghese che, nel contesto, userà il marxismo come ideologia del capitalismo. In contemporanea a ciò si assiste alla nascita delle prime forme di organizzazione operaia.

Il dibattito politico del movimento rivoluzionario e democratico è ancora pesantemente egemonizzato da quell’idea di popolo che aveva fatto da sfondo al populismo e alle sue diverse anime. Una continuità storica che, in qualche modo, si protrae sin dai tempi dei decabristi. L’irrompere del modo di produzione capitalista dentro l’apparente immobilismo dell’impero zarista mette in crisi quell’idea di particolarità che la Russia si era a lungo portata appresso e che tanto aveva incuriosito e attratto il mondo politico e culturale europeo. Il mistero russo aveva necessariamente coinvolto lo stesso movimento rivoluzionario tanto che gli stessi Marx ed Engels sulla Russia si erano soffermati in più occasioni1. Agli occhi degli europei la Russia si mostrava, al contempo, come bastione solido e inamovibile della controrivoluzione ma anche, per non secondarie schiere di rivoluzionari delusi dagli insuccessi del ’48 europeo, come il luogo maggiormente prono a un radicale processo rivoluzionario. L’autocrazia per gli uni, il popolo per gli altri, diventavano tanto i poli quanto l’esemplificazione del rapporto rivoluzione/controrivoluzione.

Una esemplificazione forse eccessiva che, però, aveva alle spalle qualcosa di più di una semplice suggestione. Indubbiamente l’autocrazia ben poteva vantare il suo ruolo reazionario, mostrando in tal modo di essere la miglior garante internazionale di fronte all’idra della rivoluzione così come il movimento populista si mostrava una forza sovversiva tanto determinata quanto indomita. Autocrazia e popolo, in apparenza, sembravano essere realtà astoriche non soggette a quella permanente e radicale trasformazione economica e sociale alla quale, invece, era pervenuta l’Europa capitalista. Ma il capitalismo penetra, proprio per mano dell’autocrazia, anche in Russia.

Quella formazione economica e sociale considerata inamovibile inizia a assumere caratteristiche che, più o meno velocemente, iniziano a mandare in frantumi il mondo di ieri. Lentamente, ma in maniera costante, la questione operaia inizia a farsi strada anche dentro l’impero zarista. Gli stessi populisti, o almeno la parte teoricamente e politicamente più attenta, iniziano a modificare la loro linea di condotta, per questi gli operai e le città cominciano ad assumere un interesse impensabile solo qualche tempo prima, interesse che, però, è ben lungi da comprenderne il portato. Per i populisti gli operai diventano una componente del popolo il quale, nella sua astrattezza, rimane il soggetto storico del movimento rivoluzionario. Allo stesso tempo l’idea che il popolo possa dar vita a un modello economico e sociale in grado di saltare il capitalismo, rimane un dogma pressoché immutato per i populisti. Esattamente speculare a questa posizione conservativa ha preso forma quella progressiva della borghesia, la quale mira a realizzare una rivoluzione di tipo occidentale in grado di liberare il capitalismo dai vincoli in cui il modello autocratico, a causa delle alleanze di classe alle quali è soggetto, lo imprigiona. Lenin si inserisce come un vero e proprio cuneo all’interno di queste ipotesi che non sembrano avere alternative.

Qui il testo di Lukács si fa estremamente interessante e lo è perché, avendo a mente la stragrande maggioranza della pubblicistica sull’operato di Lenin in relazione allo sviluppo del capitalismo in Russia, elimina dall’orizzonte di questo qualunque oggettivismo e determinismo di sorta2. Ciò che Lukács evidenzia è come a interessare Lenin non sia tanto e semplicemente constatare come lo sviluppo del capitalismo in Russia sia ormai diventato un semplice dato di fatto, bensì gli effetti che tutto ciò comporta per la composizione di classe. A partire da un processo oggettivo, lo sviluppo del capitalismo dentro l’intero impero zarista con conseguente sradicamento dei tradizionali rapporti sociali anche nelle le campagne, Lenin giunge a ridefinire il soggetto della rivoluzione, infatti, lui non abiura l’idea di popolo ma la riformula avendo a mente, da un lato la configurazione concreta del popolo dentro la trasformazione capitalista, dall’altro la figura centrale, il proletariato, che nella sua esistenza cristallizza la massima tensione del conflitto.

Lenin separa il proletariato dal popolo per rimettervelo successivamente dentro come forza motrice dell’insurrezione. Su ciò Lukács si sofferma non poco. Perché? In questo modo Lukács mira a combattere due battaglie: da un lato ribadire come Lenin, e con lui la dialettica marxiana, siano del tutto estranee all’oggettivismo e al determinismo in seconda battuta, ed è ciò che gli fa comprendere Lenin sino in fondo, e come per questo a essere sempre predominante sia l’attualità della rivoluzione. Ciò che Lukács coglie, sin dagli anni venti del ‘900 è la distorsione determinista e oggettivista che anche dentro il movimento comunista albeggia prepotentemente. Una distorsione che, soprattutto in occidente, tenderà velocemente a farsi egemone sia nelle tendenze più prossime alla socialdemocrazia, sia in alcune tendenze di estrema sinistra. Per questo soffermarsi su questo passaggio è particolarmente utile. Ciò che, a differenza di quanto fa Lukács, viene solitamente posto in evidenza in relazione al dibattito sullo sviluppo del capitalismo in Russia è la precisa e netta posizione di Lenin contro i populisti, ossia verso la possibilità di saltare la fase capitalista, il riconoscere il carattere progressivo che in ogni caso il capitalismo porta in seno, il necessario appoggio a questo sviluppo e, in contemporanea, l‘organizzazione dei futuri affossatori del capitalismo. In realtà le cose non sono proprio così. Questo è il classico modo proteso a salvare capra e cavoli attraverso il quale l’evoluzionismo socialdemocratico si approprierà di Lenin. Si riconosce il tratto rivoluzionario di Lenin mentre lo si imprigiona nella logica dello sviluppo delle forze produttive. Per altro verso si liquida in poche battute il complesso rapporto di Lenin con il populismo arrivando a ignorare che, se alla sua prima opera di spessore teorico ha dato il titolo Che fare? un qualche motivo ci sarà pur stato3.

Il rapporto di Lenin con il populismo è tutto tranne che semplice e lineare e non solo per le pur non irrilevanti questioni personali che lo legano alle vicende del populismo. Per un verso il suo giudizio è sicuramente spietato. I populisti si pongono fuori dalla storia idealizzando un mondo che non c’è più e su questo Lenin non si fa remora di affondare i colpi verso il loro corpo teorico, però sarebbe intellettualmente poco onesto limitare a ciò il suo punto di vista. C’è tutto un filone del populismo che, rompendo con la tradizione apolitica del proprio passato, inizia a considerare la dimensione politica come ambito dell’attività rivoluzionaria. Sono gli stessi che iniziano a volgere lo sguardo verso gli operai e le città e che, aspetto che catturò non poco l’interesse di Lenin, avevano dato vita a strutture organizzative ferree, centralizzate e, per i tempi, improntate a un certo grado di professionalità. Strutture che avevano fatto il loro punto di forza nell’attività cospirativa e che, a differenza di tutto il filone del populismo educazionista, ponevano il combattimento politico e militare al centro della loro iniziativa. Lenin coglie con lucidità questa spaccatura dentro il populismo e tanto si distanzia dagli educazionisti, che per molti versi possono considerarsi gli antesignani del menscevismo, quanto apprezza il tratto giacobino degli altri. Nel Che fare? l’eredità di questo populismo troverà uno spazio non secondario e Lenin, quindi, non rinnega la soggettività di questa idea, semmai la plasma all’interno di uno scenario storico che aveva spazzato via quegli orizzonti. Puntualizzare questo aspetto non serve solo e semplicemente a ristabilire una verità storica ma significa ricollocare Lenin dentro quella attualità della rivoluzione che l’ortodossia comunista ha teso a cancellare.

Lenin non ragiona come Struve e neppure come Pleckanov che, per molti versi, è del tutto complementare al primo, ciò che gli interessa è cogliere, dentro il processo storico in atto in Russia, il soggetto della rivoluzione e quel soggetto, il soggetto operaio, deve essere organizzato fin da subito sul terreno dell’insurrezione. In Lenin non ci sono, differenziandosi immediatamente sia da Struve che da Pleckanov, due tempi. Non c’è l’ascesa della borghesia, l’instaurazione del suo dominio e poi, a ciclo concluso, il graduale passaggio verso il socialismo: in lui vi è qui e ora, il partito dell’insurrezione. Perché questo partito possa esistere occorre individuare il soggetto della rivoluzione e questo soggetto è la classe operaia, ma fare questo non è sufficiente, perché limitarsi a ciò significherebbe isolarla e condannarla alla sconfitta. Lenin non è il teorico e l’artefice della purezza operaia, ma piuttosto il filosofo del ruolo direttivo ed egemone di questa classe all’interno del processo rivoluzionario4, della quale lui cristallizza il ruolo egemone e la sua funzione dirigente dentro la rivoluzione al fine di farne avanguardia di questa, ponendola alla testa di tutti i subalterni. In questo modo egli lega la classe operaia al popolo ma non al popolo astratto e astorico dei populisti bensì al popolo concreto che lo sviluppo del capitalismo ha sedimentato.

Tradotto in soldoni, nel contesto, significa principalmente legare la classe operaia alla questione contadina la quale, nel frattempo, ha perso del tutto i tratti idilliaci entro i quali aveva continuato a immaginarla il populismo. Lenin frantuma l’idea astratta di popolo e ne estrae la figura operaia non per isolarla politicamente ma per farla emergere come soggetto della rivoluzione. Fatto ciò, costruita l’autonomia politica e teorica della classe operaia, la riconduce dentro il popolo. La rivoluzione è sempre opera di masse subalterne le quali per forza di cose non sono, e neppure possono essere, solo classe operaia. Ciò è fin troppo chiaro a Lenin il quale non ha mai vagheggiato di una rivoluzione operaia pura, infatti, ciò che gli interessa è costruirne l’autonomia politica in modo da consentirle di svolgere sino in fondo il ruolo direttivo della rivoluzione. Le rivoluzioni, da sempre, mettono in moto milioni di individui ben distanti dall’incarnare classi sociali pure e sono sempre opera di quella moltitudine spuria che è il popolo. Lenin, però, rompe con l’idea di popolo per tornarvi subito dopo ma il suo popolo non avrà più nulla di quello immaginato e caro ai populisti, perché esso è l’insieme di quelle forze concrete e reali che daranno, come il 1905 sarà lì a dimostrare, l’assalto tanto all’autocrazia quanto alla grande borghesia e ai proprietari terrieri che hanno importato nella campagna gli elementi propri dell’agricoltura e dell’allevamento capitalisti. Questo il popolo reale, questa la composizione delle classi che lo sviluppo del capitalismo ha sedimentato.

Mentre menscevichi e borghesia si limitano a stare dentro a questo processo Lenin non si rinchiude in ciò. Vi sta dentro, perché è impossibile ignorare quanto la realtà storica ha sedimentato, ma in contemporanea vi è contro. Dentro questa obiettiva trasformazione storicamente determinante, scaglia il treno della soggettività di classe; allo scientismo e al determinismo e all’immancabile immobilismo di classe che si porta appresso, quello dei menscevichi e dei borghesi che arrivano persino a patteggiare con l’autocrazia pur di dar corso allo sviluppo delle forze produttive, contrappone la variabile soggettiva della lotta di classe. La storia è storia di lotte di classe, solo il risultato di questo conflitto determinerà uno scenario storico–politico piuttosto che un altro5. Si sta sicuramente dentro, ma per essere altrettanto sicuramente contro. La dialettica storica è la dialettica del conflitto, la guerra di classe la sua cristallizzazione.

Proviamo a tradurre il paragrafo sul presente. Da tempo siamo di fronte a qualcosa che ha trasformato il mondo in maniera sicuramente non meno radicale di quanto lo sviluppo del capitalismo avesse comportato per l’impero zarista. La globalizzazione e tutto ciò che si è portata dietro ha decisamente posto in archivio il mondo di ieri. Le conseguenze di ciò sono immense e non possono essere certo trattate in quattro battute, tuttavia è possibile evidenziarne alcuni aspetti che, almeno per i nostri mondi, si mostrano particolarmente laceranti. Parliamo dell’Europa occidentale e della sua storia più recente. Ciò che appare per prima cosa evidente è l’eclissarsi di quella particolare forma statuale nota come stato/nazione e di quel modello sociale che, per gran parte del ‘900 l’ha accompagnato, il welfare state. Tutte le classi sociali sono state investite da questo vortice il quale, in poche battute, ha detto che il mondo di ieri non esiste più. L’era globale non è un semplice passaggio interno a un modello, non è una pallida riforma, ma una rivoluzione, un salto epocale a tutti gli effetti. Nulla è più come prima. Lo stare dentro e contro tornano a essere il cuore del dibattito politico contemporaneo. Nessuno può esimersi da una presa di posizione in merito. Alla luce di ciò, una rilettura del Lenin di Lukács si mostra più che attuale.

Di fronte a quanto accade, pur con tutte i difetti del caso, sembra di risentire le medesime argomentazioni sorte in Russia di fronte all’irrompere del capitalismo. Da una parte i populisti che difendono strenuamente il mondo di ieri e che, in contemporanea, tendono a rendere eterni i soggetti sociali di quell’epoca; dall’altra i fautori del progresso che cantano le lodi di un capitalismo definitivamente liberatosi da ogni vincolo. Tutto, come allora, sembra compresso entro questa strettoia. A ben vedere anche le argomentazioni di ieri, pur con tutte le tare del caso, non sono tanto distanti da quelle del presente: la difesa del passato, per di più infarcito di narrazioni al limite del mitologico, contro il, non meno fantasioso, divenire radioso di una modernità emancipata da ogni vincolo. In pratica la contrapposizione tra la difesa dei proletariati nazionali europei e di quella particolare forma–stato all’interno della quale erano ascritti e tra l’imporsi dell’individuo completamente individualizzato e portatore di non secondari diritti civili e una forma statuale emancipatasi da ogni funzione sociale. Uno stato snello il cui compito si limita a compiti militari e di polizia senza alcuna intromissione nella vita degli individui. Comunitaristi da una parte, liberalisti dall’altra, popolo contro individuo, stato contro mercato e così via. I modi in cui questa apparente strettoia sembra porsi rimandano a un aut aut che non ammette vie di fuga. Lo stesso dibattito politico contemporaneo sintetizzabile in sovranisti ed europeisti sembrerebbe inchiodare la realtà entro le strettoie di queste forche caudine. Forse non è neppure un caso che il termine populismo sia tornato prepotentemente in auge.

Esattamente dentro questo passaggio, invece, è possibile cogliere l’attualità del nostro testo. Qui, sulla scia di Lukács, è possibile recuperare per intero il metodo di lettura storico proprio di Lenin rompendo in tal modo l’apparente orizzonte obbligato del presente. Ma ciò cosa comporta? Da dove cominciare? Dobbiamo e soprattutto è possibile essere contro la globalizzazione? Dobbiamo cullarci nel presunto idilliaco mondo di ieri, fantasticandone il restauro o bisogna pensare l’insurrezione nel presente? Ma, ancor prima, sarebbe il caso di chiederci cosa hanno comportato le trasformazioni in atto nei confronti della classe e della sua composizione. In altre parole: chi è il potenziale seppellitore dell’ordinamento capitalistico contemporaneo? Ecco che, di fronte a queste domande, il quadro della realtà storica assume tratti meno obbligati di quanto l’aut aut solitamente presentato ci mostra. L’espandersi globale del mercato sta, di fatto, uniformando sul piano internazionale una condizione proletaria e subalterna impensabile solo poco tempo prima. L’era globale ha fatto saltare la tradizionale suddivisione tra primo e terzo mondo. Oggi questi due ambiti non sono stati azzerati ma, si potrebbe dire, universalizzati. Le condizioni proprie di quest’ultimo sono state importate e poste a regime nel vecchio primo mondo mentre, forme di questo, sono ampiamente presenti nell’ex terzo mondo. La globalizzazione, come è stato ormai ampiamente argomentato (e a ciò necessariamente rimandiamo) ha dato origine a società postcoloniali dove la forma colonia è diventata parte costitutiva e costituente delle stesse vecchie metropoli del primo mondo6. Ciò ha dato vita alla formazione di masse subalterne e proletarie transnazionali omogeneizzate da condizioni di vita e di lavoro sempre più identiche.

Questo proletariato internazionale, queste masse subalterne, sono il popolo concreto con il quale abbiamo a che fare, questo, e non altri, sono i potenziali affossatori del capitalismo dell’era globale. Questo proletariato e questo popolo non ha alcun motivo per guardare con una qualche nostalgia l’epopea passata. Queste masse senza volto non hanno, nel presente, nulla da difendere ma solo da spezzare le catene che le imprigionano. Esattamente a partire da questo dato di fatto il partito può prendere le forme dell’insurrezione del presente, qui e solo qui va posto il Lenin del e nel presente. Dentro questo passaggio si misura l’attualità del metodo leniniano, quindi del partito dell’insurrezione.

(3continua)


  1. Per una buona discussione di ciò si vedano: P. P. Poggio, Marx, Engels e la rivoluzione russa, in Quaderni di Movimento operaio e socialista, n. 1, Edizioni Centro Ligure di Storia Sociale, Genova 1974; A. Walicki, Marxisti e populisti: il dibattito sul capitalismo, Jaca Book, Milano 1973.  

  2. Bisogna, infatti, non limitarsi, come hanno fatto i deterministi, a considerare il testo analitico Lo sviluppo del capitalismo in Russia, ma guardare all’insieme della produzione teorico–politica leniniana in merito allo sviluppo del capitalismo. Lì Lenin mostra chiaramente come il determinismo sia qualcosa di assolutamente distante da lui poiché, ciò che realmente interessa a Lenin, è organizzare gli affossatori del capitalismo non cantare le lodi di questo. È la soggettività della classe dentro lo sviluppo capitalista che interessa Lenin e la possibilità che, dentro questo processo storico–oggettivo, si aprono per l’emancipazione dei subalterni. Il Che fare? di ciò ne condensa, a ben vedere, la sintesi ma altri testi, come Le caratteristiche del romanticismo economico; Quale eredità respingiamo, in V. I. Lenin, Opere, vol. 2, Edizioni Rinascita, Roma 1954 sono altrettanto utili al fine di sottrarre Lenin a una lettura oggettivista e determinista.  

  3. Come risaputo Lenin riprese per il suo testo il titolo del romanzo populista di N. D. Černyševskij, Che fare?, Garzanti, Milano 1986. Con ciò Lenin volle dare una palese testimonianza di come, mentre si rigettava tutta una tradizione populista del tutto obsoleta, dall’altra se ne riprendevano le migliori qualità rivoluzionarie. Quella di un Lenin del tutto estraneo al mondo e alla tradizione populista è una leggenda storica dovuta solo all’imporsi dell’oggettivismo e del determinismo dentro il marxismo. Su questo aspetto l’interessante Introduzione di Vittorio Strada al Che fare?, Einaudi, Torino 1970.  

  4. Esattamente qua si configura la frattura insanabile con il menscevismo di sinistra di Trockij e la sua Rivoluzione permanente, Torino, Einaudi 1967. Trockij è il vero assertore della rivoluzione operaia pura e ciò non gli farà mai comprendere la relazione complessa e contraddittoria che necessariamente si instaura tra classe operaia e masse subalterne. Le avvisaglie di ciò si erano già mostrate nella sua critica al giacobinismo del Che fare?, Red Star Press, Roma 2022, quando rimprovera a Lenin il legame con l’esperienza giacobina non comprendendo che, proprio dentro quell’esperienza, era compresa in potenza la moderna rivoluzione delle masse subalterne. Come i populisti si inventavano il mondo di ieri, Trockij finisce con l’inventarsi il mondo di oggi e, con ciò, finisce con il perdere la concretezza storica entro la quale si giocano i conflitti delle classi.  

  5. La linea di condotta tenuta da Lenin nel corso degli eventi del 1905 è, al proposito, quanto mai esemplificativa. Il modo e le motivazioni con le quali affronta e argomenta la possibile partecipazione dei bolscevichi a un governo rivoluzionario ne rappresentano un’eccellente cristallizzazione.  

  6. Cfr.: S. Mezzadra, B. Neilson, Confini e frontiere. La moltiplicazione del lavoro nel mondo globale, Il Mulino, Bologna 2013.  

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L’eclisse degli Stati Uniti https://www.carmillaonline.com/2024/12/23/leclisse-degli-stati-uniti/ Mon, 23 Dec 2024 06:00:53 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=85843 di Marco Sommariva

Il Fatto Quotidiano riporta che Eva Longoria, l’ex stella della serie TV cult Desperate Housewives che aveva partecipato attivamente alla campagna elettorale per i Democratici e Kamala Harris, profondamente delusa dalla vittoria di Donald Trump a presidente degli Stati Uniti d’America, ha preso la decisione drastica di lasciare gli Usa. In un’intervista ha dichiarato: “La parte scioccante non è tanto che abbia vinto. Il fatto è che un criminale condannato che sputa così tanto odio possa occupare l’ufficio più importante del Paese”. E ancora: “Gli Stati Uniti sono un luogo spaventoso. Se Donald Trump mantiene le sue promesse, diventerà un luogo spaventoso. [...]]]> di Marco Sommariva

Il Fatto Quotidiano riporta che Eva Longoria, l’ex stella della serie TV cult Desperate Housewives che aveva partecipato attivamente alla campagna elettorale per i Democratici e Kamala Harris, profondamente delusa dalla vittoria di Donald Trump a presidente degli Stati Uniti d’America, ha preso la decisione drastica di lasciare gli Usa. In un’intervista ha dichiarato: “La parte scioccante non è tanto che abbia vinto. Il fatto è che un criminale condannato che sputa così tanto odio possa occupare l’ufficio più importante del Paese”. E ancora: “Gli Stati Uniti sono un luogo spaventoso. Se Donald Trump mantiene le sue promesse, diventerà un luogo spaventoso. […] Sento che questo capitolo della mia vita è finito. Sono privilegiata, posso scappare e andare da un’altra parte. La maggior parte degli americani non è così fortunata e si ritrova in questo Paese distopico. Per loro provo ansia e tristezza”.

Questo voler fuggire da un paese distopico mi ha ricordato l’inizio di Eclipse, romanzo pubblicato negli Stati Uniti nel 1985, il primo dell’omonima trilogia cyberpunk scritta John Shirley che proseguirà con Azione al crepuscolo (1900) e terminerà con La maschera sul sole (1990), tutti pubblicati su Urania.

L’universo descritto in Eclipse è ambientato nel XXI secolo, racconta un’Unione Sovietica che ha invaso l’Europa occidentale e, a proposito del fuggire di cui sopra, nei primi capitoli riporta: “Tutto ciò cui riuscivo a pensare era di pararmi il culo, di tornare negli Stati Uniti. Ma non riuscii a trovare un volo per fuori Londra; erano tutti limitati a uso governativo. O cancellati. Tutti volevano andarsene dalla fottuta Europa. Mai sentito parlare della guerra del Vietnam? Bene, allora sai come, quando l’esercito americano si spinse verso sud, ci fu questa frenetica corsa per uscire da Saigon con qualsiasi mezzo possibile… E lo stesso accadde in tutto il continente, nelle grandi città…”.

Cos’era accaduto esattamente nel romanzo? Era successo che l’esercito sovietico era apparso dal nulla, “che nessuno era riuscito a capire come avessero potuto riunire così tante truppe lungo il confine senza insospettire la Nato. […] La Nato aveva avvistato qualche paracadute, ma i Sovietici avevano detto che si trattava dell’invio di medicinali per via di qualche epidemia. Poi, di colpo, le fottute truppe erano lì…”.

Anche in questo caso, quanto accade realmente in Europa nel febbraio del 2022 s’avvicina molto alla narrazione di Shirley: all’epoca, l’Occidente temeva un bluff di Putin quando dichiarava che le truppe russe al confine ucraino erano lì per delle esercitazioni e che sarebbero rientrate alle loro basi.

Una volta si diceva che la narrazione fantascientifica era nata e s’era sviluppata in Occidente col presupposto d’ipotizzare quali scenari avrebbero potuto scaturire dalle nuove scoperte scientifiche, ragionando anche sugli impatti che queste potevano avere sulla società e sulle persone. Sono anni, invece, che s’è insinuato un sospetto, quello che si segua la fantascienza – libri, fumetti, film, serie TV, videogiochi, eccetera – per trarre spunti, ispirazioni, suggerimenti su cosa fare e come, tipo il cane robot (da guardia) che si aggira per il resort della proprietà di Mar-a-Lago di Donald Trump, impiegato per rafforzare le misure di sicurezza a protezione del neoeletto presidente: come non pensare ai cani robot di uno degli episodi di Black Mirror 4  (Metalhead) e, soprattutto, ai cani robot di Fahrenheit 451 di Ray Bradbury, programmati per individuare e colpire i nemici, ossia i possessori di libri e i luoghi dove questi sono contenuti? Di esempi del genere se ne potrebbero fare a decine, a iniziare dalla decisione presa in Kuwait d’introdurre un’identità digitale elettronica giustificando la scelta come un aiuto ai cittadini per accedere ai servizi digitali della pubblica amministrazione senza, però, dare la possibilità alle persone di scegliere se aderire o meno a questa cessione dei dati sensibili allo Stato, andando a penalizzare chi si è rifiutato bloccando a tutti loro, 35 mila persone, l’accesso al proprio conto corrente né di trasferire denaro.  Un po’ quello che succede alle donne nel mondo distopico immaginato da Margaret Atwood ne Il racconto dell’ancella, pubblicato nel 1985.

Le similitudini tra la realtà e la trilogia di Shirley sono numerose, dall’utilizzo dei droni che sorvegliano le città – “Era un uccello di metallo. Aveva ali meccaniche, viscere elettroniche e una telecamera nel capo. Ma aveva la forma di un tordo, e più o meno le stesse dimensioni. Le sue ali battevano freneticamente come quelle di un colibrì mentre attraversava in volo la città, inondata e in rovina. […] Sul ventre del pennuto era visibile una fila di numeri di serie. In realtà si trattava di un apparecchio di sorveglianza […]” – alla presenza di una Rete che ci foraggia di canali televisivi e notizie, e che viene ascoltata e seguita come una religione – “La Rete Amica, dio di tutta la Rete elettronica. La Rete dà la Tv e le notizie… dà credito, che si traduce in cibo e riparo. Pregate la Rete Amica e i computer della compagnia elettrica perderanno la vostra bolletta, regalandovi un mese extra prima di tagliarvi i fili della luce; pregate la Rete Amica e l’Interbanca compirà un errore a vostro favore, attribuendovi cinquecento dollari che non dovreste avere. Per poi dimenticarsene. Pregate la Rete Amica e il computer della polizia perderà i dati dei vostri precedenti”.

Se riteneste quanto sopra non particolarmente brillante o profetico, leggete cosa scrive Shirley in Eclipse, circa la Colonia, una “cosa” costruita con asteroidi e frammenti di roccia su cui vivono diecimila persone, orbitante intorno alla Terra – “Vista dall’esterno, la Colonia, lunga dieci chilometri, appariva come una specie di cilindro che avesse inghiottito qualcosa di grosso e lo stesse digerendo come fanno i serpenti boa. Il rigonfiamento che mostrava nel centro era una sfera del diametro di circa due chilometri, il cui concavo interno rappresentava la principale zona residenziale della Colonia” – e poi date un’occhiata all’articolo pubblicato l’8 settembre 2024 da Il Sole 24 Ore, in cui Elon Musk si pone come traguardo anche quello di consentire al genere umano di “non avere più tutte le nostre uova, letteralmente e metabolicamente, su un unico pianeta”.

Elon Musk mi richiama alla mente uno dei personaggi di quest’opera di Shirley: Rick Crandall il Sorridente – proprio così, “il Sorridente”. Ora, provate a leggere il prossimo estratto e vedete voi se vi viene in mente qualcuno: “Negli anni ’90, nonostante il declino economico degli Stati Uniti, tutti i paesi non-socialisti e non-islamici erano andati americanizzandosi sempre di più. Verso la fine del decennio, ogni paese in cui vivesse una classe borghese o piccolo-borghese disponeva di una sua televisione. E fra esse proliferavano le trasmissioni via satellite di canali americani. In ogni paese industrializzato esistevano canali in lingua inglese: l’inglese aveva acquistato via via sempre maggiore importanza. I valori e le attrattive della vita americana si fecero sempre più presenti nelle società del terzo mondo. E uno dei pilastri di tale pensiero era la rinata cristianità. E i sempre più numerosi predicatori propagandavano in lingua spagnola, portoghese, swahili e così via, l’importanza dei valori e dei comportamenti cari agli Stati Uniti. Ogni televisione del terzo mondo trasmetteva un programma presentato da un tipo chiamato Rick Crandall il Sorridente. Costui era uno fra i più giovani ministri fondamentalisti d’America. […] Ma in realtà, Crandall era un reclutatore. Approfittava della sua fama internazionale o ricorreva alla corruzione per arrivare ai personaggi politici più importanti, a coloro che si collocavano ai margini del governo e ai loro oppositori. Legandoli a una nuova sezione dell’Alleanza detta Loggia Antiterrorismo. La quale, in realtà, era una copertura. Era in realtà la sezione di reclutamento dell’esercito della Seconda Alleanza”.

La Seconda Alleanza – nel romanzo è abbreviato in SA, proprio come il reparto paramilitare costituito da Hitler nel 1921 a difesa dei comizi del Partito Nazista – è un esercito capace di schierare solo che in Europa mezzo milione di soldati, una compagnia di sicurezza privata fondata da Predinger “un milionario americano categoricamente conservatore. Tanto quant’è possibile esserlo senza venire rinchiusi in un manicomio”, costituita da mercenari razzisti e spietati, guidata dal telepredicatore Rick Crandall, appunto. Questa forza di polizia internazionale privata, ispirata da valori di stampo religioso cristiano, ha evidenti connotati di estrema destra: “Fottuti Yankee che si masturbano con quei fottuti nazisti. Hanno deciso di reclutarli perché pensano che sia “o così o il comunismo”. E i fascisti hanno fatto grandi promesse di ottimi affari commerciali”.

Caso strano, questo corpo privato, l’SA, diventa presto un gruppo armato antiterroristico che permette al suo fondatore, Predinger, di esprimere le sue simpatie politiche: “Va da sé che l’Alleanza concentrò la sua azione sul terrorismo di sinistra, ignorando quello delle destre. Mise una gran quantità di persone sotto sorveglianza […] l’Sa assassinò alcuni leader radicali da essa ritenuti alleati con i terroristi. Il più delle volte, però, le persone colpite erano proprio quei moderati che riuscivano a tenere a bada le frange più estremiste. Può anche darsi che l’abbiano fatto deliberatamente, sapendo che quando gli estremisti si fossero fatti avanti per riempire quel vuoto, il mondo impaurito avrebbe tollerato, se non addirittura richiesto, l’intervento dell’Sa. Così crebbe sia di responsabilità che di contatti, e con questi ultimi vennero anche potere e influenza. E, naturalmente, questo credito veniva aumentato dal sapiente uso del denaro operato da Predinger”.

Insomma, non so voi, ma a me sembra che i due personaggi costruiti da Shirley – Predinger e Crandall – siano molto attuali: “Politicamente, il credo fondamentale dell’SA è semplicemente il fascismo. E qui non parliamo di fascisti come uno sbarbatello di sinistra potrebbe chiamare “fascista” qualsiasi guerrafondaio, rendendo il termine un mero dispregiativo. Parliamo della vera e propria essenza del fascismo. Predinger e Crandall sono entrambi profondi ammiratori del fascismo classico e della demagogia razzista, Hitler e Mussolini compresi”.

Ci tengo a ricordare che Biden e, più volte, Kamala Harris hanno definito “fascista” il prossimo presidente americano Trump , e che Elon Musk è un padrone che ha proibito ai propri dipendenti negli Usa di organizzarsi in sindacato, così come Henry Ford – ammiratore di Mussolini e Hitler – famoso per la sua politica antisindacale esercitata nelle sue fabbriche.

Ammesso la crescente influenza di Musk su Trump non faccia saltare il banco, alcuni collaboratori del neoeletto presidente potrebbero preoccupare come certi personaggi di Shirley. Proviamo a conoscerne meglio alcuni.

Iniziamo da Pete Hegset, il signore coi tatuaggi di estrema destra.

Come Crandall, anche Pete Hegseth – l’uomo scelto da Trump come futuro capo del Pentagono, un Dipartimento che governa un milione e 300 mila soldati, e 750 mila civili – è un personaggio televisivo e, come Crandall, non ama la diversità etnica: “dagli schermi di Fox, Hegseth si è scagliato in tante occasioni contro gli ideologhi che avrebbero distrutto l’esercito a colpi di programmi che incentivano la diversità etnica, razziale, di genere tra i militari. Hegseth è contrario all’accesso tra i militari delle persone transgender e alla partecipazione delle donne a operazioni di combattimento (deciso durante l’amministrazione Obama)”. Soprattutto il tema delle donne nell’esercito è sembrato appassionarlo – ovviamente in negativo. “Le donne non dovrebbero far parte dei corpi di combattimento”, ha spiegato Hegseth, “sono coloro che danno la vita. Non coloro che la tolgono. Conosco un sacco di fantastiche donne soldato. Solo che non dovrebbero stare nel mio battaglione di fanteria. Complicano tutto. E complicare le cose in una situazione di combattimento significa perdite sicure”.

Proseguiamo con il fervente antiabortista Matt Gaetz.

Nonostante Trump sappia che questo suo fedelissimo, assediato dagli scandali sessuali e dalle notizie che circolano relative all’abuso di droghe, non abbia molte chance di ottenere il via libera dal Senato, ha deciso di proporlo come futuro capo del dipartimento di Giustizia; ossia, lo stesso dipartimento che ha incriminato Gaetz per traffico sessuale con minorenni: “È in particolare la nomina di Gaetz, sotto inchiesta alla Camera per questioni etiche dopo che il dipartimento di Giustizia (che ora dovrà guidare) l’ha indagato senza incriminarlo per traffico sessuale con minorenni, che sta creando il maggiore shock ed oltraggio al Congresso, anche tra i senatori repubblicani che dovranno confermarlo. I repubblicani avranno una maggioranza tra i 52 e i 53 seggi, quindi anche un piccolo gruppo di oppositori potrebbe creare dei problemi alla conferma del deputato. Gaetz, 42 anni, è stato indagato dai procuratori federali per accuse di sfruttamento sessuale di una 17enne. L’inchiesta federale si è chiusa senza incriminazioni, ma ora è la commissione Etica della Camera ad indagare sulle accuse di natura sessuale e uso illecito di droga. Al centro delle accuse i viaggi che Gaetz avrebbe fatto alle Bahamas con escort pagate per viaggiare con lui, cosa che viola la legge federale, tra le quali anche una minorenne. Accuse sempre negate dal repubblicano che in questi anni si è imposto come una figura divisiva anche all’interno del partito repubblicano, soprattutto per essere stato alla guida del gruppo di trumpiani di estrema destra che fecero cadere lo Speaker Kevin McCarthy e precipitare la Camera nel caos”.

Quindi, nell’ottobre del 2023 Matt Gaetz “è stato alla guida del gruppo di trumpiani di estrema destra che fecero cadere lo speaker Kevin McCarthy e precipitare la Camera nel caos”: qualcosa di inedito per la politica americana – è stata la prima volta nella storia degli Stati Uniti che la Camera dei Rappresentanti ha rimosso dall’incarico il suo presidente.

Pete Hegseth e Matt Gaetz – personaggi di destra con discreta idiosincrasia verso il mondo femminile – Elon Musk e Donald Trump… sarà mica per questo che, dopo soli tre giorni dall’elezione del nuovo presidente degli Stati Uniti, sono tantissimi i lettori americani che hanno acquistato romanzi distopici? In una sola settimana, Il racconto dell’ancella ha scalato quattrocento posizioni nella US Amazon Best Sellers chart di Amazon, arrivando a essere il terzo libro più venduto sulla piattaforma – al sedicesimo, invece, 1984 di George Orwell.

Nel romanzo di Atwood è descritto un mondo devastato dalle radiazioni atomiche, dove gli Stati Uniti sono diventati uno stato totalitario, basato sul controllo del corpo femminile; la voce narrante è quella di una ragazza che, prima del cambiamento, conduceva una vita normale – lavorava in una redazione, conviveva col suo compagno e, insieme, crescevano una figlia – e che, dopo, viene allontanata dalla famiglia e costretta a diventare un’ancella, perdendo così anche il diritto ad avere un nome: “Era così che si viveva allora? Vivevamo di abitudini. Come tutti, la più parte del tempo. Qualsiasi cosa accade rientra sempre nelle abitudini. Anche questo, ora, è un vivere di abitudini. Vivevamo, come al solito, ignorando. Ignorare non è come non sapere, ti ci devi mettere di buona volontà. Nulla muta istantaneamente: in una vasca da bagno che si riscaldi gradatamente moriresti bollito senza nemmeno accorgertene. C’erano notizie sui giornali, certi giornali, cadaveri dentro rogge o nei boschi, percossi a morte o mutilati, manomessi, così si diceva, ma si trattava di altre donne, e gli uomini che commettevano simili cose erano altri uomini. Non erano gli uomini che conoscevamo. Le storie dei giornali erano come sogni per noi, brutti sogni sognati da altri. Che cose orribili, dicevamo, e lo erano, ma erano orribili senza essere credibili. Erano troppo melodrammatiche, avevano una dimensione che non era la dimensione della nostra vita. Noi eravamo la gente di cui non si parlava sui giornali. Vivevamo nei vuoti spazi bianchi ai margini dei fogli e questo ci dava più libertà. Vivevamo negli interstizi tra le storie altrui”.

Credo sia molto importante essere consapevoli del fatto che “nulla muta istantaneamente” e che, appunto, in una vasca da bagno che si riscalda gradatamente si morirebbe bolliti senza nemmeno accorgercene; forse questo aumento delle vendite è dovuto all’aver percepito sulla propria pelle, l’alzarsi della temperatura dell’acqua – o del brodo? – in cui gli statunitensi, e non solo loro, sono immersi.

A proposito di donne e della prossima amministrazione, Trump ha deciso di assegnare la guida del dipartimento dell’Istruzione a Linda McMahon, ex Ceo della famosa compagnia di wrestling World Wrestling Entertainment (Wwe), scatenando le critiche dell’Associazione nazionale dell’istruzione, secondo cui The Donald “mostra di non essere interessato al futuro degli studenti” visto che, a parer loro, la McMahon non è qualificata “e il suo unico obiettivo è eliminare il dipartimento e togliere risorse alle scuole pubbliche”.

Togliere risorse alle scuole pubbliche; ossia, penalizzare gli strati sociali più bassi: sempre gli stessi ci finiscono in mezzo, i più bisognosi.

Anche in Eclipse non va granché bene agl’indigenti: la Colonia che avrebbe dovuto essere in grado di fornire lavoro e alloggio alle persone degli strati sociali più bassi, e quindi doveva essere qualcosa di estremamente positivo e umanitario, si rivela essere un fallimento: “una volta quassù [i più bisognosi] si sono ritrovati a vivere in dormitori sovraffollati e dall’aria malsana; una casa ben peggiore di quella che si erano lasciati dietro”.

In Eclipse non va granché bene neppure agl’immigrati. Durante il Congresso Europeo della Nuova Destra, “con la stessa freddezza di un cuoco intento a commentare una ricetta”, il leader del Front Nationale francese dice: “…l’inevitabilità del conflitto fra culture le cui radici storiche affondano in terreni fondamentalmente diversi, come quelle europee e mediorientali, non può venire ignorata. Le buone intenzioni di coloro i quali cercano di riconciliare i fondamentalisti islamici con gli Europei non può che far aumentare l’attrito delle divergenze sociali. Perché in realtà le divergenze sociali sono inevitabili. Gli immigrati provenienti da mondi estranei al nostro hanno inquinato le nostre acque culturali. È da sciocchi ritenere che si possa mai arrivare a convivere armoniosamente nello stesso paese. È ingenuo e poco realistico. E questa ingenuità costa tempo, denaro e… sì, anche vite umane. Bisogna affrontare la realtà: alcune razze non potranno mai andare d’accordo con altre! La risposta è semplice: espulsione. Non dipende da noi se saremo costretti a usare la violenza per mettere in pratica questa che è l’unica soluzione al problema dell’immigrazione. Vitalità culturale e purezza razziale sono sinonimi…”.

Un po’ come scriveva Michel Houellebecq in Sottomissione: “Bisognava arrendersi all’evidenza: giunta a un livello di decomposizione ripugnante, l’Europa occidentale non era più in grado di salvare se stessa […]. Il massiccio arrivo di popolazioni immigrate fedeli a una cultura tradizionale ancora modellata sulle gerarchie naturali, sulla sottomissione della donna e sul rispetto dovuto agli anziani, costituiva un’occasione storica per il riarmo morale e familiare dell’Europa, creava la possibilità di una nuova età dell’oro per il Vecchio Continente. Quelle popolazioni erano in certi casi cristiane; ma più spesso, bisognava riconoscerlo, erano musulmane”.

Il problema dell’immigrazione: cos’ha idea di fare Trump, per risolverlo? Annuncia il ritorno dell’intransigente Tom Homan alla guida dell’Agenzia responsabile per il controllo delle frontiere e dell’immigrazione, l’Immigration and Customs Enforcement (Ice) degli Stati Uniti: “Conosco Tom da molto tempo e non c’è nessuno più bravo di lui nel sorvegliare e controllare i nostri confini, [sarà responsabile di] tutte le deportazioni di immigrati clandestini nel loro Paese di origine”. In pratica, il tycoon dà un volto alla promessa fatta, quella di attuare la più grande operazione di deportazione di immigrati clandestini nella storia degli Stati Uniti.

Personalmente, son rimasto impressionato da quanto dichiarato da Homan durante un’intervista rilasciata a Fox News, in cui afferma che i militari non rastrelleranno e arresteranno illegalmente gli immigrati nel paese e che l’Ice si muoverà per attuare i piani di Trump in maniera umana: “Quando andremo là fuori, sapremo chi stiamo cercando. Molto probabilmente sappiamo dove saranno e tutto sarà fatto in modo umano”.

Sbaglierò, ma questo attuare una deportazione in modo umano mi ha ricordato lo scopo umanitario che, in Eclipse, ha portato gli strati sociali più bassi a essere “deportati” sulla Colonia; tra l’altro, temo di sapere dove, “molto probabilmente”, Homan e l’Ice troveranno chi stanno cercando: in dormitori sovraffollati e dall’aria malsana.

L’immagine dei dormitori fa tornare a Il racconto dell’ancella, il romanzo distopico già citato, dove le Zie sono le guardiane del rigore morale delle donne e le ancelle – uniche femmine ancora in grado di procreare dopo la catastrofe – vivono così: “Si dormiva in quella che un tempo era la palestra. […] Avevamo lenzuola di flanella leggera, come i bambini, e vecchie coperte di quelle in dotazione all’esercito, ancora con la scritta U.S. Ripiegavamo i nostri abiti per bene e li riponevamo sugli sgabelli ai piedi del letto. Le luci venivano abbassate ma non spente. Zia Sara e Zia Elisabetta vigilavano, camminando avanti e indietro; avevano dei pungoli elettrici di quelli che si usano per il bestiame agganciati a delle cinghie che pendevano dalle loro cinture di cuoio. Niente pistole, però, neanche a loro venivano affidate le pistole. Le pistole erano per le guardie, scelte a questo scopo tra gli Angeli. Alle guardie non era permesso entrare nella casa se non vi erano chiamate, e a noi non era permesso uscirne, tranne che per le nostre passeggiate, due volte al giorno, due per due, attorno al campo di calcio che adesso era cintato da una rete metallica bordata di filo spinato. Gli Angeli stavano dall’altra parte, voltati di schiena verso di noi. Erano oggetto di paura per noi, ma anche di qualcos’altro. Se solo ci avessero guardato. Se solo avessimo potuto parlare con loro. Si sarebbe potuto stabilire uno scambio, pensavamo, un accordo, un baratto. Avevamo ancora il nostro corpo. Erano queste le nostre fantasie. Avevamo imparato a sussurrare quasi impercettibilmente. Nella semioscurità potevamo allungare le braccia, quando le Zie non guardavano, e toccarci le mani attraverso lo spazio tra un letto e l’altro. Leggevamo il movimento delle labbra, con le teste posate sul cuscino, girate di lato, osservando l’una la bocca dell’altra. In questo modo ci eravamo scambiate i nostri nomi, di letto in letto: Alma. Janine. Dolores. Moira. June”.

Prima di perdermi, e magari non ritrovarmi più, in questo ginepraio dove spesso confondo quale sia la realtà e quale la finzione distopica, soprattutto, dove spesso mi sembra che la finzione distopica sia più accettabile di tante realtà, chiudo con l’ennesimo spaventoso intreccio tra quello che ci sta intorno e l’opera di Shirley.

Ricordate la Seconda Alleanza descritta in Eclipse, la forza di polizia internazionale privata che diventa presto un gruppo armato antiterroristico? Bene. Pete Hegseth, la personalità Tv di estrema destra scelta da Trump quale futuro capo del Pentagono, non s’è battuto soltanto contro inchieste su militari Usa accusati di gravi crimini di guerra in Irak, ha preso le parti anche di squadre paramilitari private che avevano in appalto mansioni di sicurezza, come fece nel 2017, quando definì il massacro di diciassette civili inermi e innocenti in una piazza di Baghdad da parte di guardie dell’allora società Blackwater, come “un altro giorno di lavoro in Irak”.

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La coscienza di Gustav (appunti meyrinkiani) 5 https://www.carmillaonline.com/2024/12/14/la-coscienza-di-gustav-appunti-meyrinkiani-5/ Sat, 14 Dec 2024 21:00:28 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=85708 di Franco Pezzini

(Per le parti precedenti, cfr. qui)

Attraverso Il golem (II)

Ormai – siamo circa a metà del romanzo – il lettore ha (o dovrebbe aver) capito che ci troviamo in una delle grandi fantasie romanzesche dell’Occidente moderno sul tema del Doppio, mixata con robuste dosi di spunti modernistici (la “coscienza”/vita interiore, inconscio e subconscio, il sogno, il rimosso, un protagonista più o meno malato o pasticcione in balia degli eventi), una certa quantità di suggestioni esoteriche – ma soprattutto mistiche, nel recupero un po’ sincretico di varie tradizioni, compresa quella spirituale della kabbalah – e di critica [...]]]> di Franco Pezzini

(Per le parti precedenti, cfr. qui)

Attraverso Il golem (II)

Ormai – siamo circa a metà del romanzo – il lettore ha (o dovrebbe aver) capito che ci troviamo in una delle grandi fantasie romanzesche dell’Occidente moderno sul tema del Doppio, mixata con robuste dosi di spunti modernistici (la “coscienza”/vita interiore, inconscio e subconscio, il sogno, il rimosso, un protagonista più o meno malato o pasticcione in balia degli eventi), una certa quantità di suggestioni esoteriche – ma soprattutto mistiche, nel recupero un po’ sincretico di varie tradizioni, compresa quella spirituale della kabbalah – e di critica di costume coi soliti bersagli di Meyrink. Quest’ultimo aspetto troverà sviluppo soprattutto nelle seconda parte che ci avviamo ad affrontare – con critiche e satira durissimi sulle agenzie di ordine pubblico, il potere, le istituzioni. Quelle robe insomma che piacciono tanto agli eredi esoterico/politici del Gruppo di Ur che a tutt’oggi cercano di annettersi l’autore (nella ola di un certo fandom nerd) senza neppure rendersi conto della contraddizione. Il che la dice lunga sulla accuratezza, serietà e lucidità di certa critica nostrana.

A questo punto la storia ha un brusco strappo in avanti, tanto che al narrante sembrano passati mesi. Mentre Pernath, da raffinato intagliatore di pietre preziose, vagheggia di riprodurre sulla selenite il volto di Mirjam – invece che, come inizialmente pensato, il dio egizio Osiride e l’Ermafrodito del libro Ibbur – al contempo medita sulla propria solitudine: di certe cose può parlare solo con Hillel… ma piomba lì Angelina, sconvolta. Wassertrum ha raggiunto il capezzale di Savioli e vuole che si tolga la vita minacciando altrimenti lo scandalo sulla sua amante. La dama è pronta a rivelare tutto al marito, pur di salvare la vita dell’amato, ma Pernath, baciandola, le spiega che le lettere compromettenti sono in salvo. Sollievo entusiastico di lei.

Pernath apprenderà poi da Charousek che Wassertrum aveva cercato le carte. Lo studente finisce con il confessare il segreto dell’odio che lo anima, Wassertrum era suo padre e ha costretto sua madre a cedergli per poi venderla a un postribolo, grazie al fatto che il rigattiere “è in combutta con funzionari della polizia”. L’orrido e tormentato figuro l’ha venduta quando ha scoperto di amarla…

Quella però di donare una gemma incisa a Mirjam si dimostra un’operazione complessa; la povertà di lei non permette che accetti facilmente. Pernath cerca di spiegarle che deve tanto al dono interiore offerto da Hillel, e finisce col raccontarle la propria storia – in modo più agevole di quanto sentisse di poter fare con il suo eccelso padre. Un personaggio di statura troppo elevata persino per la figlia: alla morte della moglie che pure amava molto, non era riuscito a condividere davvero la terribile sofferenza della figlia. Mirjam vive nell’attesa di un miracolo, vedendo in esso il nocciolo più essenziale delle Scritture (potremmo parlare di Provvidenza): e sa che un giorno sarà ridestata. Ma aiutarli materialmente – come Pernath vorrebbe fare – significherebbe toglier loro la possibilità di vivere un miracolo…

Appare Hillel, che in presenza di sua figlia dà a Pernath del lei, marcando un distacco. Solo quando sono soli gli chiede se intenda consultarlo “sulla faccenda riguardante la giovane signora”. Ha saputo che ha dato dei soldi a Charousek e lo mette in guardia dal cercare di risolvere le situazioni in quel modo; quanto alla giovane dama, non gli pare sia minacciata al momento da pericoli e ritiene sia meglio non far nulla. Mai gli ha “parlato con un tono così freddo e minaccioso” e Pernath non capisce il perché.

Rientrato in casa, vi avverte una tensione incomprensibile e scivola in una sovraeccitata esperienza onirica. Una strana creatura grigia, con un globo di vapori al posto della testa, gli tende con insistenza dei grani simili a fagioli: “Che avrei dovuto farne?”. Pernath sente una responsabilità immane pesare su di lui… “Due piatti della bilancia, ognuno gravato dal peso di un emisfero del mondo, sono sospesi in qualche parte del Regno delle Cause, intuii – quello su cui gettassi un granellino, tracollerebbe al suolo”. E se non scegliesse, sarebbe come respingere i grani… Poi, in una notte inquieta in cui Wassertrum armeggia imprecando nell’atelier e nella visione lunghe file di “rigide maschere morte” – gli antenati di Pernath – culminano in un ultimo volto, quello del golem, appaiono intorno a lui due schiere, abbigliate l’una di violetto, l’altra di nero e rosso: capisce che dovrà prendere una decisione. Colpisce dunque la mano dello spettro coi grani, che rotolano per terra: le figure del cerchio rosso spariscono, quelle del blu sollevano in alto i grani…

Una tempesta si abbatte allora sulla città e una voce accanto a Pernath lo invita a restare calmo, “oggi è la Lelschimurin, la notte della Difesa”. Poi echeggia la frase “Colui che cercate non è qui”, il primo che ha parlato mormora qualcosa in cui ricorre il nome Enoch, cioè l’iniziato, e una delle figure fa comparire sul petto del Nostro la frase in caratteri prima latini, poi diversi e sconosciuti, CHEBRAT ZEREH OR BOQER (più o meno “Confraternita dei discendenti della luce del mattino”): allora Pernath cade in un sonno profondo senza sogni. Inevitabile pensare alla quantità di gruppi iniziatici cui s’era affiliato Meyrink, ma qui il contesto – è bene sottolineare – è essenzialmente onirico, un teatro di maschere e simboli interiori.

Le giornate sono piene, Pernath ha finito la gemma di cui ora Mirjam è felice, restaurato la lettera I del libro (che peraltro, nella realtà, gli appare un’edizione bella ma comune in ebraico, lingua che non capisce)… e scopre che, forse proprio mentre faceva cadere i grani, è crollato il ponte di pietra sul fiume. Gli tornano dunque in mente le volte in cui l’ha percorso, ma anche le cose della giovinezza e la casa dei genitori; e bacia la foto di Angelina. Vagheggia anzi di poter intrattenere una relazione con lei, hai visto mai che il marito muoia improvvisamente… e “Non era un miracolo […] che nello spazio di poche settimane si fossero destate in me capacità artistiche che già ora parevano di gran lunga al di sopra della media?”. Ma capisce che deve pensare a Mirjam, alla quale ha procurato artificiosamente un piccolo miracolo, una moneta entro la forma di pane del fornaio… Anche se ora si preoccupa di averlo fatto, ripensando ai discorsi con loro: “La nobiltà dell’intento non mi scusava in alcun modo: il fine non giustifica i mezzi, vedevo bene”. Di nuovo un uomo senza qualità, goffo come Zeno Cosini, che combina pasticci…

Mentre sta pensando a condurre Mirjam a fare un giretto, piomba da lui Wassertrum, untuoso e brutale come sempre,  con un orologio malconcio da far riparare: Pernath non realizza che il nome lì inscritto e faticosamente decifrato, Zottmann, è quello del tipo assassinato. In un linguaggio smozzicato, Wassertrum inanella una serie di allusioni volgari su Angelina: Pernath ribatte che i ricatti non arrivano a nulla, e quando il rigattiere mostra tutta la sua arroganza, il Nostro starebbe per passare alla violenza – ma compare Hillel. Alla sua presenza luminosa, il rigattiere è costretto a battere in ritirata, e si fa restituire l’orologio da Pernath.

Mentre Charousek latita, il Nostro si pastura in fantasie su Angelina, Mirjam e persino Rosina, ma dialoga anche con il proprio doppio e gli pone una serie di domande sui cose terrene e ultraterrene. Comincia a intuire che Mirjam vive forse un tessuto di eventi segreti simili ai suoi. La ragazza spiega che se mai scoprisse che l’episodio della moneta non era un miracolo ne morirebbe di delusione (un annuncio che terrorizza Pernath) ma poi non vuole affliggerlo con discorsi tristi e lo consola. Tanto più per la sensazione che gravi su di lui un grosso pericolo… Emerge poi che la madre di Mirjam avrebbe dovuto sposare Wassertrum, ma non l’ha fatto: e con lei è stato “sempre cordiale e buono”. Ma è un uomo tormentato, che non accetta la pietà degli altri: “un invasato – un uomo che diventa subito diffidente, in modo irreparabile, quando qualcuno gli tocca il cuore”, e vede “odio e tradimento dappertutto”. Unica eccezione, verso il figlio amatissimo; ma nella bottega tiene una figura di cera somigliante a una propria antica amante – “La madre di Charousek”, pensa Pernath. Che poi scherza con Mirjam in modo galante: la ragazza ha il sogno di sposarsi, vagheggia di fondersi con un altro essere come nel culto egizio di Osiride per dar luogo all’Ermafrodito, “unione magica dei generi maschile e femminile in un semidio […] principio di una vita nuova, eterna – che non ha fine”. Ma lei ha appena chiesto, per favore, di non parlare più di quel tema e appare Angelina, ciangottando capricciosa per portare Athanasius a fare la stessa gita in carrozza che lui aveva proposto a Mirjam. La quale si ritira in buon ordine: “Era come se avessi perduto tutto un mondo”, commenta lui. Ma poi esce con Angelina.

La dama, archiviato come noioso Savioli ormai fuori pericolo, vuole “tornare finalmente a godere” e si mostra civettuola: han sognato l’uno dell’altra, lui invaghito torna a casa ore dopo… però dopo quel pomeriggio vertiginoso si sente estraneo al proprio squallido alloggio e comprende che di quella felicità resterà solo “un dolce, dolente ricordo”. Così, prima di rientrare nel ghetto, torna a gettare col buio uno sguardo alle finestre dietro le quali Angelina dorme, ma si perde nella nebbia: finisce nel Vicolo degli Alchimisti e a sbattere contro un cancello di legno sul fondo, lì bussa a una finestra e vede un uomo vecchissimo dagli occhi vuoti tra storte e alambicchi…

Ripresa la strada, decide di soffocare la brama dei baci di Angelina con qualche ora in compagnia dei tre vecchi amici, e ascolta così da Zwakh la storia dell’assassino Babinski (di cui al già citato racconto su “Die Ernte”). Poi fanno parlare Pernath che racconta come si sia perso nel buio, abbia visto il misterioso alchimista (“Ma possibile…! Questo Pernath vive in prima persona tutte le leggende che ci sono”) – e gli spiegano che il presunto golem del ghetto è stato identificato banalmente nel mendicante ebreo Haschile che aveva recuperato in un portone degli antichi abiti (quelli appunto dismessi da Pernath). Quanto alla casa nel Vicolo degli Alchimisti si tratterebbe di una dimora arcana, “visibile soltanto con la nebbia e unicamente a persone elette dalla fortuna”, detta “il Muro all’Ultima Lanterna”: di giorno c’è solo una grossa pietra grigia e poi un precipizio, Pernath è stato fortunato a non fare un passo di più. Sotto la pietra si troverebbe un tesoro immenso sepolto dall’Ordine dei Fratelli Asiatici pretesi fondatori di Praga, “a fondamento di una casa che sarà abitata alla fine del mondo da un uomo, o per meglio dire da un Ermafrodito, una creatura che è uomo e donna insieme” e avrà nella propria insegna l’immagine della lepre simbolo di Osiride. A custodire il luogo starebbe Matusalemme in persona, per evitare che Satana fecondi la pietra e nasca un figlio, Armilos dai capelli d’oro, “occhi falcati e braccia lunghe sino ai piedi”. È possibile che i tratti asiatici del golem trovino qualche nesso proprio coi Fratelli Asiatici della fondazione di Praga.

Lasciati bruscamente gli amici intenti a discorsi un po’ pesanti suscitati dal grog, Pernath muove verso casa nella nebbia e si sente chiamare. Subito dopo, Rosina si stringe ardente contro di lui…

Si sveglia tardi, l’indomani, nella casa squallida, evidentemente dopo una sordida esperienza sessuale con la ragazza; e medita d’impiccarsi. I messaggi “dal regno dell’immortalità”, gli pare, non sono serviti a niente. Potrà ritirare il denaro e lasciare a Mirjam le sue pietre preziose, a Hillel una lettera in cui chiarisce la sua goffaggine col “miracolo”, ad Angelina un mazzo di rose. Ma arriva Wassertrum, che spera di non essere stavolta interrotto da Hillel: si finge amichevole e in pegno della pace fatta vuol donargli l’orologio già visto. Peccato che l’interruzione arrivi egualmente, è Charousek, che sa che Pernath non è solo e affetta tutta una commedia celebrando con lodi sviolinate la generosità di Wassertrum (che non si fa vedere). Lo studente racconta di non sapere chi fosse il proprio padre e di non aver mai visto sua madre – che però ha amato molto il padre, come attesta in una pagina strappata dal proprio diario e in suo possesso: dove però emerge anche la crudeltà di lui. Quindi Charousek cade in ginocchio maledicendo il genitore… e gli augura “la più orrenda delle fini che si possano immaginare”. Continua poi la commedia proclamando il suo affetto per il figlio di Wassertrum, il dottor Theodor Wassory e il suo dolore per il suicidio – in realtà causato da lui stesso – di quell’impagabile amico: chiede anzi che Pernath consegni a Wassertrum la boccetta del veleno memore di quell’infelice e una rosa tratta dal petto della sua salma… Pernath lo accompagna per le scale, non intende favorire il suicidio del rigattiere, ma Charousek spiega che il tipo si è certo già appropriato della boccetta e la suggestione psicologica ha fatto effetto:

 

Non c’è che il pathos più ripugnante a far presa su simili fottuti! Mi creda! Via via che parlavo, avrei potuto disegnarle le espressioni della sua faccia, a ogni mia frase. Nessun kitsch – come lo chiamano i pittori – è abietto abbastanza, per non agire da strappalacrime sulla massa intrisa sino al midollo di menzogna, per non colpirla direttamente al cuore! Se fosse diversamente, non crede che già da un pezzo tutti quanti i teatri sarebbero stati messi a fuoco? La canaglia la riconosci dal sentimentalismo.

 

Pernath è sconvolto. Poi Wassertrum passa loro accanto, e il Nostro rientrando in casa trova l’orologio al posto di boccetta e rosa: il rigattiere, come previsto dal manipolatore Charousek, se n’è in effetti appropriato.

Ma in banca Pernath non riesce a ritirare subito i suoi soldi – occorrono otto giorni – dunque non può ancora suicidarsi; in compenso un losco tipo dall’occhio di vetro ha preso a seguirlo, e la sera lo incantona e lo arresta. È un agente, scopre, della polizia segreta e lo trascina al posto di polizia. Lì il commissario cerca di confonderlo con domande su Angelina e Savioli, si finge un amicone e un amico del padre, ma Pernath resiste, finché quello non sbotta: “Assassino!”. E alla fine il Nostro capisce. Era stato ucciso quello Zottmann il cui nome campeggia sull’orologio: dunque, nonostante le minacce del commissario, Pernath fa mettere a verbale che l’orologio gliel’ha regalato quel mattino il rigattiere Wassertrum.

Tradotto in un carcere che sembra riproporre l’esperienza claustrofobica della stanza murata, vive tutte le brutture della situazione – qui Meyrink parla di esperienze vissute – con le angosce aggiuntive della situazione specifica, le carte di Angelina probabilmente in mano ai poliziotti e a Wassertrum… ma poi si tranquillizza pensando che a vegliare sulla situazione c’è Charousek. In cella trova anche il butterato Loisa, accusato lui pure dell’omicidio Zottmann, che gli chiede di Rosina.

Portato davanti al giudice istruttore barone Karl Zampadigatto, Pernath rifiuta di ammettersi colpevole e viene ributtato in cella. Passano le settimane, sulle vicende di Angelina è fatalista, mentre “Era la sorte di Mirjam […] a rendermi quasi folle di disperazione”. Abbrutito dalla vita in cella si pone domande sui propri amici: l’unica proccupazione delle autorità – e del medico del carcere dottor Petaldirosa – è che nessuno si impicchi. Una lima, comparsa inopinatamente in cella, viene fatta sparire da Loisa poi trasferito in un’altra.

Da tre mesi Pernath è in carcere, si angoscia che Mirjam possa essere morta; nessuno lo interroga – ed è ormai maggio, quando Zwakh usa battere la provincia coi suoi burattini. L’incendiario Vóssatka suo compagno di cella viene liberato, Loisa è evaso, il nuovo arrivato Wenzel fa in modo di sbagliare cella per recare un messaggio a Pernath: è uno sgrammaticato membro del “battaglione” del dottor Hulbert, gli porta una lettera di Charousek e lo esorta a fingere una crisi epilettica per fuggire, mostrandogli come fare.

Ma Pernath non vuole evadere, vuol essere scarcerato. Apprende da Wenzel notizie che lo deludono: Angelina ha divorziato ed è partita con la figlia e l’amante (“Mi ero dato tanta pena per amor suo, e adesso… ero già dimenticato”, forse lo credeva un assassino), mentre su Mirjam non sa nulla. Quanto a Wassertrum è stato assassinato con una lima in gola – da Loisa, il cui coltello è stato fatto sparire da Wenzel. Quando questi viene riportato alla cella giusta, Pernath legge ansioso la lettera di Charousek. Che lo tranquillizza: l’omicidio di Zottmann è stato commesso da Loisa, il fratello Jaromir ha trovato l’orologio e l’ha venduto a Wassertrum. A quel punto Charousek ha dato mille fiorini a Jaromir (e “solo Angelina poteva aver dato quella somma a Charousek”, dunque non si è dimenticata di lui), per cui il tipo testimonierà come abbia avuto l’orologio e Pernath verrà liberato. Charousek, malato di tisi, sa peraltro che morirà presto. “Una cosa però è certa: noi ci rivedremo”. Non tra i vivi e neppure tra i morti: ma in una situazione diversa, nota ai cabalisti. Una volta ha creduto anzi di vedere sul petto di Pernath un segno: probabilmente la citata scritta mistica della visione notturna. Quanto a Wassertrum, alla fine d’aprile la suggestione del diabolico studente stava iniziando ad agire su di lui: aveva anche fatto testamento ed era andato da un notaio. Nominando proprio erede proprio Charousek… il figlio tradito, l’unico al mondo per cui potesse riparare qualcosa, forse anche per la speranza di neutralizzarne la maledizione. Ma a quel punto, mentre Charousek attendeva il suicidio di Wassertrum, era arrivato qualcun altro ad ammazzarlo con una lima. Col risultato che ora Charousek si sente un reietto, “strumento giudicato indegno di stare nella mano dell’angelo della morte”. Potrà ancora versare il proprio a seguire quello del padre odiato… cui non offrirà appigli nell’aldilà, non toccherà un soldo di quell’eredità: metterà all’asta le case, brucerà gli oggetti e garantirà a Pernath un terzo del valore – a compenso di quanto Wassertrum, ha scoperto, aveva predato al di lui padre. Un altro terzo sarà diviso tra i dodici membri del “battaglione” che hanno conosciuto Hulbert;

 

L’ultimo terzo andrà in parti uguali ai prossimi sette assassini per rapina del paese, che vengano prosciolti per insufficienza di prove.

Di questo andavo debitore alla pubblica indignazione.

 

Terribile e insieme tenerissimo, Charousek è più puro – riflette il Nostro – di tanti uomini devoti.

Ma il giorno dopo in cortile Pernath conosce un altro di questi peccatori straordinari, quando viene avvicinato da un altro prigioniero, il delicato Amadeus Laponder. Reo confesso, scopre con sorpresa, nientemeno che di assassinio con stupro. Condividono la cella, Pernath è impressionato e preoccupato di quella presenza in apparenza così urbana, educata e metodica (anche nel piegare e appendere gli abiti la sera): e di notte, quando un raggio di luna gli batte sul viso, lo ode ripetere più volte “Lasciami”. Pernath è talmente impressionato dalla presenza dello stupratore assassino da non riuscire a dormire, e una notte sente la voce di Mirjam, “Interrogami. Interrogami”. Viene dalle labbra di Laponder, e quando Pernath pronuncia il nome di lei riceve una conferma: “Ella parlò del suo amore per me e della felicità indicibile di esserci finalmente ritrovati – e di non mai più separarci – in furia – senza pause – come chi tema d’essere interrotto e vuol approfittare d’ogni secondo”. E quando lui le chiede se sia morta, la voce risponde “No. Io vivo. Dormo”. Poi, dopo una pausa, arriva la voce di Hillel, che a più riprese lo chiama “Henoch!”, cioè l’iniziato, e gli spiega di non angustiarsi per Mirjam (e, sottinteso, per la storia del finto miracolo): spera di rivederlo, ma – come emerge a frasi spezzate e non del tutto comprensibili – potrebbe non riuscire perché partirà per la Palestina, verso Gad. Sopita quella voce, arriva quella di Charousek, ma con la frase di chiusura della sua lettera: “Stia bene e si ricordi qualche volta di me”.

Chiusa l’esperienza, Pernath si sente in colpa per non aver visto in Laponder altro che un deliquente, e mai l’uomo: è palesemente un sonnambulo (come il Cesare del Gabinetto del dottor Caligari, 1920, dunque di poco successivo), sotto l’influsso della luna piena. Quando si sveglia, gli chiede scusa e Laponder mostra di comprendere; e alla domanda su cos’abbia sognato, risponde che non sogna mai – ma si sposta, esce dal corpo. Quella notte, racconta, si trovava nella strana stanza senza porta a cui si accede da una botola. Ma c’era un letto, in cui dormiva una bambina, e un uomo le teneva la mano sulla fronte. Mirjam e il padre… e dalla scala si scendeva in una stanza “dove stava un uomo con fibbie d’argento alle scarpe, una strana figura, come non ne ho mai viste: di colorito giallo in faccia e occhi obliqui; era chino in avanti e pareva aspettare qualcosa”. C’era anche un libro di pergamena che iniziava con una grande A d’oro… poi a un tratto Laponder fissa il petto di Pernath come a sua volta vi scorgesse qualcosa. Per cui gli afferra la mano e lo supplica di dirgli tutto, rivelazioni che lo riguardano da vicino: c’è poco tempo, di lì a poco gli comunicheranno la condanna a morte e lo porteranno via…

Così Pernath inizia il racconto degli strani eventi occorsigli, e quando cita la figura acefala che ha offerto i grani e lui li ha fatti cadere, Laponder commenta stupito che non avrebbe pensato a una terza via. Quei grani significano le forze magiche, non li ha rifiutati né accolti ma resteranno custoditi fino al tempo della germinazione. “Si vivificheranno allora le forze che adesso ancora sonnecchiano in lei”, custodite dai suoi antenati, le persone del sogno irradianti luce blu. Quando Pernath racconta di Mirjam e dell’Ermafrodito, Laponder piange, cereo… Nell’uccidere, spiega, non era libero di scegliere, ma considera la sentenza giusta: non è pazzo, ma pericoloso. Quando anche a lui era apparso il fantasma coi grani, li aveva presi e dunque ha percorso la via della morte. Comunque, si lascerà guidare dallo Spirito, anche fino al patibolo, così sarà libero.

Pernath ha perduto per l’ipnosi di un medico la memoria della giovinezza: “È questo il contrassegno – la stimma – di tutti coloro che sono stati morsi dal ‘serpente del regno dello spirito’” (facendo nel corso della propria vita “quel che nell’intera razza appare durante una generazione” e ritrovandosi alla fine profeti); e l’estinzione della memoria – tra un “prima” e un “dopo” – prende quel posto tra una vita e l’altra che in altri casi è della morte. “[…] l’attesa dell’ascesa al trono del proprio ‘io’ è l’attesa del Messia”, e all’incoronazione del re si spezzerà il legame col mondo. Laponder completa insomma la formazione di Pernath avviata da Hillel (triangolo dell’iniziazione).

Più che esoterica, insomma, la soluzione è mistica, ma insieme psichica ed esistenziale. Come le foglie portate dal vento di cui sopra, come i burattini degli spettacoli dei tre vecchi amici, il sonnambulo resta un archetipo del dominio da parte di forze altre: e burattinesche, nel senso di creature agite da incubo alla Caligari, si potranno definire varie figure della produzione meyrinkiana (si pensi all’inquietante Zrcadlo di Walpurgisnacht, 1917). Ma in questo senso burattinesca è la stessa realtà del ghetto, percorsa a ondate periodiche come da febbri pneumatiche, e ipostatizzata nello spettro del golem, spirito elusivo che sembra fondersi e confondersi nel vissuto profondo degli stessi abitanti. Laponder aspettava da Pernath una chiave, la storia dell’Ermafrodito, e ora è sereno. Arrivano a prenderlo, per impiccarlo l’indomani.

Per mesi Pernath sarà ancora in carcere, tormentato dalla brutalità della situazione e dall’angoscia: dalle parole di un arrestato gli è sorto il panico che la ragazza stuprata e uccisa da Laponder fosse Mirjam. E finalmente a inizio novembre (ma l’atto è di luglio, visto che il suo nome inizia per P, “e naturalmente nell’alfabeto si trova verso la fine”, continua la polemica contro la giustizia) viene prosciolto – e alla lettura perde i sensi. Apprende anche ufficialmente di essere erede di Charousek, suicida a maggio a faccia in giù sul tumulo di Wassertrum: “Aveva scavato due profonde buche nella terra, poi s’era tagliato i polsi e infilato le braccia in quelle buche. È morto dissanguato”. Si chiude così intorno a Wassertrum una nuova struttura triadica (triangolo dei suicidi) comprendente il figlio Wassory, la nemesi Charousek e lo stesso Pernath come aspirante suicida (che però con Wassertrum e Savioli rientra con altrettanta ragione in un triangolo dei suicidi mancati).

Rilasciato a mezzanotte dopo aver recuperato i propri beni, ma con le gambe quasi incapaci di funzionare, si fa portare rapidamente da una vettura in Hahnpassgasse 7, ansioso di vedere Mirjam. L’autista obietta che lì non si arriva, stanno risanando il quartiere ebraico. Ma arrivando alla casa, poco resta in piedi. La gente, oltretutto, è stata sgomberata per via del tifo; l’unico che pare di poter rintracciare è Jaromir, che a gesti comunica come tutti i suoi vecchi contatti siano partiti o scomparsi – anche Mirjam… con strazio di Jaromir, Rosina è divenuta l’amante di un principe.

In attesa di incassare i soldi, i propri e l’eredità, Pernath vende le pietre per affittare due stanzette in un punto risparmiato dallo sventramento del quartiere, nella soffitta di una casa dove una volta il golem sarebbe sparito. La notte di Natale si porta a casa un piccolo albero con candeline rosse; poi intende partire a cercare Hillel e Mirjam. E quella notte, per un attimo, il suo doppio appare sulla soglia della stanza, coronato e biancovestito. Ma subito dopo Pernath si rende conto che è scoppiato un incendio, fugge sul tetto, e mentre si sta calando giù con la corda di uno spazzacamino – come l’uomo che aveva tentato di occhieggiare dalla finestra della stanza murata, rimettendoci l’osso del collo – gli pare di vedere Hillel e Mirjam nel riquadro della finestra. Perde la presa – restando nella stessa postura dell’Appeso dei Tarocchi – e scivola tentando invano di afferrarsi al davanzale, di pietra liscia come un pezzo di grasso. Ma lui non muore nella caduta, e simbolicamente riesce a vedere la stanza segreta del Sé.

Ora l’uomo che nel suo letto d’albergo ha vissuto quest’esperienza interiore in neanche un’ora di sonno – e non si chiama affatto Pernath – si alza e prende il cappello che ha scambiato per sbaglio durante la messa nella cattedrale. Nella fodera appare a lettere d’oro il nome Athanasius Pernath. Senza por tempo in mezzo, vestitosi, corre dunque all’indirizzo ben noto nel quartiere ebraico – dove pure, l’avverte il custode, “non c’è più molto”. Con lui, avvolto in un foglio è il cappello di Pernath: ed eccolo raggiungere Hahnpassgasse, trovandola completamente diversa – e così pure il caffè Loisitschek. Apprende dalla cameriera che il ponte di pietra è crollato trentatré anni prima, Pernath dev’essere dunque sulla novantina. Attraverso le informazioni di vari avventori che discutono la credibilità dell’esistenza del leggendario Pernath, che abiterebbe al muro dell’ultima lanterna in un punto pericolosissimo, il narrante scopre però stranito che la casa della sua ultima visione nei panni di lui non è mai andata a fuoco. La realtà interiore e quella storica non si sovrappongono completamente, e il sogno pretende la sua parte.

Al mattino il narrante si fa traghettare oltre la Moldava raggiungendo il Vicolo degli Alchimisti – oggi meta fastidiosamente turistica, il Vicolo d’oro in cui abitarono Kafka (dal 1916 al 1917, dunque poco dopo l’uscita di Il golem) e Seifert è stato molto restaurato dai tempi in cui lo ricordava Meyrink – ma al posto del vecchio cancello che ricordava ne trova ora uno grandioso e mosaicato, con l’immagine di Ermafrodito, e un profumo di giacinti oltre il muro. Compare un servitore (ennesima maschera del golem, a giudicare dall’abbigliamento), gli chiede cosa desideri e lui gli tende il cappello incartato. Sullo sfondo, sui gradini di un edificio a forma di tempio, vede Athanasius (“immortale”, secondo l’etimo) e Mirjam. Il primo identico a lui, lei giovane e bellissima. Poi, al chiudersi del cancello riappare il servitore restituendogli il cappello giusto: il signor Pernath lo ringrazia, e lo prega di non considerarlo inospitale se non lo fa entrare. Si era accorto subito dello scambio di cappello e non l’ha usato; “Si augura solo che il suo non le abbia provocato dei mali di testa”.

Se davvero (come qui si ipotizza con la necessaria prudenza) Il golem vede tra le righe – a partire da una suggestione contingente che può aver colpito Meyrink – l’intreccio di linee e strutture geometriche che delinea l’Albero cabalistico della Vita, inevitabile ricordare come questo già sia stato inteso come simbolizzante una figura umana: a quel punto potrebbe suggerire la figura del golem o piuttosto dello stesso Ermafrodito della felice unione tra Athanasius e Mirjam.

Possiamo ignorare la questione se Il golem sia o meno un capolavoro della letteratura, ma certo è un testo straordinario, autenticamente letterario: un romanzo intenso e dotato di una poesia a tratti struggente, e un incitamento onesto alla ricerca interiore attraverso un teatro di maschere fondamentali che colpirà Jung. Un romanzo iniziatico, certo, ma in modo più sottile di quanto spesso indicato con questo termine. Sia perché all’autore interessa anzitutto varare un’opera letteraria, non un testo a chiave per corrucciati conciliaboli di eruditi, e dunque una storia che parli di sentimenti, nostalgie, amore, almeno quanto di riletture cabalistiche (peraltro molto libere, per necessità di narrazione) o esoteriche; sia perché i riferimenti arcani, piuttosto improbabili se singolarmente considerati, fungono da suggestioni che l’autore in realtà relativizza col suo libero uso – l’importante è il cammino, per ciascuno modellato in modo peculiare, al di là di maschere e categorie culturali; sia perché appunto si tratta della storia di una ricerca, scevra da ogni spocchia da presunti Maestri.

La peculiarità grottesca-fantastica del Golem, pur trovando in E. T. A. Hoffmann un illustre precedente, permette di apparentarlo solo a L’altra parte di Kubin, peraltro amico dell’autore. Al netto della dimensione onirica, si possono cogliere realismo e razionalità nel trattamento narrativo di una condizione mentale crepuscolare: le separazioni tra io e mondo esterno, tra io e l’altro – un Doppio trattato con riferimento a un antico linguaggio magico, ma in fondo riconducibile a meccanismi noti alle scienze umane – tendono a sciogliersi, e il linguaggio gotico, gli effetti gotici sono volti a esiti più sottile che in tanti precedenti per veicolare una visione spirituale. Facendo saltare alcune categorie letterarie di alto e basso, e permettendo di riconoscere una sincerità dell’autore nel suo progetto.

Certo la trama tende spesso a inabissarsi in un labirinto onirico e pneumatico, donde le accuse talora rivolte di testo soporifero. Ma è pur vero che alla mancata sovrabbondanza di fatti fantastici – che pure ci sono – corrisponde un felicissimo gioco d’ombre espressionista: un’inquietudine di visceri cui le tavole di Steiner-Prag illustrative della prima edizione restituiscono efficace forma visiva, e che coinvolge il lettore disposto a mettersi in gioco. Un romanzo insomma pienamente fantastico (si è parlato di urban fantasy), nell’accezione più ricca del termine evocante la sospensione/soglia tra realtà liminari, la ferita/feritoia su un mondo interiore e l’imbarazzo radicale dell’osservatore: qualcosa che non confligge con la dimensione interiore/“iniziatica”, ma ne rappresenta semplicemente la definizione narrativa.

La detenzione in carcere di Pernath, vera e propria morte iniziatica, segna il culmine della storia: quando finalmente viene liberato, trova che il mondo è cambiato, gli amici sono spariti, Mirjam stessa è andata via e occorre cercarla. Ma è un po’ tutto il microcosmo-ghetto come lui l’ha conosciuto a sparire, e non solo per la ristrutturazione urbanistica che lo sventra modificando la geometria di Praga. L’anonimo narratore che, a distanza di una trentina d’anni, si troverà a rivivere l’esperienza di Athanasius per il cortocircuito psichico di uno scambio accidentale di cappelli, dovrà fare i conti con quella svolta, il recupero di un’identità culturale e la sintesi tra gli opposti. Come in fondo il lettore, per lo scambio di cappello con Meyrink che lo proietta nel labirinto del protagonista: a riconoscere i propri imbarazzi, paure e rovine, ma anche la speranza finale di una ridefinizione profonda, di una maturazione in serenità e misericordia.

(5-continua)

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Africa nera, rossa e “bianca” https://www.carmillaonline.com/2024/12/11/africa-nera-rossa-e-bianca/ Wed, 11 Dec 2024 21:00:24 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=85662 di Sandro Moiso

Kevin Ochieng Okoth, Red Africa. Questione coloniale e politiche rivoluzionarie, con una Postfazione di Carlo Formenti. Meltemi Editore, Milano 2024, pp. 170, 16,00 euro.

“Mi sono convinta che la nostra comune condizione di neri è attraversata dagli effetti delle specifiche condizioni nazionali, di classe e di genere. Schiavismo e colonialismo forniscono il terreno storico sul quale razza, genere e nazionalità hanno scritto diverse versioni di soggettività nera. […] Questa qualità intrinsecamente multipla della soggettività nera richiede attenzione rispetto agli specifici sviluppi storici e discorsivi che hanno generato strategie sociali di subordinazione razziale”. (Denise Ferreira da Silva, “Facts [...]]]> di Sandro Moiso

Kevin Ochieng Okoth, Red Africa. Questione coloniale e politiche rivoluzionarie, con una Postfazione di Carlo Formenti. Meltemi Editore, Milano 2024, pp. 170, 16,00 euro.

“Mi sono convinta che la nostra comune condizione di neri è attraversata dagli effetti delle specifiche condizioni nazionali, di classe e di genere. Schiavismo e colonialismo forniscono il terreno storico sul quale razza, genere e nazionalità hanno scritto diverse versioni di soggettività nera. […] Questa qualità intrinsecamente multipla della soggettività nera richiede attenzione rispetto agli specifici sviluppi storici e discorsivi che hanno generato strategie sociali di subordinazione razziale”. (Denise Ferreira da Silva, “Facts of Blackness. Brazil is Not Quite the United States… And Racial Politics in Brazil?”, marzo 1998 )

Il testo, appena pubblicato nella collana «Visioni eretiche» della casa editrice Meltemi, ha sicuramente diversi meriti, ma mostra anche alcuni limiti di carattere politico, anche se, per iniziarne la lettura, conviene sicuramente illustrare i primi e presentare l’autore.

Kevin Ochieng Okoth è uno scrittore e ricercatore afro-inglese, fino ad ora mai pubblicato in Italia. Fa parte del Salvage Editorial Collective e collabora con il «London Review of Books». Ha conseguito un PhD in Teoria politica presso l’Università di Oxford e partecipa a conferenze, intervenendo su temi legati all’antimperialismo e ai movimenti anticoloniali del ventesimo secolo. Oltre a ciò, è uno dei fondatori di «Nommo Magazine» e, come si può intendere, fin dalle prime pagine del testo uscito il 22 novembre, il suo intento è principalmente quello di riportare il dibattito e la riflessione sulla moderna “tradizione” dei Black Studies e la Blackness, non soltanto afro-americana, sui binari della lotta di classe, dell’anti-imperialismo e dell’interpretazione marxista delle medesime, enormi e per troppo tempo sottostimate contraddizioni derivanti dalla differenziazione razziale insita nella società capitalistica fin dalle sue origini.

Per raggiungere il suo scopo, l’autore inizia dal “tramonto” dello “spirito di Bandung” – la conferenza tenutasi sull’isola di Giava nell’aprile del 1955, che mirava a costruire un fronte unito dei popoli africani, asiatici e latinoamericani per l’emancipazione dall’oppressione e dallo sfruttamento capitalistici – e dalle susseguenti illusioni create dalla decolonizzazione e i danni provocati dal dominio postcoloniale, per capire se resta oggi ancora una cultura rivoluzionaria nei paesi africani e delle condizioni di un suo possibile rilancio. Anche in un Occidente in cui un certo afro-pessimismo, di origine intellettuale e cattedratica, sembra voler negare qualsiasi possibile risoluzione dei problemi creati da una società profondamente razzializzata.

Infatti, a giudizio di chi qui scrive, è proprio la parte riguardante la critica di certi studi accademici condotti da universitari afro-americani e della concezione ontologica della blackness a costituire il contributo migliore dello studioso afro-inglese tra quelli contenuti nel testo, costituendone la parte forse più ampia. In cui viene sottolineata l’originaria idea di negritudine che ebbe origine tra gli intellettuali africani e antillani o caraibici di lingua francese, emigrati in Francia intorno alla metà del XIX secolo, come base della successiva riflessione sulla condizione “nera”.

Ispirati inizialmente dall’esistenzialismo e amati dagli intellettuali “bianchi” francesi, quasi tutti, dai surrealisti come i coniugi Cesaire fino a Frantz Fanon, dovettero fare i conti con una società che, pur nata sulle basi della Grande Rivoluzione, li trattava o li vedeva ancora e di fatto come ex-schiavi o rappresentanti di una società altra e primitiva, forse ancora pericolosa.

Da quelle annotazioni, che attraversano l’esperienza e la produzione dei teorici dell’iniziale negritudine, uscirono parole di odio e rivolta contro l’ordine “bianco” di cui si erano inizialmente, almeno intellettualmente, fidati. Ma, tutto sommato, escluso forse il caso di Fanon, non la rivolta materiale che toccò sempre, come fin dai tempi della rivoluzione haitiana condotta da Toussaint Loverture contro i dominatori francesi in epoca rivoluzionaria, alle masse sottomesse e sfruttate, uomini e donne che in quanto sauvages per l’ordine costituito riuscivano mettere in crisi l’ordine del discorso dei savants, sviluppatosi a partire dall’illuminismo.

Ed è proprio questo il filo rosso che, dalle origini del colonialismo bianco ed europeo fino agli anni Sessanta e Settanta del Novecento e ancora fino ad oggi, si dipana attraverso le tesi di Kevin Ochieng Okoth, distinguendo lo sforzo di rovesciare materialmente il mondo che ha creato e usato la differenziazione razziale per il proprio ineguale sviluppo da certi pruriti intellettuali, lungamente elencati e le cui tesi sono dettagliatamente illustrate, che vedono nella condizione Nera e nella contraddizione Nero/Bianco un elemento di irreparabile condizione schiavile del popolo africano e delle sue diaspore nei vari continenti in cui fu inizialmente e brutalmente deportato.

Finendo nella maggioranza dei casi col far sì che la protesta intellettuale finisca di rinchiudersi in quello che l’autore definisce come un nuovo afro-pessimismo (AP2.0) oppure di riscoprire in sé una nostalgia per un’Africa idealizzata e mai realmente esistita. Entrambe concezioni a-storiche che non sanno e, forse, non vogliono fare i conti con la Storia e con lo sfruttamento di classe, razza e genere che nella stessa affonda le sue radici.

Il rischio attuale, per l’autore, è infatti costituto dal fatto che il rimuginio di frange consistenti dell’intellettualità accademica, soprattutto afro-americana, sulle proprie condizioni all’interno delle istituzioni e sulle radici schiavistiche del proprio essere sociale e storico, assolutizzate una volta per tutte, finisca col rimuovere, più o meno coscientemente, qualsiasi ipotesi di rovesciamento dell’esistente in nome di una condizione, di fatto, monumentalizzata e resa astratta.

Una posizione lontana sia dall’esperienza del Black Panther Party che da quelle dei movimenti anticoloniali e antimperialisti che tra gli anni Sessanta e Settanta, soprattutto, misero fino al dominio coloniale europeo in Africa e diedero inizio a esperimenti, solo e sempre presuntamente, socialisti all’interno dei nuovi stati sorti da quelle feroci battaglie, politiche e militari, per il raggiungimento dell’indipendenza “nazionale”. L’esperienza, insomma, di tutte quelle iniziative rivoluzionarie che da Kevin Ochieng Okoth sono raccolte sotto la definizione di Red Africa.

Ed è in questa seconda parte del discorso che l’autore mostra una debolezza, propria, nella promozione di una concezione nazionalistica del socialismo “possibile”, che sorge, purtroppo, proprio dalle esperienze e analisi politiche di quel periodo, ancora fortemente influenzato dalla esperienza dei due blocchi, dalla Guerra Fredda e dalla persistente influenza dell’URSS e della Cina su un marxismo che si definì, sull’onda di Stalin degli anni Trenta, marxismo-leninismo e affezionato ancora all’idea del “socialismo in un paese solo”.

Esperienza che servì a travestire delle malferme rivoluzioni borghesi e nazionali da esperimenti socialisti, ma che, nei fatti, deluse e tradì le aspirazioni di liberazione collettiva e uguaglianza economica che avevano spinto gli appartenenti alle classi sociali e ai gruppi etnici meno favoriti ad una lotta che richiese, troppo spesso, grandi sacrifici e contributi di sangue.

Una sorta di illusione che non è possibile attribuire del tutto ad un marxismo originario, non marxista-leninista, che era rimasto troppo spesso all’interno di un’ottica eurocentrica non avendo fatto abbastanza i conti con la condizione coloniale dei popoli sfruttati dall’imperialismo e colonialismo occidentale, poiché sia per Marx, soprattutto, ma anche per altri rappresentanti del pensiero rivoluzionario materialista, la questione era stata tutt’altro che secondaria1.

Certo, come notano oggi gli studiosi, la rigida interpretazione del susseguirsi dei modi di produzione aveva spinto spesso il marxismo verso una concezione unilineare della Storia in cui un’autentica teleologia dello sviluppo e del progresso aveva spinto nel dimenticatoio le forme di produzione, sociali ed economiche, che contro quel modello di sviluppo si erano battute, talvolta con un certo successo. Ma, in fin dei conti, proprio in quella concezione affondavano le loro radici le rivoluzioni degli anni delle grandi lotte anticoloniali, facendo rientrare dalla finestra (lo sviluppo nazionale del mercato e delle attività economiche) ciò che era uscito dalla porta (attraverso la promessa di un’economia più egualitaria basata sulle tradizioni locali).

Kevin Ochieng Okoth fa molto bene a rimarcare più volte come ogni tratto culturale, sociale ed economico-politico, compreso quello delle differenti forme di schiavitù e delle loro conseguenze in ambiti diversi, siano state e siano tutt’ora conseguenza di diversi fattori storici e sociali, ma finire col rinchiudere tale giusta prospettiva in una sorta di rimpianto per il periodo dei paesi non allineati successivo alla conferenza di Bandung, cui si accennava all’inizio, e far ricader ogni responsabilità per i tradimenti delle rivoluzioni sulla pervasività dell’imperialismo americano e occidentale significa chiudere gli occhi su elementi altrettanto importanti per comprendere le successive sconfitte di quei progetti.

Intanto Bandung fu una conferenza di fatto a guida indonesiana e di un Sukarno che giusto dieci anni dopo, nel 1965, avrebbe dato vita ad uno dei più feroci massacri di civili e militanti comunisti dell’intero continente asiatico, certo con l’aiuto americano ma anche per sfrenato interesse nel mantenere il potere proprio e della borghesia indonesiana2.

Inoltre l’autore non fa cenno al fatto che gran parte delle rivoluzioni nazionali africane avvennero nei limiti dei confini geografici imposti fin dalla conferenza di Berlino del 1884/1885 che di fatto regolò la spartizione dei poteri e dei commerci occidentali nell’Africa Sub-sahariana. Confini che non tenevano conto delle divisioni tra lingue, culture ed etnie che caratterizzavano il continente e su cui spesso, ancora negli ultimi decenni gli interessi imperialistici occidentali, ma non solo, hanno potuto giocare.

L’unico rivoluzionario a cercare, forse, di superare tali limiti in un paese, il Congo belga, che prima di raggiungere l’indipendenza nel 1960 e denominarsi Repubblica democratica del Congo, copriva una superficie di 2.344.858 km quadrati pari o superiore a quella dell’Europa occidentale dal Portogallo alla Germani e dalla Gran Bretagna all’Italia, fu Patrice Lumumba con la sua idea di indipendenza e di unità africana che fu brutalmente soppressa, insieme a lui nel 1961 quando era primo ministro, liberamente eletto, di un paese di cui i belgi non volevano certo la piena indipendenza, vista anche l’enorme quantità di materie prime, minerali e metalli preziosi di cui era, e rimane, depositario.

Era toccato a Lumumba, il 30 giugno 1960, pronunciare lo storico “discorso dell’indipendenza” per un paese in cui una buona parte dell’amministrazione e i quadri dell’esercito restavano belgi, ma sfidò l’ex potenza coloniale decretando l’africanizzazione dell’esercito. Il Belgio rispose inviando truppe in Katanga (la regione mineraria) e sostenendo la secessione di questa regione. A settembre il presidente Joseph Kasa-Vubu revocò Lumumba e gli altri ministri nazionalisti. Lumumba dichiarò che sarebbe rimasto in carica e su sua richiesta il parlamento, acquisito alla sua causa, revocò il presidente Kasa-Vubu. La politica di Lumumba era antisecessionista, anticolonialista, antimperialista, filocomunista e mirava a diminuire il potere e l’influenza delle tribù ed a una maggiore giustizia sociale e autonomia del paese. In dicembre il generale Mobutu, succeduto a Kasa-Vubu, con un colpo di Stato fece arrestare Lumumba che il 17 gennaio1961 insieme a due suoi fedeli (Maurice Mpolo, ministro degli Interni, e Joseph Okito, presidente del Senato) fu giustiziato la sera stessa alla presenza di tutti i dirigenti del Katanga secessionista, mentre a partire dall’indomani molti dei suoi sostenitori furono eliminati con l’aiuto dei mercenari belgi3.

L’autore delle presenti righe si scusa per essersi dilungato su una vicenda che nell’economia del libro occupa poco spazio ed è narrata soltanto attraverso la testimonianza negativa della femminista anticoloniale Andrée Blouin, che svolse un importante lavoro come guida di organizzazioni femminili e come collaboratrice di vari governi del continente, tra cui quello di Lumumba, diventando una figura chiave nel movimento indipendentista congolese come stretta consigliera dello stesso Lumumba.

Verso la fine della sua autobiografia, ripercorre gli eventi che rappresentano il climax della sua vita politica: la crisi congolese, in particolare l’assassinio di Lumumba nel gennaio del 1961, che pose fine alle speranze di liberazione nazionale del paese. Blouin è al centro dell’azione mentre tenta di superare i dissidi fra le diverse fazioni per aiutarle a collaborare alla realizzazione di obiettivi comuni. Ma presto si rende conto che “i nostri fratelli lavoravano per il tradimento dell’Africa”: il rivale di Lumumba, il centrista filo-occidentale Joseph Kasavubu, che era strettamente legato agli Stati Uniti, ignora il mandato di Lumumba per formare il governo, tentando invece di formarne uno guidato da lui.

[…] Questo è, in qualche modo, un racconto scontato del tramonto della liberazione nazionale. Ma ciò che è interessante nell’analisi di Blouin sulla crisi congolese è il duro giudizio su Lumumba, che descrive spesso come troppo accomodante, timido e talvolta ingenuo. Il suo ritratto di Lumumba lo fa apparire sotto una nuova luce. Descrive vividamente il momento in cui Lumumba si costituisce dopo l’arresto della moglie – un momento drammatico non solo per la sua famiglia ma per i neri radicali del mondo intero. Per Blouin, la sua incapacità di mettere le esigenze della nazione al di sopra di quelle famigliari, come lei aveva spesso fatto, rappresenta niente di meno che un tradimento della liberazione nazionale. Blouin trasmette decisamente la sensazione che la rivoluzione africana, per usare una frase di Fanon, sarebbe stata più radicale se le donne che l’avevano innescata avessero trovato spazio nei governi post-coloniali, o se fossero state più intimamente coinvolte nel processo formale di decolonizzazione4.

Ma al di là di queste interessanti considerazioni sul ruolo che le donne avrebbero potuto avere nel processo di liberazione africana che il tentativo di Lumumba di limitare il potere delle tribù in un contesto, quello africano, in cui sono presenti almeno ottocento lingue diverse di cui soltanto due scritte (il copto e lo swahili), lasciando libero spazio alle lingue dei dominatori (inglese, francese, portoghese, spagnolo e arabo moderno), considerate lingue di lavoro, avrebbe sicuramente contribuito ad aumentare e definire con più forza dal punto di vista dell’autonomia politico-culturale e che invece l’esaltazione della “tradizione” contribuì a limitare.

Una politica che i differenti leader delle varie rivoluzioni africane quasi mai perseguirono pienamente, rivendicando invece tradizioni nazionali spesso in conflitto tra di loro e delle cui divisioni approfittarono non soltanto l’imperialismo occidentale ma anche le politiche espansive dei rivali russi e cinesi, come ancora oggi si può rilevare in tutta l’Africa Sub-shariana. Politiche che in alcuni casi, come nelle colonie portoghesi e soprattutto in Angola, misero a dura prova l’esistenza dei neonati governi a causa delle rivalità tra russi e cinesi. Alla faccia della comune causa marxista -leninista.

Una confusione per cui, ancora oggi, una volta dimenticato il semplice fatto che sono le contraddizioni di classe ad essere trasversali sia alle questioni di “razza” che di nazione e genere, i paesi dei Brics, potenzialmente antagonisti economico-politici e militari dell’imperialismo occidentale, possono essere scambiati per non allineati e “socialisti”, negando nei fatti la storia degli ultimi settant’anni e le contraddizioni che ne sono conseguite.


  1. Si vedano in proposito gli scritti antropologici di Marx e sul colonialismo in India e in Cina oltre che sulla guerra civile americana, così come quelli sicuramente più tardivi di Amadeo Bordiga, pubblicati su «Prometeo» e «Battaglia comunista» e, dopo la scissione del Partito comunista internazionalista nel 1952, su «Il programma comunista» sulle questioni, come si diceva allora, “di razza e nazione” (qui).  

  2. Si veda: V. Bevins, Il metodo Giacarta, Giulio Einaudi Editore, Torino 2021.  

  3. Sulla figura e sulle idee di Patrice Lumumba si vedano: A. Aruffo, Lumumba e il panafricanismo, Erre emme edizioni, Roma 1991; D. Van Reybrouck, Congo, Feltrinelli Editore, Milano 2014 e G. F. Venè, Uccidete Lumumba, Fratelli Fabbri Editori, Milano 1973.  

  4. K. Ochieng Okoth, Red Africa. Questione coloniale e politiche rivoluzionarie, Meltemi Editore, Milano 2024, pp. 135-137.  

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Quando la Terra diventò piatta https://www.carmillaonline.com/2024/12/06/quando-la-terra-divento-piatta/ Fri, 06 Dec 2024 21:00:45 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=85691 di Giovanni Iozzoli

Sembra passato un secolo, vero? I virologi onnipresenti a reti unificate. I grafici con l’andamento della mortalità. Le mascherine, gli elicotteri in spiaggia e i droni sui tetti dei palazzi. Il divieto di uscire di casa, ma l’obbligo sostanziale di andare a lavorare. Un tizio con aria solenne che si affaccia sulle reti tv e fa un elenco di cosa “è consentito”. Un paio d’anni di follia, ma anche di ardite sperimentazioni sociali e inedite tecniche di governance. In quella stagione Milano conobbe il più alto numero di manifestazioni consecutive, mai viste dopo il ’77. Quasi in tutta [...]]]> di Giovanni Iozzoli

Sembra passato un secolo, vero? I virologi onnipresenti a reti unificate. I grafici con l’andamento della mortalità. Le mascherine, gli elicotteri in spiaggia e i droni sui tetti dei palazzi. Il divieto di uscire di casa, ma l’obbligo sostanziale di andare a lavorare. Un tizio con aria solenne che si affaccia sulle reti tv e fa un elenco di cosa “è consentito”. Un paio d’anni di follia, ma anche di ardite sperimentazioni sociali e inedite tecniche di governance. In quella stagione Milano conobbe il più alto numero di manifestazioni consecutive, mai viste dopo il ’77. Quasi in tutta Italia si coagularono aggregati sociali (e social) nel cui caos poteva nuotare di tutto: nazisti e anarchici, fautori della Costituzione e complottisti estremi. Tutti uniti non da una visione comune – sui vaccini o sul mondo – ma da una diffidenza ostile e irredimibile verso “il potere” o una qualche sua rappresentazione immaginaria.

L’unica cosa che teneva davvero insieme quei mondi, era lo stigma – potentissimo e unanime – che veniva riversato su di essi dai media mainstream e dalle forze politiche. Come se una parte del paese fosse stata dichiarata fuori dal consesso civile. Non c’era programmino tv, dalla satira ai tg e perfino le trasmissioni sportive, in cui quelle persone non venissero impunemente insultate da giornalisti, esperti, soubrette e sottosegretari: terrapiattisti era l’epiteto più gentile. Chi di noi non aveva un parente o un collega o un vicino di casa “renitente” al vaccino o semplicemente ostile al green pass? Questa normale condizione critica venne trasformata in ostracismo civile. La massa informe e anonima dei renitenti non aveva diritto di replica. Solo con i “putiniani” si sarebbe riprodotto lo stesso scenario di conformismo di regime: chi non si fida, chi mostra dubbi, chi è riottoso – in quel caso rispetto alle politiche Nato – va bastonato e censurato. Perché la post-modernità (o quel che diavolo siamo) si fonda essenzialmente sulla fede, proprio come il Medioevo. Cambiano solo gli idoli e i profeti.

Che tutto quel travaglio sociale che spaccò le opinioni pubbliche occidentali, potesse semplicemente dissolversi senza lasciare tracce, era una pia illusione. Tornare alle coordinate socio-politiche “pre covid” senza scossoni o rotture, era impensabile. Le contraddizioni di quella stagione hanno continuato a marciare sotto traccia, lente e profonde, insieme a molte altre preesistenti, costituendo una enorme faglia sismica attiva in attesa di esplodere. E la vittoria di Trump è stata anche – non solo, ovviamente – il segno che quelle isole livorose di opposizione “antisistemica” (così amano definirsi, pur non avendo alcuna lettura comune di cosa sia il sistema), non solo non si erano eclissate ma stavano assumendo una egemonia silenziosa dentro il corpo sociale.

La nomina di Robert Kennedy al ministero della salute, è una nemesi potente: non solo perché durante la stagione del Covid si è posto come punto di riferimento globale dei movimenti no vax, ma anche perché il cognome che porta, collocato in questo dato contesto storico, rappresenta il sostanziale rovesciamento del sogno americano. Se la memoria della prima generazione Kennedy evocava la “nuova frontiera”, la spaziosità in cui viaggia l’eterno enterprise americano, l’omonimo nipote prefigura invece la chiusura un pò paranoide di ogni illusione, la presa d’atto che il “secolo americano” è definitivamente esaurito – altro che again great… Quel cognome, al di là dell’affiliazione democratica o repubblicana, reca in sé un tale potenziale evocativo, un tale volume di suggestioni, che un Kennedy ministro non può essere considerato un mero incidente della storia.

Tra l’altro, una delle farneticazioni profetiche della rete Qanon, riguardava proprio un altro Kennedy – John jr, il figlio del presidente JFK – che non sarebbe mai morto nel 1999 nelle fredde acque dell’Atlantico, ma avrebbe scelto di entrare in uno stato – quasi mistico – di occultamento, pronto a ricomparire per rovesciare il Deep State e la “Cabala” magico-satanica che governa gli States. Curiosamente è il tema centrale dell’arci nemico sciita: l’Imam nascosto in attesa di irrompere nella storia e spezzare la trama anticristica. Il Mito americano per eccellenza, incarnato dal clan Kennedy, subisce una torsione e un adattamento paradossale. E la nomina governativa di Robert darà qualche conforto ai seguaci delle profezie complottiste: un Kennedy è arrivato effettivamente al potere, al fianco di Trump, e sfiderà niente meno che Big Pharma.

Naturalmente è una ingenuità imperdonabile, pensare che un leader politico americano possa osare tanto. Semplicemente non sarebbe lì, se avesse serie velleità di contrastare i giganti del settore. Molto probabilmente il nuovo potere esecutivo e i giganti dell’industria farmaceutica rinverdiranno il loro patto affaristico, magari sul terreno delle assicurazioni sanitarie (meno monoteismo vaccinale, in cambio di un rilancio della centralità delle assicurazioni private). Dietro alla campagna elettorale di Trump c’è un pezzo importante del capitalismo americano – e dopo la vittoria, tutto il resto si accoderà.

Tra il 2021 e il 2022 le manifestazioni di dissenso durante la crisi pandemica, nel mondo e in Italia, avevano toccato il loro apice. Coinvolgevano settori importanti di opinione pubblica, anche se solo una frazione di questi mondi si esponeva pubblicamente nelle piazze. L’assenza di forze solide organizzate, di intellettuali di rilievo e soprattutto di un filo di ragionamento comune, dava a queste armate la parvenza di un esercito sbrindellato, aperto a ogni infiltrazione, rabbioso e incoerente. La crociata dei pezzenti, per citare il primo velleitario tentativo di assalto occidentale in Terra Santa. Ora, passati tre anni da quel ciclo, possiamo dire che i crociati pauperes hanno finalmente trovato il loro Sovrano, affiancato tra l’altro da un tecno-Rasputin miliardario. Quei settori di opinione pubblica vilipesi e oltraggiati dal “razionalismo” progressista, sono in qualche modo giunti al potere: e nella maniera più conclamata possibile.

Certo, proprio come avvenne nel 1096, dopo l’agitazione sconclusionata “dal basso”, stanno arrivando i Principes, quelli che condurranno la vera Crociata, quella in cui si decide l’egemonia americana contro il mondo “non bianco”. Siamo dentro un enorme riassetto dei poteri negli Usa e su scala globale, ma non a rovesciamenti o svolte epocali. L’arrivo di Trump tenderà più alla continuità che alla rottura: la presidenza degli Stati Uniti è sempre la risultante di un riequilibrio dinamico dei centri istituzionali, amministrativi e finanziari. Tale dinamismo funziona anche quando ammazzano i presidenti: e si metterà in moto pure dentro la terribile crisi di egemonia che le classi dirigenti americane stanno attraversando – e che genera appunto fenomeni di degenerazione come il Trumpismo.

Del resto chi crede che Trump abbia il potere di decidere le svolte della storia, coltiva una lettura puerile del sistema mondo. Il presidente degli Stati Uniti non è mai stato una specie di “sovrano universale”, che appicca o spegne le guerre seduto nello Studio Ovale, come un Demiurgo assiso fra le stelle. Non ha mai funzionato così… Gli Usa hanno più o meno perso tutte le guerre che hanno combattuto dal ’45 ad oggi – se si eccettua il vile bombardamento della Serbia. E se questo valeva prima, figuriamoci nel mondo odierno, già multipolare. Altrimenti si cade nel delirio qannonista e si imputano alla Presidenza americana poteri magico-taumaturgici che non ha mai avuto.

Man mano che si rivela la squadra di governo di Trump, viene fuori il campionario di “freaks” di cui Donald ama circondarsi. Sono figure tra l’orrido e il disgustoso. E l’indignazione delle nostre Lilligruber sollecita anche riflessioni più profonde: si tira fuori il Luckas che vede l’irrazionalismo come filosofia della fase decadente dell’imperialismo. E il fatto che l’arcipelago complottista sia arrivato alla Casa Bianca potrebbe autorizzare questa lettura. Non si capisce però quale sarebbe la parte “razionalista” che si contrappone ai mostri trumpiani. Il vecchio Biden che mentre va in pensione ci accompagna giulivo verso la terza guerra mondiale? Oppure Obama che prima si prende il Nobel per la Pace e poi innesca la distruzione della Libia e della Siria? O i sostenitori in servizio permanente, di ogni golpe o rivoluzione colorata dalla Georgia alla Moldavia, oggi più operosi che mai: sarebbero costoro gli eredi del “progetto illuminista”? E la filosofia Woke non è una mitopoiesi che serve a contrastare e distinguersi dalle ideologie dei mondi “autocratici”, in mancanza di visioni sistemiche davvero alternative su cui costruire competizioni, come fu durante la guerra fredda? Diciamo che “l’irrazionalismo” è la cifra filosofica del presente: le due fazioni – che si dividono e si giustappongono confusamente su transizione green, globalismo e protezionismo – per noi pari sono, anche se per il momento la cordata più grezza e impresentabile, riesce a prevalere nell’immaginario collettivo dell’Occidente in decadenza. Ciò che accomuna i due fronti resta la sacra centralità dell’impresa e la corsa demente e autodistruttiva verso il profitto.

Piuttosto rivolgiamo a noi stessi una domanda autocritica: quali osservatori abbiamo messo in campo, nell’ultimo decennio, per decifrare e individuare le correnti sociali profonde che attraversano il corpo sociale? Quali capacità di lettura abbiamo oggi, di questi movimenti tellurici che nel nostro paese sono cominciati con i forconi del 2012, e che compaiono carsicamente determinando svolte elettorali e priorità dell’agenda pubblica?  Perché stiamo parlando di un fenomeno massiccio ed epocale: la crisi dei ceti medi, cioè del bastione della stabilità capitalistica costituitosi durante i “Trenta gloriosi”. Il baricentro di ogni blocco sociale di consenso. Li ricordiamo i “mercatari” della periferia torinese e gli autotrasportatori siciliani nel 2012? E il ciclo dei Gilets Jaunes francesi – che tra l’altro dimostrò che una seria contesa politica può sottrarre questi mondi all’egemonia delle destre? La scomposizione di classi, ceti, territori, come la intercettiamo, dall’alto e dal basso, nella povertà dei nostri strumenti d’intervento attuali? Melanchon e Sara Wegenknecht stanno provando empiricamente, sul campo, degli esperimenti politici non solo elettoralistici e non socialmente irrilevanti. Si può sbagliare, certo, ma agire significa in ogni caso raccogliere segnali di ritorno dalla società. E capire qualcosa di più di questo ginepraio.

E’ importante che anche in Italia si inizi a costruire le forme e il metodo di un nuovo agire politico: classista ma autenticamente popolare, in quanto non settario o elitario. Il progetto anticapitalistico riparte da qui, non dai busti in gesso di Lenin recuperati nei mercatini dell’usato. La decantazione dei ceti medi sarà rapida e deflagrante. Quando le destre riescono a navigare su quelle onde, possono esercitare egemonia sui “nostri” mondi, come l’onda trumpiana lascia ben vedere. Il corto circuito nei prossimi mesi sarà terribile, tra le ansie della piccola borghesia in caduta libera e la rabbia dei tanti quartieri Corvetto che si sono costituiti negli ultimi vent’anni dentro le nostre metropoli. Che ruolo giocheremo, in questi tempi pericolosi e gravidi di futuro?

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La rivoluzione come una bella avventura / 2: Caraibi e Americhe 1789 -1800 https://www.carmillaonline.com/2024/12/04/la-rivoluzione-come-una-bella-avventura-2-caraibi-e-americhe-1789-1800/ Wed, 04 Dec 2024 21:00:37 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=85725 di Sandro Moiso

Julius S. Scott, La rivoluzione corre sulle ali del vento, con una prefazione di Marcus Rediker, elèuthera editrice, Milano 2024, pp. 368, 22 euro

Toussaint, il più infelice degli uomini! […] Se anche sei caduto, per non rialzarti mai più, vivi e trova consolazione. Ti sei lasciato indietro poteri che opereranno in tuo favore; aria, terra e cieli; nessun alito del vento comune ti dimenticherà; hai grandi alleati; I tuoi amici sono l’esultanza, l’agonia, l’amore e la mente invincibile dell’uomo. (William Wordsworth, A Toussaint L’Overture, 1802)

I miei volumi corrono trionfanti… (Emilio Salgari)

Ad alcuni potrà sembrare [...]]]> di Sandro Moiso

Julius S. Scott, La rivoluzione corre sulle ali del vento, con una prefazione di Marcus Rediker, elèuthera editrice, Milano 2024, pp. 368, 22 euro

Toussaint, il più infelice degli uomini!
[…] Se anche sei caduto, per non rialzarti mai più,
vivi e trova consolazione.
Ti sei lasciato indietro
poteri che opereranno in tuo favore; aria, terra e cieli;
nessun alito del vento comune
ti dimenticherà; hai grandi alleati;
I tuoi amici sono l’esultanza, l’agonia,
l’amore e la mente invincibile dell’uomo.
(William Wordsworth, A Toussaint L’Overture, 1802)

I miei volumi corrono trionfanti… (Emilio Salgari)

Ad alcuni potrà sembrare blasfemo l’accostamento tra l’Ode a Toussaint L’Overture del poeta romantico inglese e l’affermazione di Salgari sullo straordinario successo dei suoi romanzi, ma ancora una volta ciò che ricollega due situazioni così apparentemente lontane tra di loro è lo spirito di avventura che non solo animò, per motivi diversi, sia le aspirazioni rivoluzionarie scatenatesi nell’area caraibica e più su fino alle piantagioni degli appena nati Stati Uniti d’America che il successo dei romanzi di Emilio Salgari a cavallo tra XIX e XX secolo, ma anche tutti coloro, e furono davvero tantissimi, che in un caso e nell’altro fornirono gambe, teste, vigore, fiato, desiderio di libertà e capacità di sognare mondi altri sia alla rivoluzione haitiana della fine del XVIII secolo che alle avventure portate sulle pagine dallo scrittore veneto di origine, ma torinese d’adozione.

Avventure, queste ultime, spesso ambientate, soprattutto per il ciclo dei corsari e dei pirati, in quegli stessi mari in cui si svolgono gli avvenimenti narrati con maestria e grande capacità di indagine da Julius Scott nel testo appena pubblicato dalle edizioni eléuthera. Testo che nel titolo originale, The Common Wind. Afro-American Currents in the Age of Haitian Revolution, fa riferimento a quel “vento comune” evocato nella poesia di Wordsworth.

In un caso e nell’altro comunque furono spesso lettori poco colti e ribelli analfabeti a far sì che i sogni di libertà e rivolgimento e rivoluzione sociale potessero prendere corpo, sia sulle pagine di libri di cui avevano decretato il successo spingendo gli editori a pubblicarne altri, e in misura sempre maggiore, sia nella materialità del rifiuto dello sfruttamento e dello schiavismo.

Così mentre, alla fine dell’Ottocento, una borghesia addormentata su immeritati allori si compiaceva della decadenza e della sensualità da salotto contenute nelle opere di Gabriele D’annunzio, fingendo scandalo per pruderie, i lettori dei romanzi di Salgari (studenti, artigiani, umili lavoratori e lavoratrici) si esaltavano per i sogni di vendetta e rivolta contenuti nei suoi libri di cui, all’epoca e proprio per la violenza contenute in alcune scene e l’audacia erotica di altre (poi espurgate nelle edizioni per ragazzi), si discuteva la “dubbia” moralità. Decretandone un successo inaspettato sia in Italia che all’estero nei decenni a venire1.

La similitudine che è ancora possibile tracciare, infine, tra le vicende salgariane e il testo di Julius Scott è data dal fatto che la ricerca dell’autore afro-americano è preceduta da una prefazione d i Marcus Rediker, una delle maggiori autorità della ricerca storiografica riguardanti la storia dei pirati e dei corsari del XVIII secolo e delle vicenda legate ai percorsi di liberazione e lotta degli schiavi africani deportati in America2. Ed è proprio Rediker a sottolineare la forza del common wind, il «vento comune», evocata nel sonetto dedicato a Toussaint Louverture, il grande leader della Rivoluzione haitiana destinato a morire, di polmonite, nella prigione napoleonica di Fort de Joux, nella Francia orientale:

Julius S. Scott ci mostra la potenza umana collettiva che sta dietro le parole di Wordsworth. Concentrando la sua attenzione sull’«alito del vento comune», indaga infatti su quanti inalarono insieme a quell’alito anche la storia di Toussaint e della rivoluzione, per poi rimetterla in circolo nel sussurro di racconti sovversivi dilagati con rapidità e forza in tutta l’area atlantica. E se riesce a dare sostanza alla splendida astrazione di Wordsworth è proprio perché ci mostra le «menti invitte» all’opera: una popolazione eterogenea – composta da marinai, schiavi fuggiaschi, uomini liberi di colore, maroons, disertori, venditrici ambulanti, detenuti evasi e contrabbandieri – in continuo movimento che proprio per questo diventava il vettore attraverso il quale circolavano le notizie e le esperienze nate dentro e intorno la Rivoluzione haitiana, [offrendoci] uno straordinario spaccato di storia sociale e intellettuale di una rivoluzione dal basso 3.

Ed è la stessa storia del testo di Scott ad essere alquanto particolare proprio per le vicende delle sue s/fortune editoriali, poiché per Julius S. Scott (1955-2021), che ha insegnato Afroamerican and African Studies presso la University of Michigan occupandosi prevalentemente di storia dei Caraibi e dell’Atlantico, The Common Wind: Afro-American Currents in Age of the Haitian Revolution aveva costituito la tesi di dottorato. Ricerca che lo rese subito celebre nel circuito accademico, tanto da essere considerata per la lingua inglese “la tesi di laurea in scienze umane e sociali più letta, ricercata e discussa del XX secolo”. Eppure il suo autore rimase a lungo del tutto ignoto al grande pubblico, visto che per trent’anni nessuna casa editrice lo prese in considerazione e soltanto nel 2018 è stato mandato in stampa dall’editore britannico Verso, ottenendo finalmente il successo che meritava e, tutt’ora, merita. Ma anche se per decenni, ai convegni, gli storici hanno bisbigliato in toni ammirati e cospiratori dell’opera di Scott, non per questo può esser definita come un classico “underground”, come sostiene ancora Rediker nella sua prefazione.

E non perché il suo status come classico sia in discussione, ma perché la metafora terrestre è fuori bersaglio: qui si racconta ciò che accadde non nel sottosuolo ma sottocoperta, in mare e sui moli, a bordo di navi e canoe, e nelle turbolente città portuali dell’era in cui scoppiò la Rivoluzione haitiana. Nondimeno, il libro e le sue fortune trovano un parallelismo con il mondo dei marinai e degli altri lavoratori itineranti che ne costituiscono il tema centrale: entrambi hanno avuto un’esistenza sfuggente – difficili da localizzare e noti principalmente attraverso il passaparola.
[…] Studiando la diffusione via mare delle idee e delle informazioni relative alla Rivoluzione haitiana, focalizzandosi sugli anni Novanta del Settecento, decennio in cui le fiamme della rivolta bruciavano in tutto l’Atlantico, da Port-auPrince a Belfast, da Parigi a Londra, […] Scott affronta un tema che perseguitò a lungo i proprietari di schiavi in tutto l’Atlantico – quello che uno di loro nel 1791 chiamò «la modalità ignota con cui circolano le informazioni di intelligence tra i negri». Intelligence è proprio il termine esatto, perché le conoscenze che viaggiavano sulle «ali del vento» avevano una ricaduta strategica in quanto collegavano le informazioni sull’abolizionismo britannico, sul riformismo spagnolo e sui moti rivoluzionari francesi con quelle sulle lotte locali dell’intera area caraibica. Le genti itineranti usavano le maglie del commercio e la propria mobilità personale per formare reti di comunicazione sovversive di cui le classi dominanti del periodo erano acutamente consapevoli, anche se gli storici successivi ne sono rimasti a lungo ignari. Fino a Scott. Di fatto, Scott ha dato vita a un nuovo modo di osservare uno dei momenti cardine del periodo storico che Eric Hobsbawm ha notoriamente chiamato «l’Età della rivoluzione». Riesce infatti a spostare il nostro sguardo su questa epoca deflagrante offrendoci due prospettive inedite: dal basso e dal mare. Portando in primo piano gli uomini e le donne che collegavano via mare Parigi, Siviglia e Londra a Port-au-Prince, Santiago de Cuba e Kingston, gli stessi che a livello locale, su piccole imbarcazioni, mettevano in comunicazione reciproca porti, piantagioni, isole e colonie, Scott crea una nuova e altamente suggestiva geografia transnazionale della lotta. […] Le forze – e gli artefici – della rivoluzione si stagliano con un nitore senza precedenti. Il libro è popolato da figure a lungo dimenticate che invece al loro tempo erano diventati i protagonisti di racconti a loro dedicati. Come il fuggiasco di Cap Français che si era dato il nome di «Sans-Peur» (Senza-Paura) – davvero un nome con un messaggio, sia per i suoi sodali nemici della schiavitù, sia per chiunque si fosse messo in mente di braccarlo. O le africane anonime che ai mercati di Saint-Domingue [l’attuale Haiti] si salutavano con l’appellativo di «marinaio», esprimendo così una forma di solidarietà che risaliva ai bucanieri del Seicento. O ancora personaggi come Joe Anderson, il marinaio giamaicano che era fuggito dal suo padrone con un gigantesco collare di ferro ancora addosso e che nondimeno si sottrasse alla cattura per ben quattordici anni, o come l’anziano e solenne Old Blue, che si era meritato «una reputazione lunga e distintiva quanto la sua barba ingrigita». La ricchezza narrativa di questo libro è semplicemente straordinaria4.

Come riassume ancora Rediker nella sua prefazione:

Un elemento chiave dell’opera di Scott è la città portuale, dove genti itineranti provenienti da ogni parte del mondo si incontravano per lavorare. […] Scott dimostra come nei porti il modo di produzione capitalistico non avesse generato solo enormi ricchezze attraverso i commerci, ma anche movimenti di opposizione dal basso. Come Lord Balcarres, governatore della Giamaica, osservava sconsolato nel 1800, le classi inferiori di Kingston erano composte da «turbolenti di ogni nazione». Pervase da «una generale aspirazione al livellamento», quelle classi erano un vero e proprio innesco alla rivolta – pronte a dare alle fiamme la città e ridurla in cenere. E Scott descrive per l’appunto come e perché il fronte del porto si fosse tramutato in un «calderone insurrezionale», dopo l’irrompere di «cicli di agitazione» transnazionali in molte città portuali negli anni Trenta, Sessanta e Novanta del Settecento. Per esplodere, nell’ultimo decennio del secolo, in una rivoluzione di portata atlantica5.

«Superando con un balzo le barriere linguistiche, geografiche e imperiali, la tempesta creata dai rivoluzionari neri di Saint-Domingue e trasmessa da genti itineranti ad altre società schiaviste si sarebbe rivelata un punto di svolta fondamentale nella storia delle Americhe» (Julius Scott, op. cit., p. 21). Una tempesta che avrebbe visto confrontarsi i sauvages con i savants, gli illetterati con i colti, i barbari con i “civilizzati”, seguendo linee di demarcazione di classe che, ancor più di quella del “colore”, da allora avrebbero definito i due grandi campi dell’avventura più grande: quella della lotta di classe e della rivoluzione.

Nel 1779, Joe Anderson, «un robusto marinaio negro» nato a Bermuda, riuscì a sfuggire al suo padrone salendo da clandestino su una nave ormeggiata a Port Antonio, sulla costa nord, e questo malgrado l’intralcio di «un collare di ferro rivettato e circa cinue o sei anelli della catena». Non solo, ma riuscì a eludere le ostinate ricerche del padrone per quattordici anni, sempre trovando lavoro e rifugio «a bordo di navi». Intorno al 1793, sebbene ancora latitante Anderson «era ben noto a Kingston»6.

Così la gente che frequentava i luoghi della classe lavoratrice, nella parte della città prospiciente al porto, continuava a narrarne le gesta ormai leggendarie. Ma quella di Anderson è soltanto una delle straordinarie vicende narrate dallo storico afro-americano, tutte basate su esaustive ricerche d’archivio condotte in Spagna, Gran Bretagna, Giamaica e Stati Uniti, e su fonti primarie pubblicate a e su Cuba, Saint-Domingue e altre aree dei Caraibi. Tutte che raccontano una sbalorditiva nuova vicenda da aggiungere ai fieri annali della «storia dal basso».

Operando un rovesciamento totale e radicale delle narrazioni e ricostruzioni storiche ancora vigenti, Julius Scott riporta alla luce l’antica arte della narrazione orale e popolare, che anticipò di gran lunga la diffusione delle gazzette di stampo illuministico, dimostrando che più che il verbo scritto degli intellettuali furono le parole vive di un proletariato ancora in via di formazione, ma già enormemente combattivo, a diffondere gli ideali rivoluzionari di quelle che furono poi definite “rivoluzioni atlantiche”. Dando vita, oltre tutto, a reti di comunicazione ampiamente diffuse e incontrollabili, ben più affidabili ed efficaci di quelle odierne rappresentate dai social in cui i movimenti antagonisti ripongono ancora troppa fiducia.

Ci parla, dunque, l’autore di un proletariato attivo anche intellettualmente che non corrisponde, però, al presunto proletariato intellettuale di cui si va cianciando da decenni, sempre attento, quest’ultimo, più al posizionamento all’interno di una accademia intesa come “industria del sapere” che non alla diffusione delle pratiche rivoluzionarie, come ben ha dimostrato in un suo recente testo, Red Africa, Kevin Ochieng Okoth descrivendo le illusioni e il pessimismo “controrivoluzionario” contenuti nel mito a-classista della blackness diffusosi nelle università anglo-americane di oggi7.

Ispirandosi ad un ricco corpus di studi radicali, come The World Turned Upside Down: Radical Ideas in the English Revolution (1972) di Christopher Hill, rinnovò e ampliò l’idea dei «senza padrone» – impiegata in origine per indicare gli uomini e le donne del Seicento ad alta mobilità e perlopiù espropriati8 – per creare però qualcosa di completamente nuovo: il «caraibico senza padrone», ovvero quegli uomini e quelle donne indipendenti che vivevano e si muovevano all’interno degli spazi altamente «padronali» del sistema delle piantagioni. Mentre dal libro di C. L. R. James, Mariners, Renegades, and Castaways: Herman Melville and the World We Live In (1953), prese invece l’umanità variegata e fluttuante che teneva collegato il mondo del primo evo moderno e che in seguito rivisse nei romanzi marinari di Melville9. Si avvalse inoltre dell’opera di Georges Lefebvre, storico della Rivoluzione francese che negli anni Trenta, oltre a coniare l’espressione «storia dal basso», dimostrò nel suo testo La Grande peur de 1789 (1932) in che modo le dicerie, le voci, possono determinare grandi sommovimenti sociali e politici10, proprio per sostenere motivatamente come negli anni successivi, le voci di emancipazione diffuse da gruppi di senza padrone fossero diventati una forza concreta in tutti i Caraibi e in tutto l’Atlantico.

Fu operando in questo modo che la Rivoluzione haitiana – e forse anche Wordsworth ne sarebbe stato felice – non sarebbe morta. Unendosi ai popoli invitti, oggetto e soggetto del suo studia, Julius S. Scott ci racconta una nuova storia, una storia di esultanza e di agonia, di amore e di rivoluzione. E di avventura epocale.


  1. Nel 1905 Salgari scrisse ad Americo Greco: «I miei romanzi si pubblicano in lingua francese, brasiliana, czeca, tedesca, olandese, spagnola ecc.» e, come afferma Felice Pozzo nel suo saggio L’opera globe trotter di Emilio Salgari: «Sappiamo dai giornali del tempo, che nel 1949 Salgari ha conquistato il primato di autore italiano più tradotto nel mondo annoverando traduzioni in 35 paesi; il primato è risultato pressoché inalterato nel 1956 con 34 paesi […] Nel 1987 si accertò che Salgari era ancora lo scrittore italiano più conosciuto all’estero, così da precedere molti premi Nobel della letteratura, mentre nel 1994 fu pubblicata la notizia secondo cui era tradotto in undici lingue con una vendita di oltre nove milioni di copie.» ( F. Pozzo, op. cit. in E. Pollone, S. Re Fiorentin, P. Vagliani (a cura di), Atti del I Convegno internazionale sulla fortuna di Salgari all’estero – Torino 11 novembre 2003, Edizioni dell’Orso, Alessandria 2005, p. 13.)  

  2. Si vedano in proposito le opera dello stesso, che è storico, scrittore e attivista per la pace e la giustizia sociale, oltre che professore di Storia atlantica all’Università di Pittsburgh: M. Rediker, Canaglie di tutto il mondo. L’epoca d’oro della pirateria, elèuthera editrice, Milano 2005 (nuova edizione 2020); Sulle tracce dei pirati. La storia affascinante della vita sui mari del ’700, Piemme, 1996; La ribellione dell’Amistad. Un’odissea atlantica di schiavitù e libertà, Feltrinelli Editore, Milano 2013; Il Piantagrane: Storia Di Benjamin Lay, elèuthera 2019 (qui) e I ribelli dell’Atlantico. La storia perduta di un’utopia libertaria, insieme a P. Linebaugh, Feltrinelli Editore, Milano 2018.  

  3. M. Rediker, Il vento comune, prefazione a Julius S. Scott, La rivoluzione corre sulle ali del vento, elèuthera editrice, Milano 2024, p. 8.  

  4. M. Rediker, op. cit., pp.8-11.  

  5. Ivi, pp. 11-12.  

  6. J. Scott, op. cit., p.123.  

  7. Kevin Ochieng Okoth, Red Africa. Questione coloniale e politiche rivoluzionarie, Meltemi Editore, Milano 2024, di prossima recensione su Carmillaonline.  

  8. C. Hill, Il mondo alla rovescia. Idee e movimenti rivoluzionari nell’Inghilterra del Seicento, Einaudi Editore, Torino 1981.  

  9. C. L. R. James, Marinai, rinnegati e reietti. La storia di Herman Melville e il mondo in cui viviamo, Ombre corte, Verona 2003.  

  10. G. Lefebvre, La grande paura del 1789, Einaudi Editore, Torino 1974.  

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Sulle rotte carovaniere dell’Astigianistan: ricordo di Davide Mana https://www.carmillaonline.com/2024/12/02/sulle-rotte-carovaniere-dellastigianistan-ricordo-di-davide-mana/ Mon, 02 Dec 2024 21:00:15 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=85608 di Franco Pezzini

 

[…] si era detto che si potrebbe fare una lista di libri non di genere che sarebbe bello leggere perché se leggiamo solo narrativa di genere poi finiamo col fossilizzarci. Ho imparato trent’anni fa, quando frequentavo la libreria di Riccardo Valla, che periodicamente serve una cura disintossicante. Si va in libreria (o in biblioteca o, nel ventunesimo secolo, su Amazon) e si cerca qualcosa di diverso.

Non dobbiamo mai trascurare i classici – sono tanti, sono diversi e facilmente reperibili, costano poco a comprarli, potete spacciarvela alla grande se avete qualche buon titolo sullo scaffale.

 

E [...]]]> di Franco Pezzini

 

[…] si era detto che si potrebbe fare una lista di libri non di genere che sarebbe bello leggere perché se leggiamo solo narrativa di genere poi finiamo col fossilizzarci. Ho imparato trent’anni fa, quando frequentavo la libreria di Riccardo Valla, che periodicamente serve una cura disintossicante. Si va in libreria (o in biblioteca o, nel ventunesimo secolo, su Amazon) e si cerca qualcosa di diverso.

Non dobbiamo mai trascurare i classici – sono tanti, sono diversi e facilmente reperibili, costano poco a comprarli, potete spacciarvela alla grande se avete qualche buon titolo sullo scaffale.

 

E così via. Questa voce, in grado di ricordare i fondamentali a un mondo fandom troppo spesso ombelicocentricamente ripiegato su se stesso, purtroppo non la sentiremo più proporre novità. Dopo una sofferta vicenda ospedaliera è scomparso infatti qualche giorno fa a soli cinquantasette anni nell’Astigianistan – come diceva lui, grande studioso di viaggi sulle vie carovaniere dell’Oriente – Davide Mana, uno dei più preparati studiosi di genere (specialmente fantasy, weird, SF, avventure esotiche d’antan, ma anche mystery e altro) del panorama italiano. Nell’ultimo pezzo dello stesso blog, Messaggio per il Mondo (11 luglio scorso, era in ripresa dal coma), aveva categorizzato sub “progetti personali”, la comunicazione:

 

Buongiorno a tutti.

Nonostante le voci sono ancora vivo.

Sono in terapia intensiva, non ho l’uso delle mani (sto dettando) e prevedo ancora molti mesi di terapia.

Ringrazio tutti coloro che si sono preoccupati per me, e anche tutti gli altri. Spero di poter mandare altri messaggi come questo.

Sono ancora vivo.

 

Che ci lascia un senso di strazio. Paleontologo, discepolo di Riccardo Valla – qui ricordato nel suo ruolo di libraio-mentore di un intero gruppo di giovani appassionati spesso divenuti poi studiosi –, amico e corrispondente di Michael Moorcock, autore di una pletora di testi d’intelligenza scintillante e di incredibile divertimento, timoniere di vari blog e in particolare di Strategie evolutive, per tanti anni un punto di riferimento di un ampio pubblico di lettori (da cui gli stralci precedenti), coltissimo nei campi più diversi, Mana è stato uno di quei battitori liberi noti nell’ambiente ma sempre un po’ ai margini del grosso mondo editoriale, con cui pure ha collaborato.

Coltissimo, lucidissimo, aveva un suo modo di procedere che ci priva purtroppo di opere ampie a sua firma: sempre preso da nuovi progetti, non era interessato a raccogliere e coordinare – come a più riprese propostogli – le meraviglie presentate per anni tra antologie (per i curatori i suoi pezzi erano una garanzia di qualità), riviste e podcast (come il frizzante Paura & Delirio). Gli piaceva ricercare, studiare, soffermarsi su aspetti sempre nuovi. Anche se non disdegnava i grandi affreschi, che però preferiva consegnare alla divulgazione orale: le sue lezioni – magari sui dinosauri nell’immaginario USA, come l’ultima che chi scrive ha avuto la fortuna di ascoltare, in un’aula del Politecnico di Torino – erano di tersa chiarezza, abilità didattica rara e ironia godibilissima.

Benché una certa parte della sua produzione narrativa fosse ormai in lingua inglese – che padroneggiava come l’italiano – per il mercato internazionale, a chilometro zero è interessante ricordare tutto il lavoro condotto da Mana con la squadra del piccolo editore torinese CS Cooperativa Studi: le recensioni e gli interventi di Storia naturale del fantastico per LN Libri Nuovi, i testi per le raccolte Alia (con il progetto GlossolAlia) eccetera. Con alcuni racconti brevi veri gioielli di fantasia e ironia, che la dicono lunga sul profilo di un autore capace di non prendersi troppo sul serio e sul filo di provocazioni mai banali: per far solo qualche esempio, le dispute tra cacciatori di ossa di dinosauri a monte della parodia Tyrannosaurus Tex, con bestioni cretacei riletti in profili western alla John Ford; una storia meravigliosa dove i crociati del Conte Verde giungono sotto la Grande Muraglia indossando armature a vapore (ovvero: dove lo steampunk non era ancora giunto); e, vorrei dire soprattutto, una geniale riscrittura narrativa al femminile della biografia del virilissimo Robert E. Howard, padre dell’eroe fantasy sword & muscles Conan il Barbaro. Col che, aveva irritato qualche howardiano machista di stretta osservanza: “al femminile” nel senso che Howard vi figura come ragazza avventurosa, in contatto tra l’altro con “la Gentildonna di Providence” rilettura di Lovecraft – un autore da Mana molto studiato, ma da un’ottica critica progressista e mai concedendo alcunché allo strapaese nerd.

Le righe che precedono rappresentano ovviamente solo qualche cenno di una vita intensissima di lettura e scrittura, e non rendono giustizia all’uomo, per molti di noi all’amico: a tratti ispido – anche se dotato di bonomia umanissima, disponibilità generosa e humour contagioso – e pronto a far valere le proprie idee, con efficace verve critica dove gli sembrasse il caso. Una persona perbene, diretta, libera, che ci mancherà moltissimo.

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