il movimento reale – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Thu, 21 Nov 2024 05:01:58 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Atena sulla terra https://www.carmillaonline.com/2023/08/05/atena-sulla-terra/ Sat, 05 Aug 2023 20:00:15 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=78527 di Emilio Quadrelli e Lidia Triossi

Misurarsi su un piano politico e teorico su come i comunisti si debbano organizzare in un contesto come l’attuale è sicuramente un compito di estrema difficoltà. D’altra parte le opzioni oggi esistenti non ci sembrano soddisfacenti e, soprattutto, crediamo che vadano riviste alla luce di una elaborazione e confronto approfondito. Sulla questione del partito (organizzazione), della strategia politica e militare, è chiaro che abbiamo, nel movimento comunista, un piano teorico e di dibattito quanto mai arretrato che non possiamo ignorare. Provare a affrontarlo, qui e [...]]]> di Emilio Quadrelli e Lidia Triossi

Misurarsi su un piano politico e teorico su come i comunisti si debbano organizzare in un contesto come l’attuale è sicuramente un compito di estrema difficoltà. D’altra parte le opzioni oggi esistenti non ci sembrano soddisfacenti e, soprattutto, crediamo che vadano riviste alla luce di una elaborazione e confronto approfondito. Sulla questione del partito (organizzazione), della strategia politica e militare, è chiaro che abbiamo, nel movimento comunista, un piano teorico e di dibattito quanto mai arretrato che non possiamo ignorare. Provare a affrontarlo, qui e ora, ci pare un compito non più rimandabile.

L’obiettivo della nostra elaborazione è quello di cogliere quelle tendenze del movimento comunista che si sono affermate e che hanno ancora un carattere di validità e capire, invece, quegli elementi che sono stati superati e ai quali è inutile rimanere aggrappati. Infine gli elementi che riteniamo validi vanno collegati al nuovo contesto in cui ci muoviamo. Naturalmente da queste riflessioni non possiamo pensare di trovare una “formula perfetta”, che peraltro non esiste, però possiamo utilizzarle per capire la direzione in cui muoverci e quali debbano essere i passi da fare per adeguare le attuali forme d’organizzazione alle necessità e soprattutto alle possibilità che vengono dalla realtà. E’ quindi centrale per noi capire il ruolo e il nesso tra « il partito » e l’ »autonomia del proletariato », la composizione dei movimenti di protesta rispetto all’attuale organizzazione del lavoro e dimensione metropolitana, le contraddizioni della fase imperialista: guerra, fascistizzazione, multipolarismo, ecc…

Su questi elementi dobbiamo dare battaglia nel movimento comunista e nella sinistra di classe più in generale. Oggi parlare del contesto metropolitano imperialista, della guerra in Ucraina vuol dire parlare del «mondo».

Non possiamo nasconderci le difficoltà di una simile operazione e sappiamo altrettanto bene che il risultato non è affatto scontato, ma se non ci incamminiamo su questa strada il rischio è quello della approssimazione organizzativa, della risposta contingente, della possibilità di bruciare opportunità che possono apparire a portata di mano, ma verso le quali non abbiamo nessun “pensiero forte” da utilizzare.

Per fare questo é necessario un approccio che provi a riprendere per intero la dialettica marxiana, usando un metodo che ci permette di individuare le tendenze di fondo e di andare oltre i fenomeni apparenti. Spesso ciò che appare non corrisponde a ciò che veramente si muove, per questo è necessario uscire dalla logica del contingente e provare a cogliere l’insieme e la complessità di ciò che la realtà sociale sta esprimendo. Tradotto in termini politici significa che il rapporto di forze reale non è sempre quello che appare in superficie. Ciò vale per le classi, per le frazioni di classe, per i movimenti politici.

L’imperialismo è la fase suprema, ultima del capitalismo. Una fase dove domina il monopolio e la concorrenza e le contraddizioni sono sempre più acute. Imperialismo vuol dire guerra, guerra vuol dire militarizzazione sia contro i differenti fronti esterni, ma soprattutto contro il proprio fronte interno (contro le masse proletarie e subalterne del proprio paese). Qua la contro-rivoluzione anticipa in modo preventivo i meccanismi stessi della rivoluzione. Se ascoltiamo le parole dei generali francesi o di alcuni settori delle forze dell’ordine, che parlano di guerra civile e quindi di strategie contro-rivoluzionarie, da applicare prima di tutto nelle banlieue, contro i cortei e gli scioperi, parrebbe che sia già in atto un processo rivoluzionario, in realtà si tratta della capacità preventiva della contro-rivoluzione la quale agisce per mantenere ben saldo il punto centrale e nodale del potere statuale: chi deve avere il monopolio della violenza!

Ciò non toglie che la fase imperialista sia multiforme e che può avere al suo interno momenti di congiuntura legati alla mediazione dei conflitti, tuttavia bisogna tenere sempre in considerazione il contesto transitorio di simili momenti. La borghesia, in tutte le sue fazioni, con fasi e intensità diverse, utilizza sempre la forza e la violenza, ciò che cambia è solamente il suo stato, da “potenziale” a “cinetico”. La forma democratica è una collaborazione di classe a chiacchiere (il mito della partecipazione, dei referendum, ecc…), il “fascismo” è collaborazione di classe di fatto (i movimenti populisti di massa), ma ambedue esprimono in ultima analisi la dimensione della dittatura e del monopolio della violenza da parte della borghesia imperialista.

Per comprendere al meglio questi passaggi bisogna assumere come chiave di lettura l’analisi dell’interazione e della compenetrazione delle strategie della controrivoluzione a livello globale, superando la falsa contrapposizione tra “eurocentrismo” e “terzomondismo”. Capire quali fazioni delle borghesia assumono la direzione degli attuali meccanismi di comando, non per salvarne una parte, ma per avere sempre la capacità di analizzare il nemico in maniera dialettica e cogliere, in tal modo, i reali rapporti di forza e conflitti. In questo senso agire in Francia, confrontarsi e battersi contro l’imperialismo francese e la sua borghesia rimane il primo dei nostri compiti strategici. E’ solo attraverso questa lettura che possiamo saper leggere l’attuale composizione di classe nelle cinture urbane popolari e la stesse direttive dei settori maggioritari della borghesia francese nei confronti del loro “fronte interno”.

La Francia in questi ultimi anni è stata attraversata da diversi movimenti di protesta, con forme, contenuti e porzioni sociali coinvolte in maniera differente le quali, tuttavia, mettono in rilievo una mancanza di coesione sul fronte interno delle principali porzioni della borghesia e la loro incapacità di « integrare » intorno al proprio progetto larghi strati della popolazione. In altre parole la “nazionalizzazione delle masse” non sembra essere per nulla scontata. Le criticità del fronte interno, sono dilatate dalla crisi che attraversa la Francia sul fronte esterno rispetto alla perdita di importanza nella competizione globale. L’erosione sempre più rapida dell’influenza francese in Africa è uno di questi segnali.

I gilets jaunes sono stati un movimento di protesta subalterno con venature “populiste” che ha coinvolto centinaia e centinaia di migliaia di persone e che, in estrema sintesi, possono essere considerati come i settori sociali “globalizzati in basso, ossia tutta quella parte di “classe media” in via di proletarizzazione o, addirittura, precipitata sulla soglia della povertà. Ciò non rappresenta un fenomeno particolarmente nuovo poiché, da sempre, nel suo divenire tumultuoso il capitalismo distrugge interi blocchi e comparti sociali tanto che, per molti versi, si può tranquillamente asserire che distruggere è il solo modo capitalista di costruire. Se c’è qualcosa che non appartiene al capitalismo è il mantenimento dello status quo, in ogni suo salto di fase non può che lasciarsi dietro i cadaveri di quei settori sociali divenuti un peso per il nuovo ciclo di accumulazione. La reazione di queste porzioni sociali, in tutta Europa, è stata particolarmente vivace riuscendo anche, in qualche modo, a modificare momentaneamente alcuni equilibri politici come si è potuto osservare in Grecia, Italia e Spagna. Il “populismo”, pur nelle molteplicità delle sue declinazioni, ha un preciso contenuto sociale e una determinata caratterizzazione di classe. Quando affermiamo che la base sociale “populista” sono i “globalizzati in basso” indichiamo quei grandi gruppi sociali che vedono nell’attuale dispiegarsi di tutti gli effetti prodotti dalla « globalizzazione » un ostacolo e un pericolo ai propri interessi, capaci di coagulare attorno a loro una massa di forze piccolo borghesi e popolari, colpite e impoverite da questo processo.

Il tentativo di intervenire, da parte di alcuni settori della sinistra proletaria e rivoluzionaria, dentro questo movimento è stato variegato, e in alcuni momenti anche efficace, pur restando prevalentemente dentro i ristretti ambiti del protezionismo, e’ stato egemonizzato culturalmente dalla sinistra e in molti casi si è riusciti a « buttare fuori » i settori di estrema destra. Tuttavia è mancata una visione d’insieme, una progettualità politica che superasse le logiche immediate del movimento stesso.

Ogni movimento si pensa il «centro» di tutto, la capacità del soggetto politico (l’organizzazione rivoluzionaria, il partito) sta nell’intervenire in situazione ibride e dare una prospettiva più ampia al «movimento» stesso. Il ruolo dei comunisti non è solo quello di mettere al centro la lotta di classe, ma e’ soprattutto indicarne il suo contenuto politico: la rottura e la crisi degli attuali assetti di potere e il favorire tutte le forme di organizzazione e solidarietà proletaria, il mettere in discussione il monopolio della violenza, avere un punto di vista proletario sul mondo, ossia avere una prospettiva comunista.

Il movimento dei gilet jaunes non è stata la rivoluzione e neppure una sommossa, ma resta pur sempre un movimento di massa che ha mostrato le contraddizioni del sistema « Francia » e ha evidenziato che esiste una larga fetta di popolazione anche dentro i cosiddetti ceti medi che si concepisce al di fuori del perimetro parlamentare classico francese.

Il maldestro tentativo dei sindacati francesi di sopperire al vuoto politico, rincorrendo i gilet jaunes non ha dato frutti importanti. Anzi ha penalizzato la stessa componente della sinistra proletaria interna ai gilet jaunes, perché riportava la discussione in ambiti sindacali-economici riducendo la portata del movimento stesso.
I movimenti ecologisti di massa, non legati direttamente ai partiti « verdi », che si sono susseguiti in questi ultimi anni rappresentano una variante, per lo più giovanile, di questo settore di scontenti e delusi della globalizzazione. La risposta isterica e paternalistica del governo, e la violenza con cui sono stati attaccati, mostra una fragilità del sistema politico contemporaneo nell’offrire una ideologia del «futuro» ad una corposa porzione di giovane generazione scolarizzata (medio-alta) del paese.

Il movimento delle pensioni si inserisce dentro la lenta ma progressiva erosione del welfare state, legata alla crisi del modello socialdemocratico in Europa. Questa è dovuta a più fattori, i principali sono legati alla finanziarizzazione dell’economia e alla stessa autonomizzazione del capitale, ossia ad una sempre più rapido svolgersi del meccanismo di accumulazione, che investe la flessibilità produttiva e la precarietà contrattuale, il tutto dentro un contesto di obiettivo declino politico « atlantico ». Questo va di pari passo ad una diminuzione del welfare state, in quanto organismo « lento », e obsoleto rispetto agli attuali meccanismi di de-integrazione legati alla fase imperialistica matura che attraversiamo. Una sempre più grande massa di popolazione vive ai margini della « cittadella », è inserita dentro l’organizzazione del lavoro e partecipa alla valorizzazione del capitale, ma il suo ruolo e’ degradato sempre più, secondo la legge della miseria crescente teorizzata da Marx. Questo soggetto si confronta con una politica parlamentare che si « fascistizza » (le differenze tra destra e sinistra sono sempre più minime sul piano delle leggi economiche), e quindi non trova spazi.

In questo contesto oltre alla proletarizzazione dei ceti medi, vengono erose le riserve della classe operaia e della sua « aristocrazia ». Non deve quindi stupire che il movimento delle pensioni in Francia sia espressione di un movimento di protesta che ha attraversato tutta l’Europa. In Spagna il sistema sanitario, in Germania e Inghilterra la questione salariale dei settori «storici» del movimento operaio (energia e trasporti) ecc..

Queste mobilitazioni hanno visto al centro il movimento sindacale e molto marginalmente le componenti politiche «autonome» troppo prese ad inseguire l’estetica della lotta che la lotta stessa. Le cosiddette “assemble interlutte”, sono stati dei piccoli parlamenti sindacali e politici (cosa di per se non negativa), il problema era che le posizioni emerse erano ancor più confuse che quelle delle centrali sindacali stesse, in quanto cavalcavano un «estremismo» che attraversa larghe porzioni della società francese ma tristemente virtuale rispetto alle lotte vere e proprie. Inoltre tutto questo si accompagnava ad una percezione distorta di « egemonia » sulla società francese, il risveglio ovviamente è stato doloroso…

Le componenti «autonome», non hanno preso in considerazione le componenti sociali principali coinvolte in queste mobilitazioni: pensionati, lavoratori del pubblico impiego (soprattutto gli insegnanti) i lavoratori dell’energia e dei trasporti.
Settori dove esiste ancora un buon livello di sindacalizzazione, ma anche una forte dimensione corporativa e una «arroganza sociale e culturale» che li porta ad essere ben lontani dalla massa di nuovi precari. Questo resta uno dei principali “talloni di Achille” delle attuali centrali sindacali.

Infine abbiamo avuto il riot, partito dopo l’ennesimo omicidio da parte della polizia contro un giovane francese di origine algerina. Le immagine legate ai social-media hanno reso visibile la sommaria esecuzione, scatenando la rabbia e una legittima sete di vendetta da parte di larghi strati di giovani e giovanissimi delle periferie (francesi e non), che ancora una volta vedevano il metodo razzista e anti-proletario della polizia all’opera.

Cinque giorni di sommossa hanno surclassato in termini di violenza i 15 giorni del 2005. Se si confronta il numero di edifici pubblici e di polizia coinvolti il 2005 appare una tranquilla protesta…..Inoltre questa volta sono stati individuati obiettivi fisici nelle persone, nei politici e le prigioni. La protesta ha attraversato tutta la Francia, investendo città tradizionalmente non toccate da fenomeni di riot, perché fortemente comunitari e sottoposte al rigido controllo della criminalità organizzata, come Marsiglia.

Il soggetto coinvolto, per lo più giovanissimi, ha messo tutti in una situazione di disagio. Il governo ha cominciato a attaccare la « famiglia », la destra parlava di guerra civile, la sinistra moderata e estrema non sopportava la violenza « barbara » (hanno pure incendiato le macellerie halal …). Le associazioni antirazziste hanno vissuto con frustrazione questa violenza non rivendicativa (e quindi altamente politica!).

Inoltre c’è un effetto generazionale (i giovani di un tempo, sono gli adulti di oggi…), chi ha vissuto il 2005 ora guarda con preoccupazione l’attuale sommossa, in quanto molto più violenta, più brutale ma anche, obiettivamente, priva di progettualità politica e organizzativa e, almeno a quanto si veda, incapace di trasformare in esercizio di potere politico effettivo (il delinearsi di un dualismo di potere attraverso la formazione di “Istituti proletari”) in grado di monetizzare politicamente ciò che “militarmente” si è in qualche modo affermato. Questo aspetto è particolarmente sentito nei “quartieri” il che indica, contraddicendo in pieno quanto solitamente è detto e scritto su questi mondi, quanta “sete di politica” abbiano gli operai e i proletari. In altre parole dove i più vedono rabbia, nichilismo, disperazione, frustrazione e rancore noi vediamo una richiesta politica che faremo di tutto, con modestia e senza alcun paternalismo di sorta, per provare a assolvere.

Non siamo dei sociologi, ma è chiaro che si è mossa una frazione del cosiddetto proletariato de-integrato, il proletariato senza riserva, che ha solo le catene da distruggere. Di fronte a questa esplosione di violenza proletaria è inutile dire che la polizia è una merda, o dire che i giovani delle periferie sono la porzione principale del nuovo soggetto operaio e proletario… tutti lo sanno benissimo, ma il problema non è questo, bensì trasformare in forza politico – militare tutta la potenza che sta nel nuovo soggetto operaio!

La stessa discussione sulla « democraticizzazione della polizia » risente di un approccio liberale, che ha poco a che spartire con gli attuali rapporti di forza tra le classi. E’ « liberale » pensare di cambiare culturalmente la polizia. La polizia cambia solo all’interno di una meccanismo legato ai rapporti di forza: 1) una maggiore penetrazione dei comunisti all’interno delle forze dell’ordine 2) forme di autodifesa e organizzazione proletaria nelle periferie.

Se sul primo punto non pensiamo sia oggi possibile intervenire, visto il livello di infantilismo e sciovinismo che si respira a sinistra, sul secondo punto riteniamo possibile continuare un lavoro militante e politico sui territori, attraverso molteplici strutture: dai sindacati alle associazioni sportive, dai comitati di quartiere alle associazioni culturali ecc…

La polizia non e’ una istituzione neutrale, è una organizzazione per la difesa del monopolio della violenza e del potere della borghesia, ma questo non vuol dire pensare che non si possa sfruttare le contraddizioni e le incrinature tra le frazioni della borghesia per imporre un punto di vista proletario. Il governo dopo la violenza del riot è stato costretto a pronunciare critiche all’operato della polizia. Questo ha creato una frattura che ha dato vita ad inedite forme di protesta da parte delle associazioni di polizia, attraverso “malattie” organizzate.

Negli ultimi mesi da parte governativa si e’ scatenata l’ennesima guerra contro i disoccupati e i precari, contro chi usufruisce della RSA e della disoccupazione tramite il Põle Emploi, o più semplicemente dei lavoratori che si mettono in malattia. Assistiamo ad un inedito cortocircuito, quando gli stessi poliziotti utilizzano le forme «illegali» tanto vituperate dal governo e dal padronato.
E’ chiaro a tutti che le organizzazioni sindacali che promuovono all’interno della polizia queste forme di lotta sono organizzazioni di “destra”, che vogliano ancor maggior impunità da parte della polizia, ma resta una crepa tra il centro politico governativo e le stesse strutture di controllo e sono anche un non secondario indicatore di come, dentro la crisi, la polarizzazione sociale, tanto a destra quanto a sinistra, delinea movimenti di massa ampiamente estranei agli organismi politici ufficiali. Tutto ciò è ancora più vero nel contesto attuale dove i partiti politici di qualunque natura hanno abbandonato qualunque dimensione e articolazione di massa, per farsi semplici “comitati elettorali” la cui esistenza si gioca esclusivamente sul piano virtuale. Ciò che, non da oggi, sta accadendo in Francia è la dimostrazione di come, a trecentosessanta gradi, si assista a una nuova stagione di “protagonismo delle masse”. Ignorare che, in questo scenario, non è poi così improbabile che occorrerà fronteggiare novelli “corpi franchi” non è solo stupido ma suicida.

I differenti soggetti sociali che hanno dato vita alle tre «mobilitazioni» (gilets juanes, pensioni, riot) non avevano la possibilità concreta di «unirsi» e sopratutto di vincere, in quanto non potevano andare oltre i limiti in cui la diversa composizione di classe li obbligava e, per di più, si trovano davanti alle diverse fazioni della borghesia, in crisi, ma ancora dinamiche e capaci di reagire. I comunisti e la sinistra proletaria dovevano sicuramente essere più attivi, più dinamici, ma i muri che dividono questi settori sociali non si rompono con atti di volontà o per semplice desiderio.
Quando parliamo di crisi non bisogna mai cadere in una facile «estremizzazione» che ci fa pensare che basti poco per fare crollare il muro.

Bisogna considerare il processo rivoluzionario come un intreccio di fattori soggettivi e oggettivi.
I fattori soggettivi sono la presenza di una organizzazione rivoluzionaria e il dispiegarsi dell’autonomia proletaria. L’organizzazione rivoluzionaria (il partito), come forza politica adeguata al contesto metropolitano e imperialista (che racchiuda al suo interno tutte le forme pacifiche e violente, legali e illegali). L’autonomia proletaria ossia organizzazione e solidarietà (sindacati, collettivi, ecc..), dai posto di lavoro al territorio, e la manifestazione della propria forza.
Il contesto oggettivo presenta diversi fattori: la debolezza della struttura militare del nemico (crisi dello Stato), una lotta sempre più accanita tra le frazioni della borghesia e una ampia fetta di popolazione (non esclusivamente il proletariato, ma ovviamente con lui al centro) sempre più slegato dai meccanismi di integrazione della politica borghese, questo non tanto per una propria volontà rivoluzionaria, ma per necessità, l’impossibilità per queste porzioni di ripercorrere le opzioni che la borghesia propone.

Rimettere al centro il lessico militare e i concetti di guerra, non vuol dire solamente accettare il terreno della violenza, ma avere un proprio specifico programma sul terreno militare. Oggi, strategia, tattica sono termini lontanissimi dall’attuale lessico di sinistra. Tuttavia qualsiasi progetto di « rivoluzione sociale » deve anticipare la questione del confronto armato con le forze del potere e della reazione. Le organizzazioni rivoluzionarie che rifiutano di elaborare una politica militare prima che la questione dello scontro si ponga praticamente, si squalificano, essi si comportano come disfattisti della rivoluzione o in fornitori di futuri prigionieri e cimiteri di vittime.

Senza prassi e teoria non c’è partito rivoluzionario, ma senza crisi non esiste neppure il tentativo rivoluzionario.
Oggi queste condizioni sono presenti solo in parte. Questo non ci deve scoraggiare, ma ci permette di capire dove dobbiamo concentrare i nostri sforzi e energie.

Franz Mehring, il più importante e preciso biografo di Marx, parlando del Manifesto del Partito Comunista scriveva: “Per certi aspetti lo sviluppo storico si è compiuto altrimenti, e soprattutto più lentamente di quanto i suoi autori supponessero. Quanto più il loro sguardo si spingeva in avanti, tanto più le cose apparivano vicine. Si può dire che non si poteva avere luce senza queste ombre. E’ un fenomeno che già Lessing ha notato negli uomini che lanciano -sguardi nel futuro-, -quello per cui la natura si prende millenni di tempo, deve misurarsi nel breve attimo della loro esistenza-. Ora Marx ed Engels, non si sono sbagliati di millenni, ma certo di parecchi decenni”.

Il quarto numero di Supernova ha come filo conduttore l’imperialismo e i conflitti che produce sul fronte interno e esterno. La dea Atena, la dea della guerra, è scesa in terra come gridavano su tiktok i petit durante i riots1. I conflitti ci impongono una azione e una analisi più diretta. Essere anti-imperialisti, solidarizzare con chi lotta non basta, occorre rimettere al centro l’autonomia dei comunisti, perché senza una prospettiva di classe, un punto di vista proletario, rimaniamo disarmati contro i nemici e succubi della loro ideologia e prospettiva.

N.B.
Il presente articolo uscirà a settembre in Francia come editoriale del numero 4 di «Supernova».


  1. Si riferivano al film Athena, di Romain Gravas del 2022, sulle rivolte urbane in Francia. Il film sicuramente profetico e’ tuttavia rovinato negli ultimi minuti da una insostenibile trovata filmica, legata alla teoria del complotto che scagiona i poliziotti…  

]]>
Per una volta ancora…a sarà Fest: Venaus 29. 30 e 31 luglio 2023 https://www.carmillaonline.com/2023/07/26/per-una-volta-ancora-a-sara-fest-venaus-29-30-e-31-luglio-2023/ Wed, 26 Jul 2023 20:00:15 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=78410 Non sono bastate le minacce, ancora una volta il Festival Alta Felicità, espressione della vitalità del Movimento No Tav valsusino (e non solo), si terrà a Venaus dal 29 al 31 luglio con un programma ricco e intenso di incontri, commemorazioni, presentazioni, dibattiti e tanta, tanta musica. Cui si accompagnerà la scelta militante di una marcia fino al fortino di San Didero che si terrà domenica 30 proprio a partire, dalle ore 12, dallo storico presidio di Venaus.

Per comprendere la forza e la determinazione che da anni animano la resistenza valsusina [...]]]> Non sono bastate le minacce, ancora una volta il Festival Alta Felicità, espressione della vitalità del Movimento No Tav valsusino (e non solo), si terrà a Venaus dal 29 al 31 luglio con un programma ricco e intenso di incontri, commemorazioni, presentazioni, dibattiti e tanta, tanta musica. Cui si accompagnerà la scelta militante di una marcia fino al fortino di San Didero che si terrà domenica 30 proprio a partire, dalle ore 12, dallo storico presidio di Venaus.

Per comprendere la forza e la determinazione che da anni animano la resistenza valsusina e la realizzazione del Festival non c’è di meglio che quanto ha scritto Valerio Evangelisti (scomparso lo scorso anno) nel 2017, la cui figura ed opera saranno al centro proprio dell’incontro di apertura nella mattinata di sabato 29 aprile.

Dietro chi vuole il Tav sta un potere smisurato. Connubi tra governi sovrannazionali, sostegno di una sinistra “cooperativa” dimentica delle proprie origini e dei propri ideali fondanti, calcoli di profitti fatti sulla carta unta del salumaio. In fondo, la tratta ferroviaria da costruire in un futuro incerto, che mai gli attuali protagonisti vedranno, è argomento secondario, Quello primario è punire i riottosi, in nome di istituzioni legittimate da una fantomatica “democrazia”. Trucco col quale, diceva Rousseau, a scadenze fisse il popolo nomina i propri tiranni.
A uno schieramento preponderante, e in apparenza invincibile, il popolo No Tav ha opposto […] il modello Gavroche tratteggiato da Victor Hugo. Quello dello scanzonato ragazzetto che irride alle norme e fa della propria disinvoltura l’unica, credibile “legalità”. Pronta a sbeffeggiare i potenti e a combatterli sulle barricate. Disarmato (non sempre) ma temibile, nel suo sottrarsi alle falangi decerebrate dell’ordine costituito.
La Valle di Susa è piena di Gavroche, di ogni sesso e di ogni età. Riottosi e astuti, coraggiosi e realistici. Sono eroi? No, sono altro […] Con il rivoluzionario addomesticabile, portatore di ideologie formalizzate, si può in qualche modo discutere, arrivare a compromessi, Con il ribelle no. E’ lui il rivoluzionario vero.

Programma

SABATO 29

ore 10 – 12

Valerio Evangelista, Carmilla e la battaglia per un nuovo immaginario anticapitalista.
Coordina Maurizio Poletto. Discuteranno con lui Sandro Moiso, Franco Pezzini e Domenico Gallo della redazione di Carmillaonline e coautori di L’insurrezione immaginaria. Valerio Evangelisti autore, militante e teorico della paraletteratura (Mimesis 2023).
Letture a cura di Antonietta Perretta.

Ore 12 – 13,30

Intelligenza artificiale.
Alberto Puliafito: giornalista, analista, scrittore, regista Luigi Lorato e Michela Rossi curatori del libro Cambiate lavoro, per favore – lettera agli umani che robotizzano il mondo.

Ore 13,30 – 15,30

Lavoro, territori e benessere delle persone.
Collettivo GKN Comitato liberi e pensanti Taranto.
Presentazione di Le grandi dimissioni di Francesca Coin e Lavorare meno di Sandro Busso

ore 15,30 – 17,30

Crisi climatica.
Collettivo contro innevamento artificiale in Savoia (CluZAD)
Maurizio Dematteis, giornalista e scrittore e Roberto Mezzalama, esperto in valutazioni impatto ambientale – scrittore, dialogano con: Marina Clerico, docente politecnico Torino, e Paolo Giardina, ingegnere.

ore 17,30 – 19,30

Ucraina: fermiamo l’escalation.
Raffaele Sciortino giornalista, Domenico Quirico giornalista e coordinamento No base Coltano.

Spazio Autogestito

ore 12 – 13

La prigione e la piazza- Mostra mercato di libri da e sul carcere.
Piazza tematica. Abolizionismo /Ergastolo e 41bis.

Intervengono Nicoletta Dosio, Elisa Mauri, Riccardo Rosa.

ore 13 -14

Presentazione del libro: Le regole di ferro di Juri di Molfetta – presenta l’autore

ore 14 – 15

Presentazione del libro: Non mettiamola giù tanto spessa di Riccardo Borgogno.
Ne parleranno Maurizio Poletto (FaF), Anna Matilde Sali (Eris edizioni) e Juri di Molfetta

ore 15 -16

“Segui le armi e troverai le guerre”, considerazioni a margine del volume 2023 Orizzonti di guerra. Intervengono: Antonio Mazzeo, Murat Cinar. Emanuele Giordana e Vesna Scepanovic

ore 16 -17

Giochi pericolosi: Milano-Cortina 2026, chi vince e chi perde.
A cura di Off Topic Milano, Associazione Proletari Escursionisti Milano e Sport Popolare Milanese.

DOMENICA 30

ore 10 – 12

Torino – Lione: un buco nell’acqua?
Intervengono: Marina Clerico, commissione tecnica Torino – Lione; Luca Giunti, commissione tecnica Torino – Lione: Alberto Poggio, commissione tecnica Torino – Lione: Erika Standford, assessore comune di Modane e tecnica idrogeologica; Roberto Vela, commissione tecnica Torino – Lione.

Ore 17

Una Storia Italiana: Gianni Barbacetto intervistato da Andrea Galli

Spazio Autogestito

ore 10 -11

Presentazione del libro La Veggente indecorosa di Lourdes di MarianoTomatis,
Presentano l’autore e Filo Sottile.

ore 11 – 12

“Voci narranti, storie resistenti dalla Val di Susa”, quaderno n. 5 del Controsservatorio Valsusa/5. Con Alessandra Algostino, Ezio Bertok e Livio Pepino.
Letture di Antonietta Perretta

ore 12 – 13

O.s.a.r.e Operatoria sanitaria anti-repressione presenta: Elementi di primo soccorso e autotutela militante, intervengono medici e personale sanitario

LUNEDI’ 31

ore 10 – 12

Antiabilismo: conoscere l’abilismo per abbatterlo. Coordina Alice Vigorito con Martina Pasquali rappresentante del Disability Pride Network; Barbara Centrone divulgatrice e attivista con il progetto “Cose molto ADHD”.

ore 12 – 13,30

Lotte ecologiche e repressione: in difesa della terra e del futuro.
Mariapaola Boselli Amnesty International Italia; Livio Pepino ex magistrato e direttore edizioni Gruppo Abele; rappresentante avvocati francesi e Militanzagrafica fumettista.

ore 13,30 – 15,30

Migranti. Coordina: Avernino Di Croce con Manuelita Scigliano e Ramzi Labidi Associazione Sabri di Cutro; Gianfranco Crua, Carovane migranti; Karim Metref giornalista ed educatore.

ore 17

Questioni di genere.
Carlotta Vagnoli intervistata da Annamaria Sarzotti

Spazio Autogestito

ore 10 -11

Presentazione dell’opuscolo: Palestina, una storia di resistenza, dal colonialismo alla devastazione del del territorio. Promuove e interviene Progetto Palestina.

ore 11 -12

“Per non finire come carne da cannone”.
Presentazione del libro: Passini non va alla guerra di Antonio Ginetti, presenta l’autore.

ore 12 – 13

Presentazione del libro: Prendiamoci cura della casa comune, a cura del Gruppo Cattolici per la Vita della Valle. Intervengono Paolo Anselmo,Eugenio Cantore, Donatella Giunti, Gabriella Tittonel e Rosanna Bonaudo.

ore 14 -15

Alex Conte: One man show

ore 15 – 16

Jacopo Bindi presenta il libro: Sociologia della libertà. Manifesto della civiltà democratica, volume III, di Abdullah Ocalan, prima edizione italiana marzo 2023

ore 16 -17

Presentazione dei libri Il cappotto di Bea e A proposito di Bea di Riccardo Humbert, ed Graffio.
Maurizio Poletto (f.a.f) dialoga con l’autore Riccardo Humbert

Per il ricco programma musicale che vedrà coinvolti artisti coma Assalti Frontali, Persiana Jones, Omar Pedrini e moltissimi altri ancora si veda qui, qui e qui.

Buon impegno militante e buon divertimento a tutti i partecipanti!

]]>
Cronache marsigliesi /8: la guerra civile in Francia. Un tentativo di bilancio https://www.carmillaonline.com/2023/07/13/cronache-marsigliesi-8-la-guerra-civile-in-francia-un-tentativo-di-bilancio/ Thu, 13 Jul 2023 20:00:34 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=78242 di Emilio Quadrelli

La rivoluzione è un’ideologia che ha trovato delle baionette. (N. Bonaparte)

I fuochi della rivolta si sono, almeno momentaneamente, sopiti. Con questo articolo cerchiamo di comprendere che cosa i sei giorni di rivolta hanno determinato e quali scenari si vanno delineando. L’articolo si compone di tre interviste rilasciate da attori sociali, già ascoltati in precedenza, che in virtù della loro militanza politica possono vantare un qualche legame con il “popolo dei quartieri”. La nostra interazione con le interviste è stata minima ripromettendoci, in un successivo articolo, di tentare una [...]]]> di Emilio Quadrelli

La rivoluzione è un’ideologia che ha trovato delle baionette. (N. Bonaparte)

I fuochi della rivolta si sono, almeno momentaneamente, sopiti. Con questo articolo cerchiamo di comprendere che cosa i sei giorni di rivolta hanno determinato e quali scenari si vanno delineando. L’articolo si compone di tre interviste rilasciate da attori sociali, già ascoltati in precedenza, che in virtù della loro militanza politica possono vantare un qualche legame con il “popolo dei quartieri”. La nostra interazione con le interviste è stata minima ripromettendoci, in un successivo articolo, di tentare una lettura politica di quanto andato in scena. Una lettura che, senza una base empirica, diventa puro esercizio retorico. “Solo chi fa inchiesta, ha diritto di parola” e a partire da Mao, ma si potrebbe aggiungere tranquillamente da tutta la storia dello “operaismo”, abbiamo cercato in tutti i nostri articoli di mantenere questa “linea di condotta”.
Diamo pertanto, senza fronzoli di troppo, la parola a M. R., operaio precario dell’edilizia attivo nel Collectif Chomeurs Precaries.

Che percezione c’è nei “quartieri” a Marsiglia dopo la rivolta?
Allora, in linea di massima, c’è un senso di soddisfazione abbastanza generalizzata. Questo è ampiamente comprensibile perché, almeno per sei giorni, i “quartieri” sono stati in grado di riversare, e con gli interessi, ciò che abitualmente subiscono. Questo è un fatto che puoi facilmente constatare attraversando una qualunque zona ghetto. La polizia, almeno per il momento, sta tenendo un profilo basso il che rafforza l’orgoglio della banlieue anche se questa calma, più che essere la ratifica di un mutamento dei rapporti di forza, appare come la classica calma che precede la tempesta. Questo è il timore che cogli se esci dalle fasce giovanili. Mentre i petit sono decisamente esaltati perché ritengono di aver vinto, gli altri, che sono passati più volte per l’inferno pensano che le ricadute repressive potrebbero essere molto pesanti.

Ma questo significa che nei “quartieri” vi è una rottura interna?
No, questo no diciamo che, piuttosto, mentre i più giovani focalizzano lo sguardo sull’immediato, gli altri cercano anche di pensare a cosa accadrà a breve. Questa non è una cosa sbagliata ma che rimanda, per quanto magari non esplicitata in maniera chiara, a una visione e consapevolezza politica che ha più di una ragione di essere. In qualche modo molti nei “quartieri” si chiedono: “Adesso cosa facciamo, adesso cosa succede?” Credo che la sintesi esatta di quanto è accaduto possa sintetizzarsi così: una vittoria militare a fronte di una sostanziale debolezza politica. Il che non è proprio una novità, a fronte di una capacità militare e volontà di combattimento che non trovi da nessuna altra parte, ti ritrovi sempre dentro una difficoltà a trasformare in forza permanente, come esercizio di contro potere effettivo, tutto ciò che è stato messo in campo nella battaglia di strada.

Questo vuol dire che la rivolta, almeno sul piano organizzativo, ha lasciato tutto come prima?
Non è facile dare una risposta a questa domanda. Non lo è perché l’internità politica, anche la nostra per carità, a tutto quello che è successo è stata veramente minima per cui quello che possiamo dire con onestà è solo il frutto di alcune relazioni e contaminazioni periferiche con questi mondi. Sulla base di queste possiamo dire che le gang dei petit ne escono notevolmente rinforzate e agguerrite. Non bisogna dimenticare la quantità di armi che sono state sottratte nel corso delle sei giornate il che significa che, di fatto, c’è un livello di armamento operaio e proletario non proprio irrisorio ma è anche vero che, al momento, nessuno è in grado di dire come verranno utilizzate queste armi. Diciamo che l’ipotesi più probabile è che si scivoli dentro, uso un termine che non ha bisogno di molte spiegazioni, un militarismo tanto eroico quanto suicida. Questo, ovviamente, non è scontato, ma se su tutto ciò non si innesta una prospettiva di lotta di lunga durata il rischio c’è anche perché i petit, di loro, hanno una mentalità più affine all’insurrezione, intesa come spallata, che a una lotta che comprende tattica, strategia e disciplina. Per molti versi possiamo dire che vi è una situazione che non si è ancora cristallizzata e quindi un vero bilancio è veramente difficile farlo. In tutto ciò non bisogna sottovalutare il modo in cui, nel suo insieme, la società legittima ha reagito e sta reagendo. Forse è dai tempi dell’Algeria, almeno a memoria d’uomo, che non si vedevano livelli repressivi militari così alti e il richiamo all’Algeria ha a che fare anche con un altro aspetto, in campo sta scendendo, anche sul piano militare, un intero fronte di classe. L’apparire delle “ronde fasciste” va considerato e osservato non come qualcosa che rimanda al passato perché questi non sono i fascisti di ieri ,che cercano di avere un po’ di notorietà nel presente, ma un fronte di classe nazionalista che rappresenta ampi strati di società francese.

Quindi, se quanto affermi è vero, è stato giusto dire, come abbiamo fatto, che siamo di fronte all’incipit della guerra civile?
Penso proprio di sì ma questo non deve stupire. L’epoca attuale è contrassegnata da crisi, guerre dentro uno scenario che vede un obiettivo tramonto dell’occidente, questo riaffiorare del nazionalismo ha ben poco di nostalgico, questo nazionalismo è un frutto moderno e contemporaneo che allinea un fronte di classe anche variegato. Contro la rivolta non vi è solo la grande borghesia ma tutte le classi intermedie e pezzi di classe operaia. La solidarietà mostrata nei confronti del poliziotto omicida non deve essere presa sotto gamba perché mostra come intorno alla polizia e a ciò che rappresenta, si coagulano diverse forze sociali. Qua non si tratta di gridare al fascismo e neppure Le Pen, per essere chiari, pensa di restaurare Vichy, ma di cogliere la messa in atto di una guerra civile su basi nazionaliste intorno alla quale si coagulano diversi pezzi di società. Questo meccanismo è in atto e, come sempre, a un certo punto le cose cominciano a marciare da sole. Questo fa capire anche la cautela che c’è tra la gente dei “quartieri”. Però questo indica anche un’altra cosa, la possibilità che questa situazione offre alle forze rivoluzionarie ma, e lo ripeto sino alla noia, bisogna uscire dall’estetica del conflitto e dalla logica della spallata. In Francia, oggi, va sperimentata una forma organizzativa, su più piani, che sia in grado di instaurare un dualismo politico a tutti gli effetti. Chiaramente questa scommessa è tutto tranne che facile e scontata. Quello che sta andando in scena in Francia, nonostante le indubbie particolarità che ovviamente vi sono e vengono da lontano, ha a che fare con un modello politico e sociale che appartiene al mondo capitalista contemporaneo e, proprio per questo, credo che sia un errore, come spesso accade, ridurre il tutto al “caso francese”. Io credo che in quanto sta accadendo dobbiamo leggere una tendenza in atto del comando capitalista e non il frutto di ciò che viene comunemente definita “frattura coloniale”. Se guardiamo bene la Francia, in realtà, è il laboratorio europeo del modello americano e quindi del punto più avanzato dello sviluppo capitalista.

Questo mi sembra veramente il cuore della questione e mi spiego. Tutti hanno osservato come il livello di scontro di questi sei giorni sia stato di un tale portato da far impallidire persino le rivolte del 2005 e del 2006 le quali non erano state certamente una bagatella. Questo sembra essere vero sia per come si sono mossi i “quartieri”, sia per la risposta militare messa in atto dallo stato. Nel 2005 e 2006 lo stato si è mosso ponendo in atto, accanto alla repressione militare e poliziesca, un tentativo di politiche sociali finalizzate a gestire, non solo in termini di guerra e conflitto, la questione banlieue. Al proposito basta ricordare la quantità di interventi di politologi, sociologi e intellettuali che si erano riversati sul popolo dei quartieri e, insieme a questi, anche il proliferare di organismi sociali in banlieue. Oggi, invece, sembra che l’unico linguaggio che lo stato è disposto a parlare è quello della guerra. Allora, se tutto questo è vero, questa rivolta più che in continuità con il passato sembra incarnare una rottura del presente. Le cose possono essere viste in questo modo?
Cominciamo con il dire che sicuramente lo scontro posto in atto da entrambe le parti è sicuramente incommensurabile a quanto visto nel 2005 e nel 2006 ed è sicuramente giusto rilevare come, questa volta, la risposta statuale sia stata unicamente militare. Sono passati diciotto anni e in questo periodo sono cambiate parecchie cose. La crisi del 2008, che in qualche modo è ancora lì, la guerra come linea strategica del comando capitalista a livello internazionale, la necessità, quindi, di pacificare le retrovie, la guerra preventiva a quella composizione di classe che incarna, in tutto e per tutto, la non possibilità di un patto sociale con il comando. Questo non ha più nulla di francese, secondo noi sbagliano quelli che leggono quanto sta accadendo come un continuum del colonialismo francese. Certo, questo c’è, ma quello che deve essere colto è come questa particolarità francese oggi si inserisce dentro un modello che caratterizza un po’ tutte le metropoli imperialiste occidentali che si stanno sempre più plasmando sul modello americano. Paradigmatico il modo in cui Macron ha attaccato le donne di banlieue. Di questo ne parlerai dopo con M. B.

Ciò che, in qualche modo, prefiguri è uno scontro a tutto tondo tra questo nuovo soggetto proletario e ciò che si sta coagulando intorno alla polizia. Abbiamo letto tutti il comunicato dei sindacati di polizia così come abbiamo dovuto constatare come la solidarietà, che poi in realtà è il dichiararsi favorevole con l’esecuzione di Nanterre, nei confronti del poliziotto omicida abbia trovato consensi non proprio irrilevanti infine, ma certamente non per ultimo, quanto le cosiddette ronde fasciste riscuotano un notevole consenso. Tutto questo, per la società francese, cosa significa? Cosa dobbiamo aspettarci?
Io credo che dobbiamo aspettarci una realtà sociale plasmata sul modello della società americana dove guerra di classe e guerra di razza si intersecano in continuazione anche se è molto utile precisare che quando si parla di razza bisogna precisare che si è neri perché si è poveri. Al fianco della polizia e dello stato non vi sono solo i bianchi, per questo ho più volte detto che qua non siamo dentro a alcun remake fascista, ma anche tutta quella popolazione, soprattutto araba che nel tempo ha acquisito un certo status sociale, che odia il nuovo proletariato. Impostare la lotta sul’antirazzismo significa non vedere che cosa concretamente è diventata questa società. Il fallimento a cui sono andate incontro tutte le associazioni di questo tipo presenti nei quartieri ne sono una buona esemplificazione.

Scusa se ti interrompo. Queste associazioni che ruolo hanno avuto nel corso della rivolta?
Ne sono state travolte e non poteva essere altrimenti. Sono diventate, e non da oggi, una struttura superflua e questo indica anche il mutamento di passo che c’è stato dentro la società francese. Ora provo a spiegarti. Tutte queste organizzazioni, nate anche con buoni propositi, facevano, direttamente o meno, parte di quel “pacchetto sociale” finalizzato a gestire i quartieri non solo in maniera militare. Ben presto, però, queste realtà, la cui esistenza dipende dai finanziamenti pubblici cosa che non bisogna dimenticare, si sono trovate di fronte a un bivio: o cercare di assolvere sino in fondo il loro ruolo di addomesticatori di una situazione sociale la quale, giorno dopo giorno, diventava sempre più esplosiva oppure farsi carico di questa. Farsi carico di questa, però, significava affrontare di petto alcuni nodi che chiaramente entravano direttamente in rotta di collisione con le politiche statali e cittadine nei confronti dei quartieri. Chi ha provato a farlo si è ritrovato con i fondi tagliati e con la quasi impossibilità di svolgere una qualche attività. Chi, per capirsi, si è del tutto integrato con la “linea dello stato” è stato foraggiato ma, in contemporanea, ha iniziato a essere odiato dentro i quartieri perché considerato, e con ampia ragione, come l’altra faccia della polizia. Durante la rivolta queste associazioni sono state attaccate e distrutte. Le poche associazioni non allineate sono semplicemente state scavalcate dagli eventi. La rivolta ha fatto tabula rasa un po’ di tutto di per sé, il fatto che vi siano solo macerie non è un male, bisogna vedere che cosa si sarà in grado di ricostruire.

Questa tabula rasa ha comportato anche l’azzeramento delle strutture islamiche?
Le uniche cose che sono rimaste in piedi delle realtà islamiche sono state le moschee, per il resto i petit non hanno fatto sconti a nessuno. Non sono state risparmiate le macellerie islamiche, le tabaccherie gestite da arabi o i negozi. Quelli che parlano di islamizzazione dei quartieri dicono solo cazzate. Per quello che ci è dato sapere molti Imam hanno cercato di fare da pacificatori ma nessuno è stato ad ascoltarli. Quella che si chiama , in giro c’è anche, è un discorso che appartiene prevalentemente alla vecchia destra, la reazione in atto è contro il proletariato non è di destra e borghese, questo è ciò che va compreso.

Grazie per averci fornito una lettura ben poco convenzionale di ciò che sta accadendo ora, però, torniamo a cosa succede adesso nei “quartieri”.Vi è una possibilità di interazione con questo settore proletario oppure tutto ciò che ha un qualche sapore di politico, dai petit, viene rifiutato a priori?
No, un rifiuto a priori non c’è, parlo almeno per quanto riguarda noi, però è anche vero che esiste una difficoltà enorme di comunicazione e di lettura della cornice diciamo culturale e esistenziale dei petit. Sicuramente rileviamo che gran parte di tutto il nostro armamentario politico e teorico con questi ha ben poco a che fare e che, quindi, occorre un grosso sforzo da parte di chi si ritiene avanguardia di ricalibrare la teoria comunista a partire da ciò che il movimento reale esprime. Su questo, però, occorre essere chiari per non finire in ciò che, di fatto, è l’intellettualismo del movimento. Qua non si tratta di sfornare analisi sociologiche o di fare delle interpretazioni più o meno fantasiose su ciò che accade, si tratta di stare dentro a ciò che il movimento reale esprime. In altre parole si tratta di andare sempre a scuola dalle masse e tenere sempre ben a mente che le masse del presente non possono mai essere uguali e neppure simili alle masse di ieri. Le masse, come noi tutti del resto, siamo il frutto di una realtà in perenne trasformazione. Il marxismo è un metodo non una verità assoluta e rivelata. Noi nei quartieri un po’ ci siamo, delle cose le stiamo facendo e sappiamo che dovremmo continuare, con pazienza, a percorrere questa strada. Solo l’internità alla classe può dare dei frutti, poi si vedrà.

Nel corso dell’intervista si è accennato alle donne di banlieue e come proprio contro di loro si sia riversato l’odio delle istituzioni in quanto considerate dirette responsabili dei comportamenti dei petit. Su questo aspetto riportiamo un sintetico ma molto significativo punto di vista di M.B., una giovane donna di banlieue, pugile agonista e attiva all’interno del Collectif boxe Massilia

Macron ha chiaramente tirato in ballo le famiglie e le donne di banlieue ree di non saper educare i figli. Di fronte a ciò il movimento femminista ha preso posizione?
Diciamo che su questo si è veramente toccato il fondo. Un attacco di questo tipo non si era mai visto, qua siamo veramente alla messa al bando di interi pezzi di società. In questo passaggio si consuma, sul piano formale, la stessa idea dell’esistenza della République. Questo attacco ci racconta di quanto sempre più la banlieue sia stata del tutto assimilata al modello dei ghetti americani. In questi sono le donne a vivere la condizione di maggiore oppressione e sfruttamento oltre a essere, quasi sempre, sole a gestire i figli. Su questo andrebbero dette e scritte una marea di cose, ma non è questo il momento. Ciò che va evidenziato è come di fronte a questo attacco specifico e mirato alle donne di banlieue il movimento femminista non abbia aperto bocca, A noi questo non stupisce perché da tempo ripetiamo che il movimento femminista è tutto interno allo stato e da questo è foraggiato. Il movimento femminista è un movimento borghese e non possiamo aspettarci certo da questo la nascita di strutture di autodifesa delle donne di banlieue. Ma le donne di banlieue non sono l’anello debole dei quartieri, semmai il contrario. Non è utopia pensare che proprio da loro possano prendere forme di organizzazione politica particolarmente avanzate. I presupposti, non solo oggettivi, ma soggettivi vi sono tutti e chi ha un qualche rapporto reale con questi mondi lo può facilmente constatare.

Chiusa questa prima parte abbiamo provato attraverso le parole di J. B., militante del Collectif Chomeurs Precaries e redattrice della rivista Revue Supernova, a dare uno sguardo sull’insieme di ciò che si sta muovendo in Francia dove, prima dell’esplosione dei “quartieri”, si era assistito a due grossi movimenti di massa, i gilet gialli e il movimento contro la riforma delle pensioni, per comprendere se e come questi movimenti hanno, in qualche modo interagito con il “popolo dei quartieri”. Infine abbiamo provato a capire in che modo le varie forze politiche hanno interagito con i petit focalizzando lo sguardo anche sui sommovimenti che la rivolta ha prodotto nel fronte borghese.

C’è stata una qualche interazione tra questa rivolta e i segmenti sociali che avevano dato vita al movimento dei “gilet gialli”
Come ben sai io vengo proprio da quella esperienza e ti ho spiegato anche i motivi per i quali, a un certo punto, l’ho abbandonata. D’altra parte quel movimento si è dissolto e oggi di esso non vi è alcuna traccia. Solo alcune delle persone con le quali ero in più in stretta relazione all’epoca dei gilet ha guardato con una qualche simpatia alla rivolta i più, però, mi sono sembrati contrari.

Eppure i gilet avevano mostrato una non secondaria radicalità e non sembravano particolarmente afflitti dal legalitarismo. Sicuramente non con i toni della rivolta attuale però, nel corso dei loro sabati, si era assistito a livelli di scontro di notevole spessore. Come mai, allora, questa distanza?
Mah, il problema è essenzialmente una questione di classe. Il movimento dei gilet era principalmente un movimento di settori sociali in via di proletarizzazione, di lavoratori autonomi in grave difficoltà e, cosa da non dimenticare, sviluppatosi in gran parte in quelle aree che vengono definite come “la Francia profonda”, ovvero molto poco cittadina. Era un movimento che esprimeva un grosso malessere sociale che aveva manifestato anche alcune punte di radicalizzazione, ma non era riuscito a darsi una chiara connotazione di classe tanto che non è mai riuscito a mettere in piedi uno sciopero. Quel movimento, alla fine, è andato per conto suo senza riuscire a collegarsi con altre realtà ma se ci pensi questa è la storia di tutti i movimenti che nell’ultimo periodo si sono espressi.

Questo mi porta inevitabilmente a chiederti se c’è stata una qualche interazione tra il “popolo della rivolta” e la composizione di classe scesa in piazza contro la riforma delle pensioni?
Direi proprio di no e la cosa non deve certo stupire. Si tratta di due ambiti completamente diversi che rimandano a postazioni e visioni del mondo ben difficilmente compatibili. Non esagero se dico che una parte di quelli che sono scesi in piazza per la riforma delle pensioni nei confronti della rivolta si sia posizionata sulla stessa lunghezza d’onda della polizia- Pensare che l’aristocrazia operaia possa inserirsi in massa dentro una prospettiva rivoluzionaria è pura follia, l’aristocrazia è parte dello stato e questo non da oggi. Storicamente l’aristocrazia operaia, nei momenti di crisi, si è sempre schierata, e anche in maniera attiva, con la borghesia. Ciò che mi riesce veramente difficile capire è come in tanti abbiano potuto prendere un simile abbaglio. Come ti ho detto ogni movimento è andato per conto suo, ma le cose sarebbero potute andare in altro modo? Io non credo. Siamo di fronte a una trasformazione complessiva delle condizioni di classe e ogni frazione di classe combatte a partire dal suo punto di vista. La borghesia in via di proletarizzazione non vuole diventare proletaria, l’aristocrazia operaia vuole rimanere tale e il nuovo proletariato combatte eroicamente contro tutto e tutti ma non ha un programma. Ma le cose vanno avanti e la piccola borghesia sarà proletarizzata e la aristocrazia operaia spazzata via e, a quel punto, se il proletariato sarà stato in grado di elaborare un programma, molte cose potrebbero cambiare. In tutto questo mi sembra importante dire che forse il principale problema che ci troviamo a affrontare è l’assenza di una idea–forza. Che cosa significa comunismo? Cosa significa rivoluzione? Cosa vuol dire dittatura operaia? In un passato ormai remoto a queste domande vi erano delle risposte, oggi palesemente no. Questa mi sembra essere la vera strettoia che dobbiamo affrontare. Diciamo che è chiaro contro cosa lottare, molto meno per che cosa. A me sembra molto significativo che, come abbiamo visto qua a Marsiglia, le merci siano state il principale obiettivo della rivolta. Al momento la merce è, chiamiamolo, il programma di questo proletariato il che non è né un bene, né un male ma un fatto. Da questo orizzonte, da questo immaginario occorre partire.

Quindi, è una domanda che ho già fatto ma vorrei tornarci sopra, tutti i discorsi sulla islamizzazione e via dicendo non hanno alcun senso?
Assolutamente. I petit erano interessati a portare via tutto, oltre che a scontrarsi con la polizia, erano quelle merci che a loro sono negate a mandarli all’attacco. Erano tutti quegli oggetti che potevano solo guardare da lontano a smuovere il loro immaginario, le merci erano e sono la loro idea–forza. Da lì, può piacere o meno, devi partire. In questo, però, devi leggere il rifiuto della povertà, il rifiuto di condurre una vita fatta di continue rinunce, di assenza di risorse, insomma il rifiuto all’essere operai e proletari. Qua, ed è qualcosa di completamente diverso da quel passato che ha caratterizzato per lo più il movimento comunista, vi è tutto tranne che l’orgoglio di essere operai e proletari, semmai ciò che si odia è proprio questa condizione. Prendersi le merci è sicuramente una cosa illusoria, ma appare il modo più semplice e immediato per emanciparsi dalla propria condizione. Come puoi capire in tutto questo l’Islam non c’entra niente. Semmai, ma questo è un altro discorso, in certi casi l’Islam può essere assunto in maniera simbolica in quanto antifrancese il che, come puoi capire, è ben diverso da una adesione a questo. Le realtà islamiche presenti nei quartieri hanno provato a svolgere un ruolo di pacificazione nel corso della rivolta, ma non sono stati minimamente ascoltate.

A questo punto vorrei chiederti che rapporto c’è stato, se è avvenuto, tra la frazione proletaria della rivolta e le varie anime del “movimento”?
Intanto diciamo che non c’è stato. Tutti hanno preso una posizione che andava dall’entusiasmo proprio delle aree autonome, anarchiche e maoiste, a quello di appoggio sì ma con dei distinguo delle varie anime trotskyste sino alla condanna propria degli eredi del PCF e dell’associazionismo sociale e pacifista. In linea di massima, però, non si è andati oltre a un atteggiamento da tifosi. Questo il vero problema della situazione. Non mi sto a ripetere sulla nostra, pur modesta, presenza dentro alcuni ambiti di questa composizione di classe, ne abbiamo già ripetutamente parlato ed è inutile tornarci sopra. Potrei dirti, a partire da ciò, che noi siamo stati dentro alla rivolta, ma direi una falsità. Il lavoro che abbiamo fatto e stiamo facendo sta dando anche dei frutti ma ciò non toglie che, anche noi, siamo molto distanti da tutto ciò che è successo. Ora, come sempre accade in queste situazioni, si consumeranno fiumi di inchiostro, ognuno dirà la sua, ognuno si sentirà di essere il vero interprete della rivolta e tutto questo, ovviamente, sino alla prossima volta. Nel frattempo i quartieri continueranno a stare lì e il movimento a stare qua. Da questa situazione se ne esce solo in un modo: alzando il culo e andando a relazionarsi con la classe. Tutto il resto sono parole che lasciano il tempo che trovano. Potrei mettermi qua a fare le pulci a questo e quello ma non credo che sia questo il modo per affrontare la situazione. Ha senso mettersi a polemizzare che so con gli anarchici piuttosto che con i maoisti? Questo ipotetico dibattito sposta forse di una sola virgola la realtà dentro i quartieri e la sua composizione di classe? Se le domande che mi faccio sono queste allora il mio agire non può che assumere tutta un’altra dimensione. Devo partire dalla classe e non dal movimento. La discussione sul movimento e le sue prese di posizioni mi sembra solo una perdita di tempo. Invece, questo sembra essere l’ultimo dei problemi. I vari siti sono già inondati di articoli, saggi, analisi e chi più ne ha più ne metta ma di come relazionarsi a questa composizione di classe proprio non si parla. C’è la gara a chi fa l’analisi più raffinata, anche se non si capisce sulla base di che cosa, e tutto il resto viene messo tra parentesi. Avrai notato come noi e le realtà simili a noi con le quali stiamo cercando di costruire, a partire dal movimento dei precari e dei disoccupati, un rapporto organizzato con questo proletariato siamo stati i più cauti, quelli che hanno scritto di meno e questo perché, a differenza di altri, abbiamo cercato di capire di più.

Vorrei chiudere chiedendoti qual è stato il comportamento di La France Insoumise di fronte alla lotta dei banlieuesards?
Qualcuno ha sentito la sua voce? A parte la battuta no, La France Insoumise è completamente scomparsa, di lei non si è avuto alcuna traccia. Ma la vera domanda da porsi è: “Che cosa avrebbe potuto fare?” La France Insoumise è un cartello elettorale e basta. Un cartello elettorale, in un paese dove la maggioranza non vota, che pensa di essere ancora negli anni ’60 dove le politiche riformiste avevano un notevole spazio e la ricerca di un patto sociale tra le classi era anche nelle corde della borghesia. In una situazione in cui tutto tende a declinarsi dentro un conflitto politico–militare cosa può fare, che ruolo può avere una forza come La France Insoumise ? Palesemente nessuno. Poi, anche volendo, sulla base di cosa avrebbe potuto agire? Non ha strutture territoriali, non ha strutture di lotta, non ha Comitati di quartiere, La France Insoumise è una forza politica virtuale al pari di tutte le altre. Il suo distacco dal paese reale non è poi così diverso da quello di Macron. Il parlamento è un corpo vuoto e questo vale per tutte le forze politiche. Al proposito mi sembra indicativo il fatto che la controffensiva borghese non sia partita da qualche forza politica, ma che a dettare la linea della guerra civile sia stata la polizia. La stessa Le Pen si è accodata alla polizia, il che vuol dire ben qualcosa. Le classi si stanno organizzando, sicuramente questo è vero per il fronte borghese, attorno a corpi e strutture non riconducibili ai partiti politici i quali non hanno alcun legame, se non quello puramente elettoralistico, con la società. Questo è un mondo che, in qualche modo, aveva decretato la fine della società di massa dove, per società di massa, si intende la partecipazione attiva e organizzata delle classi sociali alla vita pubblica. Una convinzione che attraversa tutti gli schieramenti politici i quali, non per caso, non hanno alcuna articolazione di massa. Chiaramente questa è una illusione perché le masse, tutte le masse, finiscono sempre con l’entrare in gioco. Quando questo succede i partiti politici rimangono spiazzati. Qua non si tratta neppure più di tirare a mezzo il “cretinismo parlamentare”, non si tratta di questo, qua si tratta di prendere atto come le masse per affermare il loro protagonismo non possano fare altro che, nel caso della classe operaia e del proletariato, costruire i suoi organismi ex novo, mentre la borghesia fa leva su alcune strutture, come la polizia, le quali iniziano a assolvere un compito politico. La France Insoumise ha dimostrato di non essere altro che un fetido cadavere, fuori dal tempo e dalla storia.

Ma con tutta quell’area sociale che è stata l’anima del successo elettorale de La France Insoumise è possibile costruire delle relazioni in funzione della costruzione di organismi di massa?

Se consideriamo l’ossatura politica de La France Insoumise direi proprio di no. Politicamente questi sono il retaggio di tutte le cose peggiori della vecchia sinistra francese, il PCF e dintorni. Con loro non è possibile neppure parlare, figuriamoci ipotizzare dei percorsi organizzativi comuni. Se il discorso si sposta su quelli che hanno votato il movimento allora le cose possono anche cambiare ma è qualcosa che devi andare a verificare nella pratica, dentro a delle proposte e iniziative concrete, non si può rispondere in astratto. Tieni presente che la gran massa degli elettori de La France Insoumise è riconducibile a quel settore di classe che ha dato vita al movimento contro la riforma delle pensioni. Sui limiti e le contraddizioni di quel movimento mi sembra che abbiamo già discusso a sufficienza. Rispetto a questi ci potranno essere, per un verso, minimi spostamenti soggettivi, dei quali tra l’altro abbiamo già parlato, dall’altro, e si tratta della cosa più importante, degli spostamenti oggettivi ovvero quanta di quella composizione di classe si ritroverà sempre più alle condizioni del soggetto operaio e proletario che ha dato vita alla rivolta. Lo smembramento della aristocrazia operaia è uno dei progetti del governo Macron ed è un progetto che verrà realizzato, a partire da questo si potranno fare altri ragionamenti che però avranno una base materiale e non ideologica. La France Insoumise e tutto il suo ceto politico in tutto questo non possono avere alcun ruolo.

]]>
Cronache marsigliesi /7: la guerra civile in Francia https://www.carmillaonline.com/2023/07/06/cronache-marsigliesi-7-la-guerra-civile-in-francia/ Thu, 06 Jul 2023 20:00:08 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=78129 di Emilio Quadrelli

On s’engage ….et puis on voit (Napoleone Bonaparte)

Nel primo articolo su Marsiglia, Le problème n’est pas la chute mais l’atterrissage. Lotte e organizzazione dei dannati di Marsiglia (Carmillaonline 26 marzo 2023), avevamo evidenziato l’elettricità che faceva da sfondo a questa città, un’elettricità che si respirava nell’aria e che sembrava sempre in procinto di dar fuoco alla metropoli. Avevamo atteso l’irrompere di tutto ciò nel corso delle lotte sulle pensioni, ma avevamo dovuto rilevare che tra quella frazione di classe, sostanzialmente l’aristocrazia operaia, scesa in piazza e la [...]]]> di Emilio Quadrelli

On s’engage ….et puis on voit (Napoleone Bonaparte)

Nel primo articolo su Marsiglia, Le problème n’est pas la chute mais l’atterrissage. Lotte e organizzazione dei dannati di Marsiglia (Carmillaonline 26 marzo 2023), avevamo evidenziato l’elettricità che faceva da sfondo a questa città, un’elettricità che si respirava nell’aria e che sembrava sempre in procinto di dar fuoco alla metropoli. Avevamo atteso l’irrompere di tutto ciò nel corso delle lotte sulle pensioni, ma avevamo dovuto rilevare che tra quella frazione di classe, sostanzialmente l’aristocrazia operaia, scesa in piazza e la nuova composizione di classe operaia vi erano ben poche possibilità di cooperazione.

La cosa, in realtà, non deve stupire poiché solitamente tra il “mondo di ieri” e il “mondo nuovo” gli aspetti di rottura sono di gran lunga superiori ai possibili elementi di continuità e quanto accaduto negli ultimi giorni ne è stata una evidente conferma. La rabbia e la radicalità messa in campo dal soggetto proletario sceso in strada ben poco poteva avere a che fare con il clima da scampagnata che, nell’insieme, faceva da sfondo alle lotte contro la riforma delle pensioni. A conti fatti i due mondi non potevano incontrarsi e così è stato. Di ciò abbiamo parlato a lungo e non sembra il caso di tornarvi sopra. Semmai, ciò che va ancora una volta rilevato, è come il “mostro sacro” dell’unità di classe può sortire una qualche fascinazione solo tra chi della classe ha una conoscenza tanto astratta quanto libresca e risulti del tutto estraneo alla sua determinazione empirica. Quindi, senza fronzoli di troppo, proviamo a entrare dentro a ciò che, a tutti gli effetti, si mostra come il corposo incipit della guerra civile in Francia.

L’uccisione, una vera e propria esecuzione a freddo come senza ombra di dubbio testimonia il video che ha ripreso la scena dell’omicidio, di un giovane francese di origine algerina consumata a Nanterre il 27 giugno ha dato il la a sei giorni di rivolta la quale, secondo i più, ha reso le rivolte del 2005 e del 2006 poco più che allegre scorribande di scolaresche in festa per la fine dell’anno scolastico. Una affermazione che, chi scrive, fa fatica a metabolizzare visto che era stato presente a quelle rivolte e tutto gli erano sembrate tranne che l’esuberanza di boy scout con qualche birra di troppo in corpo. A bocce ferme, però, l’asserzione appare ben poco prossima all’esagerazione e la reazione dello stato tenderebbe a confermarlo appieno.

Tutto il nostro lavoro è incentrato su Marsiglia per cui, anche in questa occasione, focalizzeremo la nostra attenzione sulla città del Minstral in quanto non vorremmo venir meno al “tratto empirico” che ha contrassegnato tutti i nostri articoli. Per onestà intellettuale dobbiamo immediatamente dichiarare che le informazioni reperite sono di seconda mano poiché gli attori sociali che ci hanno accompagnato nelle puntate precedenti, in questo caso, non hanno avuto alcun ruolo centrale. La rivolta è stata interamente in mano, nonostante la non secondaria presenza di altre fasce di età, di ragazzi tra i 12 e i 20 anni i quali, solo in alcuni casi, possono vantare contaminazioni di natura politica, sindacale e sociale anche se è bene ricordare che tra i petit non sono poi così pochi coloro i quali hanno avuto un qualche ruolo attivo nelle lotte sociali interne ai quartieri. Una presenza giovanile che ha lasciato tra l’attonito e lo stupito i vari commentatori ma che, in realtà, non fa altro che registrare come le condizioni di classe, e in questo caso anche di “razza”, sedimenti approcci alla vita incommensurabili. Solo uno sguardo profondamente razziale può considerare quell’essere giovani per sempre, tipico dei “bimbi minchia” appartenenti al mondo bianco e garantito, una condizione universale. Ma torniamo a Marsiglia.

La prima cosa che va rilevata è come, a differenza che nel 2005 e nel 2006, anche Marsiglia sia scesa pesantemente in campo. Nelle rivolte precedenti Marsiglia era rimasta sostanzialmente in disparte per un motivo molto semplice: il controllo che le organizzazioni criminali erano in grado di esercitare nei confronti della popolazione dei “quartieri” si mostrava pressoché assoluto. Il crimine, come ben aveva evidenziato Foucault con buona pace dei cultori delle varie “corti dei miracoli”, non è che l’altra faccia della polizia il che, come non poche testimonianze sono lì a ricordare, è particolarmente evidente, e non solo a Marsiglia, osservando i ritmi della vita quotidiana dei “quartieri”. Il connubio tra polizia e spacciatori è un dato di fatto, un connubio che ha sullo sfondo tanto il business, nel quale sono entrambi cointeressati, quanto il mantenimento dell’ordine sociale e politico. Questa verità, che è evidente un po’ ovunque, a Marsiglia era, e in parte è, ancora più vera anche se, una qualche rottura vi è stata ed è una rottura non priva di significato della quale è opportuno dare conto poiché foriera di interessanti possibili sviluppi.

Da tempo una parte, neppure secondaria, del proletariato illegale è in rotta con le organizzazioni criminali che gestiscono il traffico nei quartieri. Per quanto strano di primo acchito la cosa possa sembrare, la rottura è avvenuta su basi “sindacali” Ciò che gli illegali lamentano è il tasso di sfruttamento, ossia bassissima remunerazione, che le organizzazioni esercitano nei confronti dei propri salariati, l’eccesso di rischio che il “lavoro” comporta, il dispotismo che caratterizza i “quadri intermedi” del comando criminale, le irrisorie garanzie fornite a chi viene imprigionato e infine, ma certamente non per ultimo, il costante sacrificio di quote di illegali alle forze dell’ordine.

Nello scambio costante tra crimine e polizia, infatti, è compresa una quantità di arresti che le organizzazioni garantiscono alle forze dell’ordine al fine di salvare la facciata dell’azione poliziesca nei “quartieri”. Molti illegali, quindi, tendono a abbandonare il lavoro di spaccio cercando altre vie di sostentamento mentre il loro posto viene preso da immigrati clandestini i quali ben difficilmente sono in grado di sottrarsi agli imperativi del “comando illegale”. In ambito illegale si assiste a un fenomeno del tutto identico a ciò che avviene nel mondo legale, i clandestini vanno a ricoprire i lavori più pericolosi e meno retribuiti.

Detto ciò resta il fatto che, a Marsiglia, i “quartieri” sono stati toccati abbastanza poco e che tutta la rabbia dei petit si è riversata nel centro cittadino. Ciò conferma quanto posto in evidenza negli articoli precedenti ovvero la necessità di intervenire su carcere e illegalità poiché questa condizione è propria di quote non irrilevanti di classe operaia e proletariato nei confronti dei quali, le organizzazioni criminali, svolgono un ruolo di controllo e di ricatto per nulla dissimile da quello che il padrone esercita nei confronti dei lavoratori precari. Lo scontro con lo stato non può che comportare lo scontro contro la criminalità poiché l’uno si regge sull’altro. É significativo il fatto che dai “quartieri” verso il centro cittadino si siano precipitati soprattutto i giovanissimi ovvero coloro che non sono stati ancora del tutto catturati dal ricatto che crimine e polizia mettono in atto nei “quartieri”. Certo questo è solo un dato ma che, a Marsiglia, apre una crepa non secondaria verso quel monolitismo totalizzante che poteri “legittimi” e “illegittimi” sembravano in grado di vantare.

Se, 18 anni fa, Marsiglia poteva essere mostrata come il fiore all’occhiello dell’interazione tra crimine e polizia tutto ciò oggi è in gran parte saltato e questa rottura ha posto problemi non solo, e non tanto, all’ordine pubblico ma ha comportato la messa in crisi il nuovo assetto sociale ed economico della città. Per molti versi, infatti, possiamo asserire che i sei giorni di scontri che hanno paralizzato il centro di Marsiglia possono essere considerati alla stregua di sei giornate di sciopero generale totale. Le ricadute economiche non sono state di certo inferiori a quelle politiche anzi, per molti versi, sono state anche più consistenti e non ci riferiamo ai saccheggi bensì al ciclo economico interamente fondato sul turismo. Una esagerazione? Non proprio se teniamo presente, come posto in evidenza negli articoli pregressi, quanto Marsiglia si sia repentinamente trasformata in città turistica e il peso che il turismo riveste per l’economia della città. Per sei giorni il centro turistico di Marsiglia è stato paralizzato e i turisti invitati a allontanarsi.

Di colpo quella sorta di valore aggiunto, Marsiglia la città pericolosa, che le agenzie turistiche sbandierano nei loro “pacchetti turistici” per attrarre un pubblico affamato di “colore” al quale, al contempo, garantiscono che questo “colore” è ben confinato e presidiato da una militarizzazione permanente, si è riversato proprio in quei non – luoghi dove croceristi di infimo ordine giocano alla “classe agiata”. Con ciò l’intero “pacchetto turistico” è venuto meno, le sbarre dello zoo sono state divelte e la fuga rapida e repentina è stata la sola via possibile per i turisti. Un enorme danno economico immediato con ricadute non secondarie sul futuro poiché nulla garantisce che quanto accaduto una volta, torni a ripetersi e, con ogni probabilità, in forma ancor più radicale.

Paradossalmente, dopo tanti libri e seminari sulla “gentrificazione” e la “turistizzazione” della città, i petit hanno portato in strada ciò che sembrava destinato a essere sepolto nelle biblioteche o in qualche angusta aula accademica del resto, nella battaglia, di professori e studenti universitari non si è avuto traccia il che, fatte le tare del caso, ci conduce a una consuetudine molto italiana, professori e studenti universitari riempiono le aule per i corsi e i seminari sulla Autonomia operaia ma non si vedono mai nei “picchetti operai” il che non fa che ricordarci come tutto il mondo sia paese.

Negli articoli precedenti avevamo individuato come la trasformazione di Marsiglia in città turistica fosse uno degli aspetti centrali dell’attuale ciclo di accumulazione e come proprio il proletariato dei “quartieri” incarnasse la forza lavoro sulla quale farlo prosperare. Bisogna riconoscere che, per quanto poco cosciente, l’azione dei petit è stata in grado di colpire il cuore del progetto politico ed economico. Non è tutto, ma è certamente qualcosa. In tutto ciò vi è un’altra particolarità che ha caratterizzato Marsiglia rispetto al resto della Francia, qua l’assalto alle merci è stato predominante.

I petit più che i simboli del potere hanno preso di mira la ricchezza. Ogni tipo di merce, dalle auto alle moto, dalle scarpe ai cellulari, dai vari brand alla moda senza tralasciare tabaccherie e supermercati è stato prima razziato e subito dopo venduto. Chi era presente agli espropri racconta di come, nelle vie immediatamente adiacenti agli esercizi commerciali presi di mira dai petit, venissero immediatamente allestiti dei “mercati” dove gli oggetti in eccedenza venivano subito monetizzati. Tutto ciò ci porta a affrontare una questione che colpevolmente abbiamo del tutto tralasciato nei nostri articoli, la “questione della merce”, un tema centrale della teoria marxiana che, e non da oggi, è stato costantemente ignorato.

Liquidato come “civetteria hegeliana” il paragrafo del Primo libro del Capitale a proposito del carattere di feticcio della merce è stato raramente oggetto di un qualche interesse poiché farlo avrebbe obbligato a una lettura del testo marxiano ben distante dallo “oggettivismo” e “scientismo” che ne ha caratterizzato lettura e divulgazione. Relegato a dotta nuance il paragrafo sulla merce se una qualche fortuna ha avuto lo deve a autori dichiaratamente apocrifi quali, per esempio, Benjamin, il giovane Lukács, la Scuola di Francoforte o alcuni ambiti della “critica ultra radicale” come il situazionismo. Eppure la merce incarna il regno del capitale nella sua totalità e sarebbe impensabile che il suo potere e il suo “fascino” lasciasse immuni proprio coloro che la merce producono.

Certo, la merce è alienazione ma l’alienazione è la cornice esistenziale all’interno della quale si dipanano le vite dei proletari, il legame contraddittorio con la merce non può che essere il frame totalizzante della vita proletaria. Non deve stupire, per tanto, che la bramosia per il possesso delle merci infiammi il desiderio proletario. Una storia che quanto andato in scena a Marsiglia ha ben poco di nuovo poiché, solo tenendo a mente la storia dei vari riots dell’era attuale, si presenta come una costante.

Ma tutto questo cosa ci racconta? Molto prosaicamente che il proletariato ha ben poco a che spartire con il “socialismo francescano” e che , in tutto ciò, il rapporto con la merce assume un ruolo centrale. Per molti versi occorre riconoscere che, al pari della religione e, almeno nei nostri mondi, in maniera ancora più dirompente la merce è , al contempo, tanto l’oppio dei popoli quanto il gemito degli oppressi. Solo tenendo a mente la relazione dialettica presente nella “forma merce”, come del resto Marx aveva ben spiegato, diventa possibile interagire con il proletariato poiché. come non è possibile sconfiggere il pensiero religioso facendo leva sul razionalismo illuminista, così non è possibile liberarsi del fascino delle Adidas attraverso dotti sermoni sull’alienazione.

Un secondo aspetto che sembra difficilmente contestabile è l’organizzazione della “forza” su base territoriale. I petit si muovono a partire dalla loro appartenenza territoriale, da quella “forma gang” che sembra essere la loro principale forma di aggregazione e socializzazione. Non siamo in grado di dire molto su ciò perciò, evitando di ricalcare le orme consuete dei sociologi la cui occupazione principale è discettare su ciò che non conoscono, ci limitiamo a rilevare come questa forma organizzativa, sul piano del confronto militare, sia stata in grado di porre letteralmente in crisi la polizia che non riusciva mai a entrare direttamente in contatto con gli autori delle azioni i quali, una volta portato a termine l’obiettivo prefissato, riuscivano facilmente a dileguarsi ponendo in atto il noto principio maoista di apparire all’improvviso per poi ripiegare velocemente.

Certo, è ben difficile che i petit conoscano Mao o le varie tecniche di guerriglia urbana o meglio non le hanno studiate ma le hanno apprese attraverso quella trasmissione di “sapere orale” presente nei “quartieri”. Appare esattamente qua quella “memoria delle lotte” che attraversa varie generazioni di petit e che sembra essere un elemento fondativo del loro “romanzo di formazione” . Un aspetto del tutto ignorato dalle scienze sociali con la sola eccezione dei lavori di Bugliari Goggia, Rosso banlieue e La santa canaglia, che sembrano essere tra i pochi, se non unici, lavori di ricerca in grado di raccontare qualcosa di sensato e reale sulle vite e le storie del “popolo dei quartieri”. Testi che mi permetto di consigliare a chi è interessato a una lettura “empirica” di questi mondi deprivata dall’insieme di “ismi” che, per lo più, accompagnano le “profonde riflessioni” sociologiche sui mondi della banlieue insieme a tutte le amenità che si portano appresso.

Sul territorio e il suo ruolo, non per caso, ci siamo soffermati in numerosi passaggi degli articoli precedenti all’interno dei quali evidenziavamo come, in virtù delle trasformazioni radicali avvenute all’interno delle relazioni industriali contemporanee, il territorio, più che il luogo di lavoro fosse in grado di assolvere al ruolo strategico di contenitore della “forza” operaia e proletaria. Quanto andato in scena in questi giorni ne rappresenta più di una conferma. Appare del tutto irrealistico pensare, cosa abituale in un passato ormai lontano, a decine di migliaia di operai che escono dalla fabbrica per marciare verso il centro cittadino o i quartieri della borghesia piuttosto a masse operaie e proletarie che dal “quartiere” si riversano su centri del consumo, della ricchezza e del potere. Quanto andato in scena, di ciò, ne è una prosaica conferma.

Veniamo infine alla “questione polizia” e militarizzazione del territorio. Su questo aspetto ci siamo a lungo soffermati negli articoli precedenti evidenziando come, per la “popolazione dei quartieri” la polizia e il suo fare dispotico, razzista e colonialista rappresentasse una questione di vita o di morte. La rivolta ha avuto la polizia, insieme alle merci, come obiettivo principale e il bilancio che i petit offrono, almeno ciò è quanto abbiamo appreso dai nostri corrispondenti, delle battaglie è quanto mai positivo. La polizia è stata sostanzialmente ridicolizzata e posta sotto scacco. I petit hanno letteralmente svuotato il centro e la polizia non è stata in grado di impedire neppure un esproprio. Con ogni probabilità, in tutto ciò, vi è sicuramente qualche enfasi di troppo ma indubbiamente, al momento, i petit hanno vinto la battaglia, che però, è ancora molto lunga ed è palese che la risposta dello stato non si farà attendere.

La guerra civile è iniziata e le sue avvisaglie sono ampiamente in atto. Di ciò il comunicato dei sindacati di polizia che riportiamo non lascia ombre di dubbio. Senza troppi rigiri di parole la polizia dichiara: “Questa è una guerra e noi siamo in guerra”. Ciò che si è visto nelle strade, del resto, lo conferma appieno. Avevamo notato come, in relazione al movimento sulle pensioni, la polizia operasse con “il freno a mano tirato” mentre, questa volta, non solo ha tolto il freno a mano ma abbia innestato, sin da subito, il turbo. La cosa non deve stupire poiché siamo “semplicemente” di fronte alla declinazione interna del frame bellico che fa da sfondo all’agire degli stati imperialisti contemporanei.

La Francia è un paese in guerra e non solo per il suo coinvolgimento nel conflitto ucraino bensì perché il suo esercito è impegnato in tutta una serie di conflitti, soprattutto in Africa. La guerra è la cifra del presente e, per forza di cose, alla guerra esterna fa da contraltare la guerra interna. La pacificazione a ogni costo, non a caso il governo ha preso seriamente in considerazione il passaggio allo “stato di eccezione”, è l’obiettivo dello stato. Su ciò non bisogna cullare mene democratiche, non solo lo stato utilizzerà appieno la forza, ma la stessa società francese si sta attrezzando per la controrivoluzione preventiva.

La discesa in campo delle “ronde fasciste” ha ben poco di nostalgico e folclorico ma incarna l’organizzazione militare dei civili che si stanno attrezzando per condurre la loro battaglia di classe. Le “ronde fasciste” sono una storia del presente poiché siamo a “classe contro classe”. Punto. Come si potrà facilmente capire, il comunicato dei sindacati di polizia che segue non ha bisogno di interpretazioni in quanto ha l’indubbio merito di una chiarezza e una progettualità cristallina. Soprattutto là dove si afferma:

Alliance Police Nationale e UNSA Police indignate per la stigmatizzazione di cui sono vittime gli agenti di polizia e le loro rappresentanze sindacali, responsabili e rappresentative, confermano che non accetteranno più calunnie e insulti da parte di certi rappresentanti del mondo politico che hanno cercato di deformare le affermazioni contenute nel comunicato del 30 giugno 2023.
L’affermazione «Noi siamo in guerra» costituisce un’immagine reale delle condizioni in cui si trovano ogni giorno i nostri colleghi sul campo. Siamo ormai posti di fronte ad una vera guerriglia urbana e non a semplici violenze urbane, motivo per cui i nostri colleghi fanno fronte ad un’autentica guerra urbana che intendiamo vincere.
Questa espressione è stata utilizzata in prima persona dal presidente Macron ai tempi del Covid, ma pochi allora si indignarono per il suo contenuto.
Quando le nostre organizzazioni evocano la resistenza intendono parlare di resistenza sindacale, di future battaglie sindacali, della resistenza di cui danno prova i nostri colleghi quando fronteggiano coloro che intendono seminare il caos. Caos voluto da coloro che intendono nuocere ai valori della nostra repubblica.
Alliance Police Nationale e UNSA Police continueranno la battaglia per difendere i valori della Repubblica, le istituzioni e per difendere gli agenti di polizia da tutti coloro che intendono annientarli.

Intorno a questo documento, come testimoniano le “ronde” ma forse ancor più l’oltre milione e mezzo di Euro raccolti in pochi giorni per sostenere il poliziotto killer, si vanno coagulando non le “forze della reazione” bensì il fronte di classe della borghesia. Non abbiamo parlato di guerra civile per dare aria ai denti, ma avendo chiaramente a mente come, quando il conflitto di classe raggiunge una certa soglia, è l’intera società borghese che si militarizza e la formazione di novelli “corpi franchi” risponde esattamente alle esigenze dello “stato di eccezione”. A Marsiglia, nel frattempo, si registra un morto, colpito al petto qualche sera fa da un “proiettile di gomma”, mentre un altro, sempre vittima della medesima arma, è in fin di vita.

Concludiamo questo nostro intervento riportando il testo prodotto dai militanti che sono stati i principali artefici degli “articoli marsigliesi”. Un testo che, chi scrive, condivide in gran parte perché convinto, come più volte asserito, che ciò che ci aspetta è una lotta di lunga durata e che solo una sintesi organizzativa capace di trasportare la soggettività di classe dentro l’azione della soggettività politica sia garanzia di successo. Sappiamo anche che, la prossima volta, sarà peggio su entrambi i lati della barricata. La guerra civile è iniziata e dentro questa “porta stretta” saremo obbligati a passare.

Per i giovani teppisti della lotta di classe

In questi giorni la Francia è attraversata da rivolte e saccheggi. La scintilla è stata l’uccisione di un giovane (17 anni, di origine algerina) da parte di un poliziotto (un ex militare). Questa morte ha scatenato un’ondata di mobilitazioni in tutte le principali città della Francia. Giovani, giovanissimi (tra i 10 e i 20 anni) sono scesi in strada. Si susseguono saccheggi, assalti di edifici pubblici e privati, distruzione di auto e veicoli della polizia. La rivolta ha costretto il governo a imprigionare il poliziotto che ha ucciso il ragazzo. È interessante notare che la polizia si lamenta della tecnica di guerriglia urbana utilizzata dai rivoltosi (piccoli gruppi che si muovono e non cercano di affrontare la polizia), che consente una maggiore “libertà di movimento” da parte dei rivoltosi. Ciò non ha impedito alla polizia di arrestare più di 3.000 persone. Sul piano politico, ciò che è accaduto è il risultato di una de-integrazione sociale in Francia e di una proletarizzazione più generale della società. Una tendenza che, secondo noi, si estende a tutta l’Europa. La particolarità francese è che ci troviamo in una zona in cui la dimensione di classe è intrecciata con la dimensione “razziale” legata alle logiche coloniali vecchie e nuove. I giovani che hanno partecipato alla rivolta e ai saccheggi erano per lo più giovani francesi di origine africana. Le risposte del governo sono state disordinate, superate dalla velocità con cui si sono svolte le manifestazioni, l’attacco di Macron contro le famiglie in Francia che non sorvegliano i loro figli è significativo…. . Non solo i giovani sono stati criminalizzati, ma anche i genitori sono stati accusati. È una confessione involontaria del governo sulla frattura sociale nella società francese. Quando la stessa istituzione borghese della famiglia è rimessa in discussione dal governo… Alcuni sindacati di polizia hanno chiamato alla guerra civile, sebbene queste proposte siano contestate dal governo, hanno evidenziato una tendenza interna alla polizia in Francia. Se l’esercito diventa sempre più una forza di polizia da inviare all’estero, la polizia diventa una forza militare per controllare e «conquistare» il territorio interno. Il governo e le diverse forze politiche hanno invocato la pace e il dialogo, usando un po’ di tutto, dalla squadra di calcio nazionale francese ai tifosi organizzati come quello dell’OM a Marsiglia… l’importante è il ritorno alla calma borghese. Il nostro ruolo come comunisti rivoluzionari, non deve essere quello di gridare, di utilizzare le vittime, ci sono già molte organizzazioni in Francia che lo fanno (riformisti e religiosi). Una rivolta è un fatto politico, ma manca ancora di “forza” se non c’è una frazione rivoluzionaria capace di utilizzare questa “forza” in relazione alla lotta di classe (scontro contro l’apparato di potere della borghesia). È dunque importante per noi rimettere al centro la questione dell’organizzazione, il ruolo della sintesi politica (del programma) e il radicamento reale di una frazione di comunisti in seno alla classe (classe vista come reale forza sociale, con tutte le sue differenze e contraddizioni interne). Che si traduce nel nostro ruolo e nella nostra partecipazione ai sindacati, comitati di quartiere, associazioni culturali e sportive, ecc… costruire e partecipare a forme concrete di organizzazione e di solidarietà proletaria. Difendere la legittimità di questa rivolta e le implicazioni politiche, comprendere le ragioni della vendetta di una parte della gioventù francese è indispensabile per coloro che si dichiarano comunisti. Le radicali fratture sociali sono processi inevitabili in una società che si basa sul profitto e lo sfruttamento dell’uomo da parte dell’uomo. I saccheggi, le distruzioni, non sono il socialismo, ma il segno delle contraddizioni di questa vecchia società e del bisogno e dell’emergere di una nuova1.


  1. Redazione di «Supernova», rivista comunista 02 07 2023 revuesupernova.blogspot.com/  

]]>
Cronache marsigliesi / 6: È la lotta che crea l’organizzazione. https://www.carmillaonline.com/2023/06/29/cronache-marsigliesi-6-e-la-lotta-che-crea-lorganizzazione/ Thu, 29 Jun 2023 20:00:03 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=77971 di Emilio Quadrelli

E quando la rivoluzione avrà condotto a termine questa seconda metà del suo lavoro preparatorio, l’Europa balzerà dal suo seggio e griderà: Ben scavato vecchia talpa! (K. Marx, Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte)

Riprendiamo a scrivere dopo che, in Francia, l’ultimo sciopero generale è andato incontro a un colossale flop. Negli articoli precedenti, andando ampiamente controcorrente, avevamo evidenziato i limiti oggettivi che quelle mobilitazioni si portavano appresso e come quella “composizione di classe” non potesse che arenarsi di fronte a un conflitto che si poneva, senza ambiguità [...]]]> di Emilio Quadrelli

E quando la rivoluzione avrà condotto a termine questa seconda metà del suo lavoro preparatorio, l’Europa balzerà dal suo seggio e griderà: Ben scavato vecchia talpa! (K. Marx, Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte)

Riprendiamo a scrivere dopo che, in Francia, l’ultimo sciopero generale è andato incontro a un colossale flop. Negli articoli precedenti, andando ampiamente controcorrente, avevamo evidenziato i limiti oggettivi che quelle mobilitazioni si portavano appresso e come quella “composizione di classe” non potesse che arenarsi di fronte a un conflitto che si poneva, senza ambiguità di sorta, sul terreno del potere. L’anomalia di massa di queste mobilitazioni sono stati i netturbini di Parigi, non per caso a maggioranza di “pelle scura”, i quali sono stati puntualmente messi all’angolo sia dalle organizzazioni sindacali sia da gran parte di quella “aristocrazia operaia” che non ha mai fatto mistero di trovarsi a proprio agio intorno alla “linea del colore” che governa la società francese oltre a percepirsi come “ceto medio”.

La questione della “bianchità”, costantemente eluso dagli irriducibili socialdemocratici e dagli improvvisati estremisti, è riemersa in tutto il suo portato strategico anzi, se la “frattura coloniale” è stato il leitmotiv della società francese del secondo dopo guerra, oggi questa frattura si fa “forma stato” a tutto tondo poiché è proprio intorno alla “linea del colore” che si è riorganizzato il comando. Tuttavia non sempre tutto il male viene per nuocere poiché il “movimento francese” ha sicuramente insegnato qualcosa di importante, l’epopea della mediazione è al tramonto e il rapporto tra proletari e stato non può che darsi sul terreno della “guerra” e del “potere”. “Guerra” perché per il comando le masse subalterne vanno e devono essere annichilite e private di qualunque legittimità politica e sociale per poter essere tranquillamente perimetrate negli impolitici ambiti della marginalità e dell’esclusione; “potere” perché ogni lotta diventa un corpo a corpo tra le classi e il dominio. In questo modo saltano per intero le divisioni tra “lotte economiche” e “lotte politiche” e ogni “lotta economica”, come l’operaismo italiano aveva abbondantemente anticipato, diventa immediatamente “lotta politica”.

Ciò che Macron e il suo governo, attraverso una intransigenza e una determinazione non proprio irrilevanti, hanno voluto esplicitare eludendo ogni dubbio di sorta è stata proprio una affermazione di potere. Di fronte a ciò quel movimento non poteva che naufragare ma, come si è detto, non tutti i mali vengono per nuocere. La sconfitta ha semplicemente ratificato l’archiviazione di una fase storica e di un segmento di classe che la ha ampiamente incarnata, non certo il tramonto del conflitto di classe, piuttosto il contrario. Il comando può, e lo sta facendo, porre in soffitta l’aristocrazia operaia ma non per questo può illudersi di inibire il lavorio della vecchia talpa.

Il comando è sicuramente in grado di esercitare il dominio ma non di porre rimedio alle contraddizioni che il suo sistema si porta appresso anzi, a un occhio minimamente attento, diventa evidente come l’esercizio del dominio sia direttamente proporzionale alla progressione geometrica delle contraddizioni. A fronte di ciò asserire che il “testamento” di Rosa, ero, sono, sarò, potrebbe rivelarsi più che un semplice augurio frutto dell’ottimismo della volontà ma la realistica constatazione della concretezza della ragione ha una sua sensatezza. Tutto questo all’interno di un contesto di guerra che non è più una semplice tendenza bensì il qui e ora dello scenario internazionale.

Certo, a ben vedere, l’Europa non è mai stata in pace tanto che, la stessa espressione “secondo dopoguerra”, fotografa appieno quella “bianchità” propria delle nostre società. L’Europa, e con lei l’insieme dell’Occidente è stata costantemente in guerra con le popolazioni non bianche ed è sulle sue baionette che hanno marciato le politiche imperialiste un aspetto che la fine del bipolarismo e l’affermarsi dell’era globale ha ampiamente enfatizzato. Oggi, però, siamo di fronte a qualcosa di diverso a un vero e proprio salto di qualità della guerra, oggi l’Europa è coinvolta nella guerra in prima persona e la conduzione della guerra interna contro le proprie masse subalterne assume i tratti della complementarietà rispetto alla guerra nel suo insieme.

Guerra interna e guerra esterna sono le due facce attraverso le quali il comando esercita il suo dominio, questa la “porta stretta” attraverso la quale ogni conflitto sarà obbligato a passare. Un compito che realisticamente non poteva e non può essere retto dalla aristocrazia operaia ma solo da un proletariato in grado di assumere la guerra come “cuore del politico”. Se tutto ciò avverrà è impossibile dirlo ma sapersi muovere dentro questa strettoia è il compito di ogni comunista, del resto, per dirla con Blanqui, il dovere di un rivoluzionario è fare la rivoluzione.
Chiusa questa breve premessa entriamo nel merito della questione.

Se, nell’articolo precedente abbiamo provato, in maniera sicuramente tutt’altro che esaustiva, a delineare l’attuale “piano del capitale” oggi, sulla scia delle informazioni che l’inchiesta ci ha fornito cercheremo di dire qualcosa intorno alla soggettività della classe. Con non poche acume Marx, già nel Manifesto, avvertiva come il capitalismo sovvertisse in continuazione non semplicemente la produzione ma tutti gli ambiti e le sfere della vita sociale. Per molti versi il capitale è sin da subito “capitale totale” e il suo divenire non può che darsi sotto le spoglie di una “rivoluzione permanente”. Una rivoluzione che è figlia non solo di quelle che possiamo chiamare le tendenze oggettive del capitale ma, e soprattutto, del conflitto di classe che è il motore stesso dello sviluppo capitalista.

Tutto ciò, ovviamente, non può che andare a intaccare per prima cosa la “composizione di classe” il che ha delle ricadute non proprio irrilevanti. Ciò che abbiamo provato a descrivere e raccontare nelle puntate precedenti ne ha fornito più di una traccia. Queste tracce sono importanti poiché è proprio da queste che è possibile sovvertire un vecchio vizio dell’ortodossia marxista ovvero leggere il divenire storico a partire dal punto di vista del capitale il quale diventa tanto il punto di partenza quanto di arrivo del processo storico. Su ciò si basa l’oggettivismo e il coevo scientismo che ha fatto da sfondo allo storicismo marxista. In tutto ciò il punto di vista della classe diventa un fattore tanto inutile quanto superfluo tanto da renderla una realtà sempre uguale a se stessa. Ciò che per Marx (la classe), in fondo, è assunto come modello ideal–tipico, per l’ortodossia comunista diventa elemento empirico a tutto tondo. La soggettività della classe, a conti fatti, diventa del tutto inessenziale poiché solo attraverso la soggettività politica (il partito) sarebbe in grado di animarsi. Un fare che va oltre l’autismo e si mostra palesemente contro fattuale rispetto al mondo reale e la riduzione a qualcosa di non distante dalla setta talmudica degli innumerevoli partiti e organizzazioni comuniste odierne ne rappresentano il tragicomico approdo.

Vestali di una ortodossia, comicamente declinata in una quantità di chiese da far invidia al burlesco mondo religioso statunitense, passano mestamente il tempo, oltre che nella reiterazione delle liturgie, andando alla ricerca della “vera” interpretazione dei testi. Così come la Bibbia, il Corano, la Torah e il Talmud, a seconda dei gusti, hanno già detto tutto anche i “sacri testi marxisti” sono, in sé, esaustivi si tratta solo di saperli interpretare. Un fare dottrinario il quale, grottesco a parte, dimentica che tutta la storia del movimento comunista è storia di eresie e, sotto questo aspetto, il leninismo è stata l’eresia per eccellenza.

Ogni fase storica non può che rompere con il passato e porre in atto la “sua ortodossia” che risulta, e non potrebbe essere altrimenti, blasfema nei confronti di ciò che l’ha preceduta, ma non solo. Ogni composizione di classe elabora un “punto di vista” che è il frutto di molteplici fattori i quali nulla hanno più a che fare con le retoriche che hanno fatto da sfondo alle epoche passate. Come ricorda Marx è la borghesia rivoluzionaria che, per glorificare se stessa, attinge dalle epoche eroiche del passato tanto che, la Grande rivoluzione, si specchiò nella Roma repubblicana, ma ciò non vale per il proletariato. Le rivoluzioni proletarie stanno sempre sul filo del tempo e benché se con le spalle sono sempre rivolte al futuro, è sul presente che focalizzano sguardi e desideri. A ben vedere, infatti, il famoso vogliamo tutto (e lo vogliamo adesso) degli operai Fiat non era poi così innovativo poiché non era altro, sicuramente sotto altra forma, del sogno comunardo che sparando agli orologi liberava, qui e ora, il tempo e la vita dagli imperativi del capitale o dell’Ottobre che poneva fine alla guerra e consegnava, qui e ora, il potere ai Soviet.

La classe è sempre “immediatista” e non potrebbe essere altrimenti, il che la rende poco prona alle retoriche del “sol dell’avvenir”. La sua “Teologia” è sempre una teologia del presente poiché se “lo stato di eccezione” è la condizione di vita normale degli operai la lotta per la sua abolizione non può che avvenire adesso. Per la classe il “paradiso” non può attendere e per questo non può che elaborare in continuazione una “eresia” in grado di farsi programma di potere del e per il comunismo. In questo senso, allora, si può parlare a ragione di “invarianza” della “linea di condotta” operaia e proletaria ma, una volta riconosciuto ciò, quella che va colta è la dimensione concreto all’interno della quale la “invarianza proletaria” prende forma.

Se pensiamo all’Italia, il paese dove tra gli anni ’60 e ’70 il conflitto di classe ha raggiunto la massima tensione all’interno di un contesto imperialista, è abbastanza facile notare quanto solo le realtà “eretiche” siano state le sole a incarnare le necessità della nuova composizione di classe. Lotta continua e Potere operaio prima, L’Autonomia operaia (con tutte le sue anime), le Brigate rosse e Prima linea dopo sono state le organizzazioni che, alla scala della storia, possono dire di aver rappresentato l’espressione concreta della classe e della sua soggettività mentre la miriade di partiti, partitini e organizzazioni sorte ideologicamente e non materialisticamente sull’onda della lotta operaia e proletaria hanno conosciuto un’esistenza effimera della quale il mondo si è velocemente dimenticato.

Le organizzazioni sopra ricordate, invece, sono state in grado di segnare un’epoca proprio in virtù delle rotture che hanno esercitato nei confronti dell’ortodossia terzinternazionalista verso la quale, invece, tutti gli altri cercavano di farne risorgere i fasti. Un po’ come oggi le varie sette si interrogano su quale sia il modo giusto e corretto di interpretare le scritture in quel periodo gruppi e gruppetti, all’ombra della salma di Lenin ma non della sua teoria politica, si arrovellavano il cervello per rimettere in vita il cadavere della Terza internazionale e più si intestardivano in ciò, più precipitavano nel tragicomico.

Lotta continua e Potere operaio per prime e successivamente le organizzazioni sorte dalle ceneri di queste si caratterizzarono proprio per la rottura con la pur eroica storia della Terza internazionale. L’operaismo constatò, e fu una vera e propria rivoluzione copernicana, la fine della separazione tra lotta economica e lotta politica mentre, le Brigate rosse, decretarono la fine della divisione tra politico e militare. Due passaggi che rompevano radicalmente con tutta una tradizione ma che, alla prova dei fatti, risultarono essere decisivi per ciò che una determinata composizione di classe e coeva soggettività aveva imposto al treno della storia. Con non poca ironia rimane da rilevare come nei confronti di tutte queste esperienze gli ortodossi dell’epoca riversarono tutte le accuse che i leader della Seconda internazionale rovesciarono su Lenin. Le accuse di blanquismo, anarchismo, terrorismo, spontaneismo ecc., andarono a ruba ma il tempo è galantuomo e dei censori dell’epoca non è rimasto traccia mentre quelle organizzazioni fanno parlare di sé ancora oggi.

A partire da questa premessa proveremo a dire qualcosa sulla classe tenendo conto di ciò che i materiali empirici raccolti sembrano raccontarci. Se nell’articolo precedente abbiamo parlato del “punto di vista” del capitale, poiché l’omogeneità del suo progetto sembra uniformare l’intero fronte borghese con buona pace dei “tardo comunisti” alla ricerca di frazioni di borghesia da cooptare in un novello “fronte nazionale sovranista” al fine di ridare fiato al mostro dello stato–nazione, adesso siamo obbligati a parlare dei “punti di vista” della classe.

Già, “punti di vista” poiché ciò che empiricamente ci racconta la classe è una pluralità che solo i ciechi e gli ottusi, o entrambi, non sono in grado di cogliere ma non solo. Se per molti versi ciò è sempre stato vero poiché la classe non è mai stata un tutto omogeneo, oggi a venir meno è l’esistenza di un settore di classe in grado di riunificare sotto la sua direzione l’intero corpo di classe. Oggi nessuna frazione della classe può assolvere a questo compito poiché alcun luogo di lavoro può vantare quella centralità che, per esempio, è stato in grado di esercitare, nel corso degli anni ’60 e ’70 italiani, il proletariato concentrato nella grande fabbrica fordista . La frantumazione del lavoro e il suo essere flessibile e precario ha posto in essere un proletariato la cui esistenza ben poco ha a che spartire con il passato, ma non solo.

Il mondo globale ha fatto saltare, o lo sta facendo, tutte le retoriche europee del “novecento” dando forma e corpo a una tipologia proletaria affine a ciò che possiamo in qualche modo definire proletariato internazionale. Una figura che ha perso, o tende a farlo, la “particolarità europea” per allinearsi, sicuramente con gradazioni assai diverse, a quella massa operaia, proletaria e subalterna attraverso la quale il comando dell’era globale pone in atto i suoi cicli di accumulazione su scala planetaria. Ma questo, andando al sodo, cosa comporta? Partiamo da ciò che la nostra modesta inchiesta è in grado di raccontarci.

Il primo aspetto che pare sensato evidenziare riguarda le piccole rotture che si sono verificate all’interno del corpo sociale che ha dato vita al movimento contro la legge sulle pensioni. Abbiamo visto come, se pur in maniera estremamente ridotta, piccoli gruppi di aristocrazia operaia abbiano rotto gli argini, posizionandosi in maniera del tutto anomala rispetto al grosso del movimento. Blocchi selvaggi e azioni di sabotaggio hanno caratterizzato questa rottura. Non siamo certo in grado, a partire da queste scarne notizie, di ipotizzare cosa e dove porterà tutto ciò, quello che possiamo fare, però, è tentare un ragionamento su questa tendenza. Sicuramente, almeno per ora, la stragrande maggioranza del mondo dei garantiti sembra ben distante dal cogliere il vero senso della posta in palio di ciò che ha rappresentato lo scontro sulle pensioni e continua a coltivare l’illusione che, in fondo, tutto finirà con l’aggiustarsi ma questa convinzione non può che andare in frantumi a fronte di ciò che il “piano del capitale” si è posto come obiettivo strategico. A quel punto i garantiti dovranno prendere atto che o accettano di lottare sui livelli di scontro imposti dal comando o devono rassegnarsi a soccombere.

Sicuramente la parte di garantiti più avanti negli anni, non senza sensatezza, proverà a tirare a campare e a gestirsi una vecchiaia senza troppi scossoni, ma in Francia tra i garantiti vi sono moltissime persone giovani per le quali le trasformazioni in atto avranno conseguenze non proprio irrilevanti e per le quali tirare a campare non sarà possibile poiché, un passo dopo l’altro, la loro condizione sarà sempre più assimilata a quella massa sterminata di “proletariato senza volto” i cui numeri, anche in Francia, sono già maggioranza. Certo questo settore di classe, per condizione e tradizione, non ha grande dimestichezza con determinate forme di lotta ed è sicuramente più moderato del “proletariato senza volto” ma, dalla sua, ha una non secondaria attitudine all’organizzazione e alla disciplina aspetti che, palesemente, sembrano assenti al resto della classe.

Nei probabili scollamenti del prossimo futuro queste attitudini non verranno sicuramente meno e potrebbero essere riversate, sicuramente in maniera non meccanica, sull’intero corpo di classe offrendo loro una base intorno alla quale costruire processi organizzativi il che sarebbe tanta manna per un proletariato più prossimo al riot che alla strutturazione di una lotta di lunga durata. Il tutto senza dimenticare che, questa classe operaia e questo proletariato, trova la sua base di forza dentro i luoghi di lavoro i quali, una volta depurati dalle retoriche prone alla concertazione, potrebbero trasformarsi in luoghi del potere operaio a tutto tondo.

Stiamo sognando? Forse, ma in fondo non è da oggi che ci muoviamo dicendo: “Bisogna sognare!” e siamo pericolosi e realisti proprio perché sogniamo si ma “a occhi aperti”. Quanto appena esposto è sicuramente solo un’ipotesi e una possibile tendenza le cui basi, però, hanno ben poco del fare ingenuo degli eterni acchiappa nuvole, ma affondano le loro radici all’interno dei processi materiali posti in atto dal comando stesso perciò: chi vivrà, vedrà!

Detto ciò proviamo a dire qualcosa intorno al caos che fa da sfondo alla stragrande maggioranza della classe. Abbiamo visto come le vite di questo proletariato siano ben poco stabili per cui lo scavo della “vecchia talpa” non può avere un cammino lineare. Rispetto all’epoca che ci siamo lasciati alle spalle una prima cosa sembra centrale: il territorio più che il luogo di lavoro può essere il punto di forza della classe. Siamo cresciuti in epoche in cui il “potere operaio” di fabbrica si irradiava sul territorio dando forza a tutte le componenti del proletariato metropolitano oggi, con ogni probabilità è necessario praticare l’inverso. Se, per tutta una fase, era stato possibile fare della fabbrica un Vietnam oggi quella logica va riversata sul territorio il che non vuol dire abbandonare i posti di lavoro come luoghi del conflitto ma, più realisticamente, prendere atto dei rapporti di forza in atto; del resto, anche nel corso dell’epopea del potere operaio di fabbrica, in determinati contesti era l’esterno a fare da supporto all’interno, il territorio all’officina,

Accanto alla grande fabbrica fordista o alle consorelle di media dimensione erano pur sempre presenti un pullulare di piccole aziende e officine dove i rapporti di forza padroni – classe operaia non potevano certo vantare quelli messi in campo dentro le grosse concentrazioni operaie e che, per molti versi, vivevano una condizione non dissimile da quella che riscontriamo oggi tra gran parte della classe. In quei contesti, per poter vincere, la lotta operaia necessitava di un supporto, tutta la storia delle ronde e delle squadre operaie racconta esattamente questa storia. Per alcuni versi, quindi, molti aspetti del passato sembrano doverosamente convivere con alcuni tratti del presente.

L’organizzazione all’interno dei posti di lavoro rimane sicuramente essenziale, e fortunatamente abbiamo non secondarie avvisaglie di settori precari che si muovono in quella direzione, ma resta pur sempre il fatto che se lasciate a se stesse queste lotte possono essere facilmente isolate prima, annichilite dopo. Perché queste lotte non rimangano invisibili occorre che vengano fatte proprie in maniera militante da ampi spezzoni di classe e questo ci porta a affrontare uno dei temi costantemente emersi nel corso della ricerca: la militarizzazione del territorio.

Abbiamo visto come sia intorno all’industria del turismo che la forza lavoro precaria trova occupazione e come questi luoghi, per assolvere appieno alla loro funzione produttiva, debbano essere forzatamente pacificati. In questi luoghi del conflitto non si deve avere neppure il più lontano sentore. Ciò comporta che, anche una normale lotta “sindacale”, non possa essere tollerata ma non solo perché andrebbe a incrinare quel frame che è l’inizio e la fine della “città turistica”. Qua ogni lotta deve essere rimossa e rimossa deve essere tutta quella parte di popolazione mobilitatasi intorno alla lotta. Tutto ciò, per forza di cose, impone un salto politico e organizzativo, il “diritto alla lotta” può essere esercitato solo attraverso la messa in campo di determinati rapporti di forza e questi rapporti, senza girarci troppo attorno, comportano anche la strutturazione di una “forza operaia” in grado di arginare e incrinare le logiche e pratiche di militarizzazione intorno alle quali è costruita la “città turistica”.

Abbiamo fatto solo un piccolo esempio che, però, è in grado di evidenziare la complessità che l’organizzazione del nuovo proletariato si porta appresso. La questione della militarizzazione non si ferma a ciò. Abbiamo visto come è dentro il quartiere proletario che si raggiungono i massimi livelli repressivi e militari, ma abbiamo visto anche come, proprio dentro il quartiere, forme di organizzazione più o meno formali prendano corpo. Il quartiere proletario è un concentrato di tensioni e conflitti che la “forma–stato” attuale può solo contenere e reprimere non certo mediare. Lì diventa possibile costruire “forme di potere proletario” che facciano del territorio una sorta di “zona liberata” all’interno della quale lo stato ha sempre più difficoltà a intervenire. Certo, come alcune interviste hanno ben evidenziato, dentro i territori non esiste una sola narrazione piuttosto una molteplicità di “punti di vista” che non possono essere unificati per decreto ma solo attraverso la sperimentazione e la prassi, la sfida è esattamente qua.

Abbiamo visto, e non è un esempio secondario, come le donne e le loro lotte assumano un ruolo sempre più importante nei conflitti contemporanei e, per molti versi, si può anche asserire che le donne rappresentino uno dei punti più alti dello scontro in atto. La loro critica al patriarcato è immediatamente critica al mostro statuale il che non è proprio un passaggio privo di ricadute. Le donne chiudono a ogni illusione sulla “forma–stato” delle cui nefandezze, semmai ve ne fosse ancora bisogno, il “socialismo reale” ha dato ampia testimonianza. Nella pratica e nelle lotte delle donne si afferma un “potere costituente dal basso” che, per alcuni versi, fa riecheggiare quel: Tutto il potere ai Soviet! su cui si era irradiato l’Ottobre ma lo fa in maniera decisamente più radicale poiché, alle spalle, ha una storia e una pratica che ha posto in evidenza come sia impossibile fuoriuscire dai rapporti sociali capitalisti se non si intaccano a fondo le strutture, la famiglia e tutti i suoi derivati normativi in primis, che di questi rapporti ne sono i capi saldi. La lotta contro il sessismo e l’omofobia ne rappresentano un tratto per nulla secondario, infine sono le donne che, quasi all’unisono, pongono la questione della autodifesa e dell’esercizio della forza e non è proprio una cosa da poco.

Un altro aspetto emerso riguarda il retaggio della memoria coloniale e l’assunzione in termini “culturali”, l’ostentazione del “velo” ne è la migliore esemplificazione, di questa storia. Si tratta di qualcosa, almeno per noi, di spiazzante ma che non può e non deve essere liquidato come qualcosa di irrisorio. Abbiamo visto come queste retoriche, significative le interviste che hanno affrontato il tema della prigione, siano in grado di ottenere una certa presa, poiché in grado di fornire una identità forte, tra gli strati più bassi della popolazione postcoloniale e per questo non possono essere liquidate in quattro battute.

In fondo queste retoriche ci dicono quanta “fame di politica” abbiano le masse e questa “fame”, se non trova una sponda comunista, finisce facilmente con l’essere saziata dai vari “fondamentalismi”. Sulla “fame di politica” delle masse si era consumata, e mai come in questo frangente sembra il caso di ricordarlo, una drastica rottura tra Lenin e ciò che passerà alla storia come menscevismo poiché, mentre i menscevichi consideravano l’operaio incapace di andare oltre alla “lotta per il copeco”, Lenin coglieva il bisogno di politica, che per lui era il bisogno dell’insurrezione, che, anche se in maniera spesso confusa si agitava tra le masse.

Il “gemito degli oppressi” di queste masse, allora, non è altro, pur se in forma alienata , che la richiesta di una prospettiva politica che lo porti fuori dallo “stato di eccezione”. La cooperazione di alcuni di questi dentro le lotte per la casa nei quartieri è di per sé indicativo. Siamo di fronte a un proletariato frantumato che solo dentro la lotta può ipotizzare di ricomporsi e costruire organizzazione, per questo l’inchiesta militante è un momento essenziale della relazione tra soggettività della classe e soggettività politica.

Sulla scia di ciò, senza cullare eccessive aspettative, pare sensato asserire che nonostante tutto la Vecchia talpa sia viva e vegeta. L’autunno prossimo si profila particolarmente caldo poiché l’attacco del comando alle condizioni di vita del proletariato francese conoscerà un nuovo “grande balzo”, la sanità e i suoi costi sono già stati posti nel mirino di Macron. Per quelle date ci auguriamo di riprendere le nostre “cronache marsigliesi” con narrazioni maggiormente entusiaste.

]]>
Cronache marsigliesi / 5: un bilancio. https://www.carmillaonline.com/2023/06/08/cronache-marsigliesi-5-un-bilancio/ Thu, 08 Jun 2023 20:00:40 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=77498 di Emilio Quadrelli

La critica va fatta a tempo; bisogna disfarsi del brutto vizio di criticare dopo. (Mao Tse Tung)

Abbiamo iniziato questo viaggio dentro Marsiglia con le quattro puntate di “Le problème n’est pas la chute mais l’atterrissage. Lotte e organizzazione dei dannati di Marsiglia” per proseguire con gli episodi delle “Cronache marsigliesi”. Con ciò possiamo considerare, almeno per il momento concluso questo lavoro a mezzo tra l’inchiesta e la cronaca. Un lavoro che ci auguriamo di riprendere nei prossimi mesi convinti che, a breve, molti dei nodi, qua evidenziati finiranno con il venire al pettine.

Al [...]]]> di Emilio Quadrelli

La critica va fatta a tempo; bisogna disfarsi del brutto vizio di criticare dopo. (Mao Tse Tung)

Abbiamo iniziato questo viaggio dentro Marsiglia con le quattro puntate di “Le problème n’est pas la chute mais l’atterrissage. Lotte e organizzazione dei dannati di Marsiglia” per proseguire con gli episodi delle “Cronache marsigliesi”. Con ciò possiamo considerare, almeno per il momento concluso questo lavoro a mezzo tra l’inchiesta e la cronaca. Un lavoro che ci auguriamo di riprendere nei prossimi mesi convinti che, a breve, molti dei nodi, qua evidenziati finiranno con il venire al pettine.

Al momento, sulla scia dei materiali raccolti, provare a tracciare un bilancio appare utile. Inevitabilmente il “viaggio marsigliese” si è intersecato con ciò che in questi mesi è andato in scena in Francia in relazione al movimento che ha provato a opporsi alla legge relativa al prolungamento dell’età lavorativa. A partire da ciò proveremo a delineare gli intenti e la “linea di condotta” del comando per, in un secondo momento, parlare degli effetti di questo sul tessuto sociale francese e della composizione di classe, rispetto alla quale abbiamo assunto Marsiglia come elemento paradigmatico, sulla quale abbiamo concentrato i nostri articoli-inchiesta. Infine, ma in un successivo articolo, si proverà a ragionare sulle prospettive, ma anche le contraddizioni, che il “nuovo soggetto operaio” si porta appresso. Delineato l’indice del testo entriamo direttamente nel merito delle questioni.

Cominciamo, quindi, con il parlare del movimento che si è opposto alla riforma delle pensioni. In piena solitudine abbiamo sostenuto che non fosse proprio “tutto oro ciò che brillava” e che gli abbagli presi in Italia a proposito di quel movimento fossero colossali. I più, catturati dall’imponenza delle manifestazioni e dalle non secondarie scaramucce imbastite da alcune frange di manifestanti con le forze dell’ordine, hanno intravisto in quelle manifestazioni qualcosa di non dissimile da un momento pre–insurrezionale. Certo, vista soprattutto la prevalente apatia che serpeggia in Italia, un numero di manifestanti così ampio e il prodursi di qualche battaglia di strada, comprensibilmente poteva far sorgere più di un entusiasmo tuttavia è sempre il caso di ricordare che le insurrezioni o i suoi tentativi presuppongono la presenza di strutture organizzate predisposte all’attacco. Di tutto ciò non si è avuta alcuna traccia per cui parlare di momento pre–insurrezionale appare, come minimo, una forzatura.

Identico ragionamento si può fare se dall’ipotesi dell’insurrezione passiamo a quella della “spallata”. In questo caso non necessariamente deve comparire, se non in forme minime, il conflitto armato ma, sicuramente, occorre l’esercizio di una “forza” in grado di arrecare danni considerevoli al nemico di classe. Perché si possa parlare di fase insurrezionale occorre che quanto emerge nelle piazze sia una lotta contro lo stato e per il potere mentre, nel caso della “spallata”, più modestamente, e forse anche più realisticamente, l’obiettivo è la caduta del governo. Nessuna delle due ipotesi, oggi lo possiamo dire sulla base di una prosaica constatazione empirica, è stata perseguita e questo, altro aspetto non proprio irrilevante, senza che il governo abbia dovuto intervenire in maniera eccezionale. In altre parole il governo, per far rientrare il tutto, non è stato obbligato a alcuna “forzatura emergenziale” non ha dovuto, cioè, promulgare alcun “stato d’eccezione”, affidare un qualche potere speciale alle forze di polizia, porre in stato dall’erta l’esercito, così come nessun restringimento delle “libertà democratiche” (individuali e collettive), nessuna parvenza di coprifuoco, limitazione della libertà di stampa ecc., sono state messe in campo e neppure ventilate. Il governo si è limitato a agire sicuramente con fermezza, ma dando anche l’impressione di mantenere entro perimetri piuttosto bassi i livelli repressivi. A sguardi minimamente attenti, oltre che consci degli abituali livelli repressivi posti in atto dalle forze di polizia nei confronti della racaille, è apparso subito chiaro come la polizia si sia mossa con il freno a mano tirato. Evidentemente, e non senza ragione, il governo aveva la netta sensazione di trovarsi di fronte al classico: tanto rumore per nulla. Quelle masse non sarebbero andate oltre. Tutto ciò, del resto, non poteva rientrare negli intenti dei settori di classe che sono scesi in piazza.

Come abbiamo, sin da subito evidenziato, la lotta ha interessato esclusivamente il settore pubblico mentre gli operai e i proletari del settore privato, i precari e i disoccupati ne sono rimasti sostanzialmente estranei. La stessa componente studentesca ha visto una spaccatura simile. A fronte della mobilitazione delle università e delle scuole superiori di élite, la componente studentesca maggiormente legata alla condizione operaia e proletaria, il cui orizzonte è esattamente finire tra le schiere dei non garantiti, ne è rimasta fuori. Il motivo di tutto ciò è abbastanza semplice. L’attacco governativo alle pensioni riguardava, principalmente, quei settori operai e proletari del settore pubblico che, per semplificare, possiamo catalogare come “garantiti” o, per usare un lessico un po’ datato ma non del tutto inattuale, come “aristocrazia operaia”. Un ambito che, in Francia, può vantare numeri considerevoli oltre che postazioni di forza e di potere non secondarie. Questo settore può vantare condizioni salariali, lavorative e previdenziali invidiabili e, se paragonate a quelle italiane, addirittura inimmaginabili. Ciò è il frutto di due cose, da un lato l’esercizio e di una forza sindacale costruita con le lotte; dall’altro la possibilità di usufruire di una parte dei profitti che il neocolonialismo francese è in grado di rastrellare, soprattutto in Africa, tramite il Franco CFA o i suoi surrogati. Non è certo una novità il fatto che settori di classe operaia usufruiscano di modeste ma significative parti dei profitti imperialisti e neocoloniali. In Francia, ciò, è quanto mai evidente.

Questi settori di classe hanno provato a difendere, per questo possiamo definirla come una lotta, per quanto corposa, di retroguardia, una condizione che appartiene, sotto il profilo storico, a un’epoca in fase di archiviazione anzi, per essere più precisi, a un’epoca già archiviata dal contemporaneo “piano del capitale” (di ciò l’Italia ne incarna con ogni probabilità il punto più avanzato). Una fase storica segnata in profondità da quel “patto socialdemocratico” il quale, con sfumature diverse, ha fatto da sfondo all’Europa occidentale del secondo dopoguerra. Un patto sicuramente non esente da conflitti, spesso anche molto accesi, dove, però, l’idea della rottura non animava alcuna delle parti in gioco.

Se escludiamo il falò del Maggio e la “anomalia italiana” degli anni ’70, solo paese dell’Europa occidentale dove l’ipotesi della rottura si è concretamente dato tanto da delineare, pur se di breve intensità, lo spettro della “guerra civile”, nel resto dei paesi europei tutto ciò è rimasto sostanzialmente assente. Sovente, questo conflitto, non è andato molto oltre il “simbolico” dove, per “simbolico”, si intende la messa in scena di un conflitto, anche dai toni minacciosi, ma che non va mai oltre la rappresentazione.

L’epilogo di ciò, insieme alla sua infelice conferma, si è avuto proprio nel corso della battaglia per il ritiro della legge sulle pensioni a riprova di come, nella storia, la farsa segua sempre la tragedia. Il 16 marzo, l’opposizione parlamentare, ha interrotto la porta voce del governo alzandosi in piedi e intonando la Marsigliese. Peccato che, a tutto ciò, non abbia fatto seguito alcuna “marcia su Versailles”, alcuna “presa della Bastiglia” e, soprattutto alcuna “formazione di battaglioni”. Prigioniera di un mondo che non c’è più, l’opposizione parlamentare ha fatto ciò che, con ogni probabilità, nel passato sarebbe stato un atto dimostrativo sufficiente per obbligare il governo a una mediazione. Come tutti sanno, le cose sono andate in maniera decisamente diversa. Con ciò l’opposizione ha dimostrato più che la sua inadeguatezza il suo essere fuori contesto. Il canovaccio attuale predisposto dal comando non prevede che in scena vadano “battute” simili e farle non comporta altro che andare incontro a clamorose gaffe.

Con ogni probabilità, Mélenchon e soci, più che intestardirsi con un marxismo–leninismo d’antan trarrebbero maggiori vantaggi dalla lettura di Goffman!!! Una retorica alla quale, del resto, non si è sottratto neppure quella parte di movimento studentesco sceso in piazza. Chi ha seguito le manifestazioni avrà colto, cosa che probabilmente in un primo momento li avrà riempiti di entusiasmi, le non secondarie assonanze con il Maggio, i suoi slogan e le sue parole d’ordine ben velocemente, però, è diventato chiaro come, a conti fatti, la rievocazione del Maggio fosse del tutto in linea con il fare simbolico dell’opposizione in parlamento. Così come non vi è stata alcuna “marcia su Versailles” e il “Quartiere latino” ha dormito sonni tranquilli.

Ironie a parte un dato, che racconta molto sulla realtà di questo movimento, è la totale assenza della questione guerra nelle manifestazioni. Tutto ciò che concerne la guerra, il conflitto interimperialista in corso e le ricadute di questo anche dentro la Francia non ha trovato alcun spazio e, del resto, neppure poteva trovarlo. Il mondo dei “garantiti” o “aristocrazia operaia” che dir si voglia è, e questo da sempre, legato al carrozzone del “proprio imperialismo”, pertanto il conflitto non può varcare una certa soglia a meno che quella stessa condizione non inizi a incrinarsi. Qualche avvisaglia di ciò si è iniziata a intravedere nel corso delle “giornate francesi”, ma di tutto questo ne parleremo meglio nella seconda parte dedicata alla “soggettività della classe”. Prima di passare a parlare del “piano del capitale”, anche perché così diventa più semplice comprendere il senso di quanto asserito, un passaggio sulla scena italiana appare utile.

Per quanto in maniera sicuramente minimale, ma di segno identico, anche in Italia abbiamo avuto il nostro clamoroso abbaglio. Ci riferiamo a quanto andato in scena attraverso il “Collettivo di fabbrica GKN” e alle retoriche consumatesi intorno a “Insorgiamo”. La lotta della GKN era ed è, tra l’altro, non uno ma cento passi indietro rispetto alla Francia. Se, in Francia, la lotta di retroguardia dei “garantiti” mirava a difendere una postazione di forza e di potere dove a primeggiare era il “diritto a vivere” e non a lavorare, la lotta della GKN era del tutto perimetrata intorno a quel “diritto al lavoro”, che in soldoni significava semplicemente cercare un nuovo padrone, proprio di quella “destra operaia” che, in epoche ormai remote, ambiva a “farsi stato”. Tutto interno alla CGIL, per quanto legato a quella ipotetica sinistra della quale non se ne sono mai capiti contorni, programmi e intenti, il “Collettivo di fabbrica GKN” di questa organizzazione ne assumeva per intero tutte le retoriche. Produttivismo, ideologia del lavoro, concertazione senza dimenticare il legalitarismo, la reiterata manifestazione di fiducia nelle istituzioni e così via. Palesemente, nonostante i non pochi ammiccamenti nei confronti del “movimento”, la sua interlocuzione principale rimaneva Nardella (sindaco di Firenze), piddino di formazione renziana, il quale se sicuramente non è Lenin non è neppure lontano parente di Pietro Nenni. Facendosi forte di una consolidata tradizione “consociativa”, propria della “destra operaia”, il “Collettivo di fabbrica” considerava la mediazione istituzionale un atto pressoché dovuto il che non è stato. Ciò che il “Collettivo di fabbrica” non ha compreso è che, per la forma attuale del comando il “patto” con la “destra operaia” ha perso qualunque valenza strategica e, con questo, anche tutto l’insieme di “rituali” che gli hanno fatto da sfondo. L’epoca degli “atti simbolici” è abbondantemente alle spalle e “insorgere” nel nulla, come ha fatto il “Collettivo di fabbrica GKN” trascinandosi dietro gran parte del cosiddetto movimento antagonista, può essere ben chiosato con Sartre L’essere e il nulla. Di tutto ciò la Francia ne ha dato qualcosa di più di una semplice esemplificazione.

Passiamo così a parlare degli obiettivi che il “governo Macron”, il quale ha ben poco di francese ma è parte di prim’ordine del comando internazionale del capitale, ha voluto perseguire con la sua riforma. Come in molti ricorderanno uno spettro, da tempo, aleggiava tra le classi subalterne francesi: “Non fare la fine degli italiani”. Con non poca ragione, queste masse, identificavano nell’Italia il paese che più di altri sintetizzava la macelleria sociale del nuovo ordine capitalista il che con non poche ragioni. Per quanto anche in Francia, negli ultimi anni, si sia assistito al proliferare di politiche neoliberiste che hanno modificato radicalmente la composizione di classe del paese e a un non secondario ridimensionamento delle politiche di welfare, agli occhi di un visitatore italiano la Francia appariva pur sempre come il paese dei balocchi.

Con la mossa sulle pensioni, che ne prevede già immediatamente un’altra sulla sanità, il “governo Macron” intende por fine a quella che, per molti versi, appare come la grande anomalia europea. Ciò che deve essere battuta, ridimensionata e tendenzialmente estinta è proprio quella notevole porzione di classe operaia e proletariato “garantito” che in Francia, e in parte in Germania, incarna al meglio la tipologia delle relazioni industriali provenienti dal ‘900 e non è certo un caso che proprio in Francia e Germania si siano prodotte, proprio a opera di questi settori operai, le lotte maggiori.

In Francia questo settore di classe è ancora troppo vasto e non può più essere tollerato, ma deve essere allineato a quella condizione nella quale, non da oggi, sono state ascritte quote considerevoli di forza lavoro. Precarietà, lavoro nero e disoccupazione devono diventare i “luoghi comuni” delle masse operaie e proletarie senza che alcuna significativa forma di welfare li attenui. Proprio considerando questo il “cuore” del progetto politico del “governo Macron” abbiamo assunto Marsiglia come possibile paradigma del presente. Come abbiamo ascoltato in molte delle interviste riportate negli articoli precedenti, Marsiglia sembra presentarsi come un vero e proprio laboratorio per il “piano del capitale”. A renderla tale, aspetto che negli articoli pregressi è stato posto poco in evidenza, è la sua composizione “etnica”. Marsiglia è una città sicuramente abitata da francesi ma non bianca in quanto la presenza di una popolazione “postcoloniale” sembra essere maggioritaria.

Perché questa condizione ne farebbe il luogo ideale per la messa a punto delle politiche che stanno a cuore del comando? Perché Marsiglia si presta, si potrebbe dire come autentico modello ideal – tipico”, a essere uno di quei “sud del mondo” sui quali si delineano le attuali politiche del comando e del dominio dove “razzializzazione” e “neocolonialismo” sono i presupposti per l’attuale ciclo di accumulazione. Questo è il passaggio fondamentale attraverso il quale diventa possibile comprendere il senso dell’attacco a tutto tondo portato dal “governo Macron” al mondo dei “garantiti”. Marsiglia, quindi, come vero e proprio specchio del presente. Si tratta di una asserzione probabilmente non semplice e persino in apparenza eccessiva che, pertanto, deve essere argomentata.

Per comprendere il senso di questo passaggio dobbiamo chiederci qual è il modello delle relazioni industriali che il comando sta perseguendo. Lo scarto tra il passato e il presente è colossale in quanto da una relazione simmetrica si è passati a una decisamente asimmetrica. Con ciò, non senza ironia, si può asserire che il comando è andato “oltre Marx” poiché ha esattamente posto in mora quel: “A pari diritti, vince la forza” attraverso cui Marx, se da un lato indicava la “forza” come elemento essenziale del rapporto tra le classi (da qua la funzione dello stato come apparato di classe), dall’altro ne presupponeva l’eguaglianza sotto il profilo giuridico–formale.

Figlio del suo tempo e forzatamente eurocentrico, Marx assumeva le relazioni sociali europee come modello universale ponendo, con ciò, tra parentesi tutta la storia coloniale e, con questo, sia il ruolo svolta da questa nella cosiddetta accumulazione originaria e, in contemporanea, i modelli relazionali sui quali si fondava l’esercizio del dominio nei confronti dei colonizzati. Nasce esattamente dentro questo processo la svalutazione, “antropologica” ancora prima che “politica”, di ciò che le retoriche di senso comune inizieranno a definire come “sud del mondo”. Con ciò il “sud del mondo” diventava l’altro e la relazione con questo, si potrebbe dire per “natura”, non poteva che essere di tipo asimmetrico, ovvero regolata esclusivamente sull’esercizio della forza. Con ciò la storia delle masse subalterne europee e quelle quelle extraeuropee non poteva che essere scritta attraverso due sintassi tanto diverse quanto incommensurabili.

Una storia che ha funzionato sino a quando, attraverso i processi di globalizzazione, i rigidi confini che separavano, a quel punto il mondo occidentale dal resto del pianeta, si sono di fatto azzerati. A quel punto, questa volta per davvero, la condizione subalterna ha iniziato a farsi universale e lo ha fatto assumendo nei nord del mondo le condizioni in uso nel sud. Ciò che dagli articoli d’inchiesta abbiamo appreso è la condizione di esclusione e marginalità sociale nella quale versano coloro che compongono i ranghi della nuova composizione di classe così come, al contempo, abbiamo appreso lo svuotamento della città metropolitana dalle attività industriali, confinate nelle vicine “città satelliti”, a fronte del proliferare delle attività turistiche al suo interno. In questo modo la città viene liberata dall’ingombrante presenza dell’industria e della sua classe operaia, il cui confinamento geografico contribuisce non poco a renderla invisibile, mentre frotte di turisti possono “vivere la città”. Un fenomeno, questo, ben conosciuto in Italia. La nuova classe operaia è stata, per lo più, espulsa dalle città diventate, non a caso, anche queste mete turistiche e dislocata in quegli immensi territori un tempo extraurbani ma oggi, a tutti gli effetti, sterminate periferie delle metropoli oppure confinate, in condizioni servili, negli invisibili comparti agro–alimentari. Ma torniamo a Marsiglia.

Riprendiamo un tema ben affrontato in alcune interviste, affrontando il nesso indissolubile che lega militarizzazione, repressione e ciclo economico. Chiunque abbia visitato Marsiglia solo qualche anno addietro e lo rifaccia oggi noterà come militarizzazione del territorio insieme a repressione e confinamento della racaille abbiano conosciuto una crescita esponenziale soprattutto ultimamente quando, dopo anni di governo cittadino di destra, l’amministrazione è passata nelle mani di una giunta di sinistra. Potrebbe sembrare un non senso ma, in realtà, l’effetto di questa trasformazione ha ben poco a che fare con le possibili “visioni del mondo” delle donne e degli uomini politici che governano la città ma ha invece molto a che vedere con i processi economici che l’hanno investita. Come sempre non è guardando ai mondi celestiali delle idee e della politica ma andando a scavare tra gli inferi della produzione che diventa possibile comprendere i mondi reali.

Marsiglia, negli ultimi anni, ha conosciuto una veloce e repentina impennata in chiave turistica. Su ciò si sta rimodellando e lo sta facendo su più piani, al proposito apriamo un doveroso inciso. Il turismo di cui stiamo parlando è un turismo di massa cioè di quella robusta middle class che rappresenta l’ossatura dei vari nord del mondo ed è proprio la relazione e l’empatia con questa composizione di classe a fare da sfondo ai modelli di trasformazione urbana. Per prima cosa, infatti, la sta rendendo una città sempre più simile e omologata a tutte le città del mondo le quali, come da tempo è stato ben osservato dalla sociologia urbana, stanno assumendo sempre più aspetti omogenei. Ciò è estremamente rassicurante poiché, in ogni contesto, il turista può utilizzare la medesima mappa cognitiva.

Il turista non è alla ricerca del proprio “romanzo di formazione”, dove centrali diventano le diversità alle quali si va incontro, ma di un continuo non–luogo con il quale è abituato ormai da tempo a convivere e con il quale si immedesima. In seconda battuta il turista ha fame di “esotico”. I selfie che faranno da testimoni alla vacanza se da un lato dovranno fissare l’immagine delle cattedrali dei non–luoghi, dall’altro dovranno anche “raccontare” i “misteri del viaggio”. Nascono così i luoghi “caratteristici della città”, frutto di una nuova “invenzione della tradizione”, dove il turista può usufruire di una narrazione dove la storia della città, o meglio di una sua particolare zona (il quartiere del Le Panier tanto per fare un esempio particolarmente significativo), è totalmente reinventata e manipolata.

Tutto ciò, è evidente, per poter funzionare ha bisogno di due cose, la totale messa in sicurezza dei territori, per cui tutti coloro che disturbano, o potrebbero farlo, devono essere espulsi; una forza lavoro invisibile e priva di legittimazione sociale prona a assecondare le richieste del mercato. Una forza lavoro flessibile, precaria e continuamente sotto ricatto la cui condizione, per forza di cose, oscilla tra precarietà, disoccupazione e illegalità. Una forza lavoro che, nel momento in cui è inoccupata, deve essere confinata nei “Quartieri Nord” o nelle altre zone di Marsiglia off limits per i turisti. Questo, in sintesi, ciò che il comando, e a uno stadio piuttosto avanzato, sta realizzando.

Tutto ciò, come abbiamo provato a descrivere negli articoli pregressi, ha comportato il delinearsi di una “nuova composizione di classe” che non ha più nulla a che spartire con ciò che abbiamo definito “relazioni industriali novecentesche”. Se questo è il “piano del capitale” occorre pur sempre che, per essere realizzati, si facciano “i conti con l’oste”. Quanto l’oste sia accondiscendente è ancora tutto da dimostrare. Settori di “aristocrazia operaia”, operai industriali del privato, precari, disoccupati e illegali se, per un verso, non hanno ancora elaborato una loro compiuta sintassi mostrano, se non altro, di avere dalla loro una robusta grammatica. Se per il comando le masse subalterne devono essere relegate a forza nel mondo della voce non pochi indicatori sembrerebbero dire che queste masse si stanno appropriando del linguaggio, il loro linguaggio. Esattamente di ciò proveremo a parlare nel prossimo articolo.

]]>
Cronache marsigliesi / 4: l’alba verrà, provate a ripassare https://www.carmillaonline.com/2023/06/01/cronache-marsigliesi-4-lalba-verra-provate-a-ripassare/ Thu, 01 Jun 2023 20:00:41 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=77311 di Emilio Quadrelli

Forse ci sono tempi più belli, comunque questo è il nostro (J. P. Sartre)

Con questo testo concludiamo, almeno per il momento, le nostre “Cronache marsigliesi” pur augurandoci di poterle riprendere al più presto. Se ciò avverrà vorrà dire che questo lavoro poggiava su basi minimamente solide e che il tempo dedicatovi non è andato perso. Alle quattro puntate presenti ne seguirà una quinta la quale tenterà di fare un bilancio “politico” di quanto qua appreso in forma cronachistica e avendo a mente anche i [...]]]> di Emilio Quadrelli

Forse ci sono tempi più belli, comunque questo è il nostro (J. P. Sartre)

Con questo testo concludiamo, almeno per il momento, le nostre “Cronache marsigliesi” pur augurandoci di poterle riprendere al più presto. Se ciò avverrà vorrà dire che questo lavoro poggiava su basi minimamente solide e che il tempo dedicatovi non è andato perso. Alle quattro puntate presenti ne seguirà una quinta la quale tenterà di fare un bilancio “politico” di quanto qua appreso in forma cronachistica e avendo a mente anche i materiali raccolti nelle puntate di “Lotte organizzazione dei dannati di Marsiglia” che Carmilla ha ospitato.

Detto ciò, andiamo subito al sodo. Questa puntata ruota tutta intorno agli esiti dell’incontro nazionale, del 6 e 7 maggio, organizzato dalla rete marsigliese dei precari e dei disoccupati. Un incontro che se da un lato ha evidenziato la concreta possibilità della “messa in forma” di un’organizzazione complessiva della nuova composizione di classe, dall’altro ha altresì posto in luce la non linearità di questo passaggio. A partire da ciò abbiamo costruito l’articolo su due interviste che, a ragione, possono ben esemplificare il senso e i toni del dibattito in corso. Tagliando le cose un po’ con l’accetta possiamo dire che a delinearsi sono due ipotesi le quali, pur condividendo la medesima base analitica, tendono a optare per due ipotesi politiche non proprio identiche. In realtà, ma questa è l’opinione di chi scrive, più che in contrapposizione dovrebbero essere complementari anche se, a prescindere dal punto di vista dell’autore, occorre dare conto di dette differenze.

Per semplificare possiamo dire che da un lato vi è una visione molto più “partitica” e “ortodossa”, dall’altra una “movimentista” ed “eretica”. Cominciamo con l’ascoltare L. R. , infermiera precaria e avanguardia politica a tutto tondo della rete dei precari e dei disoccupati, la quale, nel dibattito in corso, incarna significativamente la tendenza maggiormente ortodossa. Per riprendere il filo del discorso siamo ripartiti da quanto andato in scena in Francia e le prospettive di quel movimento per calarci, subito dopo, sulle giornate del 6 e 7 maggio e le ipotesi che da queste sono scaturite.

Sono passati venticinque giorni dal Primo maggio e, a quanto pare, non sembra esservi più alcuna traccia di tutta quella mobilitazione che sembrava dover rovesciare Macron e il suo progetto. Voi siete stati sempre molto cauti sulle reali possibilità di questo movimento e i fatti sembrano darvi ragione. Molto sinteticamente puoi provare a fare un bilancio di tutto ciò?

Direi che si è avuta una conferma di ciò che noi, pur standoci dentro e cercando di far convergere nelle manifestazione anche quella fetta di classe operaia e proletariato rimasta in disparte, abbiamo detto sin da subito sulla natura di questo movimento. In piazza è scesa sostanzialmente l’aristocrazia operaia in difesa di una sua condizione. Questa lotta aveva almeno due limiti, da un lato non era in grado di parlare al resto della classe operaia e del proletariato, e diciamo anche che non ha provato a farlo, dall’altro non ha compreso minimamente la cornice nella quale si muoveva. L’attacco di Macron era un attacco tutto politico finalizzato ad azzerare le postazioni di forza e di potere che questi settori di classe erano, e in parte sono, in condizione di esercitare. La cornice non era quella dello scontro sindacale ma del conflitto politico, insomma una questione di potere. Ciò era, ed è, molto chiaro al governo ma non lo è stato per nulla per chi è sceso in piazza. L’idea, per spiegarsi, da parte di chi è sceso era un po’ questa: Ora gli facciamo vedere che siamo incazzati e questi fanno marcia indietro. Il governo, invece, è andato avanti e chiaramente, di fronte a ciò, si sarebbero dovute fare altre cose, bloccare, e non per un giorno, la Francia, si sarebbe dovuto generalizzare la lotta e prendere atto che si andava incontro a uno scontro di potere e quindi costruire degli organismi di potere in aperta rottura con lo stato. Che questi settori di classe potessero approdare a scelte simili era, però, del tutto improbabile. Questi settori di classe non sono anticapitalisti e non lo sono per natura quindi era, come si è dimostrato, del tutto improbabile che potessero arrivare a simili conclusioni. Diciamo che l’errore è stato un errore di fondo, non aver compreso che lo scenario politico è del tutto cambiato e che la borghesia imperialista non ha più alcuna intenzione di governare attraverso una perenne mediazione. La fermezza di Macron è stata quanto mai significativa. Con la riforma delle pensioni ha aperto una breccia enorme e a partire da questa sarà in grado di dilagare e, passo dopo passo, fare fuori tutta quella forza e rigidità operaia che è propria del mondo dei garantiti. Si diceva: Non diventeremo come l’Italia, ma il progetto di Macron è proprio quello di modellare la Francia sull’Italia. Al momento sembra riuscirvi. L’azzeramento della aristocrazia operaia, o di un suo corposo ridimensionamento, è un processo oggettivo dell’attuale sistema capitalista. I tempi di questa destrutturazione non sono certi anche perché molto dipenderà dalle lotte di resistenza che verranno messe in campo ma, questo mi sembra essere il dato obiettivo, la linea del comando è chiara.

Processo, quindi, irreversibile? Dentro questo movimento non si sono avuti segnali che le cose potrebbero andare in altro modo? Insomma i giochi sono fatti?

Non necessariamente. Qualche rottura, non di grandi dimensioni, ma significativa c’è stata. Qua a Marsiglia un gruppo di ferrovieri ha bloccato, nonostante l’opposizione della CGT, la stazione. Questo gruppo ha iniziato a relazionarsi con noi e a discutere il passaggio dentro un’altra struttura sindacale che noi abbiamo individuato nel SUD dove siamo riusciti a costruire un nostro solido gruppo tra i precari della sanità, degli educatori sociali e della ristorazione. Questo, quello della ristorazione, è stato un passaggio molto importante perché, come dirò più avanti, ha posto le premesse per l’organizzazione di un settore di classe che a Marsiglia è molto ampio. Oltre ai ferrovieri vi è anche un gruppo di postali che, nel corso di questa lotta, ha rotto con la CGT e ha iniziato a parlare con noi, non per fare la rivoluzione, sia chiaro, ma per trovare una struttura dove poter difendere la propria condizione. Quello che è successo a Marsiglia è successo anche altrove, Lione tanto per dire ma anche a Lille e pur Parigi anche se di Parigi non ne sappiamo molto, dobbiamo però tenere presente che, al momento, si tratta di rotture di gruppi di avanguardie non ancora in grado di tirarsi dietro la gran massa interna alla CGT. La cosa che non bisogna fare è crearsi delle facili illusioni ma avere la consapevolezza che ciò che dobbiamo svolgere è una attività il cui scenario è la lotta di lunga durata senza illuderci che di colpo vi siano delle spallate o almeno delle spallate in grado di incrinare il potere imperialista. Se pensi a cosa sono state la banlieues nel 2005 e nel 2006 e cosa, in concreto, ne è uscito fuori diventa evidente che senza organizzazione e progettualità politica anche le più radicali insorgenze di massa sono destinate al fallimento. Quindi ciò che oggi va privilegiato è un costante processo di lotta e organizzazione finalizzato a costruire quadri politici a tutti gli effetti. Un altro aspetto che occorre tener presente è la prossima scadenza di settembre. Con le pensioni il governo ha inserito un cuneo che proverà a utilizzare, un fronte dietro l’altro. Il prossimo passaggio, una riforma della sanità all’italiana per capirsi, è già in programma per settembre. Lì potrebbero prodursi fratture anche più consistenti, vedremo.

La tua descrizione appare convincente e i fatti, per di più, sembrano confermarlo. A fronte di ciò, tuttavia, rimane irrisolta la “linea di condotta” del resto della classe operaia e del proletariato non garantiti. Questi non sono entrati in gioco ma non hanno neppure mostrato di avere una qualche progettualità alternativa. Come si risolve questo impasse?

Il cuore della questione è, come ti ho accennato, l’assenza di un progetto politico in grado di unificare le lotte e i comportamenti di questi settori di classe. Sotto questo aspetto possiamo prendere Marsiglia come vero e proprio paradigma. Questa città, insieme a tutte le sue piccole città satelliti, incarna completamente la realtà di classe contemporanea. Una realtà che vede sempre meno una classe operaia strutturata e un dilagare di forme di esistenza proletaria che oscillano tra le varie tipologie di precariato, alla condizione di disoccupato senza trascurare le quote di proletariato che entrano continuamente nei circuiti illegali. Questa è la fotografia di Marsiglia che, secondo noi, rappresenta, sicuramente non da sola, il destino delle masse proletarie francesi. Marsiglia non è una città facile tanto che, come certificano un po’ tutti i documenti polizieschi, è considerata una città estremamente pericolosa. Su questo è importante dire qualcosa poiché, la svolta propriamente turistica di Marsiglia, ha comportato processi di militarizzazione del territorio non proprio irrilevanti. Apro questa parentesi perché mi sembra molto significativa. Marsiglia ha sempre avuto questo primato di città pericolosa in Europa anche se qualcuno, sicuramente esagerando, la colloca tra le aree urbane più insicure del mondo. Ciò che è sicuramente vero è che questa città è attraversata da una tensione costante con periodiche esplosioni di rabbia. Rabbia sicuramente impolitica insieme a tutto un insieme di comportamenti illegali che la rendono sicuramente molto poco rassicurante soprattutto se, a differenza del passato, il turismo diventa una delle principali voci economiche della città. Qua si aprono una serie di questioni. Mi accorgo che non sto seguendo il filo della tua domanda. Vorrei dilungarmi su questo perché ha molto a che vedere con ciò che noi facciamo o almeno ci proviamo. Ok?

Sicuramente sì, quello che dici mi pare di estremo interesse, quindi affrontare il tema della militarizzazione, ma non da meno quello di Marsiglia città turistica, mi pare essenziale per comprendere dei passaggi che non sono sicuramente locali. Io vivo a Genova e qua siamo del tutto immersi in uno scenario simile.

Bene. Intanto cominciamo con il dire che cosa significa città turistica e a quale tipo di turismo si fa riferimento. Un certo tipo di turismo di élite vi è sempre stato e questo, per forza di cose, è sempre stato racchiuso in determinati perimetri. Se guardi, la stessa zona centrale di Marsiglia, mi riferisco all’area del Vieux – Port, è sempre stata una zona un po’ a sé che poco o nulla aveva a che spartire con il resto della città. Basta pensare che la zona di Noailles, considerata una zona particolarmente insicura e abitata principalmente da algerini e comoriani, è praticamente a ridosso del Vieux – Port. Questo turismo interagiva poco o nulla con la città. Aveva e ha i suoi locali, i suoi yacht, i suoi alberghi di lusso, gli appartamenti da film e le sue ville. Accanto a questo c’era un turismo diciamo di nicchia, persone attratte da Marsiglia le quali arrivavano intenzionate magari a rimanervi. A questi, volendo, possiamo aggiungervi i francesi poveri, soprattutto di Parigi, che venivano al mare a Marsiglia appoggiandosi ai parenti di qua. Questo turismo, sotto tutti i suoi aspetti, incideva molto poco sulla vita della città. Mi pare abbastanza indicativo ricordare che, un po’ da sempre, in estate Marsiglia, per il suo clima, diventa la meta di molti senza fissa dimora. Vedere persone accampate per le vie della città è abbastanza normale e questo non in qualche luogo fuori dalla vista, ma nel centro stesso della città. Chi, nella bella stagione, arriva a Marsiglia con il treno o il bus e scende per la scalinata di Saint – Charles si ritroverà nel viale adiacente dove incontrerà non pochi accampamenti. Non sto scherzando. Vi sono interi nuclei familiari che, di fatto, vi abitano. Sotto questo aspetto Marsiglia è sempre stata una città molto tollerante nonostante le sue amministrazioni di destra. Questo clima sta ormai decisamente cambiando e la causa è il turismo di massa. Turismo di massa vuol dire trasformare il più possibile la città in una vetrina omologata agli standard propri del turismo di massa. Questo, tra l’altro, comporta due cose. Da una parte rimodellare, sotto il profilo urbano e architettonica, la città su quello che è pensato come modello globale della città ovvero far perdere l’identità storica di una città al fine di renderla simile a tutte le altre; dall’altro inventare e costruire luoghi caratteristici, come nel caso del quartiere Le Panier, del tutto inventati e completamente estranei alla sua storia. A differenza del turismo di élite, che non ama sicuramente dilatarsi ma, al contrario, mira a essere del tutto esclusivo quello di massa deve continuamente espandersi. Questo vuol dire che sempre più aree della città devono essere messe a valore, la militarizzazione del territorio soggiace esattamente a questo passaggio che va colto come passaggio tutto interno al ciclo della produzione. La sicurezza non è un totem fascista ma parte integrante di questo ciclo economico. Se, in tendenza, tutta o gran parte della città deve diventare una meta turistica, la messa in sicurezza del territorio è il presupposto dell’organizzazione capitalista della e sulla città. Se oggi, chi dorme per strada, non è oggetto di scandalo perché non sono i turisti che attraversano quelle strade domani, che è già oggi, lo diventa. Messa in sicurezza del territorio da un lato, ma anche disciplinamento della popolazione e della forza lavoro dall’altro. Questo è l’altro aspetto che il turismo di massa si porta appresso. Militarizzazione significa spingere sempre più a nord coloro i quali sono individuati come classi pericolose ma anche essere un potente deterrente per quella forza lavoro impiegata nel turismo alla quale è negata ogni visibilità politica e sociale a partire, e non è proprio cosa da poco, alla libertà di organizzarsi sindacalmente. L’abbiamo presa un po’ alla lontana ma siamo tornati al nostro tema, il problema dell’organizzazione politica di questi enormi settori operai e proletari. Molti affrontano la questione della militarizzazione come aspetto puramente repressivo e non colgono il nesso ciclo economico – repressione. Lo stato non attua la militarizzazione perché ha l’ansia della repressione, ma militarizza perché questa è funzionale a un determinato tipo di economia. Qua a Marsiglia le amministrazioni di destra avevano determinate forme di tolleranza che l’attuale di sinistra non ha. Questo cosa vuol dire che la destra è tollerante e la sinistra no? La trasformazione di Marsiglia in città turistica obbliga, dal punto di vista del comando, a determinati passaggi e questi passaggi diventano di fatto obbligati per chi è chiamato a gestire la trasformazione.

Stiamo andando oltre il nostro spazio per cui torno su quello che, almeno inizialmente, mi ero prefisso di chiederti. Nel precedente articolo mi avevate parlato di questo incontro nazionale con un insieme di realtà con le quali condividevate molti aspetti. Questo incontro si è svolto il 6 e il 7 maggio. Puoi farmene, per quanto difficile, un resoconto esauriente e sintetico?

Ci provo. Prima, però, vorrei aggiungere una cosa che mi sembra rilevante. Non so se in Italia avete idea di ciò che sta succedendo a Mayotte, che è un dipartimento francese d’Oltremare delle isole Comore. Lì è in corso un conflitto piuttosto duro tra la popolazione e la frazione di comoriani legati alla Francia. A Marsiglia vi è una grossa fetta di comoriani. Questi vivono, per lo più, nella zona di Noailles che è anche una delle zone più povere e considerate insicure di Marsiglia e il conflitto a Mayotte li ha messi in movimento facendo emergere tutta una memoria anticoloniale e antimperialista. Con alcuni di questi, che ovviamente sono per lo più disoccupati e illegali, siamo entrati in contatto e la cosa, oltre a permetterci di entrare dentro Noailles come forza politica e sindacale ci ha rinforzata la convinzione di quanto importante sia un discorso politico sull’imperialismo. Ora provo a rispondere alla tua domanda. Questo incontro ha visto la presenza di compagni provenienti da una quindicina di città. Le realtà più significative sono quelle di Lione, Lille, Grenoble e Saint Etienne perché sono quelle con un maggior radicamento dentro le realtà sociali. In queste quattro città, infatti, sono presenti dei comitati popolari di quartiere che svolgono attività del tutto simili quelle che stiamo portando avanti noi qua a Marsiglia. Non sto a ripeterti delle cose che, in gran parte, ti sono state dette nel corso degli articoli che hai scritto. Diciamo che, grosso modo, per quanto riguarda l’analisi della composizione di classe, la fase politica che stiamo vivendo e così via abbiamo riscontrato punti di vista sostanzialmente comuni. Ci sembrava, e questa è stata la nostra proposta politica, che una delle principali carenze che riscontriamo è l’assenza di una dimensione politica. Mi spiego. Manca una analisi complessiva sulla fase imperialista contemporanea, un discorso chiaro sulla guerra e la Nato, sulla militarizzazione dei territori, sulla questione femminile. Manca una teoria politica senza la quale pensiamo impossibile costruire organizzazione. Allora il primo passaggio che ci siamo dati è fare una rivista che assolva a questo compito. Un giornale non è sicuramente tutto, ma è lo strumento indispensabile per costruire organizzazione. Questo è quanto principalmente è uscito fuori dalla riunione del 6 e 7 maggio. Ora si tratta di andare a una verifica di tutto ciò.

Il punto di vista ascoltato non è il solo emerso nel corso della riunione. Qualcosa di diverso, anche se non apertamente contrastante, emerge attraverso le parole di S. D. una attivista già protagonista nel corso delle Corrispondenze precedenti. S. D., pur condividendo pressoché in toto le argomentazioni analitiche esposte da L. R., sembra propendere per uno sviluppo organizzativo abbastanza diverso. Le sue argomentazioni ci appaiono particolarmente utili, nonché interessanti, poiché, come si ricorderà S. D., sta svolgendo un ruolo importante nell’occupazione abitativa nel Terzo. Le sue sono le parole di “una avanguardia di lotta” la quale, forse più di altri, è in grado di comprendere le varie sfaccettature che fanno da sfondo alla vita delle masse. Il suo essere “empirico” sembra essere ben distante da un empirismo incapace di cogliere la complessità ma, al contrario, proprio in virtù di questo empirismo appare in grado di calarsi per intero dentro la classe, coglierne gli umori e le immancabili contraddizioni così come, proprio grazie a questo empirismo, pone in evidenza quanta importanza abbiano gli immaginari, le culture e le sub culture per le masse subalterne. Se, come noto, non di solo pane vive l’uomo i “punti di vista” dei subalterni vanno colti, interpretati e fatti propri. Questo, del resto, non è una novità. Se pensiamo all’Italia e al peso che, negli anni ’60, hanno avuto le “culture underground” nel definire una certa idea della rivoluzione, nella quale l’antiautoritarismo era diventato il collante unitario di tutto ciò che si apprestava a mettere radicalmente in discussione gli assetti sociali (il che aveva ben poco a che vedere con la tradizione del movimento operaio), diventa non solo ovvio, ma persino banale, tenere presente il punto di vista di S. D. Non ce ne vogliano i comunisti ad hoc ma è indubbio che per una intera generazione operaia i Rolling Stones siano stati molto più importanti di Stalin e i Teddy Boys dei Soviet. Perché oggi dovrebbe essere diverso? Perché oggi lo sfondo culturale o sub culturale che dir si voglia dei subalterni dovrebbe essere ignorato? Pur con tutte le sue contraddizioni, delle quali non è possibile rendere conto nel contesto, la generazione che negli anni ’70, in Italia. ha portato l’assalto al cielo è sicuramente rintracciabile più dentro Parco Lambro che nelle anguste sedi dei vari partitini comunisti già pronti a farsi nuova polizia. Sulla scia di questi presupposti ascoltiamo S. D.

Ciao, a quanto ho capito tu hai una visione delle cose che non coincide esattamente con quanto abbiamo appena sentito. In che cosa tu e non solo ti differenzi?

Allora, intanto faccio una premessa, da un punto di vista dell’analisi concordo interamente con quanto detto da L. R. per cui non starò a ripetere cose già dette. Veniamo invece alle cose sulle quali mi ritrovo meno. L’idea di una rivista, un giornale quello che è va sicuramente bene, ma è sul taglio che ho dei dubbi. Dubbi che finiscono con l’avere a che fare sulla nostra pratica. Ecco la prima cosa che non vorrei fare è un giornale dei e per i comunisti. Di cosa ce ne facciamo? Lo leggiamo tra di noi? Serve al movimento di massa? Non credo. Certo mettere dei punti fermi è importante , non è che si può andare avanti senza avere un’idea il più chiara possibile su dove siamo, cosa succede complessivamente e via dicendo questo è sicuramente un aspetto fondamentale ma non possiamo privilegiare questo aspetto perché così veniamo a perdere la dimensione reale delle masse. Così si finisce con il parlare una lingua che rimane estranea insomma a me sembra che così si finisca con il partire da noi per arrivare a noi e questo sicuramente non va bene. Certo, in questo modo, diventa tutto più facile ma questa scorciatoia che effetti ha? Come si relazione con il movimento reale? Quanto è in grado di raccogliere ciò che, sicuramente in maniera estremamente contraddittoria, proviene dalle masse? La compagna ha parlato delle ipotesi teoriche del giornale/rivista mentre io mi focalizzerei maggiormente sull’iniziativa che stiamo costruendo dentro al Terzo, ovvero aprire una sala boxe anche dentro a quel quartiere. Se siamo arrivati a questo punto, e credo che il bilancio di ciò che abbiamo fatto sia estremamente positivo, è perché siamo partiti dalla classe e abbiamo sempre avuto la classe, nella sua concretezza e non come astrazione, come punto di riferimento. Ecco, per certi versi, mi sembra che corriamo il rischio di rincorrere l’astrazione dimenticandoci della dimensione concreta la quale, come abbiamo visto anche di recente, non è per nulla facile. Sarò un po’ minimalista, ma ciò che maggiormente mi ha convinto della riunione che abbiamo fatto il 6 e il 7 maggio è il collegamento con i comitati popolari di quartiere, i collettivi operai di Saint – Etienne e Lione. Credo che è a partire da queste realtà che diventa possibile costruire organizzazione perché è dentro a queste situazioni che è possibile avere costantemente il polso della classe e interagire positivamente con questa.

Vorrei portare l’intervista su due aspetti. Il primo è perché e in quale prospettiva state cercando di aprire una sala boxe nel Terzo? Il secondo riguarda i problemi , che hai brevemente accennato, che riguardano la complessità e anche la difficoltà che comporta stare costantemente dentro la concretezza della classe.

L’apertura della sala boxe nel Terzo indica la riuscita che l’occupazione abitativa che stiamo portando avanti in cooperazione con gli abitanti del quartiere sta dando dei risultati che vanno di gran lunga oltre le aspettative che potevamo immaginare. Il Terzo, come un po’ tutti sanno, è un quartiere difficile e complicato dove non vi era alcuna presenza politica e sociale. Per molti versi possiamo dire che il Terzo rappresenta l’esclusione tra l’esclusione. Oggi possiamo dire che lì è in atto una sperimentazione politica e organizzativa che potrebbe trasformare questo luogo considerato un po’ da tutti come il quartiere reietto in quartiere di avanguardia. Oggi, a Marsiglia, il Terzo può essere considerato, almeno dal punto di vista territoriale, il punto più avanzato del conflitto sociale. Ciò dimostra come sia necessario andare tra gli strati più profondi della popolazione e per farlo occorre, per prima cosa, essere in grado di ascoltare ciò che da quegli strati proviene. L’apertura della sala boxe è un passaggio che abbiamo discusso dentro al Comitato di quartiere a partire dal fatto che il poter disporre di uno spazio sociale e sportivo è una necessità politica del quartiere e infatti avrà la connotazione di Casa del popolo e non semplicemente quella di Collectif Boxe Massilia. Il fatto che questa richiesta sia stata portata avanti da non poche donne mi pare decisamente importante e qua vorrei aprire una parentesi. Noi stiamo riscontrando un notevole successo tra le donne proletarie. Questo è vero nel Terzo e un po’ ovunque. Questo significa che vi sono tutti i presupposti per costruire una rete femminista operaia e proletaria in aperta opposizione al discorso del femminismo borghese. Uno dei punti centrali di questa organizzazione dovrà essere l’autodifesa e il rifiuto della delega di se stesse agli apparati statali. Sotto questo aspetto alcune indicazioni che provengono dalle esperienze delle donne curde mi sembrano decisamente importanti. Con questo voglio dire che dobbiamo essere in grado di recepire tutto ciò che proviene sia dalla classe, sia dalle esperienze rivoluzionarie del presente. Anche il Black Panther Party quando è sorto era visto come una specie di eresia mentre oggi, tutti e proprio tutti, lo considerano un’icona non dissimile dal partito di Lenin il quale, dal canto suo, ai suoi tempi non è che fosse considerato uno proprio in linea.

Mi hai parlato di contraddizioni e problemi che avete incontrato nel lavoro di massa i quali sono stati oggetto di notevoli discussioni.

Ti parlo di un solo episodio perché mi sembra che sia quello che ha portato al pettine tutta una serie di nodi. Mi riferisco al meeting di boxe, Ladies Boxing Perf’ Marseille che abbiamo organizzato nei Quartieri Nord. Lì sono emerse una serie di contraddizioni non proprio da poco. Il primo è stata la questione del velo. Alcune volevano combattere con il velo. Questo la Federazione non lo consente e quindi è successo un casino. Inutile che stia a entrare nei dettagli della giornata, ciò che importa è come ci rapportiamo alla questione del velo perché è una cosa che, ovviamente, non ci ritroviamo solo nella boxe. Molte ragazze giovani indossano il velo, questo è un fatto. Il velo, poi si può discutere sino a domani su questo, è una forma di identità anticoloniale e antistatuale che le giovani donne, almeno alcune, utilizzano. Possiamo liquidare questa prassi come arcaicità, come aspetto reazionario o addirittura come un comportamento filo-fondamentalista o dobbiamo vederla in un altro modo, ma se optiamo per questo non è che possiamo risolverla con una bella lezione di marxismo. A Marsiglia l’islamismo non ha preso molto ma un po’ ha preso e lo ha fatto perché noi, dico noi comunisti, non siamo in grado di affrontare la questione in profondità e finiamo, anche senza volerlo, con l’approdare nell’islamofobia. Ovviamente dentro il Collectif questo ha aperto un dibattito che non è ancora risolto.
Il secondo casino che è emerso è stato causato dalla sessualizzazione, chiamiamola così, che soprattutto le pugili lesbiche hanno impresso ai combattimenti. In poche parole, così come alcune donne musulmane hanno voluto rimarcare attraverso il velo la loro identità, le pugili lesbiche hanno voluto rimarcare il loro essere lesbiche in un contesto prevalentemente omofobo. E qua un altro bel casino. Certo, ed è la cosa più facile da dire, si può intervenire dicendo: “Questo è un incontro di boxe e tutto il resto non c’entra”, lo si può dire, ma la cosa chiaramente non funziona. Così come il velo è un modo, discutibile sin che si vuole, è un modo per contrastare una discriminazione, ostentare determinati comportamenti sessuali è un modo per rifiutare il ghetto. Ultima cosa lo scontro tra gang. Al meeting erano chiaramente presenti gran parte delle gang e evitare il peggio non è stata certo una passeggiata. Velo, omosessualità, gang possiamo ignorarli avendo per ciascuno di questi aspetti una bella formuletta che risolve tutto, ma così rinunciamo a quote non irrilevanti di classe oppure entriamo in relazione dialettica con questi aspetti. Per farlo devi stare con continuità e costanza dentro le situazioni e con questo torno e chiudo con l’esperienza che stiamo maturando nel Terzo. Non è che lì tutte queste cose non esistano, non è che lì abbiamo trovato la classe fatta a nostra immagine e somiglianza, semplicemente abbiamo cercato di comprendere, interagire, far emergere delle contraddizioni e soprattutto abbiamo posto in atto dei percorsi di lotta perché dentro la lotta le cose si modificano. Questo è ciò che continueremo a fare.

]]>
Cronache marsigliesi / 3: a che punto è la notte? https://www.carmillaonline.com/2023/05/07/cronache-marsigliesi-3-a-che-punto-e-la-notte/ Sun, 07 May 2023 20:00:19 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=77138 di Emilio Quadrelli

Eppur si muove! B. Brecht , Vita di Galileo

Ci siamo lasciati il 30 aprile in attesa del Primo maggio, al fine di verificare che cosa avesse in serbo la situazione francese. Nei due precedenti articoli avevamo evidenziato come non fosse proprio tutto oro ciò che brillava insieme alla quantità di ombre e abbagli che le pur non secondarie luci provenienti dalla Francia finivano per celare. Il Primo maggio è passato e, a sto punto, diventa forse possibile iniziare a trarre un primo, per quanto provvisorio, [...]]]> di Emilio Quadrelli

Eppur si muove! B. Brecht , Vita di Galileo

Ci siamo lasciati il 30 aprile in attesa del Primo maggio, al fine di verificare che cosa avesse in serbo la situazione francese. Nei due precedenti articoli avevamo evidenziato come non fosse proprio tutto oro ciò che brillava insieme alla quantità di ombre e abbagli che le pur non secondarie luci provenienti dalla Francia finivano per celare. Il Primo maggio è passato e, a sto punto, diventa forse possibile iniziare a trarre un primo, per quanto provvisorio, bilancio sul movimento francese. Lo facciamo attraverso le parole di M. L., un uomo del Collectif Autonome Précaires et Chȏmeurs Marseille il quale è sicuramente una delle figure politiche maggiormente significative del Collectif e quella di S. D., del Collectif Boxe Marseilles ma attiva, soprattutto, nel lavoro territoriale la quale, almeno a parere di chi scrive, incarna al meglio quella figura della “avanguardia di lotta” fuoriuscita direttamente dalle esperienze del conflitto proletario. Le interviste possono essere considerate come significative esemplificazioni sia dello “astratto” e del “concreto” sia del “generale” e del “particolare”. Per questi motivi è sembrato più utile e funzionale farle interagire alternandole. Detto ciò partiamo con la prima domanda a M.L.

Per prima cosa vorrei chiederti un giudizio complessivo, quindi tenendo conto di quanto accaduto in tutta la Francia, della giornata del Primo maggio, Parto da qua perché le immagini e i filmati di Parigi ma anche di Lione, in Italia, hanno dato addito a non pochi entusiasmi tanto che, in non pochi casi, si è parlato apertamente di rivolta generalizzata. Questo giudizio, da Marsiglia e dalla Francia, è condivisibile?

No, nella maniera più assoluta. Il Primo maggio francese del 2023 è stato pressoché identico ai normali primi maggi francesi anzi, per molti versi, vi è stato anche un arretramento. Ora provo a spiegarmi. Ci sono stati i soliti scontri con la polizia, le solite vetrine infrante e qualche incendio di auto, una o due a Lione non molte di più. Questa è una cosa che in Francia rientra, e da tempo, in qualcosa che è diventato un rituale. Se prendi i filmati degli altri anni ti accorgerai che sono praticamente sovrapponibili. Dopo poche ore era tutto finito e quindi parlare di rivolta generalizzata mi pare veramente fuori luogo. Mi sembra che siamo completamente dentro alla logica dell’evento e dello spettacolo nello spettacolo. In Francia ci sono gruppi e aree, anche consistenti, che hanno fatto dell’estetica del conflitto il loro orizzonte. In ogni circostanza il problema diventa fare gli scontri, attaccare simbolicamente qualche simulacro del potere per ottenere il massimo effetto mediatico. Queste cose, alle quali noi siamo ormai abituati da anni, lasciano comunque il tempo che trovano perché hanno ben poco a che vedere con la costruzione della forza operaia e proletaria. Del resto questo è un problema che loro neanche si pongono. Il loro agire non è rivolto alla costruzione effettiva di una forza politico – militare operaia e proletaria perché, alla fine, la classe non gli interessa del resto, non per caso, si definiscono ribelli piuttosto che rivoluzionari. Rivolta generalizzata? Il 2 maggio tutta la Francia era al lavoro, ci vuole molta fantasia per chiamare tutto questo rivolta generalizzata. Rendetevi conto, in Italia, che siamo del tutto dentro al mondo del simbolico, un mondo che è proprio del potere e che ha finito con il contaminare anche gran parte del movimento. Se vogliamo, queste cose, almeno come senso non sono molto diverse da quello che si è visto andare in scena in parlamento. L’opposizione si è alzata in piedi a cantare la Marsigliese peccato che si sia guardata bene dal marciare verso Versailles, prendere la Bastiglia e tagliare la testa al re. Mi sembra che Macron non solo goda di ottima salute ma sia anche saldamente in sella. Poi certo c’è anche tutta una parte del movimento che è contro la violenza per principio e che aspira a farsi nuova polizia. Di questi non mi sembra neppure il caso di parlare. Quindi chiudiamo qui la leggenda della e sulla rivolta.

Mi dicevi che, secondo te, vi è stato addirittura un arretramento, perché?

Il fatto che il corteo di Parigi sia stato aperto insieme da CGT e CFDT (Confédération française démocratique du travail)1, è molto significativo. Anche su questo, da quello che leggo, in Italia sono in molti a prendere un abbaglio colossale. Questa esaltazione della CGT, contrapposta alla CGIL, non si può sentire. Ciò a cui punta la CGT è diventare come la visto molto bene nell’ultimo congresso . L’obiettivo, al di là di qualche frase di circostanza, era asfaltare la sinistra e estromettere tutti quei compagni che, sfruttando il vuoto di quadri intermedi che si era prodotto, avevano utilizzato le strutture della CGT per portare avanti pratiche e discorsi che con la linea ufficiale della CGT non c’entravano nulla. Anche noi, quelli che adesso hanno messo in piedi l’organizzazione dei precari, dei disoccupati, delle donne proletarie e le diverse reti interni ai quartieriCGIL e l’abbraccio alla CFDT, sotto questo aspetto, dice tanto. Questo, per chi magari poteva avere ancora dei dubbi, lo si è, per un certo periodo abbiamo sfruttato l’opportunità che nella CGT si era creata ma è stata una esperienza durata solo qualche mese. Sino a quando ci siamo limitati al lavoro sociale, cioè la sala boxe e poco più, abbiamo potuto usufruire dei loro spazi, infatti il Collectif boxe era in una sede della CGT, ma quando abbiamo iniziato a fare un lavoro più politico e sindacale, organizzando appunto i precari e i disoccupati oppure abbiamo iniziato a porre alcune questioni sui quartieri, non ultimo il problema della e con la polizia, siamo arrivati ai ferri corti e per essere del tutto chiari, alle mani. Tra noi e loro non è finita con una espulsione ma con una rissa dove oltre che ai pugni sono volate le sedie e i tavoli. Quello che è successo con noi, in questi giorni, è successo un po’ ovunque. La sinistra è stata fatta fuori e il riallineamento intorno alla CFDT è il dato che emerge. In qualche modo diventa evidente come la CGT intenda accettare il dialogo proposto da Macron il quale, con ogni probabilità, concederà qualcosa ma non certo sulle pensioni e tutto in qualche modo potrà rientrare. D’altra parte credo che sia un passaggio abbastanza obbligato perché vi è una sproporzione enorme tra, chiamiamolo, il “piano di Macron” e le possibilità di risposte che i settori di classe colpiti sono in grado di dare.

In che senso? La cosa non mi è chiara?

Inutile tornare su cosa già dette. Questa lotta è una lotta di un determinato settore operaio e proletario che possiamo definire garantito o aristocrazia operaia. Per sua natura, questo settore di classe, è del tutto interno al modello capitalista anche se, la sua condizione, se la è conquistata dentro lotte e battaglie anche dure ma senza oltrepassare mai un certo limite. La linea di confine di questo settore di classe è ed era la legalità. Per legalità intendo che non si è mai posto il problema del conflitto con lo stato il che non vuol dire che, in termini diciamo sindacali, non abbiano espresso lotte anche molto dure. Però questo è un limite che cozza non poco con ciò che ha in grembo, per semplificare, Macron. Macron vuole azzerare e polverizzare tutte le posizioni di forza e di rendita di questo segmento di classe e, come ha ampiamente mostrato, è disposto a giocare in maniera particolarmente dura. È evidente che la risposta dovrebbe essere di pari livello, ma è proprio qua che nascono i problemi. Può un segmento di classe come questo, che tra l’altro si percepisce come ceto medio, portare lo scontro al livello di Macron? Dovrebbe utilizzare forme, mezzi e strumenti che non stanno assolutamente nella sua ottica. Certo, ed è una cosa importante, anche all’interno di questi settori si vanno delineando alcune piccole fratture le quali, però, al momento non sembrano in grado di contrastare sul serio la gran massa scesa nelle piazze. Tornando al Primo maggio è abbastanza facile osservare come la stragrande maggioranza sia scesa in piazza come se andasse a una festa, una sfilata non certo a innescare una rivolta.

Quindi, a tuo avviso, il settore operaio e proletario strategico è esattamente quello che voi state organizzando?

Sì e anche su questo occorre essere chiari. Molti ci accusano di avere una sorta di innamoramento verso quello che loro chiamano sottoproletariato non capendo che, quello che loro chiamano sottoproletariato facendosi vanto delle categorie marxiste, in realtà è il nuovo proletariato ed è questa condizione proletaria che il comando capitalista tende a generalizzare. Il sottoproletariato ha sempre rappresentato i residui dei processi di modernizzazione tanto che, al suo interno, sono finiti con il confluire sia pezzi di classi sociali stritolate dai salti organici del capitale, sia comparti operai superati dalla composizione tecnica del capitale ma tutto questo cosa c’entra con la condizione del nuovo soggetto operaio e proletario? Questo soggetto è il frutto più avanzato del modello capitalista non certo un residuo del passato. Sotto questo aspetto anche la tradizionale categoria marxista di “esercito industriale di riserva” va svecchiata. La condizione di disoccupato, oggi, ha ben poco di momentaneo e transitorio, ma è una condizione permanente per almeno due buoni motivi: da una parte vi è sicuramente una parte di classe operaia definitivamente espulsa dalla produzione ma la maggior parte dei disoccupati sono, in realtà, lavoratori che alternano costantemente lavoro e non lavoro a seconda delle esigenze del ciclo economico. Ti faccio un esempio molto concreto. Marsiglia sta diventando sempre più una città turistica. Qua apro una parentesi che mi sembra importante. Questo fenomeno non è solo di Marsiglia ma è abbastanza generalizzato. In Italia questa è una cosa che dovreste conoscere molto bene. Tu sei di Genova, una città che conosco abbastanza bene, e avrai ben chiaro quanto il turismo giochi un ruolo centrale nell’economia della città. Il turismo funziona a ondate e quindi è normale che attragga forza lavoro in maniera diversa a secondo dei periodi. In più, il turismo, presuppone una forza lavoro con scarsissima professionalità, continuamente intercambiabile e a costi moto bassi. Diventa evidente, allora, come questo ciclo produttivo impieghi forza lavoro che oscilla costantemente tra lavoro e non lavoro la cui occupazione inteso come luogo fisico, tra l’altro, muta in continuazione. Il ragionamento mi pare semplice. Questa condizione che troviamo nel turismo è in gran parte analoga a quella che possiamo trovare nell’edilizia ma anche tra i metalmeccanici. Noi, come Collectif, abbiamo compagni inseriti in questi ambiti e anche loro attraversano continuamente la condizione di lavoro e non lavoro. Dopo questa breve descrizione torniamo al Primo maggio e a tutto ciò che si sta muovendo in Francia. Torniamo, soprattutto, a quello che per semplificare abbiamo definito come “progetto Macron”. Non ci vuole molto a capire, anche se i più non sembrano in grado di farlo, che Macron vuole allineare la condizione di tutti quei settori di classe garantiti a quella del nuovo proletariato. L’iniziativa sulle pensioni è il cuneo attraverso il quale questo progetto può dilagare. Una volta infranto il tabù il processo andrà avanti e lo farà, questo è molto chiaro, attraverso la costante contrattazione con la CGT. Probabilmente prima che tutto ciò diventi una vera e propria valanga ci vorrà un po’ di tempo, lotte e resistenze ve ne saranno, ma il percorso è tracciato.

Questo vuol dire che la vittoria del “piano Macron” è scontata?

No, per niente tutto però dipenderà da chi, in termini di settore di classe, sarà in grado di prendere in mano la lotta e esercitare egemonia sull’intero corpo di classe. Questa, poi, non è una grossa novità e, almeno per voi italiani dovrebbe essere decisamente scontato. Se l’Italia, almeno per un periodo, è stata la punta più avanzata della rivoluzione in Europa lo ha dovuto al fatto che determinati settori operai sono stati in grado di esercitare egemonia e direzione politica su tutto il corpo di classe. Se il movimento rimane in mano ai settori garantiti Macron non avrà grosse difficoltà a portare a casa il risultato se, al contrario, quella che possiamo chiamare la nuova composizione di classe riuscirà a imporre il suo punto di vista le cose potrebbero cambiare ma, anche su questo, occorre cautela perché questa classe, diciamolo, è abbastanza un casino.

Proprio su quest’ultima affermazione che fa intravvedere come il lavoro all’interno della nuova composizione di classe sia tutto tranne che una passeggiata, lasciamo momentaneamente da parte M. L., per ascoltare S. D. la quale, attualmente, è particolarmente attiva nelle occupazioni abitative del Terzo.

A te vorrei chiedere che tipo di mobilitazione vi è stata nel Terzo a proposito del Primo maggio e quanto il lavoro organizzativo che state svolgendo nel quartiere ha avuto delle risposte tra gli abitanti ?

Molto realisticamente diciamo che vi è stata una risposta a metà, sicuramente delle luci ma anche molte ombre. In piazza abbiamo portato un buon numero di persone, se tieni a mente che questo settore di classe è rimato sempre quasi del tutto estraneo a questo tipo di manifestazioni e, ed è la cosa che a mio avviso risulta più importante, il numero delle donne scese in piazza è stato considerevole. Ovviamente tenuto conto dell’invisibilità abituale a cui queste donne sono costrette. Potremmo anche cantare vittoria, ma farlo sarebbe stupido. Nel Terzo, come sai, abbiamo in piedi questa occupazione che sta dando sicuramente dei buoni frutti e intorno a questa si è costruita una realtà militante importante. L’occupazione è gestita e difesa dagli abitanti in prima persona ed è diventata un momento di socializzazione e punto di riferimento costante della vita del quartiere. Possiamo anche dire che, grazie alla occupazione, nel quartiere vi è vita politica. Ma questo è solo un lato della questione. In realtà, e qua si capisce la difficoltà reale che c’è a costruire un movimento politico dei precari, dei disoccupati e io non mi farei problemi nel dire anche degli illegali, siamo riusciti a portare in piazza neppure la metà di coloro che, invece, stanno attivamente nell’occupazione e, pur con modalità diverse, partecipano all’attività del Collectif. Questo perché, per loro, queste manifestazioni rimangono estranee, non fanno parte della loro storia, della loro vita e non ne capiscono il senso. Ma è anche vero che, nella lotta, le cose si trasformano ma, questo mi sembra il punto centrale, si trasformano e prendono delle pieghe che non devono per forza di cose seguire vecchi percorsi. Siamo di fronte all’emergere di un nuovo proletariato il quale, per forza di cose, avrà modelli, schemi e immaginari diversi dal passato. Questo è ciò che dobbiamo capire. In fondo si tratta di andare sempre a scuola dalle masse. Poi, ti ripeto, possiamo cogliere anche delle cose molto positive, soprattutto a partire dalla presenza importante delle donne.

Vorrei approfondire due aspetti delle cose che hai detto. Partiamo con gli illegali. Che tipo di intervento è possibile ipotizzare nei loro confronti?

Partiamo da una considerazione che serve per comprendere meglio la situazione. Quando parliamo di illegalità parliamo di una situazione la quale, a parte piccole quote, non è stabile. Potrebbe far ridere, ma anche l’illegalità ha la sua precarietà. La maggior parte degli illegali lo è temporaneamente e per il resto tira avanti con lavoretti, spesso in nero. Sono molti, per esempio, i manovali dell’edilizia che stanno in questa condizione. È anche vero che, in molti casi, a prevalere è l’illegalità sul resto ma questo non è un buon motivo per ignorarli anche perché, il farlo, vorrebbe dire tagliare fuori non proprio una piccola fetta di questo proletariato e, per di più, lasciarlo in mano a strutture criminali organizzate che rappresentano esattamente l’altra faccia del potere statale. I rapporti tra polizia e organizzazioni criminali, del resto, non è certo una novità. Nei confronti di queste situazioni molte realtà, mi riferisco in particolare ai compagni che operano nella banlieue parigina con i quali ho un certo rapporto e confronto, hanno cercato, sicuramente in piena buona fede, con un’ottica chiamiamola da assistenti sociali. Hanno formato collettivi sociali, cercando finanziamenti pubblici, al fine di trovare un modo per legarsi ai petit, sono loro quelli maggiormente interni ai mondi illegali, ma non hanno avuto alcun successo. Il motivo è anche semplice, alla fine, dopo tanti bei discorsi l’unica cosa che potevano offrire ai petit era una qualche forma di lavoro precario e sotto pagato. Esattamente la realtà che avevano abitualmente. Non è un caso, quindi, che i petit, per lo più, continuino per la loro strada. I petit continuano a fare gli illegali, a scontrarsi con i flic, a finire in carcere e spesso a morire o per mano delle BAC (Brigade anti-criminalité, create nel 1994) o per dei regolamenti di conti tra loro. Questo approccio, quindi, non funziona e neppure può funzionare poiché, la condizione dei petit, non è una anomalia ma il modello attraverso il quale il capitale governa sulla forza lavoro. Il problema non è trovare delle soluzioni compatibili con questo modello socio – economico, ma lottarvi contro. Lottare contro vuol dire organizzare delle lotte in grado di garantire, sia in forma diretta che indiretta, il salario. Casa e bollette, ne sono una semplice ma significativa esemplificazione ma anche imporre l’abbassamento dei prezzi per quanto riguarda cibo e vestiti rappresentano un ulteriore passaggio. Queste sono le cose che, sin da subito, è possibile organizzare dentro i quartieri. Dopo di che, ovviamente, esiste la questione del salario diretto e della fine della condizione precaria. Questi sono gli elementi unificanti per la gente dei quartieri. Questo il terreno sul quale dobbiamo muoverci, perché solo con e nella lotta possiamo costruire un’organizzazione operaia e proletaria che faccia ottenere dei risultati. Con questo torno un attimo sul Primo maggio. È normale che a questo proletariato che è figlio diretto delle mutazioni radicali del presente, queste ricorrenze dicano poco a questi interessa cosa e quanto una azione, una partecipazione può modificare le loro condizioni, le sfilate commemorative dicono poco. Occorre sempre dare delle prospettive, delle ipotesi, degli obiettivi. Ci sarebbero ancora centinaia di cose da dire ma voglio solo focalizzarmi sulla questione del carcere. Il carcere, non possiamo nascondercelo, è un luogo normale per questo proletariato e lì noi siamo del tutto assenti, lasciando ampiamente spazio al fondamentalismo il quale, invece, dentro le carceri lavora costantemente. A noi, rispetto al carcere, manca una attività come quella delle Black Panther o delle organizzazioni nate dalle lotte nelle carceri italiane negli anni Settanta.

Veniamo alle donne. Mi sembra che questo sia un ambito che offra, a fronte delle indubbie difficoltà, notevoli prospettive. Me ne parli?

Più che volentieri. Nei quartieri le donne sono, per strano che possa sembrare, il vero anello forte. Mentre la popolazione maschile è più prossima alla disgregazione le donne sono quelle che mantengono, o almeno ci provano, i legami familiari e di gruppo. Sono anche quelle che più lavorano e che, proprio in quanto donne e, nel nostro caso, di donne arabe soffrono maggiormente i vari tipi di discriminazione. Questo fa sì che siano proprio loro a svolgere il ruolo di avanguardie di massa e che mostrano di avere più fame di politica oltre a mostrare di saper ragionare in termini politici e organizzativi. Mentre gli uomini vedono tutto e solo in termini di scontro le donne ragionano sull’accumulo di forza, sulla necessità di costruire delle basi solide e durature senza affidarsi agli entusiasmi del momento. Mi sembra importante sottolineare come queste donne proletarie siano del tutto estranee ai discorsi dei vari femminismi che, nei quartieri, non hanno alcuna presa anche perché questi femminismi puzzano di République e loro sanno benissimo quanto la République le sia nemica. Quindi, non è un caso che, proprio sulle donne stiamo concentrando un grosso sforzo organizzativo e politico non solo come ambiti territoriali ma anche come organizzazione dei precari e dei disoccupati.

Sulla scia di quanto ascoltato torniamo a parlare con M. L. Il “concreto” ha messo sul campo non poche questioni che occorre provare a affrontare.

Hai sentito S. D. che ha posto una serie di questioni importanti. In che maniera, come Collectif, ipotizzate di affrontarli?

Cercherò di essere il più sintetico possibile anche se, sulla base delle cose che hai sentito, sarebbe necessario uno spazio maggiore. Bene, veniamo al dunque. La prima cosa che dobbiamo chiarire è che andiamo incontro a una lotta di lunga durata ed è questa lotta che occorre saper organizzare tenendo a mente che la lotta di lunga durata nella metropoli imperialista attuale ha caratteristiche che non possono essere riprese dalle esperienze del passato. Sotto questo aspetto il maoismo è utile, ma sicuramente non riproducibile. Dire questo è però importante perché fa piazza pulita di tutte quelle ipotesi diciamo insurrezionali che vanno sempre alla ricerca di una qualche spallata decisiva. Queste spallate non ci sono e non ci saranno potranno esserci sicuramente dei momenti di altissimo conflitto ma pensare che su quello, e solo su quello, lo stato e il comando crollino è pura illusione. Dobbiamo pensare, quindi, a una lotta di lunga durata dove la forza organizzata operaia e proletaria esercita il suo potere in contrapposizione al potere borghese e statale. Per capirci e pur con tutte le tare del caso possiamo forse parlare di qualcosa di simile al modello irlandese. Quindi centrale è l’organizzazione, ma di quale organizzazione parliamo? Ci sono due modi di concepire l’organizzazione il primo, ed è quello con cui solitamente abbiamo a che fare, mette insieme un gruppo di militanti i quali, seduti intorno a un tavolo e dopo aver formulato tutta una serie di analisi, dicono: Ecco l’organizzazione. Insomma l’ennesimo piccolo gruppo compatto che scimmiotta Lenin. Di queste organizzazioni ne nascono almeno tre al giorno, ma nessuno se ne accorge. L’altro modo di costruire l’organizzazione è quello che non parte dal tavolino ma dalle lotte. È dalla prassi delle masse che diventa possibile costruire organizzazione. Molti diranno che questo è spontaneismo ma, a noi, questo sembra il solo modo per fare interamente nostra la dialettica di Marx, prassi, teoria, prassi. Con ciò, ed è evidente, non sminuiamo il ruolo dei comunisti e dell’avanguardia politica ma questo ruolo ha senso, e funziona perché questo alla fine è ciò che conta, solo se in costante relazione con ciò che la classe esprime. A partire da ciò stiamo cercando di fare un salto tanto politico, quanto organizzativo. Sabato 6 maggio abbiamo organizzato qua a Marsiglia un incontro con una serie di realtà che, in diverse parti della Francia, si stanno muovendo su un percorso simile al nostro. Non pensiamo, e neppure lo vogliamo, uscire da questo incontro dichiarando al mondo: ecco l’Organizzazione, ma costruire dei legami che ci consentano, nell’immediato, di costruire delle campagne di mobilitazione unitarie. Sicuramente il fronte delle donne e anche quello del carcere rientra fortemente nei nostri orizzonti ma, di tutto questo, spero di potertene parlare con più precisione in futuro. Abbiamo lavorato molto per costruire questo momento e vediamo che cosa siamo in grado di raccogliere.

Chiudiamo così questa “Corrispondenza”. Sono troppe le cose sulle quali, in base a ciò che abbiamo ascoltato, occorrerebbe soffermarsi e riflettere. Ci auguriamo di farlo al più presto.


  1. La Confédération française démocratique du travail, o CFDT (in italiano: Confederazione francese democratica del lavoro) è uno dei più grandi sindacati nazionali francesi. Conta il maggior numero di iscritti, e alle elezioni sindacali è secondo dietro alla Confédération générale du travail (CGT).  

]]>
Cronache marsigliesi / 2: qualche luce, molte ombre e tanti abbagli. In attesa del Primo Maggio e dell’arrivo dei “siberiani”. https://www.carmillaonline.com/2023/04/29/cronache-marsigliesi-2-qualche-luce-molte-ombre-e-tanti-abbagli-in-attesa-del-primo-maggio-e-dellarrivo-dei-siberiani/ Sat, 29 Apr 2023 20:00:54 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=77004 di Emilio Quadrelli

Il mondo coloniale è un mondo a scomparti. (F. Fanon, I dannati della terra)

Ci siamo lasciati i primi giorni di aprile evidenziando come, a proposito di quanto stava andando in scena in Francia, vi fosse sicuramente della luce ma anche molte ombre e come, proprio l’insieme di queste ombre, obbligassero a una serie di interrogativi. Interrogativi che, nelle mobilitazioni dal 6 aprile in poi, avrebbero dovuto trovare una qualche risposta. Dal 6 aprile a oggi vi sono stati due nuovi scioperi generali mentre, il 15 [...]]]> di Emilio Quadrelli

Il mondo coloniale è un mondo a scomparti. (F. Fanon, I dannati della terra)

Ci siamo lasciati i primi giorni di aprile evidenziando come, a proposito di quanto stava andando in scena in Francia, vi fosse sicuramente della luce ma anche molte ombre e come, proprio l’insieme di queste ombre, obbligassero a una serie di interrogativi. Interrogativi che, nelle mobilitazioni dal 6 aprile in poi, avrebbero dovuto trovare una qualche risposta. Dal 6 aprile a oggi vi sono stati due nuovi scioperi generali mentre, il 15 aprile, il presidente Macron non ha fatto alcun passo indietro, firmando la legge che, dall’autunno prossimo, vedrà i francesi andare in pensione con due anni di ritardo rispetto a ora. In un articolo precedente (“Cronache marsigliesi. Non è tutto oro ciò che brilla” – Carmillaonline, 3 aprile 2023) avevamo evidenziato come il movimento contro il prolungamento dell’età pensionabile fosse, a conti fatti, molto circoscritto e come, nei suoi confronti, gran parte della classe operaia e del proletariato francese si mostrasse a dir poco tiepida. A uno sguardo minimamente attento era evidente come a scendere in piazza fosse quella quota, in Francia assai corposa, di classe operaia e proletariato garantito occupato nel settore pubblico mentre gli operai del settore privato, i precari e i disoccupati osservassero tutto ciò rimanendo alla finestra. La stessa adesione studentesca vedeva una sostanziale spaccatura tra gli studenti del ceto medio, entrati massicciamente in lotta al fianco dei lavoratori, e gli studenti proletari i quali, con questa lotta, hanno ben poco interagito.

Anche in questo caso, come la volta precedente, i nostri interlocutori sono stati V. R., una ragazza del Collectif Boxe Marseilles, M. L., un uomo del Collectif Autonome Précaires et Chȏmeurs Marseille e una ragazza, S. D., del Collectif Boxe Marseilles ma attiva, soprattutto, nel lavoro territoriale. A questi abbiamo aggiunto M. C, una donna precaria ex gilets jaunes, oggi attiva nel Collectif Autonome Précaires et Chȏmeurs Marseille con la quale ci è parso interessante porre a confronto il movimento odierno con quello dei gilets jaunes.

Iniziamo, pertanto, ascoltando V. R. operaia precaria delle pulizie e abitante nel quartiere Fèlix Pyat notoriamente noto come uno dei quartieri più malfamati di Marsiglia. Ciò che ci sembrava importante capire era il tipo e il grado di coinvolgimento sia dei precari, sia degli abitanti del suo quartiere nelle mobilitazioni e se, dal 6 aprile in poi, vi fossero stati significative modifiche rispetto alle mobilitazioni precedenti.

Eravamo rimasti evidenziando quanto a dir poco tiepida fosse la partecipazione dei precari, dei disoccupati e in generale degli abitanti dei “quartieri malfamati” nei confronti della lotta sulle pensioni. Questo lo constatavamo prima del nuovo sciopero generale del 6 aprile al quale ha fatto seguito quello del 12. Macron, da parte sua, ha tirato dritto e ha firmato la legge che proroga di due anni l’accesso al pensionamento. Tutto ciò ha cambiato qualcosa tra di voi?
Come è facile constatare il movimento si è abbastanza ridotto. Qua a Marsiglia la cosa è stata quanto mai evidente. Questo è anche facilmente comprensibile se consideri il fatto che la città di Marsiglia ha circa 900.000 abitanti dei quali almeno 400.000 vivono nei quartieri segregati e quindi sono precari, disoccupati, illegali o, come spesso succede, tutte e tre le cose messe insieme. Io sono un’operaia precaria delle pulizie, mia madre precaria nella ristorazione, mio fratello è un po’ qua e un po’ là e mio padre, per fortuna, non lo vediamo da anni. Questa mia condizione non ha nulla di speciale ma riflette la condizione media dei nostri quartieri. I nostri problemi chiaramente sono altri, la polizia tanto per incominciare che con noi non simula lo scontro ma ci va giù pesante per qualunque cazzata. Il razzismo della polizia e delle istituzioni e la vita di merda che dobbiamo fare. Io vivo dentro questa realtà e con me la vivono almeno altri 400.000 marsigliesi ed è abbastanza chiaro che questa condizione ha ben poco a che fare con quella di chi è sceso in piazza o meglio il nesso c’è ma non è così facile farlo capire e soprattutto trovare delle convergenze in grado di unificare queste due condizioni proletarie.

Voi, come collettivi precari, di quartiere ma anche come collettivo boxe in questo periodo come vi siete mossi, che bilancio potete fare della vostra attività?
Noi siamo stati dentro a tutte le manifestazioni e agli scioperi organizzando dei nostri spezzoni ma, soprattutto, abbiamo continuato il nostro lavoro di organizzazione e di lotta sui posti di lavoro e nei quartieri. Nel terzo stiamo facendo molto bene soprattutto sul fronte delle occupazioni di case ma di questo è meglio che ne parli con un’altra compagna che dentro a questa cosa ci sta dentro direttamente. Sicuramente possiamo rilevare una nostra crescita perché le lotte che stiamo mettendo in piedi hanno sicuramente un seguito e quindi stiamo portando in piazza anche un certo numero di persone ma, questo bisogna dirlo, rispetto alla gran massa sono solo avanguardie anche se, questo mi sembra importante dirlo, non sono avanguardie politiche in senso generico ma avanguardie di lotta ossia compagne e compagni del tutto interni alle realtà operaie e proletarie. Questo ci permette di guardare all’immediato futuro con un po’ di ottimismo.

Quanto ascoltato offre già un quadro abbastanza preciso della realtà marsigliese. Sulla scia di ciò proseguiamo ascoltando S. D. proveniente anche lei dall’ambito del Collectif boxe e attiva soprattutto nel lavoro di quartiere. Questo ci è sembrato particolarmente importante perché, proprio per le caratteristiche che la nuova composizione di classe riveste, l’ambito territoriale assume un aspetto spesso strategico. Questo per almeno tre buoni motivi. Per un verso l’obiettiva debolezza che le attuali condizioni di lavoro impongono dentro la produzione possono essere ribaltati sul territorio così che, a differenza del passato dove il “potere operaio” di fabbrica si espandeva sul territorio, l’organizzazione della forza operaia e proletaria sul territorio può riversarsi dentro i posti di lavoro del resto, avendo a mente l’Italia, non si tratterebbe di un fenomeno poi così nuovo. Negli anni Settanta furono proprio le ronde e le squadre operaie a supportare dall’esterno le lotte operaie delle piccole fabbriche e aziende dove il controllo padronale e poliziesco inibiva ogni forma di organizzazione autonoma operaia. In seconda battuta, la lotta territoriale, consente di articolare una lotta sul salario indiretto che non è sicuramente meno importante della battaglia salariale sui posti di lavoro. Infine, e certamente non per ultimo, la lotta sul territorio consente di costruire spazi di contropotere effettivo e dare vita a “zone liberate” dove la gestione dello spazio pubblico sfugge al controllo statale. Molto sinteticamente abbiamo parlato di questo con la nostra pugile.

Voi, come precari e disoccupati, pur stando dentro al movimento che sta agitando la Francia avete svolto una attività parallela specificamente rivolta a quel settore di classe che non sembra particolarmente interessato alla lotta sulle pensioni. Potresti spiegarmi, molto sinteticamente, come avete maturato questa scelta e quali tipi di risposte avete ricevuto?
Abbiamo aperto un intervento all’interno del terzo, che è anche il mio quartiere, il quale è considerato uno dei quartieri più poveri d’Europa. È un quartiere prevalentemente arabo dove disoccupazione e illegalità sono ciò che Marsiglia offre ai suoi abitanti. Credo che sia persino inutile ricordare la violenza quotidiana che i suoi abitanti subiscono da parte della polizia, il razzismo che circonda questo quartiere insieme alla sua povertà. Chiaramente in questo quartiere una lotta come quella sulle pensioni non ha senso così come le modalità sostanzialmente pacifiche di questo movimento non hanno molto da dire agli abitanti del quartiere. Qua gli scontri con la polizia hanno ben altro tenore e non sono certo paragonabili a quelli che si sono visti nel corso degli scioperi generali. Insieme agli altri del collettivo di quartiere abbiamo individuato nel problema abitativo uno dei problemi essenziali delle persone che abitano qua. Su questo abbiamo deciso di muoverci. Chiaramente lo abbiamo fatto attraverso un lavoro di inchiesta, cioè non siamo arrivati dall’alto dicendo: “Occupiamo le casa” ma costruendo l’occupazione con le reti che abbiamo all’interno del quartiere. Abbiamo così individuato due stabili e li abbiamo occupati. Sarebbe interessante, e anche utile, raccontare la storia e le dinamiche di questa occupazione ma non è questo il luogo. Ciò che mi preme dire è come la gestione dell’occupazione sia stata ed è una vera e propria “scuola politica” per il quartiere. La sua gestione e la sua difesa è interamente in mano agli abitanti e molti di loro sono già, a tutti gli effetti, delle avanguardie di lotta. Questa prassi consente di costruire quadri e organizzazione. Vorrei aggiungere ancora una cosa che mi sembra veramente importante: il rapporto con le varie gang di zona. Anche qua si apre un capitolo che andrebbe affrontato in altro modo ma, anche se in poche battute, mi preme dire che proprio grazie al lavoro che stiamo facendo siamo riusciti a instaurare un buon rapporto con queste. Queste sono realtà che non si possono ignorare perché migliaia di ragazzi vi sono dentro e si tratta di gente nostra che non può e non deve essere abbandonata al suo destino. Dobbiamo, e lo stiamo facendo, lavorare con il proletariato a partire dalle sue forme concrete e le gang, piaccia o meno, ne sono una sua forma.

Questo, molto sinteticamente, l’aria che si respira tra le fila di quel proletariato che, sino a ora, è rimasto sostanzialmente alla finestra. Sulla scia di ciò passiamo a ascoltare M. C. focalizzando l’attenzione, in particolare, sull’esperienza dei gilet jaunes ponendole a confronto con quanto sta andando in scena in questi giorni.

Per prima cosa, anche se in maniera estremamente stringata, vorrei chiederti cosa ti ha portato dai gilet jaunes al movimento dei precari e dei disoccupati.
L’esperienza con i gilet jaunes è stata molto utile e importante ma aveva un limite la sua incapacità di costruire organizzazione e programma politico tra gli operai e i proletari. In poche parole non aveva, e per sua natura neppure poteva averla, una linea di classe. Questo è abbastanza normale in movimenti che mettono insieme diversi settori e strati sociali e, almeno all’inizio, questo ci sta. Nelle situazioni di crisi entrano in gioco tutti quelli che della crisi sono vittime per cui la genericità del movimento è più che comprensibile, ma se questa genericità si perpetua allora diventa un limite enorme. Questo è ciò che è accaduto con i gilet jaunes. Bisogna rilevare, infatti, che non si è stati in grado di bloccare la produzione, di organizzare uno sciopero generale nonostante, nel movimento la presenza di operai, precari e disoccupati fosse notevole. È indicativo il fatto che le nostre manifestazioni si tenessero il sabato e non avessimo mai neppure pensato di bloccare la Francia in un qualche altro giorno. Inevitabilmente quel movimento, privo di una chiara linea di classe, si è spento. Personalmente avevo iniziato a distaccarmene, nel senso che non avevo più un ruolo attivo e militante, già prima che il movimento si esaurisse e mi sono indirizzata verso l’attività del Collectif Chomeurs Precaires che qua a Marsiglia iniziava a muovere i suoi primi passi. Ho fatto questo perché, come ti ho detto, ciò che ho riscontrato dentro l’esperienza dei gilet jaunes è stata proprio l’assenza di un programma operaio e proletario ma vorrei anche precisare meglio quanto detto proprio perché il collegamento tra l’esperienza dei gilet jaunes e l’approdo al Collectif ha una sua continuità. Come ti ho detto dentro i gilet jaunes vi era una componente proletaria rilevante ma di quale proletariato stiamo parlando? La componente proletaria presente tra i gilet jaunes era proprio quel proletariato precario, disoccupato e quella classe operaia impiegata nel settore privato, cioè la nuova composizione di classe la quale vive una condizione di marginalizzazione ed esclusione politica e sociale. Una condizione che, tra l’altro, mi appartiene. Questo il motivo per cui, dopo l’esperienza dei gilet jaunes, mi sono collocata in una realtà formata essenzialmente da precari e disoccupati. Una condizione che, qua a Marsiglia, è quella ormai maggioritaria.

Sulla base della tua esperienza ci sono, e nel caso di che tipo, delle differenze tra il movimento che sta scuotendo la Francia in questi giorni e i gilet jaunes?
Sicuramente sì, le differenze ci sono e neppure di poco conto. Per prima cosa la composizione di classe. Il movimento sulle pensioni è essenzialmente un movimento legato al lavoro subordinato pubblico le cui condizioni sono del tutto diverse da quelle degli altri operai e proletari. Per capirsi ormai c’è una grossa fetta di proletariato per il quale la pensione è solo un miraggio per cui è ovvio che nei confronti di questa lotta è abbastanza tiepido. Nella loro confusione i gilet jaunes esprimevano una loro radicalità, generica, indistinta, tanto è vero che dentro c’era un po’ di tutto, anche molta frustrazione propria delle classi sociali che più che in via di proletarizzazione sono in via di pauperizzazione anche se, questa è una cosa che in molti non notano, oggi proletarizzazione e pauperizzazione tendono a essere la stessa cosa, insomma per quanto caotico e senza alcuna prospettiva, era un movimento carico di una notevole radicalità. Tutto ciò, nel movimento attuale, non c’è. Basta vedere le dinamiche di piazza e i comportamenti della polizia.

Cioè?
Se guardi a quello che succedeva nel corso dei sabati dei gilet jaunes e a ciò che accade nelle manifestazioni attuali, la cosa è evidente. Il livello di scontro è imparagonabile e teniamo presente, perché è fondamentale, che in quel caso la pratica della violenza aveva veramente una dimensione di massa con anche forme di auto organizzazione non proprio trascurabili. Nel movimento di oggi questo non c’è e i rari episodi di scontri e attacchi, continuamente sovra esposti dai media, sono soprattutto il frutto di alcuni gruppi con l’estetica del conflitto che battaglie di strada vere e proprie. Dei gilet jaunes si può dire tutto, e io non credo di essermi sottratta a una critica anche piuttosto dura nei loro confronti, ma non che avessero l’estetica o la simbologia del conflitto. Nei sabati dei gilet jaunes la battaglia di strada c’è stata a tutti gli effetti. Il comportamento della polizia mi sembra abbastanza eloquente. Oggi la polizia, nei confronti di questo movimento, si muove con il freno a mano tirato sapendo benissimo che, in fondo, siamo di fronte a delle scaramucce e nulla di più. Al proposito basta confrontare il modus operandi della polizia a Sainte – Soline a quello che si è visto nelle piazze recenti. Il livello di scontro è decisamente basso e la polizia, o meglio il governo, si guarda bene dall’innalzarlo. A Sainte – Soline la polizia ha operato dentro uno scenario di guerra perché di fronte aveva un movimento con determinate caratteristiche non certamente prono a una qualche forma di mediazione cosa che, invece, mi sembra si possa tranquillamente dire della stragrande maggioranza dell’attuale movimento sulle pensioni.

Quindi, secondo te, questo movimento non è in grado di radicalizzare lo scontro e non ne ha neppure l’intenzione poiché, alla fine, immagina di poter giungere a una qualche forma di accordo?
La cosa non è così scontata perché la situazione è in movimento e tante tensioni sono nell’aria. Certo è che se a dominare la scena sarà la composizione di classe che ha condotto la lotta sino a questo momento le prospettive non sono delle migliori basta pensare che, il massimo che c’è stato dopo la firma di Macron sono state le battiture delle pentole ma, come ti ho appena detto, la partita è tutt’altro che chiusa perché la possibilità che nell’immediato futuro a scendere in campo siano anche gli altri settori operai e proletari non è così impensabile. Mi auguro che non sia solo una mia speranza.

Giunti a questo punto chiudiamo la seconda puntata delle nostre “Cronache marsigliesi” ascoltando M. L. al quale abbiamo chiesto un approccio maggiormente politico e analitico.

Ciao, la prima cosa che vorrei domandarti è una valutazione complessiva su quanto sta accadendo in Francia e, ovviamente, con un occhio particolare sulla realtà marsigliese. Hai avuto modo di sentire quanto raccontato nelle precedenti interviste per cui ti chiederei, per capirsi, più astratto che concreto.
Intanto cominciamo con il dire che tanto la giornata del 6 quanto quella del 12 hanno visto un certo riflusso. Inutile nasconderlo i numeri sono calati. Il Congresso della CGT ha visto l’affermazione della sua ala più destra che, nell’immediato, ha comportato l’epurazione di tutte quelle situazioni dove militanti di estrema sinistra avevano raggiunto un qualche ruolo organizzativo. La CGT ha asfaltato la sinistra e tutti quegli spazi che per un certo periodo si erano aperti al suo interno si sono chiusi. Vedo che in Italia in molti guardano alla CGT bé dalla Francia posso dire che è un abbaglio clamoroso e lo dice uno che, comunque, non si è fatto problemi a interagire con questa organizzazione. Qua a Marsiglia dove, per la sua composizione sociale, questa lotta è di fatto una lotta di minoranza l’entusiasmo è stato notevolmente ridotto. Gli altri settori di classe non sono entrati in gioco e quindi, tutto quello che quel movimento poteva dare lo ha dato. La natura sociale di questo movimento è per sua natura riformista poiché si tratta di quella composizione di classe che ha il “patto socialdemocratico” nel suo DNA. Quindi, il suo orizzonte, è sempre stato tutto interno al sistema capitalistico il che non significa che questo settore di classe non abbia fatto, almeno in passato, lotte di notevole spessore e radicalità. Sicuramente il “patto socialdemocratico” è stato anche nelle corde della borghesia che su quello ha costruito interi decenni di dominio ma occorre anche ricordare che i termini di questo “patto” sono sempre stati oggetto di una lotta serrata perché la borghesia mirava a costruire un patto al ribasso, concedendo il minimo, mentre gli operai miravano al massimo. Le condizioni di vita di questo proletariato garantito sono state il frutto di lotte e battaglie e, usando un termine che a voi italiani piace molto, una forma non proprio irrilevante di esercizio di potere operaio. Tutto ciò, ovviamente, appartiene alla storia di ieri perché il modello capitalistico attuale non prevede alcuna possibilità di “patto”. L’attacco di Macron mira esattamente a questo, destrutturare del tutto le postazioni di forza di ciò che, in qualche modo, possiamo definire come aristocrazia operaia. Si tratta di un progetto non solo francese tanto che, qualcosa di simile, lo stiamo osservando anche in Inghilterra e Germania. Anche in quei paesi tutto ciò che rimanda a forme di rigidità operaia, postazioni di forza, esercizio di potere sui posti di lavoro è sotto attacco. A fronte di ciò mi sembra che si possa parlare di offensiva unitaria del comando capitalista contro le vecchie fortezze operaie. Questo movimento, se rimane all’interno delle coordinate attuali, non può che essere sconfitto poiché non si rende conto che i padroni hanno completamente cambiato le regole di gioco.

Quindi consideri questa battaglia inesorabilmente persa?
Non sarei così drastico o meglio credo che questa situazione sia in movimento e alcuni inizi di rottura all’interno di questo fronte iniziano a manifestarsi. Per dire, qua a Marsiglia, l’occupazione spontanea della stazione ferroviaria e il blocco dei treni è stata opera dei ferrovieri, cioè di quella composizione di classe che è scesa in piazza dietro alla CGT. Dobbiamo tenere presente che Macron vuole spazzare via e destrutturare le condizioni di vita di questo proletariato e che non vi sarà mediazione possibile. Qualcuno lo sta capendo, bisogna vedere se il fenomeno sarà limitato o assumerà connotati di massa.

Secondo te, questo movimento potrebbe cambiare pelle?
Cambiare proprio pelle non credo perché è difficile pensare che un settore sociale abituato a vivere in un certo modo, diciamo da ceto medio, possa approdare a modalità di lotta e di scontro di un certo tipo ed è anche difficile che, in tempi brevi, metabolizzi il fatto che è la borghesia a imporre un determinato livello di scontro. Quello che può succedere è che inizino a esserci delle contaminazioni tra questo settore di classe e il resto del proletariato, in questo caso lo scenario inizierebbe a cambiare ma anche in questo caso dobbiamo andare cauti con i facili entusiasmi. Per essere chiari, capisco l’entusiasmo che in molti nutrono per la banlieue ma se tutto quel potenziale non trova una forma politica organizzata rischia di essere, come già sta accadendo, semplice materiale per la saggistica sociologica.

Ma voi, come precari, disoccupati, organismi di quartiere come vi state muovendo?
Intanto stiamo preparando, attraverso continue iniziative di lotta, il Primo Maggio che potrebbe essere già un primo banco di prova di tutto ciò che si sta muovendo. Per il resto lavoriamo alla costruzione di forme di organizzazione stabili perché lotta e organizzazione non possono che marciare unite. Le lotte senza organizzazione non vanno da nessuna parte, l’organizzazione senza le lotte è solo micro burocrazia.

Chiudiamo qua, in attesa del Primo Maggio, la seconda puntata delle “Cronache marsigliesi”. Sono molti i nodi che queste corrispondenze stanno portando al pettine per questo, dopo il Primo Maggio, cercheremo di ragionare, sulla base di quanto i “materiali empirici” ci hanno fornito, in termini decisamente più analitici per il momento auguriamoci solo che i “siberiani” non rimangano alla finestra.

]]>
Le problème n’est pas la chute mais l’atterrissage. Lotte e organizzazione dei dannati di Marsiglia / 4 https://www.carmillaonline.com/2023/04/22/le-probleme-nest-pas-la-chute-mais-latterrissage-lotte-e-organizzazione-dei-dannati-di-marsiglia-4/ Sat, 22 Apr 2023 20:00:29 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=76442 di Emilio Quadrelli

Chourmo

L’intervista appena riportata ha ben reso la cornice e il senso all’interno della quale si dipana l’attività del Collectif un’attività che, tra l’altro, ha catturato l’attenzione anche di soggetti provenienti dall’esperienza dei gilets jaunes. Proprio due di questi, M. C., e J.B., una donna e un uomo approdati al Collectif dopo essere stati particolarmente attivi nel movimento dei gilets jaunes sono gli attori sociali con i quali si è cercato di ricostruire il percorso autonomo dei precari e dei disoccupati. Ciò è apparso particolarmente utile perché il terreno [...]]]> di Emilio Quadrelli

Chourmo

L’intervista appena riportata ha ben reso la cornice e il senso all’interno della quale si dipana l’attività del Collectif un’attività che, tra l’altro, ha catturato l’attenzione anche di soggetti provenienti dall’esperienza dei gilets jaunes. Proprio due di questi, M. C., e J.B., una donna e un uomo approdati al Collectif dopo essere stati particolarmente attivi nel movimento dei gilets jaunes sono gli attori sociali con i quali si è cercato di ricostruire il percorso autonomo dei precari e dei disoccupati. Ciò è apparso particolarmente utile perché il terreno dell’autonomia operaia e proletaria pare essere il possibile sbocco politico e organizzativo di tutte quelle energie e forze che il movimento dei gilets jaunes ha messo in campo senza riuscire, però, a dare a tutto ciò forza, progettualità e organizzazione. Le riflessioni dei due ex militanti del movimento, pertanto, assumono un particolare interesse poiché, attraverso le loro parole, viene posto il problema di come trasformare in effettivo dualismo di potere la non secondaria radicalità presente tra quote non irrilevanti di subalterni. Cominciamo con l’ascoltare M. C.

Tu sei approdata al Collectif Autonome Précaires et Chȏmeurs Marseille dopo due esperienze politiche legate prima al movimento femminista e, in seguito, ai gilets jaunes. Come hai maturato questa decisione?
Per quanto riguarda il femminismo e le sue tematiche radicali sono cose che mi porto dentro e che immetto dentro l’esperienza del Collectif. Io nasco all’interno del movimento femminista e di fatto non ne sono mai uscita. Ma partiamo, intanto, con il dire che cosa sono io. Oggi sono una “lavoratrice autonoma” del mondo del turismo. Quello del lavoro autonomo è una delle molteplici facce della precarietà. In passato, quando si parlava di lavoratori autonomi, si ci riferiva a un ceto sociale medio alto, quello dei professionisti. Oggi, invece, essere un lavoratore autonomo è una imposizione delle aziende, per svolgere funzioni in passato di lavoratori dipendenti cioè salariati con un rapporto contrattuale di un certo tipo. Questo tipo di lavoro autonomo non è una forma di emancipazione dal lavoro salariato ma esattamente il contrario. In questo modo l’azienda ti tiene continuamente sotto scacco e tu, di fatto, hai ben pochi strumenti per difenderti perché, proprio per la sua tipologia, la relazione con l’azienda è del tutto individuale. Di fatto noi siamo precari a tutti gli effetti e quindi la mia collocazione dentro il Collettivo risponde a una condizione oggettiva. Lo è anche in relazione alla condizione di disoccupata poiché noi non abbiamo alcuna garanzia di lavoro continuativo, anzi. Può succedere, come accaduto in più occasioni, che un tour sia annullato, in quel caso si
rimane a casa senza paga oppure, quando la stagione turistica è in calo, i momenti di pausa si prolungano notevolmente. L’organizzazione di questa condizione di lavoro, che è una condizione subordinata a tutti gli effetti, è un aspetto, ovviamente non il solo, della attività del Collettivo. Guardando la cosa in maniera più ampia mi sembra di poter dire che questa struttura consente di dare visibilità e legittimità politica e sociale a tutta quella parte di società oggi invisibile e marginalizzata.

Invece, dell’esperienza dei gilets jaunes, cosa porti dentro al Collettivo?
Di quella esperienza che inizialmente mi ha molto coinvolta e affascinata porto ben poco poiché, facendone un bilancio, mi sembra essere stata una grossa delusione o meglio ha deluso del tutto le aspettative che aveva aperto. Questo perché non è andata oltre a una sostanziale genericità e non è stata in grado di darsi un programma, una forma organizzata e degli obiettivi. Questo lo si vede bene oggi quando, di tutto quel movimento, non è rimasto nulla. È stato un grande momento di protesta, con forme anche radicali ma che non aveva una vera direzione di classe e alla fine non ha potuto far altro che evaporare. Con ciò non rinnego la mia partecipazione al movimento, che è stato un po’ una jacquerie solo che tutta quella mobilitazione mi ha fatto comprendere che occorre costruire su basi di classe. A partire da questa considerazione il mio approdo dentro questo Collettivo.

Passiamo così a J.B., il quale, sulla base di una rivisitazione critica dei gilets jaunes, matura la sua adesione al Collectif e, in poche battute, sembra cogliere tanto la grandezza quanto i limiti di quel movimento.

Dai gilets jaunes al Collectif, come avviene questo passaggio? Come valuti la tua precedente esperienza e perché, oggi, ti collochi in questa realtà?
L’esperienza dentro i gilets jaunes ha due facce. Una molto positiva ha mostrato come la società francese sia estremamente esplosiva e che basta un piccolo detonatore per innescare dei momenti di lotta duri e radicali. Come gilets jaunes siamo andati ben oltre la protesta formale. Basta pensare agli attacchi alle banche, agli scontri con la polizia ma, a mio avviso, vi è un aspetto anche più importante che in questa esperienza è venuto fuori, mi riferisco al senso di comunità che le persone, in questa lotta, hanno espresso. Una cosa che ho potuto verificare di persona partecipando ai blocchi organizzati fuori dalle città. Soprattutto lì le persone si riunivano anche per ritrovare una socialità e un senso di appartenenza che la società contemporanea tende a schiacciare. Di questo si parla poco, anzi nulla, ma una cosa veramente importante che in tutti quei mesi è emerso è stata la volontà delle persone di rompere l’isolamento in cui il potere ci costringe. Questo è stato particolarmente vero per quel modo che abitualmente chiamiamo “Francia profonda” dove, a riemergere, sono state le abitudini comunitarie del mondo contadino. Di questo mondo non si parla pressoché mai eppure una grossa fetta della popolazione francese vive lì. Credo che senza di loro sarà difficile arrivare a cambiare radicalmente la situazione. Però questo è un lato del problema. Importante, ma non decisivo. E qua veniamo al limite che si è mostrato insormontabile per il movimento dei gilets jaunes, quello di non essere stato in grado di bloccare la produzione e quindi il paese. Questo movimento non è stato in grado di dare una direzione operaia, eppure i sabati gli operai erano in piazza, alla lotta. I gilets jaunes sono stati un grande movimento di popolo ma non di classe. Questo il suo grande limite. In questo modo tutta la sua pur enorme potenzialità ha finito con il disperdersi e l’evaporare. A partire da ciò mi sono orientato verso questa esperienza del Collectif perché è una esperienza che nasce su basi di classe e lo fa a partire, senza fronzoli di troppo, dalla condizione materiale delle masse.

Voi siete, però, una cosa molto atipica rispetto al variegato mondo antagonista e delle stesse organizzazioni della sinistra radicale. Che cosa è, in poche parole, ciò che vi caratterizza?
Ma intanto noi siamo una struttura che si richiama al marxismo cosa che, oggi, per gran parte dei movimenti è quasi una bestemmia. Parliamo di direzione e centralità operaia cosa sicuramente anomala rispetto a tutti gli altri. Per altro verso, però, non abbiamo neppure alcuna affinità o contiguità con tutti quei micro gruppi comunisti che si rifanno a una qualche tradizione comunista. Questo è bene chiarirlo perché anche questi parlano di classe operaia solo che, nel loro immaginario, la classe operaia è praticamente una icona del tutto priva di concretezza. La riprova la puoi avere sulla questione dei disoccupati che, questi gruppi non prendono neppure in considerazione sul piano dell’analisi mentre noi ne siamo una specifica forma organizzata. Noi lavoriamo per la centralità e direzione operaia avendo in mente la classe operaia del mondo contemporaneo non quella che sta nelle pagine dei libri.

Un’ultima cosa. Il Collectif ha incentrato la sua attività sui precari e i disoccupati. Questo vuol dire che non avete rapporti con altre realtà di classe o nei confronti di queste avete altre forme di interazione?
Hai fatto bene a farmi questa domanda perché mi permette di spiegare alcune cose e non creare confusione e malintesi. In realtà noi stiamo costruendo, però fuori Marsiglia perché il grosso della produzione industriale da tempo è stata spostata nelle città satelliti, una rete operaia. Siamo in una fase embrionale e, in alcune situazioni, abbiamo preso noi in mano la struttura sindacale della CGT. Dentro Marsiglia, invece, in alcuni luoghi di lavoro più tradizionali lavoriamo dentro strutture sindacali più piccole ma che, in certe situazioni, hanno un grosso peso. Si tratta di un lavoro già in atto ma ancora tutto da definire. Crediamo che non si debba avere un modello assoluto di organizzazione ma lavorare per lo sviluppo dell’autonomia operaia dentro tutte le forme possibili.

Prima di concludere, al fine di capire meglio ciò di cui stiamo parlando, vediamo come opera concretamente il Collectif. Lo facciamo attraverso le parole di D. N. un corso da tempo stabilizzatosi a Marsiglia che è stato uno dei primi animatori del collettivo dei disoccupati.

Puoi farmi un esempio di come interviene il Collectif?
Certamente. Posso parlarti della campagna che abbiamo iniziato a sviluppare con le operaie e gli operai che lavorano nel Mama Restaurant Marseille. Questa è una catena di ristoranti di cucina italiana, la Big Mama, presente in tutta Europa. A Marsiglia occupa un 200 persone, in gran parte donne, in condizioni di super sfruttamento, tempi e ritmi di lavoro di tipo semi coatto, con contratti a termine, un modo quindi per ricattare costantemente la forza lavoro, e con scarsissima attenzione sulla sicurezza sul lavoro. Una situazione che è una vera e propria fotografia della condizione operaia marginalizzata. Questa condizione non è una anomalia ma il livello medio della condizione dei precari e dei disoccupati. In questi posti non vi è alcuna forma di organizzazione sindacale, cosa che condividono con tutte le realtà simili, oltre a un continuo dispotismo esercitato dai capi i quali, per di più, si distinguono per continue molestie sessuali nei confronti delle dipendenti. Alcune ragazze che vi lavorano hanno conosciuto un paio del Collectif e così hanno iniziato a parlare della loro situazione. Abbiamo così valutato la possibilità di intervenire nella situazione. Abbiamo prima sondato il terreno, senza uscire allo scoperto, e abbiamo così costruito una rete interna di una trentina di dipendenti. A quel punto abbiamo iniziato a mettere dei volantini negli spogliatoi e, una volta verificato che intorno alla lotta c’era una sostanziale adesione da parte dei più, abbiamo iniziato a fare dei volantinaggi all’esterno del ristorante denunciando la situazione lavorativa. Abbiamo ripetuto la cosa più volte e, oltre ai volantini, ci siamo messi a tenere dei comizi di denuncia. In questo modo abbiamo reso noto che cosa è Mama Restaurant.

Questo cosa ha comportato?
Subito c’è stato un tentativo di brutale reazione da parte della direzione, tentativo subito andato in vacca perché noi eravamo organizzati anche per fronteggiare una situazione simile che ritenevamo molto probabile. A quel punto la direzione ha iniziato a fare del terrorismo interno minacciando licenziamenti, denunce e così via. In seguito, però, hanno dovuto fare marcia indietro perché si sono ritrovati la quasi totalità dei dipendenti contro e pronti a scioperare e a bloccare con i picchetti tutta l’attività del ristorante. Si è arrivati così a una contrattazione che ha modificato dipendenti. notevolmente sia il livello salariale, sia le condizioni di vita all’interno oltre alla stabilizzazione di un buon numero di dipendenti. Diciamo che, senza farla più grossa di quello che è, si è trattato di una vittoria, piccola ma significativa perché è stata in grado di incrinare una condizione che sembrava inattaccabile. Con ciò abbiamo dimostrato che è possibile lottare ed è possibile vincere. Sul piano simbolico, per quanto piccola, questa lotta dice a tutti gli invisibili che con l’organizzazione collettiva si può uscire dal ghetto in cui stato e padroni vogliono rinchiuderti.

Immagino che, a partire da questa esperienza, stiate pensando a uno sviluppo di queste pratiche?
Assolutamente sì. Il nostro passaggio già in atto è lo sviluppo di questa lotta in tutta la catena Mama Restaurant.

In tutto questo avete una qualche forma di appoggio da parte della sinistra radicale e antagonista?
No, se si escludono alcune realtà anarchiche che si sono mostrate immediatamente solidale da tutti gli altri non abbiamo avuto alcuna forma di appoggio.

Secondo te per quale motivo?
I gruppi di area comunista, non ritengono la lotta autonoma e autoorganizzata un metodo giusto. Diciamo che loro hanno un’idea di una lotta di classe del tutto ideologica e libresca. Soprattutto hanno idea di una classe che esiste solo nelle loro teste e nei loro documenti. Non è un caso che questi gruppi siano irrilevanti e privi di contatto con la realtà. Per tutto il mondo che si definisce movimento radicale e antagonista molto semplicemente gli operai non esistono. Quindi è normale che non considerino minimamente situazioni come queste.

A quanto capisco siete una realtà che ha poco o nulla a che fare con ciò che comunemente è definito “movimento”. Vi sentite isolati? Oltre a queste iniziative, ne avete altre? Tra le realtà politiche con chi avete una qualche relazione?
Intanto credo che sia importante dire che abbiamo anche iniziato una stretta collaborazione con il Collettivo autonomo dei muratori il quale raccoglie un buon numero di operai e si muove in una direzione molto simile alla nostra. Questo significa che la lotta autonoma operaia non solo esiste ma che sta cercando di darsi progetto e organizzazione. I rapporti che abbiamo con strutture operaie nelle città satelliti di Marsiglia è molto indicativa. Rimanendo su Marsiglia abbiamo iniziato anche a organizzare delle occupazioni di case nel terzo arrondissement oltre che una campagna per l’autoriduzione delle bollette non solo nel terzo ma anche a Les Caillos e La Castellane. Quindi, per rispondere alla tua domanda, non siamo isolati per nulla . Per quanto riguarda, invece, i rapporti con altri gruppi e realtà qua a Marsiglia li abbiamo, come ti ho detto, soprattutto con gli anarchici mentre, in giro per la Francia, con alcuni gruppi di provenienza maoista sopratutto di origine marocchina e tunisina.

Una conferma di quanto appena riportato mi è stata possibile constatarla osservando, scendendo in piazza insieme a loro, nel corso degli scioperi generali del 2 e del 7 febbraio. In entrambi i casi quello che possiamo definire “blocco autonomo” si è presentato per le vie della città con spezzoni di circa 1500 persone facendo sì che, lo spettro della “centralità operaia” e della sua autonomia”, ritornasse a aleggiare tra le vie e le piazze di Marsiglia. Con ciò il mitologema della città parrebbe rivivere depurato, però, da ogni sorta di ricordo bensì nell’attualità di una memoria che guarda al presente con le spalle al futuro1. A questo punto il pur stringato resoconto etnografico e possibile canovaccio di una ricerca a tutto tondo ci consente pur sempre di dire qualcosa su questa città. Marsiglia ci racconta una storia, per nulla edulcorata, del proletariato contemporaneo, delle sue lotte, dei suoi sogni, dei suoi desideri. La città del minstral, a differenza di ciò che sognano le classi dominanti, non ci porta il vento pacificato del non – luogo turistico dove masse senza volto e in continua competizione tra loro si prostrano e svendono, ma a soffiare è la tempesta di una soggettività proletaria che della lotta ha fatto il suo fine. Contro tutto e tutti i dannati della metropoli alzano la testa e affermano la propria esistenza. Tutto ciò nel più completo silenzio e disinteresse di ciò che si definisce “sinistra antagonista e radicale” la quale, da tempo, ha del tutto espunto dal suo orizzonte le lotte operaie e proletarie ma, proprio per questo, rimettere al centro del conflitto la nuova composizione di classe e non adagiarsi alle e sulle parole del potere, è ciò che una teoria critica dovrebbe cominciare a fare. Certamente non sarebbe tutto, ma sarebbe sicuramente qualcosa.

( 4Fine)


  1. Al proposito si veda: W. Benjamin, Di alcuni motivi in Baudelaire, in Id., Angelus Novus, Einaudi, Torino 1981  

]]>