I suonatori Jones – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Wed, 05 Mar 2025 21:00:15 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Elogio dell’eccesso / 7: David Johansen (1950-2025) and the New York Dolls https://www.carmillaonline.com/2025/03/04/elogio-delleccesso-7-david-johansen-1950-2025-e-i-new-york-dolls/ Tue, 04 Mar 2025 21:00:51 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=87178 di Sandro Moiso

Something must have happened over Manhattan Who can expound all the children this time? (Frankenstein – New York Dolls, 1973)

E’ morto il 28 febbraio l’ultimo superstite della band che forse, più di ogni altra chiamata successivamente in causa, ha contribuito in largo anticipo alla rifondazione del rock’n’roll attraverso il punk. A settantacinque anni, dopo cinque anni di silenzio e allontanamento definitivo dalla scena musicale in seguito al cancro che lo aveva colpito, l’ex-front man e cantante dei New York Dolls ha raggiunto i suoi ex-compagni, tutti già scomparsi da anni, in qualche punto di un universo [...]]]> di Sandro Moiso

Something must have happened over Manhattan
Who can expound all the children this time?

(Frankenstein – New York Dolls, 1973)

E’ morto il 28 febbraio l’ultimo superstite della band che forse, più di ogni altra chiamata successivamente in causa, ha contribuito in largo anticipo alla rifondazione del rock’n’roll attraverso il punk. A settantacinque anni, dopo cinque anni di silenzio e allontanamento definitivo dalla scena musicale in seguito al cancro che lo aveva colpito, l’ex-front man e cantante dei New York Dolls ha raggiunto i suoi ex-compagni, tutti già scomparsi da anni, in qualche punto di un universo in cui ancora la provocazione si accompagna alla rabbia e alla disillusione con esiti tutt’altro che scontati.

Oggi è facile, troppo facile, presentarsi sui palchi finti-rock con atteggiamenti ambigui, reggicalze indossati da uomini truccati e bassiste a seno scoperto, per fingere di rappresentare una “novità” o, peggio ancora, una “provocazione”, ma, che dio ce ne scampi, non sono altro che rifritture di quanto avvenuto sulla scena musicale anglo-americana ad inizio anni Settanta con l’esplodere del fenomeno glam-rock, di cui l’esponente di maggior spicco fu certamente Marc Bolan (1947-1977) e che per David Bowie (1947-2016) avrebbe rappresentato soltanto uno dei momenti di passaggio di una più che camaleontica carriera,

Le date di nascita dei protagonisti sembrano parlare, per i giovani d’oggi, di un’età lontana e di dinosauri e non a caso, forse ancora, lo stesso Marc Bolan, dopo una breve esistenza del suo primo gruppo di ispirazione psichedelica, i John’s Children1 avrebbe raggiunto il successo con un gruppo denominato nella sua prima formazione acustica Tyrannosaurus Rex e successivamente, nella fase elettrica, più semplicemente T.Rex.

Sì, ma che dinosauri e tirannosauri! Come impararono rapidamente gli adolescenti dell’epoca che, per la prima volta, colsero in quelle espressioni, a metà strada tra provocazione e vena intimistica proiettata con forza fuori dal misero sé, con un nuovo e semplificato stile musicale e di abbigliamento transgender, un ulteriore passo verso la liberazione individuale e di genere. Come ha affermato Dick Hebdige, non solo il glam, dai Roxy Music a Bolan, passando per David Bowie:

era apertamente disinteressato sia alle questioni politiche e sociali dell’epoca sia alla vita della working class in genere, ma tutta la sua estetica veniva affermata evitando deliberatamente il mondo “reale” e il linguaggio prosaico in cui quel mondo veniva abitualmente descritto, vissuto e riprodotto. […] Quando si affrontava la “crisi” contemporanea”, ciò accadeva in maniera così indiretta che veniva rappresentata in forma metaforica come un mondo morto di umanoidi, ambiguamente piacevoli e oltraggiosi. […] cionondimeno si dovette [al glam] se furono sollevati per la prima volta problemi di identità sessuale che erano stati precedentemente repressi, ignorati o appena ccennati nel rock e nella cultura giovanile. Nel glam rock, almeno fra quegli artisti che si collocavano, come Bowie e i Roxy Music, all’estremità più sofisticata di quello scintillante spettro, l’enfasi sovversiva si spostò dalla classe e dai giovani sulla sessualità e sulla tipologia sessuale. Benché Bowie fosse ben lontano dalla liberazione intesa nel senso radicale corrente, dando la preferenza al dandysmo e al travestimento – a ciò che Angela Carter ha descritto come “l’ambivalente trionfo dell’oppresso”2 – più che un”autentico” superamento dei ruoli sessuali, egli e per estensione quelli che copiavano il suo stile “misero” effettivamente “in discussione il valore e il significatondell’adolescenza e il passaggio al mondo adulto del lavoro”. E lo fecero in un modo singolare, per mezzo di una confusione arificiosa delle immagini maschili e femminili, tramite le quali si compiva tradizionalmente il passaggio dall’infanzia alla maturità3.

In quel contesto e in quegli anni, però, continuando con la metafora preistorica, i New York Dolls formatisi e cresciuti nella Grande Mela, rappresentarono i velociraptor della scena musicale. Poco romantici e retrò, ma autentici assassini di chitarre e note, con un sound ispirato ai Rolling Stones più selvaggi e ai Velvet Undergroundi, autentici santi patroni dei bassifondi della città4, i Dolls ebbero all’inizio vita difficile.

La facile sistematizzazione “rockettara” li ha spesso inseriti nel genere glam, quello di Bolan, dei T.Rex, Gary Glitter, Roxy Music e, per un periodo come si è detto, anche di Bowie, ma si tratta soltanto di una forzatura. Basta infatti ascoltare anche una sola nota uscente da una delle loro canzono più famose, come Personality Crisis, Vietnamese Baby oppure Frankenstein, per capire che siamo già da un’altra parte, su un altro pianeta: quello del punk.

David Johansen (voce e armonica a bocca, 1950-2025), Johnny Thunders (chitarra e voce, 1952-1991), Sylvain Sylvain ( chitarra, tastiere e voce, 1951-2021), Arthur Harold “Killer Kane” (basso elettrico, 1949-2004) e Jerry Nolan (batteria, 1946-1992), dalla meravigliosa copertina del loro primo album, intitolato semplicemente New York Dolls, già promettevano sfracelli. Cinque potenziali juvenile delinquent travestiti e truccati, con scarpe dai tacchi a spillo, rivolgono uno sguardo minaccioso all’intero ordine macho e perbenista del mondo.

In realtà abiti e trucchi provenivano, almeno per alcuni di loro, dai guardaroba e dalle toilette delle madri, come avrebbero poi confessato in alcune interviste5, ma l’ispirazione e la postura, oltre che dai già citati Rolling Stones, discendeva direttamente da quelle di Iggy Pop e dei suoi scelleratissimi, almeno per i benpensanti e i “brown shoes” di cui già aveva cantato Frank Zappa6, Stooges della Detroit ancora fiammeggiante di rivolte e musica heavy metal7.

Come ci spiega Steven Blush:

Nel 1970 New York era caduta in rovina. Il dissesto economico aveva catapultato ls capitale americana del business e della cultura in un inferno criminale popolato di rapinatori, prostitute, senzatetto, ladri e truffatori. Il braccio violento della Legge e Kojak ne coglievano la ferocia e il degrado, ma non il sovraccarico olfattivo causato da spazzatura, gas di scarico ed escrementi di origine ignota. […] Mentre l’America attraversava lo sfinimento post-Vietnam, il rock dopo la morte di Jimi, Jim e Janis, risentiva dello stress post-Woodstock. Il rock era diventato autentico e introspettivo [e] raggiunse il suo punto più basso con il Concert for Bangladesh di George Harrison che si tenne nell’agosto del 1971 al Garden (il primo evento di beneficenza di una rock star), una faccenda autoreferenziale e mal gestita che intimidì il pubblico e i cui proventi non arrivarono praticamente mai ai bambini affamati. Il “flower power” sembrava già una storia di secoli prima. Erba e acidi cedettero il posto a cocaina, speed ed eroina8.

In quel contesto anche l’adolescenza doveva perdere la sua innocenza, vera o presunta che fosse mai stata. Lo stesso David Johansen avrebbe ricordato in un’intervista rilasciata nel 1997:

Quando si sono formati i Dolls, era il tempo in cui tutti, almeno nell’East Village, prendevano un sacco di acido, ed erano in fissa con questa utopia dell’androgino. E’ stato allora che si è formato il femminismo radicale e il collettivo “Up Against the Wall Motherfuckers” – anche io me la facevo con quella gente. Ci vestivamo sempre in quel modo. Non è che ci siamo riuniti e abbiamo deciso: “Vestiamoci in modo provocatorio” – è stata la cosa che ci ha accomunati tutti fin dall’inizio. […] Certa gente ci molestava, ma finiva inevitabilmente per pentirsene9.

Come i Fugs e i Velvet Underground prima di loro, rappresentavano una nuova specie di rocker newyorkesi. Uno dei primi gruppi a esibirsi nei locali come Max’s Kansas City, Mercer Arts Center, l’Hotel Diplomat, i drag bar dell’East Village e il Mother’ in prossimità del Chelsea Hotel. I cinque mettevano in scena un rock fatto di Off Off Broadway, Rhythm and Blues della vecchia scuola, nichilismo tossico e l’estremizzazione del bad boy travestito da donna. Per l’epoca una miscela potenzialmente esplosiva. E’ ancora una volta Johansen a descrivere quella scena:

Eravamo decisi ad annientare quella sensazione di “gabbia dorata” da rock star. Quando suonavamo la Mercer, il pubblico saltava sul palco e ballava. Volevamo essere diversi perché odiavamo tutti quei fottuti tizi che pensavano di essere migliori di chiunque altro. Per quanto ci riguardava erano solo un branco di idioti10.

Mentre sulle origini effettive della band ci rammenta poi ancora che

St. Marks Place, da ragazzino quella strada era tutta mia. Conoscevo un mucchio di gente, ed erano tutti artisti alternativi. Quello era il vero underground; non era tutto omologato. Quando avevo circa diciassette anni lavoravo in un negozio di cianfrusaglie chiamato Matchless a St. Mars Place: facevano orecchini con lattine di birra. Il proprietario era anche un costumista e scenografo che lavorava con il Ridiculous Theatre. Ho iniziato a lavorare per lui e la paga faceva schifo, ma grazie a lui ho conosciuto tutta qquesta gente del Ridiculous Theatre che frequentava il negozio. All’inizio era una specie di tuttofare del Riculous. Luci, suono […] ho anche scritto delle canzoni per loro. A volte suonavo – male- la chitarra. […] La sera andavamo al Max’s. Nessuno aveva un soldo e lì si potevano mangiare gratis panini e insalata. E’ stato più o meno in quel periodo che ho conosciuto Thunders e gli altri. Un tizio nel mio palazzo conosceva BillyMurcia. Mi aveva detto che c’era una band a cui serviva un cantante. Un giorno qualcuno ha bussato alla mia porta, erano Arthur e Billy. Sono andato a casa di Johnny e ci siamo messi a suonare. La band è nata il giorno stesso11.

Il primo album ufficiale, nonostante esistano un gran quantità di demo session, registrazioni dal vivo e in studio precedenti quella data, uscì nel 1973 con una produzione suddivisa tra Marty Thau, Paul Nelson, Steve Leber e Todd Rundgren, che risulterà essere nelle note di copertina il produttore ufficiale. Ma nonostante questo la vita del gruppo non divenne più facile, come ricordava Sylvain Sylvain, in realtà Sylvain Mizrahi, in un’intervista del 1998.

La gente crede che la cerchia di Warhol abbia accolto i Dolls. In realtà i Velvet Underground erano la vecchia generazione, mentre noi eravamo le nuove leve dei club, e stavamo invadendo il loro territorio. Non erano esattamente accoglienti. Ci sono state delle volte in cui abbiamo suonato al piano superiore del Max’s perché eravamo banditi dal bar al piano terra. Non eravamo ammessi al piano di sotto. Ecco a che punto eravamo arrivati12.

Il secondo album, ed ultimo per la formazione originale, intitolato profeticamente Too Much Too Soon, sarebbe uscito nel 1974 e sarebbe stato necessario attendere trent’anni prima di quello successivo, apparso nel 2004 con una formazione rivisitata a causa dei malumori sorti tra i componenti e la morte sopraggiunta nel frattempo per alcuni di loro. Il produttore del secondo album, George “Shadow” Morton avrebbe spinto ancora di più l’acceleratore su temi e composizioni blues e Rhythm and blues, senza però alterare le linee musicali essenziali del gruppo, anzi finendo col rafforzarle. La cosa che potrebbe suonare strana è che un gruppo destinato a diventare l’antesignano del Punk. Certo la cosa strana a dirsi è che questi precursori di ogni efferatezza punk ebbero come produttori, prima, un raffinato ricercatore di suoni perfetti come Todd Rundgren e, successivamente, un ottimo produttore di gruppi degli anni Sessanta come le Shangri-Las o i Vanilla Fudge

Tre anni dopo il loro secondo disco, i Sex Pistols non riuscirono a inventare nulla di musicalmente altrettanto viscerale e pericoloso. Forse è per questo che i Dolls non hanno mai trovato il loro pubblico nei primi anni ’70: non solo erano punk rock prima che il punk rock fosse di moda, ma sono rimasti più indigesti e idiosincratici di qualsiasi altra band che è seguita. Oltre ad avere anche suonato più forte, molto più forte.

Sex Pistols che, spacciati come fondatori del genere punk, altro non fecero che rubare, grazie alla “creatività” del loro produttore Malcom McLaren, ogni riff di chitarra a brani come Looking for a Kiss, Frankenstein, Chatterbox, Jet Boy e il profetico, per tutti quelli che sarebbero arrivati dopo, compresi i Ramones. It’s Too Late, è troppo tardi. Nei fatti, mentre si trovava a New York per una fiera dell’abbigliamento, McLaren incontrò i membri del gruppo e alla fine del 1974 ne assunse la gestione, vestendoli di pelle rossa e usando il simbolo della falce e martello dell’Unione Sovietica nelle loro scenografie e nelle fotografie pubblicitarie. Il concetto non si adattava certo bene all’America, dove il comunismo rimaneva un anatema, ma non ebbe un grande impatto sulla carriera dei Dolls, che erano comunque agli sgoccioli.

Così Malcom tornò al business dell’abbigliamento londinese nel maggio 1975 e usò ciò che aveva imparato con loro per aiutare a mettere insieme i Sex Pistols: ovvero The Great Rock’n’Roll Swindle, la grande truffa del rock’n’roll, come sarebbe stato intitolato il film sugli stessi diretto dal regista Julian Temple e prodotto da Don Boyd e Jeremy Thomas nel 1980.

I Dolls erano già finiti da un pezzo, vuoi per gli abusi di sostanze, vuoi per le inevitabili rivalità sorte all’interno di un gruppo nato senza troppo cura per i ricami artistici e diplomatici. Ancora Johansen ricordava:

Non ho idea di quante copie abbiamo venduto all’epoca, non moltissime. Se eravamo fortunati ci piazzavamo al centoventesimo posto in classifica. Decisamente non eravamo una band per tutti i gusti, non il tipo di cosa da impatto sulle masse. Ci andava bene dove c’era un sacco di ragazzini alienati13.

Ma, oltre allo scarso successo commerciale, ci furono anche altre cause per lo scioglimento del gruppo, come avrebbero raccontato in successione Jerry Nolan, Sylvain Sylvain e lo stesso David Johansen.

Jerry (1977): «David aveva il brutto vizio di dettar legge su cose di cui non sapeva niente. Sceglieva il produttore e si accontentava di un missaggio scadente. Tutte le mosse sbagliate sono imputabili a lui che ha mandato tutto a puttane. I primi due album sono stati massacrati. C’erano delle gran belle canzoni, e avremmo potuto interpretarle alla grande, ma David era un tipo di persona che in studio non voleva rifare due volte lo stesso pezzo. Bastava che lui cantasse bene, non gliene importava un cazzo che gli altri facessero una buona performance.»

Sylvain (1998): «Stavamo a casa della madre di Jerry Nolan e Johansen si sbronzava di brutto. Era un alcolizzato violento. Diceva che non contavamo niente, che lui era il cantante e che poteva andare avanti senza noi a creargli impedimenti e altre stronzate. Praticamente ce l’ha detto una sera dopo cena, e Johnny e Jerry, dopo aver sentito per l’ennesima volta che potevamo essere rimpiazzati, se ne sono andati. Li ho portati io all’aeroporto.»

David (1997): «Non ricordo esattamente la sequenza degli eventi, ma eravamo giù in Florida, in un posto tipo Bates Motel gestito dalla madre di Jerry. C’erano delle vecchie roulotte che fungevano da stanze d’albergo e avremmo dovuto stabilirci lì, per poi andare a suonare dappertutto. La band si è sciolta perché alcuni ragazzi non ce la facevano senza la roba, quindi la situazione era diventata ingestibile. Sai, le grandi rockstar hanno infermieri e galoppini, ma noi non li avevamo. Quei ragazzi volevano essere come Bela Lugosi.»14.

Effettivamente, dopo lo scioglimento dei Dolls, David avrebbe continuato una discreta carriera solista, sospesa tra rock, rhythm’n’blues e blues strapazzato, con qualche cover di gruppi degli anni Sessanta, sia a nome proprio che con quello di Bruce Pointdexter (pseudonimo con il quale rivelerà insospettate doti da crooner e con cui aveva già firmato alcune canzoni dei New York Dolls) oppure in anni più recenti come David Johansen and the Harry Smith, gruppo ispirato al nome di uno dei più importanti musicologi e collezionisti americani che contribuì fin dagli anni Sessanta al rilancio del blues e del country blues degli anni ‘20, ‘30 e ‘40.

Ma dopo la reunion con Arthur Kane e Sylvain Sylvain per The Return of the New York Dolls: Live from Royal Festival Hall, 2004, prodotto da Morrissey, l’esperienza sarebbe ancora continuata con numerosi concerti e almeno altri tre album in studio. One Day It Will Please Us to Remember Even This (2006), soltanto più con Sylvain Sylvain vista la scomparsa di Kane nel 2004, ma con ospiti quali Iggy Popo e Michael Stipe dei REM; ‘Cause I Sez So (2009), ancora una volta con Todd Rundgren alla produzione dopo trentasei anni, e Dancing Backward in High Heels (2011), arricchito da inaspettati arrangiamenti per archi e fiati.

Oggi, con la dipartita di David, si è definitivamente chiusa l’era dei dinosauri androgini, di cui rimarranno solo pallide e insignificanti copie riprodotte in un universo pop privo di storie da raccontare e di genio vero. So long David, so long Dolls…so long rock’n’roll.


  1. Di cui va almeno ricordato l’album Orgasm, registrato nel 1967 prima che Bolan si unisse alla band, ma pubblicato soltanto nel 1970, che aveva anticipato e dilatato all’infinito i sospiri e i gemiti di piacere di Je t’aime… moi non plus di Serge Gainsbourg e Jane Birkin, pubblicato nel 1969.  

  2. A. Carter, The Message in the Spiked Heel, «Spare Rib» 16 settembre 1976.  

  3. D. Hebdige, Sottocultura. Il fascino di uno stile innaturale, Costa &Nolan, Ancona 2000.  

  4. Si veda in proposito, e a solo titolo di esempio, S. Blush, New York Rock. Dalla nascita dei Velvet Underground al declino del CBGB, Goodfellas Srl, Firenze 2016 (ed. originale 2016).  

  5. Si veda il fondamentale: L. McNeil, G. McCain, Plese Kill Me. Il punk nelle parole dei suoi protagonisti, Baldini Castoldi Dalai editore, Milano 2006 (ed. originale 1996)  

  6. Brown Shoes Don’t Make It è il titolo di un brano di Zappa e delle sue Mothers of Invention inciso per la prima volta nell’album Absolutely Free, pubblicato nel 1967, e in cui le infami scarpe allacciate di colore marrone erano indicate come il modo migliore per riconoscere i tutori dell’ordine che cercavano di infiltrarsi nelle manifestazioni e nei movimenti; un po’ come da noi il famigerato “borsello” che avrebbe caratterizzato e fatto riconoscere immediatamente gli agenti della Digos negli anni Settanta.  

  7. La definizione heavy metal era stata utilizzata già molto tempo prima della comparsa delle band che si sarebbero definite come appartenenti allo stesso canone, poiché per la critica musicale statunitense potevano già essere heavy metal sia Jimi Hendrix che i Blue Oyster Cult e le band di Detroit come Stooges, Grand Funk Railroad e molte altre ancora.  

  8. S. Blush, op. cit., pp. 99-101.  

  9. Cit. in S. Blush, op. cit., pp. 100-102.  

  10. D. Johansen in S. Blush, op. cit., p. 119.  

  11. Ivi, pp. 119-122.  

  12. S. Sylvain in S. Blush, op. cit., p. 122.  

  13. D. Johansen, cit. in S. Blush, op. cit. p. 133.  

  14. Tutte e tre le dichiarazioni sono contenute in S. Blush, op. cit., pp. 134-135.  

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Forever Young: Garth Hudson (1937-2025) https://www.carmillaonline.com/2025/02/08/forever-young-garth-hudson-1937-2025/ Sat, 08 Feb 2025 04:23:18 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=86776 di Diego Gabutti

Ancora un paio d’anni fa, nell’aprile del 2023, Garth Hudson si esibì in concerto a Kingston, New York. Era un vecchio musicista di 85 anni, un veterano della scena rock, che 49 anni prima, nel 1974, aveva registrato Forever Young, l’hit dell’Lp dylaniano Planet Waves, insieme a The Band, il suo gruppo musicale. Giorni fatati. All’epoca tutti i musicisti erano giovani e sprizzavano talento. Tutti vivevano on the road, eternamente in tournée, e sembrava che non sarebbero mai morti né invecchiati. Canadese e grande organista – anzi «un eccezionale talento polistrumentale» secondo Robbie Robertson, il leader [...]]]> di Diego Gabutti

Ancora un paio d’anni fa, nell’aprile del 2023, Garth Hudson si esibì in concerto a Kingston, New York. Era un vecchio musicista di 85 anni, un veterano della scena rock, che 49 anni prima, nel 1974, aveva registrato Forever Young, l’hit dell’Lp dylaniano Planet Waves, insieme a The Band, il suo gruppo musicale. Giorni fatati. All’epoca tutti i musicisti erano giovani e sprizzavano talento. Tutti vivevano on the road, eternamente in tournée, e sembrava che non sarebbero mai morti né invecchiati. Canadese e grande organista – anzi «un eccezionale talento polistrumentale» secondo Robbie Robertson, il leader della Band, sempre che la Band avesse un leader – Garth Hudson è scomparso a 87 anni l’11 gennaio scorso in una casa di riposo di Woodstock, sconfitto dal tempo, il grande nemico.

A Woodstock, località fatale per i musicisti e per i consumatori di songs immortali della sua generazione, The Band aveva inciso molti anni prima, nel 1968, il classico Lp Music From Big Pink, che conteneva le classicissime canzoni The Weight e I Shall Be Released, quest’ultima opera di Bob Dylan, che la Band accompagnava in concerto dal 1964. C’erano anche loro, insieme a Al Kooper, Mike Bloomfield, Barry Goldberg e Sam Clay, sul palco del Festival di Newport, nel 1965, quando Bob Dylan attaccò a cantare Like a Rolling Stone, la canzone simbolo della rock’n’roll renaissance, a un pubblico di fanatici del folk engagé e che, per cantargliela sul muso, Il giorno in cui Bob Dylan prese la chitarra elettrica (questo il titolo del libro di Elijah Wald, Vallardi 2022, dal quale il regista James Mangold ha tratto un magnifico film, A Complete Unknown).

Sul palco di Newport, e poi su un ingrato palco londinese, la «svolta elettrica» (e simbolista, ma in langue de bois «commerciale») di Dylan – che il popolo del folk avrebbe voluto tenere per sempre al guinzaglio, autore d’inni socialisteggianti e di parabole pacifiste forever – fu accolta da urla e improperi: «Giuda! Traditore!» Anche Hudson era sul palco a prendersi gl’insulti che chiudevano un’epoca e ne aprivano un’altra.

Fu sempre a Woodstock – dove viveva, e che per questo fu la località in cui si tenne il grande concerto Peace & Love del 1969, nella vana speranza di stanarlo – che Dylan si ritirò dopo l’incidente in motocicletta del 1967. Aveva rinunciato a esibirsi in pubblico perché pensava che cominciasse a tirare una brutta aria giù nelle platee sempre più stoned e rabbiose dei concerti. A Woodstock, infine, Dylan e la Band registrarono in uno studio improvvisato i leggendari Basement Tapes, o registrazioni del sottoscala. Altro classico della popular music: una raccolta di canzoni tradizionali (e originali) che rimase a lungo inedito, o meglio segreto. Salvo il «bootleg», naturalmente… The Basement Tapes fu anzi il primo disco piratato in assoluto della scena rock. Garth Hudson era anche lì. Non c’è svolta significativa del rock’n’roll alla quale il suo sax o il suo organo Hammond non abbiano preso parte da protagonisti.

A differenza dei suoi compagni, Dylan compreso, lui non era un qualsiasi talentuoso rocker autodidatta, come all’epoca ne circolavano tanti, tutti per lo più straordinariamente bravi. Hudson aveva studiato e praticato musica fin da bambino, su a Windsor, nell’Ontario, una piccola città «situata sulle rive del fiume Detroit», dov’era nato nel 1937. Sempre Robbie Robertson – nella sua autobiografia, Testimony (Jimenez 2019) – scrive di lui: «Suonava diversi sassofoni, e al piano era un vero mostro. Garth poteva suonare qualunque tipo di musica. Sembrava un elegante musicista jazz, oppure uno che non vedeva la luce del giorno da una vita. Suonava meravigliosamente bene, e in maniera assai più complessa di quanto avessimo mai fatto noialtri. Noi avevamo imbracciato gli strumenti da ragazzini ed eravamo partiti in quarta, ma Garth aveva una formazione classica, e sulla tastiera era in grado di tracciare strade musicali di cui noi non immaginavamo nemmeno l’esistenza». Qualche giorno fa, su X, Bob Dylan lo ha ricordato così: «Era un ragazzo meraviglioso e la vera forza trainante dietro The Band. Basta ascoltare la registrazione originale di The Weight per capirlo». Ancora Robertson: «Non avevo dubbi che fosse il musicista rock migliore al mondo. Poteva suonare con noi come poteva suonare con John Coltrane o con la New York Symphony Orchestra».

Negli anni Ottanta – dopo lo scioglimento del 1977, celebrato da un grande film di Martin Scorsese – c’è una mezza reunion di The Band e Hudson ne fa parte fino allo scioglimento definitivo, a fine millennio. Pubblica qualche disco in proprio negli Ottanta e Novanta. Lavora come sessionman con Van Morrison, Leonard Cohen e tutti i grandi nomi del rock e del pop. Gli altri ragazzi della Band originale scompaiono uno dopo l’altro, anche loro sconfitti dal tempo, che non fa prigionieri: Robbie Robertson nel 2023, Levon Helm nel 2012, Fred Carter jr nel 2010, Richard Bell nel 2007, Rick Danko nel 1999, Richard Manuel nel 1986. Hudson, uomo riservato e grande artista, è uscito di scena imperturbabile, in punta di piedi.

«Uno dei suoi grandi momenti» – scrive Rob Sheffield su “Rolling Stone”- «è immortalato in The Last Waltz, il film di Scorsese» (al quale prendono parte Neil Young, Joni Mitchell, Eric Clapton, Muddy Waters, Ringo Starr, Neil Diamond, Emmylou Harris, naturalmente Dylan, e persino Lawrence Ferlinghetti). «Alla fine di It Makes No Difference», continua Sheffield, «la migliore performance di sempre della Band, Robbie suona un tormentato assolo prima di lasciare spazio a Garth e al suo sax soprano, che con la sua serenità chiude il pezzo su una nota di stoica rassegnazione. Solo uno come lui può suonare in modo così potente e allo stesso tempo così poco appariscente. Sono appena 68 secondi, ma dentro c’è tutto il carico d’emozione di The Last Waltz e della storia della Band».

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Un cowboy sospeso tra i suoni degli Appalachi e il cosmo https://www.carmillaonline.com/2024/09/18/un-cowboy-davanti-alleternita/ Wed, 18 Sep 2024 20:00:40 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=84356 di Sandro Moiso

Alle porte di Brescia esiste un piccolo angolo dei monti Appalachi che, nella realtà, si sviluppano per circa 2500 km parallelamente alla costa atlantica degli Stati Uniti, dal golfo del fiume San Lorenzo all’Alabama. Un paragone possibile non soltanto per le ferriere ormai chiuse e i boschi che si inerpicano lungo i fianchi delle propaggini prealpine che circondano il comune di Nave, ma anche per la presenza sul luogo di un musicista che da anni insegue le tracce di John Fahey e Roscoe Holcomb, con qualche deviazione in direzione del country proletario di Hank Williams.

Si tratta [...]]]> di Sandro Moiso

Alle porte di Brescia esiste un piccolo angolo dei monti Appalachi che, nella realtà, si sviluppano per circa 2500 km parallelamente alla costa atlantica degli Stati Uniti, dal golfo del fiume San Lorenzo all’Alabama. Un paragone possibile non soltanto per le ferriere ormai chiuse e i boschi che si inerpicano lungo i fianchi delle propaggini prealpine che circondano il comune di Nave, ma anche per la presenza sul luogo di un musicista che da anni insegue le tracce di John Fahey e Roscoe Holcomb, con qualche deviazione in direzione del country proletario di Hank Williams.

Si tratta di Alessandro “Asso” Stefana, conosciuto come chitarrista al fianco di Vinicio Capossela ormai da circa due decenni e per le numerose collaborazioni a livello internazionale con musicisti del calibro di P.J. Harvey, Marc Ribot e altri, ma che, soprattutto, va considerato come uno dei massimi esponenti di una musica di ricerca che spazia dal West agli spazi siderali e dai suoni della tradizione musicale degli Appalachi alla Penguin Cafe Orchestra di Simon Jeffes.

A conferma di ciò è uscito a maggio di quest’anno il suo ultimo album (sia in cd che in vinile), intitolato semplicemente Alessandro Stefana, per la Ipecoc Recordings e con la supervisione della stessa P.J. Harvey. Un disco ricco di atmosfere, intuizioni e sensazioni che tendono a trasportare l’ascoltatore ai confini di una musica cosmica di stampo, però, decisamente americano. Qualcosa che oggi nell’asfittico mercato italiano e nel mondo delle sue produzioni destinate all’orecchio di Sanremo, anche quando si vorrebbero alternative, non si usa proprio fare.

Una sfida, quella di “Asso”, che riprende, almeno nell’amore e nell’attenzione riposto in ogni brano, quella di Gram Parsons, eroe del country rock scomparso troppo presto, e della sua American cosmic music, un progetto che, però, il musicista americano non riuscì mai a realizzare pienamente prima di scomparire, anche lui, a ventisette anni nel 1973. Cifra che Stefana, durante i suoi secret concert, non dimentica mai di ricordare nei dialoghi con il pubblico, facendo riferimento anche alla scomparsa, sempre in giovane età, di Hank Williams, fondatore della moderna country music, di cui esegue dal vivo un brano che non ha inserito nel disco: Cowboys Don’t Cry.

Un’esecuzione da brivido, ispirata però alla versione (campionata in sottofondo) che ne fece uno sconosciuto gruppo giapponese, di cui il chitarrista ha fortunosamente ritrovato il rarissimo cd tra i pochi in vendita sul carrello di un homeless newyorchese qualche anno fa. Una storia di fantasmi che si incrocia e adatta benissimo con le atmosfere dell’ultimo disco.

Un discorso musicale che, come si è detto poc’anzi, Alessandro porta avanti da anni, fin da quando si esibiva e registrava con i Guano Padano, un trio formatosi nel 2008 che, oltre allo stesso “Asso”, comprendeva anche il bassista e contrabbassista Danilo Gallo (cofondatore dell’etichetta/collettivo indipendente El Gallo Rojo Records) e il batterista Zeno De Rossi che nel 2011 era stato premiato come batterista dell’anno con il Top Jazz (il referendum della critica indetta dalla rivista Musica Jazz).

Il disco di esordio uscì nel 2009 per l’etichetta statunitense Important Records, supportato da Joey Burns dei Calexico, da Gary Lucas e Chris Speed. L’album fondeva elementi tratti dalla musica americana e da certo chitarrismo twangy, così da ricordare all’ascolto una colonna sonora di un immaginario spaghetti western. Anche il loro secondo album, intitolato semplicemente 2, comparso nel 2012, comprendeva importanti partecipazioni, come quelle di Mike Patton, Marc Ribot, Paul Niehaus. Due anni dopo il gruppo avrebbe pubblicato il terzo album, intitolato Americana, ispirato all’omonima antologia di racconti di scrittori americani curata da Elio Vittorini nel 1942. Mentre il loro ultimo album è comparso nel 2021, con il titolo Back and Forth.

Quello attuale, però, non è il primo disco solista del musicista bresciano, poiché, nel 2007, aveva già pubblicato Poste e telegrafi, sempre per la Important Records. L’attuale si presenta, però, come una sintesi e un superamento dei lavori precedenti, cui l’esecuzione solista, accompagnata soltanto in due brani da Mickey Kenney al fiddle (il violino suonato in stile country o bluegrass), libera l’autore da qualsiasi obbligo di scelta e ruolo nei confronti di altri musicisti.

Qui, autentici tappeti di suoni psichedelici creati dall’uso di una chitarra lap steel della National, accompagnano riflessioni più meditate sulla sei corde (rigidamente Guild) e, a tratti, sulla tastiera di un organetto, mentre, in ben tre brani, la voce campionata di Roscoe Holcomb, un minatore del Kentucky che è da considerare tra i massimi autori della musica delle montagne cui si ispirò anche il giovane Dylan, si sovrappone come quello di uno spettro sulle note e sulle atmosfere create dal chitarrista1.

Chitarrista il cui debito nei confronti di John Fahey (1939-2001), forse il più grande chitarrista acustico americano, sempre sospeso tra i suoni del Delta, i raga indiani e, naturalmente, la mountain music degli Appalachi, è enorme, dichiarato e voluto.

Un disco, quello di Alessandro Asso Stefano da ascoltare e riascoltare, non soltanto per apprezzare la bravura e lo stile di un musicista italiano degno del palco internazionale, ma anche per immergersi in un universo di suoni ispirato da un mondo che, forse, non c’è più o soltanto non ancora.


  1. Si tratta di Born and Raised in Covington, Moonshiner e I Am a Man of Constant Sorrow. Quest’ultima comparsa sia nel primo album di Bob Dylan nel 1962 che nella colonna sonora del film Fratello dove sei? (Oh Brother, Where Art Thou?) dei fratelli Coen nel 2000.  

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Tout le garçons e les filles: omaggio a Francoise Hardy https://www.carmillaonline.com/2024/06/12/tout-le-garcons-e-les-filles-omaggio-a-francoise-hardy/ Wed, 12 Jun 2024 20:00:48 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=83071 di Diego Gabutti

Nel 1962 Tout le garçons e les filles fu un hit planetario. Non era una canzone sentimentale. Era una canzone intimista, tra Jacques Prévert e Amez-vous Brahms, con un tocco d’existentialisme qua e là. Era anche l’ouverture d’ogni giovanilismo a venire. C’erano già stati Jimmy Dean, Great Balls of Fire, Lassù qualcuno mi ama ed Elvis Presley. Ma Françoise Hardy, elegante, bellissima, zero pose ribellistiche, portò la jeunesse oltre l’avant-garde e molto oltre la volgarità degli «eserciti del surf», tra le opinioni rispettabili, educate, rassicuranti e per così dire dabbene. Introdusse nelle culture dei sixties, che [...]]]> di Diego Gabutti

Nel 1962 Tout le garçons e les filles fu un hit planetario. Non era una canzone sentimentale. Era una canzone intimista, tra Jacques Prévert e Amez-vous Brahms, con un tocco d’existentialisme qua e là. Era anche l’ouverture d’ogni giovanilismo a venire. C’erano già stati Jimmy Dean, Great Balls of Fire, Lassù qualcuno mi ama ed Elvis Presley. Ma Françoise Hardy, elegante, bellissima, zero pose ribellistiche, portò la jeunesse oltre l’avant-garde e molto oltre la volgarità degli «eserciti del surf», tra le opinioni rispettabili, educate, rassicuranti e per così dire dabbene. Introdusse nelle culture dei sixties, che stavano sterzando in direzione utopistica e sovversiva, gli anticorpi dell’amour, dell’amitié, della sobriété. Bob Dylan – sulla cover del suo quarto Lp, The Another Side of Bob Dylan, del 1964, che contiene canzoni come My Back Pages e All I Really Want to Do – le dedicò una poesia, «per françoise hardy»:

sulla riva della senna
un’ombra gigante
di notre dame
tenta d’affermarmi un piede
studenti della sorbona
frullano accanto su bici sottili
roteano turbinanti colori similvita in pelle
la brezza sbadiglia cibo
lontano dalle pance
di erhard che incontra johnson

Di Ludwig Erhard, all’epoca cancelliere tedesco, e persino di Lyndon B. Johnson, il presidente Usa della Great Society e della guerra all’apartheid negli Stati del sud, ci siamo dimenticati. Ma di Françoise Hardy, morta ottantenne l’11 giugno a Parigi, non si è dimenticato nessuno dei giovani d’allora (sembra impossibile che l’autrice di Voilà e di Comment te dire adieu non avesse più vent’anni – forever young come tutti la ricordiamo). «Nel 1966» – leggo su elle.it – «il New York Times scrisse che davanti a Françoise Hardy appariva preistorico chiunque avesse più di 25 anni». In quegli anni s’erano invaghiti di lei Mick Jagger, David Bowie e tutti quanti i Beatles, ma soprattutto (come abbiamo visto) era rimasto folgorato Dylan, che secondo una leggenda le scrisse una lunga serie di lettere d’amore mai spedite e dimenticate in un bar del Village, a New York, dove sarebbero riapparse, si racconta, qualche anno fa. Fossero stati meno timidi, o se il destino avesse favorito un loro incontro, mentre in realtà si videro «solo una volta, quasi per caso, avrebbero potuto diventare una delle coppie storiche della musica anni ’60», scrive Elle in prosa sospirosa.
Sembra La-la-land o un film di Claude Lelouche, e come tutte le storie belle meriterebbe d’essere vera.

È indubitabile, in compenso, che le canzoni di Hardy ancora echeggiano tra le cover più frequentate dai big delle hit parade, nelle colonne sonore, nei canzonieri radiofonici e nei jingle pubblicitari. Sono canzoni senza smancerie, a loro modo brutali, insieme toste e romantiche. Come tutti i poeti che hanno cantato l’adolescenza, da Rimbaud a Lennon-McCartney, da Salinger a Dostoevskij, Françoise Hardy non parlava soltanto ai suoi contemporanei, les garçons e le filles degli anni sessanta. Parlava ai giovani d’ogni tempo.

Basta fare un giro su YouTube – dove ho appena ascoltato la sua versione di Suzanne (Leonard Cohen) e del Ragazzo della Via Gluck, entrambe cover straordinarie – per constatare che la sua poetica e il suo stile non sono invecchiati e che lei è rimasta fino all’ultimo ragazza con la frangetta ben pettinata e l’aria triste (anche allegra, ma sempre con misura) che ha ispirato a Dylan una poesia countercultural, senza maiuscole e senza segni di punteggiatura, à la e.e. cummings. Niente percussioni, giusto una chitarra, la voce misurata, l’espressione sempre un po’ seriosa, rari i sorrisi, Hardy non ha mai avuto a che fare, se non di sghembo o di carambola, con la rock culture o col milieu dell’engagement.

Nel 1966 partecipò a un film di Jean-Luc Godard, Masculin féminin, dove Jean-Pierre Léaud, un goscista, non fa che parlare per tutto il tempo d’alienazione e di révolution, mentre Chantal Goya, la sua ragazza, è interessata esclusivamente alla musica e ai rapporti umani, l’amore, l’amicizia. Hardy compare solo in un cameo, non accreditata, ma è chiaro che le sue simpatie non vanno ai discorsi pomposi di Léaud ma a «le temps des copains et de l’aventure» di Goya. Ancora Bob Dylan, in un’intervista del marzo 1965 (la trovate in Like a Rolling Stone. Interviste, il Saggiatore 2021) ha lasciato detto a futura memoria: «Preferisco ascoltare Jimmy Reed, o i Beatles, o Françoise Hardy, piuttosto che uno di quelli che cantano queste canzoni di protesta, anche se non li ho certo sentiti tutti. Ma quelli che ho sentito… sono tutti caratterizzati da una certa vacuità, come se dicessero: “Teniamoci per mano e andrà tutto bene”. Non ci vedo niente di più. Non mi metterò certo a urlare “Oleeeeeeé” e ad applaudire solo perché qualcuno usa la parola “bomba”».

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Kick out the jams, moterfuckers! Wayne Kramer (1948 – 2024) https://www.carmillaonline.com/2024/02/19/kick-out-the-jams-moterfuckers-wayne-kramer-1948-2024/ Mon, 19 Feb 2024 21:00:40 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=81093 di Sandro Moiso

«Fuori dai coglioni, fottutissimi stronzi!». Quante volte dovremmo urlarlo ogni giorno, ad ogni ora, nel confronti di compagini politiche, culturali e musicali che, sotto le vesti del perbenismo borghese, sensibile soltanto all’odore dei soldi, oppure dell’alternativa liberal correct e della provocazione studiata a tavolino da manager ed esperti di marketing, ci assillano in ogni momento attraverso i media, i social e finti dibattiti politici (televisivi o in presenza poco importa)?

Gli MC5 (Motor City Five) di Detroit lo urlarono una volta per tutte con un brano musicale dallo stesso titolo contenuto nell’album omonimo uscito nel 1969 per [...]]]> di Sandro Moiso

«Fuori dai coglioni, fottutissimi stronzi!».
Quante volte dovremmo urlarlo ogni giorno, ad ogni ora, nel confronti di compagini politiche, culturali e musicali che, sotto le vesti del perbenismo borghese, sensibile soltanto all’odore dei soldi, oppure dell’alternativa liberal correct e della provocazione studiata a tavolino da manager ed esperti di marketing, ci assillano in ogni momento attraverso i media, i social e finti dibattiti politici (televisivi o in presenza poco importa)?

Gli MC5 (Motor City Five) di Detroit lo urlarono una volta per tutte con un brano musicale dallo stesso titolo contenuto nell’album omonimo uscito nel 1969 per l’etichetta discografica Elektra. I cinque di Detroit (Motor City) ovvero Rob Tyner (voce, 1944-1991), Fred “Sonic” Smith (chitarra, 1949-1994), Wayne Kramer (chitarra, 30 aprile 1948 – 2 febbraio 2024), Michael Davis (basso, 1943-2012) e Dennis Thompson (batteria, 1948), attualmente unico sopravvissuto del gruppo, si erano conosciuti intorno alla metà degli anni ’60 quando erano ancora studenti delle scuole superiori a Lincoln Park, una cittadina della contea di Wayne, nella regione metropolitana di Detroit.

Davis e Thompson erano subentrati nel 1965, al posto del bassista Pat Burrows e del batterista Bob Gaspar che avevano lasciato il gruppo quando Fred Smith (futuro marito di Patti Smith) e Wayne Kramer avevano iniziato a sperimentare muri di feedback e rumore bianco con le loro chitarre, ispirandosi entrambi al free jazz di Archie Shepp, Sun Ra e John Coltrane ancor più che a Jimi Hendrix.

Rob Tyner era entrato prima come manager, con il suo vero nome di Rob Derminer, dei Bounty Hunters, il gruppo originario formato da Wayne Kramer con Fred Smith al basso, Leo Le Duc alla batteria e Billy Vargo come seconda chitarra, ma poi aveva cambiato il suo nome diventandone di fatto il frontman e cantante. Ma, in realtà, lui e Wayne si erano conosciuti quando erano ancora ragazzini, entrambi provenienti, come poi tutti gli altri membri, da famiglie operaie di quella che all’epoca era considerata la capitale mondiale della produzione automobilistica.

Wayne se ne era andato di casa a diciassette anni, in un ambiente in cui tutti, comunque, si conoscevano sia per condizione di classe che per provenienza geografica, poiché gran parte di quegli operai, bianchi e neri, erano giunti a Detroit dal Sud degli Stati Uniti dopo la guerra, perché avevano sentito dire che lì avrebbero trovato lavoro.

Erano, in qualche modo, dei reietti quegli eredi della classe operaia, e sapevano di esserlo, come migliaia di altri ragazzi della loro stessa età che vivevano nei sobborghi cittadini a quell’epoca. Che alle spalle non avevano l’estate dell’amore di San Francisco, ma dello stesso anno, il 1967, la più grande rivolta urbana di quel decennio. Durante la quale la Guardia Nazionale, per sedare i disordini, aveva dovuto impiegare anche l’aviazione
Questo elemento, insieme all’ascolto del jazz d’avanguardia, fu sicuramente alla base del disastro sonoro che uscì dalle due chitarre di Kramer e Smith che, di fatto, costituirono sia il tappeto di distorsioni su cui si svilupparono le loro canzoni che il proto-punk cui, nel giro di pochissimo tempo, si ispirarono altri gruppi della stessa area metropolitana: gli Stooges di James Newell Osterberg Jr. (1947, in arte Iggy Pop), gli Up, i Grand Funk Railroad (originari di Flint, a nord-ovest di Detroit), la James Gang oppure Alice Cooper, in un elenco che per motivi di spazio rimane qui incompleto.

Dal punto di vista musicale, in una città in cui il proletariato bianco si frammischiava al proletariato afro-americano, grande era stata anche l’influenza del blues e del rhythm’n’blues di cui, precedentemente, si erano appropriati altri gruppi seminali quali i Woolies (resi celebri da una più che travolgente versione di Who Do You Love di Bo Diddley), i Rationals di Scott Morgan (che raggiunsero il successo grazie a una versione proto-garage di Respect di Otis Redding) e, soprattutto, Mitch Ryder con i suoi Detroit Wheels, autentico padrino di tutta la musica bianca e arrabbiata che sarebbe venuta a partire dalla fine degli anni Sessanta dall’area di Detroit. Ma, nella sostanza, la novità dirompente rappresentata dagli MC5 fu quella di costituire la prima rock’n’roll band apertamente politicizzata. Nelle parole rilasciate dallo stesso Wayne Kramer in un’intervista a Pat Wadsley, Tre anni di galera e quindici di Rock, negli anni Ottanta:

C’erano anche i Fugs, ma erano più underground, mentre noi combinavamo la retorica politica con il rock’n’roll […] Il rock è stato sempre qualcosa di politico: lo era Chuck Berry, lo erano i Doors. Il rock’n’roll ha sempre rappresentato la ribellione dei giovani contro il potere.
All’inizio tutte le nostre idee erano ad un livello molto semplice e grezzo. Eravamo ragazzotti che venivano dalla strada e sapevamo solo che potevano fregarci se solo avessero voluto, in qualsiasi momento.

Da questo primitivo sentimento di oppressione sociale derivano sicuramente le parole urlate da Rob Tyner all’inizio di Motor City Is Burning, nel primo e più riuscito album del gruppo:

“Fratelli e sorelle, voglio dirvi una cosa! Sento un sacco di chiacchiere da un sacco di stronzi seduti su un sacco di soldi dicendomi che sono l’alta società. Ma voglio che voi sappiate una cosa, se me lo chiedete: questa è l’alta società! Questa è l’alta società!“

Così mentre, da un lato, ogni loro concerto era definibile come “una forza catastrofica della natura che la band era a malapena in grado di controllare”, dall’altro, i giornali conservatori definivano le loro esibizioni “orgasmi collettivi, ubriacature selvagge, valanghe di suono scaricate alla rinfusa sul pubblico, traboccanti di oscenità e slogan.” Sesso, droga, protesta e rock’n’roll riuscivano dunque a colpire nel segno. Ma fu l’incontro con John Sinclair, il teorico e attivista delle White Panthers a definire meglio l’attitudine di Kramer e compagni:

Quando arrivò John non fece altro che dire le stesse cose in termini politici e noi fummo d’accordo. Pensammo che aveva proprio ragione. Era un poeta, un critico e un organizzatore. Era l’unico che riuscisse a comunicare con noi, a trasformare un gruppo di maniaci del rumore in un complesso musicale che potesse esibirsi e continuare a far funzionare il tutto nel tempo1.

Nato a Flint, nel 1941, John Sinclair fu tra gli organizzatori del giornale underground di Detroit, “Fifth Estate”, alla fine degli anni ’60; contribuì alla formazione della Detroit Artists Workshop Press; lavorò come giornalista jazz per “Down Beat”dal 1964 al 1965, essendo un esplicito sostenitore del nuovo movimento del Free Jazz e fu uno dei “Nuovi Poeti” presenti alla seminale Berkeley Poetry Conference nel luglio 1965. Nell’aprile del 1967 fondò l’”Ann Arbor Sun”, un giornale underground, mentre dal 1966 al 1969 è stato il manager degli MC 5. Sotto la sua guida la band abbracciò la politica rivoluzionaria della controcultura del White Panther Party, fondato in risposta all’appello delle Pantere Nere affinché i bianchi sostenessero il loro movimento.

Durante questo periodo, Sinclair, teorico dell’”amore armato”, fece in modo che la band fosse ingaggiata regolarmente al Grande Ballroom di Detroit, dove in seguito fu registrato dal vivo, il 30 e 31 ottobre 1968, il loro primo album, Kick Out the Jams. Stava gestendo gli MC5 al momento del loro concerto gratuito fuori dalla Convenzione Nazionale Democratica del 1968 a Chicago, quando la band fu l’unico gruppo ad esibirsi prima che la polizia interrompesse la massiccia manifestazione contro la guerra in Vietnam. Lui e la band si separarono nel 1969. Nel 2006, Sinclair si è riunito però ancora all’ex-bassista degli MC5 Michael Davis per lanciare la Music Is Revolution Foundation.

Dopo una serie di condanne per possesso di marijuana, Sinclair fu condannato a dieci anni di carcere nel 1969 dopo aver offerto due joint a un’agente della narcotici sotto copertura. La severità della sua condanna scatenò diverse proteste pubbliche che culminarono nel John Sinclair Freedom Rally alla Crisler Arena dell’Università del Michigan ad Ann Arbor nel dicembre 1971. Tre giorni dopo la manifestazione, Sinclair fu rilasciato dal carcere quando la Corte Suprema del Michigan stabilì che le leggi statali sulla marijuana erano incostituzionali.

Nel 1972 Sinclair fu accusato di cospirazione per distruggere proprietà governative insieme a Larry Plamondon e John Forrest, ma in appello la Corte Suprema degli Stati Uniti emise una decisione storica, vietando l’uso da parte del governo degli Stati Uniti della sorveglianza elettronica domestica senza un mandato, liberando ancora una volta Sinclair e i suoi coimputati2. Sui motivi della rottura con Sinclair, Wayne Kramer si sarebbe in seguito espresso così:

Si arrivò alla rottura con John e con tutto il partito delle White Panther. Forse accadde perché in quel periodo John stava per essere condannato ad una pena detentiva e quando capisci che stai per andare in prigione cominci a diventare nervosissimo. Di solito te la prendi con tutti quelli che hai intorno oppure giuri di smetterla. John invece, per reazione, divenne ancor di più un militante convinto. A quel tempo non sapevo ancora cosa vuol dire avere davanti la prospettiva di andare in galera, lo imparai solo più tardi, così non potevo capire la sua esplosione di militanza [In precedenza] tutto era iniziato come una specie di club atletico-sociale, poi decidemmo di metterci a fare sul serio. Le Black Panthers erano tipi duri? Anche le White Panthers dovevano esserlo. Le Black Panthers avevano armi? Anche noi allora e se loro sparavano anche noi dovevamo sparare. Ci esaltavamo con la retorica del momento, ma quando decidemmo alla fine di non avere più niente a che fare con loro, capimmo che il nostro attivismo era consistito nel suonare e pagare i conti delle attività di quel partito da operetta 3.

La fine degli MC5 sarebbe arrivata nel 1971, quando la band perse il contratto discografico con l’Atlantic, che aveva sostituito quello con la Elektra, e non riusciva più a suonare. Fino a quando Mick Farren (1943-2013), capo della sezione inglese delle White Panthers e cantante della band proto-punk inglese dei Deviants (tre album tra il 1967 e il 1969) riuscì a organizzare un loro tour europeo in concomitanza con un festival musicale. Ancora dai ricordi di Kramer:

Non ci pagarono, ma ci diedero i biglietti per il viaggio, così cercammo di farci ingaggiare per qualche altro concerto in Inghilterra. Partimmo per Londra dove rimanemmo per circa un anno. Era l’ultimo viaggio all’estero degli MC5, sapevamo che non saremmo rimasti insieme ancora per molto. Ci fu poi quella tournée, la migliore che avessimo mai avuto, Avrebbe dovuto durare sei settimane, dieci giorni in Scandinavia poi l’Inghilterra, la Francia, con apparizioni alla televisione e alla radio, per finire con due settimane in Italia. Avremmo potuto separarci con stile alla fine della stessa, avendo qualche migliaio di dollari in tasca per incominciare qualcosa di nuovo, ma quando stavamo per partire arrivò la moglie del cantante: disse che non avrebbe lasciato venire suo marito. Risposi che ero pienamente d’accordo con lei sul fatto che suo marito non avrebbe dovuto cantare in un complesso, per il semplice fatto che non ne era all’altezza. A spassarsela fra un concerto e l’altro era bravissimo, ma solo a far quello. Pensavo però che avendo firmato un contratto avrebbe dovuto rispettarlo, se non altro perché se non fosse venuto avrebbe messo in difficoltà tutti noi. Finimmo però per partire senza di lui.

Io e Fred facemmo a turno i cantanti, senza sapere neanche la metà delle parole delle canzoni o cantandole nella tonalità sbagliata. Fu un’esperienza orribile, la peggiore della mia vita: si arrivava in un posto, c’era il finanziatore con la moglie, si mangiava qualcosa, si beveva, dicevamo le solite cose. «Come siamo contenti di essere qui» eccetera eccetera. Poi salivamo sul palco, facevamo uno spettacolo pietoso e quando tornavamo nei camerini se ne erano andati tutti, non riuscivamo a trovare nessuno per farci pagare. Gli italiani, visto come andavano le cose, cancellarono i nostri spettacoli: «Paghiamo per cinque e ne vengono soltanto quattro. Potete scordarvelo». Questo capitava mentre Sinclair era in prigione.4.

Una descrizione impietosa della fine di una leggenda, com’è giusto che sia, ma i travagli per Kramer erano ancora soltanto agli inizi. Tornato a Detroit, Kramer avrebbe iniziato a collaborare con il suo idolo Mitch Ryder, ma anche quest’ultimo avrebbe ben presto iniziato a dare segni di follia con comportamenti anomali e pericolosi, per sé e per gli altri che lo circondavano. Come ancora racconta Wayne: « Era diventato pazzo perché aveva venduto più di dieci milioni di dischi senza mai riuscire a vedere un centesimo, per cui non si fidava più di nessuno. Alla fine aveva dato di fuori di brutto ».

Così Kramer, dopo aver girovagato tra complessini nemmeno degni di esser ricordati, musiche pubblicitarie e infimi club, avrebbe finito con l’approdare, grazie anche alle proprie dipendenze, ai giri più che loschi legati al commercio e allo spaccio di droga. Eroina e cocaina. Come ricordava ancora nell’intervista già citata:

Mi arrestarono diverse volte in quel periodo per delle scemenze, non voglio neanche parlarne, non è interessante. Ritengo, adesso che ho avuto un po’ di tempo per pensarci su, di essere arrivato a immischiarmi in quel tipo di traffici anche perché ne ero attratto, mi sembrava di essere un ribelle […] Ma il fatto è che se non riesci nella musica perdi tempo e denaro, ma se sbagli in quel tipo di affari vai in galera o ci rimetti la pelle […] così un affare oggi, un affare domani mi ritrovai davanti ad un giudice per aver cercato di vendere cocaina a due agenti federali […] Il giudice disse: « Per il suo caso, signor Kramer, la legge prevede tre anni di reclusione». Prima mi aveva detto un massimo di cinque, per cui ero contento e mi dicevo: « Va bé, me li farò», ma in quello si alza un impiegato del tribunale e dice: « Vostro onore, c’è un errore, la legge prevede cinque anni di carcere ». E il giudice: « Insomma, tre o cinque che siano… Faremo una via di mezzo, gliene darò quattro » […] Lo sceriffo mi mise una mano sulla spalla e alle sei di quella sera ero chiuso in prigione.

Dopo gli anni di galera iniziò la lenta, faticosa risalita. Prima con l’esperienza, ancora una volta fallimentare, con i Gang War messi insieme ad un altro noto tossico e loser, Johnny Thunders, poi via via con dischi solisti o con compagni più affidabili. Dieci in tutto tra la fine degli anni Ottanta e il 2004, non molto. Eppure, eppure….

Wayne ha dimostrato, insieme a Fred “Sonic” Smith e agli altri suoi compagni di un effimero, violento, selvaggio e spericolato viaggio che la “musica giovanile” può essere ben altro da ciò che, oggi, gruppi tardo-glam o finti rapper e veri trapper vogliono proporre come novità musicali e artistiche. Lanciando, contro di loro e i vari promotori del business dello spettacolo, quell’indomito e sempre attuale grido di rabbia e disprezzo: Kick Out the Jams, Motherfuckers!!


  1. P. Wadsley, intervista a Wayne Kramer, cit.  

  2. Alcuni degli scritti di John Sinclair tradotti in italiano sono reperibili in J. Sinclair, Va tutto bene, traduzione di A. Prunetti, Stampa Alternativa 2006 e J. Sinclair, Guitar Army. Il ‘68 americano tra gioia, rock e rivoluzione, traduzione di A. Prunetti, Stampa Alternativa 2007.  

  3. P. Wadsley, intervista, cit.  

  4. Ibidem.  

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Un prontuario per musiche (quasi) dimenticate. Ricordo di Franco Ghigini (1957-2024) https://www.carmillaonline.com/2024/02/07/un-prontuario-per-musiche-dimenticate-in-ricordo-di-franco-ghigini-musicista-e-ricercatore-indimenticabile/ Wed, 07 Feb 2024 21:00:07 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=80993 di Sandro Moiso

Il 28 gennaio, a causa di una malattia con cui combatteva da tempo, si è spento Franco Ghigini. Musicista e intellettuale colto e raffinato; etnomusicologo e compositore; storico e ricercatore delle tradizioni culturali e musicali non soltanto della valle tanto amata da cui proveniva, la Val Trompia; scrittore e giornalista; organizzatore di festival musicali e promotore di iniziative culturali; docente al Conservatorio di Brescia e insegnante di organetto diatonico presso la Scuola di Musica Popolare ACP della Valle Verzasca in Svizzera; compositore e divulgatore, Franco poteva e può ancora tutt’ora essere considerato non soltanto uno degli intellettuali [...]]]> di Sandro Moiso

Il 28 gennaio, a causa di una malattia con cui combatteva da tempo, si è spento Franco Ghigini.
Musicista e intellettuale colto e raffinato; etnomusicologo e compositore; storico e ricercatore delle tradizioni culturali e musicali non soltanto della valle tanto amata da cui proveniva, la Val Trompia; scrittore e giornalista; organizzatore di festival musicali e promotore di iniziative culturali; docente al Conservatorio di Brescia e insegnante di organetto diatonico presso la Scuola di Musica Popolare ACP della Valle Verzasca in Svizzera; compositore e divulgatore, Franco poteva e può ancora tutt’ora essere considerato non soltanto uno degli intellettuali più significativi prodotti dalle valli lombarde, ma dall’Italia contemporanea tout cour.

Moderno eppure appassionato dal passato e dalle vite più umili, che in quello era possibile ritrovare anche se, spesso, avevano dovuto celarsi allo sguardo delle istituzioni, del potere e della Chiesa, ha saputo ricollegare, nel corso di tutto il suo lavoro, condotto fino agli ultimi mesi di vita, le culture e le tradizioni musicali espresse decenni o secoli or sono con il tempo presente e anche a un possibile futuro, sempre alla luce di un impegno e di una serietà che ben pochi altri potrebbero vantare. Il tutto accompagnato da una rara sensibilità artistica e umana, difficilmente riscontrabile in tanti altri studiosi ed esperti (veri o anche soltanto presunti tali).

Formatosi alla scuola di Roberto Leydi, dopo aver abbandonato gli iniziali studi in Medicina, ha sempre inseguito le tracce dei suoni della musica celtica e i suoi infiniti percorsi tra le valli alpine, la Scozia, l’Irlanda, la Bretagna e gli Stati Uniti. Ma facendo questo Franco ha sempre spinto lo sguardo oltre i confini sia della musica europea e statunitense che della musica tradizionale. Mai rinnegando l’infinito amore per ogni ambito della popular music: dal rock, nelle sue varie manifestazioni, al country e al blues, ma anche senza mai tralasciare il jazz, la musica classica e anche quella più sperimentale.

Ispirato ad un ideale di bellezza e perfezione, senza per questo scadere nell’estetismo e anzi dimostrandosi capace in ogni occasione di riunire e spiegare insieme le ragioni sociali e culturali e le motivazioni più profonde delle esperienze e delle scelte estetiche dei musicisti e dei loro prodotti sonori, Franco Ghigini è sempre stato molto severo. Soprattutto con se stesso e il proprio operato. Sia che si trattasse di un libro, di un breve saggio, dell’esecuzione di un brano o della preparazione di una conferenza, tutto doveva essere curato nei minimi dettagli affinché si avvicinasse il più possibile all’essere perfetto.

Da questo, però, non bisogna far discendere l’immagine di un intellettuale pedante o pignolo, tutt’altro. Sempre disponibile alla battuta, alla frase scherzosa, al sorriso e alla risata sincera, ha regalato agli amici, ai conoscenti o anche a chi lo ha conosciuto per una sola serata, magnifici e indimenticabili momenti di umanità e di pacata riflessione sulla vita, l’arte e un mondo spietato contro cui egli si è battuto con i suoi modi sempre garbati, ma altrettanto decisi.

Per questo chi scrive pensa che sia utile e necessario portare a conoscenza del pubblico dei lettori anche l’ultimo progetto editoriale che ha avuto appena il tempo di abbozzare, ma che già nella sua formulazione ne rivela il carattere, allo stesso tempo, schivo, sincero e mai, proprio mai, superficiale.
Insieme alla proposta viene qui allegata la lista dei dischi che egli avrebbe voluto presentare nella ricerca e la prima (e unica) scheda compilata in vista di tale lavoro.

Grazie Franco: è stato un onore conoscerti e aver potuto collaborare con te, ma soprattutto per il fatto che il tuo percorso di vita, passione e studi ha reso questo mondo migliore, anche se per una stagione davvero troppo breve.

Prontuario intimo di musiche (quasi) dimenticate

Sono cento e ancora cento i dischi imprescindibili per un appassionato di musica.
Quelli che egli sente parte di sé, che ne hanno accompagnato vicende, esperienze, incontri, attimi feriali resi memorabili proprio da tale privato legamento. Quelli che lo hanno cambiato poiché, è bene ricordarlo, ogni scoperta musicale induce una nuova attitudine all’ascolto, un nuovo ascoltatore; di più, incoraggia a un nuovo modo di guardare il mondo.
E sono musiche che, per una sorta di rimando speculare, vengono condizionate da questa sintonia, rimodellate dalla personale simbiosi d’uso, mondate da categorie di genere per essere consegnate a una tassonomia del cuore.
Applicarsi a un compendio che trattenga tale molteplicità è operazione ardua. Difficile altresì disporre in una selezione critica ciò che, sedimentato nelle successive stagioni musicali e della vita, si offre a un presente costantemente mutevole.

Mi sono perciò dedicato imponendomi criteri che delimitassero l’ambito d’indagine e si risolvessero, se possibile, nella scelta la più sincera e magari la meno risaputa. Ho così evitato ciò che molti appassionati hanno avuto modo di conoscere e apprezzare negli anni grazie ad ampi riscontri di critica o di pubblico. La bibliografia che affronta fenomeni, scuole, idiomi e protagonisti della popular music è infatti ormai sterminata e ribadirla avrebbe reso il mio impegno ridondante e retorico.
Ho eluso quindi i grandi nomi e dischi che hanno decretato la storia, meglio le storie della musica – anzitutto rock e jazz – nel secondo Novecento e nell’inizio di millennio che stiamo vivendo. Non si troveranno descritte le opere più rappresentative, in differente contesto irrinunciabili, del progressive, della scena di Canterbury, della psichedelia, della West Coast, delle jam bands, di Frank Zappa l’alieno, del blues, del southern rock, della new wave, del folk revival e del psych folk, del bluegrass e del country rock, della new acoustic music, della minimal music, dell’ambient music, delle innumerevoli correnti del jazz e via dicendo.
Non mi sono soffermato su quelli che, per me e presumo per altri, potrebbero essere i dischi perfetti: a titolo di esempio e in ordine sparso mi piace però menzionare, giusto per chiarire i miei gusti musicali, i Beatles indistintamente da Rubber Soul ad Abbey Road, Pet Sounds dei Beach Boys, Astral Weeks e Moondance di Van Morrison, Blonde On Blonde di Bob Dylan, Forever Changes dei Love, If I Could Only Remember My Name di David Crosby, At Fillmore East della Allman Brothers Band, In Search Of The Lost Chord dei Moody Blues, In The Court Of The Crimson King dei King Crimson, Bryter Layter e Pink Moon di Nick Drake, Rock Bottom di Robert Wyatt, Hosianna Mantra dei Popol Vuh, After The Break dei Planxty, The Köln Concert di Keith Jarrett, Kind Of Blue di Miles Davis, Impressions e A Love Supreme di John Coltrane, In C e A Rainbow In Curved Air di Terry Riley, Music For 18 Musicians e Tehillim di Steve Reich.
Ho pure tralasciato dischi a me cari di protagonisti minori e, come si usa dire, di beautiful losers, perle che la più attenta e meritoria critica musicale ha già svelato e diffusamente valorizzato in benedette riviste specializzate.
Inoltre, non avendo l’indole del collezionista, non ho prestato attenzione al disco valevole in quanto raro, meglio se introvabile.

Alla luce di questi vincoli e forse grazie a essi, ecco affiorare, limpido, ciò che ho invece sentito appartenermi profondamente. Musiche che sono entrate nella mia vita e per ragioni misteriose sono rimaste, musiche davvero indispensabili solo per me poiché a legarmi è un’affezione particolare, una risonanza intima prima che estetica.
Nella più assoluta libertà, senza badare a coerenze di periodo, di linguaggio o di stile, ho pertanto individuato alcune decine di dischi, da cui a fatica i trenta qui condivisi: taluni passati inosservati e dimenticati, altri ascrivibili a scenari più o meno minoritari, altri non eminenti nella produzione di musicisti titolati, qualcuno ben conosciuto, ma impossibile da escludere. Una selezione che tuttavia rivela, e non potrebbe essere viceversa, la mia predilezione per le varie espressioni del folk revival anglo-celtico e francese, la minimal music, le atmosfere rarefatte coltivate da etichette come la tedesca ECM, la musica acustica.
Non v’è da parte mia, tengo infine a sottolinearlo, alcuna precisa vocazione istruttiva, piuttosto il riannodare un affatto soggettivo itinerario di bellezza, sperando si configuri per il lettore e ascoltatore in un viaggio musicale chissà egualmente avvincente, foriero di inaspettate conferme ed emozionanti sorprese.
Ciascun disco, dettagliato in una scheda nella quale mi concedo anche digressioni personali, sarà corredato, in calce al volume, da links per l’ascolto in rete e da un’attinente discografia minima. A conclusione, sarà anche proposta una selezione bibliografica orientativa.
Confido che questa prima tappa, riservata alla musica internazionale, venga seguita da una seconda, dedicata esclusivamente alla musica italiana.
Intanto, buona lettura e buon ascolto!

Franco Ghigini

I prescelti

• Eberhard Weber Fluid Rustle
• Oregon Winter Light
• John Surman Road To St. Ives
• Steve Lacy / Gil Evans Live In Paris
• Roger Eno Between Tides
• Brian Eno Discreet Music
• David Behrman On The Other Ocean
• Alvin Curran Canti e vedute del giardino magnetico
• Virginia Astley From Garden Where We Feel Secure
• Kent Carter Solo
• Popol Vuh Seligpreisung
• Daniel Hecht Willow
• Darol Anger / Mike Marshall Chiaroscuro
• Ira Stein / Russel Walder Elements
• Last Dance Orchestra Lost For Words
• Makam & Kolinda
• Danish String Quartet Last Leaf

Murray Head Between Us
• Nigel Mazlyn-Jones Sentinel & The Fools Of The Finest Degree
• Heidi Berry Love
• The Pearlfishers Across The Milky Way
• Michael Head & The Strands The Magical World Of The Strands
• Allan Taylor Sometimes
• Blowzabella Wall Of Sound / A Richer Dust / Vanilla
• Lo Jai Acrobates et Musiciens
• Marc Perrone Cinema Memoire
• Den Den
• Gabriel Yacoub Babel
• Alan Roberts & Dougie MacLean Caledonia
• Moving Hearts Moving Hearts

Altri…
• Bert Jansch
• Eric Andersen
• Michael Franks
• Julverne
• Sundays
• Dan Ar Braz
• Luis Di Matteo

MURRAY HEAD

Between Us
Philips, 1979

Cantautore e attore londinese, Murray Head non è mai figurato nella più nota scena musicale britannica: un riscontro discontinuo il suo, tuttavia agli inizi di carriera premiato dalla partecipazione al musical Jesus Christ Superstar (1970) e dal successo del brano Say It Ain’t So Joe (1975). Between Us, album bissato con grazia affine da Voices (1980), è un florilegio di delicate canzoni. Una voce che spesso tende al timbro del falsetto si dispone su un sobrio tappeto elettroacustico, efficace nel permeare la suadente proposta musicale. Vi suonano in punta di dita, per la produzione di Rupert Hine, Bob Weston alla chitarra solista, Trevor Morais alla batteria e i musicisti del giro canterburiano John G. Perry al basso e Geoffrey Richardson a basso e chitarra. Simon Jeffes, indimenticato inventore della Penguin Café Orchestra – ora guidata dal figlio Arthur come Penguin Café –, è responsabile degli arrangiamenti di archi.
Ancora una volta la copertina dice assai: una fotografia lo ritrae, in uno scenario al limine fra terra, mare e cielo, guardare la figlioletta. L’invito è a soffermarsi appunto su ciò che sta nel loro – e nel nostro – «between us», su amore e affetti anzitutto, interpretati con un approccio che oggi si direbbe minimale. Scegliendo un dialogo riservato e un’ombreggiatura malinconica Murray Head racconta piccole vicende della vita, dolori, crucci, speranze. Per tutta un’estate di molti anni fa non riuscii a staccarmi da questo disco, emozionato dalla fragrante scoperta musicale; e lo alternavo all’ascolto del capolavoro di Nick Drake Pink Moon (1972), tanto diverso eppure simile nell’evocare un medesimo stato d’animo, ovvero che per una sorta d’incantamento venissi privilegiato fra mille da una così intima confessione.
La peculiare atmosfera è presto chiarita in Los Angeles, How Many Ways, nel lieve reggae di Rubbernecker. E quando il canto diviene perentorio, come nella dichiarazione dal programmatico titolo Sorry, I Love You, e l’umore di Countryman assume toni rock si tratta in fondo di dialettica con la gentilezza, assai evidente in It’s So Hard, Singing The Blues, Good Old Days e Lady I Could Serve You Well.
Nella bella Mademoiselle – unica traccia prodotta da Paul Samwell-Smith – il titolo e l’allure parigina non sono casuali poiché Murray Head troverà grande credito proprio in Francia, sua adottiva patria artistica. A questa predilezione infatti dedicherà brani in lingua francese: in una cospicua discografia approdata a un elegante pop, l’album Rien N’Est Écrit (2008) si distingue indubbiamente fra i migliori. È vivo ancora in me il ricordo di quando, nel 1984 in un viaggio in Bretagna alla ricerca del sacro graal del folk, m’imbattei a Brest in cartelloni che annunciavano proprio un suo concerto: la sorpresa fu vederlo su un palco da rock star e un migliaio di giovani cantare le sue canzoni.
La conclusione è affidata, con ribadito garbo, da Bye, Bye, Bye: «Io me ne devo proprio andare / Tutto non ha più interesse / Porta a pensare troppo / E a sentirsi sempre peggio».

Qui un’intervista rilasciata da Franco Ghigini all’autore, pubblicata su Carmillaonline il 25 ottobre 2017, con la quale veniva ricostruito il suo percorso e le sue esperienze di formazione e di indagine etno-musicologica.

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La luminosa oscurità del signore della Grande Mela https://www.carmillaonline.com/2023/12/13/loscurita-luminosa-del-signore-della-grande-mela/ Wed, 13 Dec 2023 21:00:17 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=80314 di Sandro Moiso

Will Hermes, Lou Reed, il re di New York, Edizioni minimum fax, Roma ottobre 2023, pp. 775, 28 euro

La musa per eccellenza di Lou Reed era New York con la sua bellezza selvaggia e cacofonica, le seduzioni, i pericoli e i milioni di storie. Al concerto che organizzò per i suoi cinquant’anni al Madison Square Garden nel 1997, David Bowie presentò Lou Reed – l’ospite più importante della serata – come il « re di New York». (Will Hermes – Lou Reed)

Occorre iniziare da questo rapido appunto dell’autore della monumentale biografia di Lou Reed, appena [...]]]> di Sandro Moiso

Will Hermes, Lou Reed, il re di New York, Edizioni minimum fax, Roma ottobre 2023, pp. 775, 28 euro

La musa per eccellenza di Lou Reed era New York con la sua bellezza selvaggia e cacofonica, le seduzioni, i pericoli e i milioni di storie. Al concerto che organizzò per i suoi cinquant’anni al Madison Square Garden nel 1997, David Bowie presentò Lou Reed – l’ospite più importante della serata – come il « re di New York». (Will Hermes – Lou Reed)

Occorre iniziare da questo rapido appunto dell’autore della monumentale biografia di Lou Reed, appena pubblicata da Minimum Fax, per entrare nel mondo vasto, complesso e ramificato che ha dato vita e ispirazione ad una delle più importanti leggende del rock.

A differenza di altre biografie dello stesso musicista, che hanno dato più spazio alle testimonianze di chi aveva conosciuto Lewis Allan Reed (1942- 2013) come quella di Victor Bockris pubblicata per la prima volta nel 1994 e in Italia nel 1999, quella di Will Hermes cerca di ricostruire con estrema accuratezza l’humus non soltanto sociale, ma anche, e forse soprattutto, culturale e letterario da cui è sorta la figura di uno dei protagonisti della scena musicale della seconda metà del ‘900.

Figura che soltanto una metropoli come New York e nessuna altra al mondo avrebbe potuto creare. Una figura che nelle innumerevoli contraddizioni che l’hanno caratterizzata ha saputo spesso, e probabilmente in maniera involontaria, riassumere quelle di una città mondo in cui l’arte moderna si è incontrata con gli slum degli immigrati più poveri, la violenza con la gioia di vivere, le culture ebraiche della diaspora con quella degli afro-americani di Harlem, l’oscurità dei vicoli dello spaccio e delle innominabili prestazioni sessuali con la luce del Central Park (dove comunque, in prossimità di uno degli ingressi, fu ucciso John Lennon proprio da un ammiratore), la Statua della Libertà con le osservazioni caustiche e feroci di Le Roi Jones sul razzismo americano, l’innovazione jazzistica e letteraria con le ambientazioni di tanti film noir e i concerti alla Carnegie Hall durante i quali furono presentate per la prima volta al pubblico opere di Antonin Dvořák, Richard Strauss, George Gershwin, Sergej Rachmaninov, Arnold Schönberg, Duke Ellington, Igor’ Fëdorovič Stravinskij, Olivier Messiaen, Edgard Varèse e Philip Glass, solo per citare alcuni compositori e tralasciandone molti altri altrettanto famosi.

Una sala da concerto che da sola già potrebbe riassumere tanta dell’esperienza musicale poi rimaneggiata da Lou Reed e che portava in sé sia le stimmate del grande capitalismo industriale, essendo stata costruita nel 1890 per volontà di Andrew Carnegie uno dei magnati più importanti dell’acciaio americano e delle sue guerre, che della cultura di massa, oltre che colta, legata alla musica di largo consumo, avendo ospitato sulla sua scena, tra i tanti, i Beatles, David Bowie, Shirley Bassey, i Jethro Tull, i Rolling Stones, Frank Sinatra, Neil Young, Ike e Tina Turner e infiniti altri protagonisti della musica pop, rock e soul.

Elenchi qui riportati soltanto per far comprendere il composito quadro culturale di una città che, probabilmente, dagli anni Quaranta fino all’inizio del XXI secolo ha costituito una specie di capitale mondiale della cultura moderna; in cui ha mosso i primi passi da gallerista Peggy Guggenheim e straziato le corde delle chitarre elettriche il primo punk dei gruppi che si esibivano al CBGB, situato al 315 della Bowery nel Lower East Side di Manhattan.

Gruppi che, e qui è possibile ricollegarsi al protagonista della biografia di Hermes, tutti dovevano o traevano qualche ispirazione dal gruppo di cui Lou Reed, con la spinta di Andy Warhol e l’aiuto di John Cale e degli altri componenti della band, Maureen Tucker, Sterling Morrison e la cantante e modella di origine tedesca Nico, dalla bellezza algida e statuaria, era stato la mente e il motore principale fin quasi alla fine di quella esperienza: i Velvet Underground.

Per gli standard dell’epoca, i Velvet Underground non furono mai un gruppo di successo: non ebbero mai un singolo in classifica, negli Stati Uniti suonarono sempre in piccoli club, almeno fino alla reunion degli anni Novanta e per un certo periodo i loro dischi andarono persino fuori catalogo. Erano un segreto condiviso da pochi e illuminati seguaci, oppure da altri artisti: interpretare una canzone di Lou Reed indica ancora oggi l’appartenenza a una corporazione di arti oscure all’avanguardia estetica1.

Il percorso musicale di Lou, però, era iniziato prima, come dimostrano anche i nastri recentemente pubblicati o ripubblicati grazie alla New York Public Library for Perfoming Arts, che ha acquisito nel 2017 l’intero lascito artistico del cantautore statunitense che ripercorre il suo tragitto artistico dai primi passi dello stesso nelle band di cui aveva fatto parte ancora ai tempi delle high school fino agli ultimi concerti del 2013; con particolare attenzione rivolta ai materiali della Sister Ray Enterprises, la società che aveva fondato per supervisionare il catalogo di tutto ciò che aveva prodotto sia in tour che in sala di registrazione.

Reed cominciò la sua carriera scrivendo canzoni d’amore, di solitudine e di persone imperfette, argomenti comuni del rock’n’roll rivolto a un pubblico di adolescenti, l’unico concepibile per quel tipo di musica negli anni Cinquanta e primi Sessanta. Ma le sue prime canzoni parlano anche di droga, violenza domestica, psicologia di genere, dipendenza, rapporti BDSM. Tutti argomenti radicali e rivoluzionari nel 1966, l’anno in cui il gruppo registrò il disco di debutto, The Velvet Underground & Nico. Quando oggi canzoni con argomenti analoghi entrano in classifica è difficile immaginare quanto fosse inaudito all’epoca «il manifesto programmatico» di Reed: «prendere il rock’n’roll, il formato pop e farlo diventare un genere per adulti. Con argomenti da adulti, scritto in modo che potesero ascoltarlo persone come me»2.

Le dichiarazioni tra virgolette sono state rilasciate da Lou Reed al giornalista Bill Flanagan per un libro di quest’ultimo tratto da varie conversazioni avute con cantautori rock3. Ma ci ricordano ancora una volta, semmai ce ne fosse bisogno, la complessità del lavoro di Reed, quasi fin dagli esordi e l’assoluta mancanza di quell’improbabile innocenza che fu invece troppe volte e talvolta esageratamente sbandierata dalle parti della California e dei musicisti di San Francisco in quegli stessi anni.

Va qui sottolineato che Hubert Selby jr., è stato per Reed sicuramente un autore di riferimento con il suo Ultima fermata a Brooklyn (1964 – prima edizione italiana Feltrinelli 1966), ambientato a New York nel 1952, durante la guerra di Corea. Un romanzo corale in cui, per la prima volta, alle tematiche di lotta sindacale si intrecciano quelle riguardanti sessualità irrisolte e confuse, consumo di droghe pesanti e dipendenze varie, tali da proporre per la prima volta in assoluto un’immagine del proletariato americano e del suo sempre più prossimo sottoproletariato assolutamente realistica, lontana mille miglia dal realismo ottocentesco e del primo Novecento e tale da far apparire i protagonisti delle storie ambientate nelle periferie romane da Pasolini come innocui personaggi di una storiella per bambini (immaturi).

E’ in quest’ansa della letteratura statunitense che si colloca la scrittura di Reed che, come ricorda Hermes, scriveva sicuramente per esorcizzare i suoi demoni, anche se ciò non toglie che la sua scrittura fosse militante.

Di regola, non era un autore esplicitamente politico, ma fin dai primissimi nastri e demo – la cover di Blowin’ in the Wind di Bob Dylan, uno dei musicisti che più lo hanno influenzato e in un certo senso un suo rivale; oppure l’evocazione della battaglia per i diritti civili in Put Your Money on the Table – ha messo in discussione lo status quo. Persino Heroin, se la si ascolta con attenzione, è una canzone politica, quanto mai rilevante in un’epoca di interminabile crisi degli oppioidi. E naturalmente c’è New York, il suo disco più coerente e appagante, in cui attacca l’avidità, l’ipocrisia e la corruzione del sistema politico ed economico americano, e il suo influsso sulla vita dei ricchi e dei poveri per le strade della sua città4.

Lì la Statue of Liberty diventa la Statue of Bigotry, probabilmente anche per effetto dell’influenza che Laurie Anderson, compositrice d’avanguardia e raffinata performer che fu sua complice, compagna e moglie per più di due decenni, esercitò sulla sua vena creativa. Così come, dal punto di vista musicale, aveva fatto invece John Cale negli anni iniziali dei Velvet Underground.

Il secondo, nato nel Galles del sud, in una zona fortemente industrializzata e che non parlò inglese fino a quando non iniziò ad andare a scuola all’età di sette anni, dopo aver imparato a suonare la viola (poi elettrica nei Velvet), finita l’accademia, aveva viaggiato attraverso gli Stati Uniti, grazie ad una borsa di studio, per continuare i suoi studi musicali e arricchire il suo bagaglio di esperienza, grazie all’aiuto e all’influenza di Aaron Copland e, si dice, di Leonard Bernstein.

Una volta arrivato a New York, aveva avuto modo di incontrare vari influenti compositori ed entrò in contatto con la “controcultura” della metropoli. Nel settembre 1963, insieme a John Cage e a molti altri, Cale partecipò a una maratona pianistica lunga diciotto ore che fu la prima rappresentazione integrale dell’opera, di Erik Satie, Vexations. Dopo la performance entrò a far parte dell’ensemble musicale diretto da La Monte Young e in seguito, nel 1965, conobbe Lou Reed.

Così mentre Cale portò nei Velvet e in Reed l’influenza dell’avanguardia musicale europea, legata al movimento Fluxus, e americana, Lou Reed avrebbe portato l’influenza del rock’n’roll, di Dylan, della musica nera (jazz e blues) e della vita delle strade di New York. Il gioco era fatto e niente sarebbe più andato per il verso “giusto”.

In effetti Lewis Allan Reed era l’incarnazione della scena artistica della New York del secondo dopoguerra. Si innamorò del rock’n’roll e del doo wop newyorkese e regisrò il primo singolo alla fin degli anni Cinquanta […] Al college studiò scrittura con il poeta modernista Delmore Schwartz, che divenne il suo mentore artistico e di cui non smise mai di tessere le lodi […] Reed vide il quartetto di Ornette Coleman durante i leggendari concerti al Five Spot café nel 1959 e ne fu profondamente colpito […] e fondò una rivista letteraria che prendeva il nome da Lonely Woman di Coleman, da lui spesso citato come il suo pezzo preferito in assoluto5.

Questo, e molto altro ancora, rivela la biografia di Reed scritta da Will Hermes: dei suoi infernali scatti d’ira, della sua dolcezza, della serenità in attesa della morte mentre si cullava in una vasca d’acqua calda, ma soprattutto di un percorso intellettuale, letterario e musicale che si rivela ben più interessante delle vicende legate agli elettroshock cui fu sottoposto in giovane età oppure alla sua bisessualità e alle dipendenze. Anche se tutto ciò fu sicuramente presente nella su opera complessiva.

Il testo di Hermes rappresenta, forse, per tutti questi motivi il più interessante scritto fino ad ora su un musicista e intellettuale che, anche se spesso ombroso e difficile, ha sparso intorno a sé una luce estremamente originale, contribuendo a illuminare l’universo-mondo che più intensamente ha vissuto e contribuito a ricreare nell’immaginario contemporaneo: The Big Apple, New York.


  1. W. Hermes, Lou Reed, il re di New York, Edizioni minimum fax, Roma 2023, p. 10.  

  2. W. Hermes, op. cit., pp. 9-10.  

  3. B. Flanagan, Written in My Soul. Conversations with Rock’s Great Songwriters, Contemporary Books 1987. In Italia pubblicato come B. Flanagan, Scritto nell’anima. 29 interviste ai grandi del rock, Arcana 2001.  

  4. W. Hermes, op. cit., p. 23.  

  5. Ivi, p. 12.  

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Portare il peso di una stagione che non tornerà più: Robbie Robertson https://www.carmillaonline.com/2023/08/19/portare-il-peso-di-una-stagione-che-non-tornera-piu-robbie-robertson/ Sat, 19 Aug 2023 20:00:06 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=78664 di Diego Gabutti

«Una volta», racconta Bob Dylan in Chronicle (Feltrinelli 2005), «ero in macchina con Robbie Robertson, chitarrista del gruppo che poi sarebbe diventato The Band. Mi dice: “Dove pensi di portarla, Bob?” “Portare cosa?” chiesi io. “Lo sai, l’intera scena musicale.” L’intera scena musicale! […] Non so cosa gli altri avessero per la testa, ma quello di cui stavo fantasticando io era una vita con un lavoro dalle nove alle cinque, una casa in un quartiere con le case fiancheggiate da alberi, con una staccionata bianca e le rose nel [...]]]> di Diego Gabutti

«Una volta», racconta Bob Dylan in Chronicle (Feltrinelli 2005), «ero in macchina con Robbie Robertson, chitarrista del gruppo che poi sarebbe diventato The Band. Mi dice: “Dove pensi di portarla, Bob?” “Portare cosa?” chiesi io. “Lo sai, l’intera scena musicale.” L’intera scena musicale! […] Non so cosa gli altri avessero per la testa, ma quello di cui stavo fantasticando io era una vita con un lavoro dalle nove alle cinque, una casa in un quartiere con le case fiancheggiate da alberi, con una staccionata bianca e le rose nel cortile sul retro».

Robbie Robertson, scomparso ottantenne a Los Angeles qualche settimana fa, pensava in grande, anche a costo d’irritare Bob Dylan, col quale aveva inciso dischi immortali, e di cui fu complice, insieme al resto della Band, nello scantinato di Big Pink, la leggendaria casa rosa nei boschi intorno a Woodstok, dove furono incisi su registratori di fortuna i Basement Tapes, una miniera di classici song americani, di scherzi musicali mozartiani, di blues semidimenticati, di canzoni nuove di zecca. A lungo segreti, o meglio occulti, i Basement Tapes furono vastamente piratati prima d’essere parzialmente pubblicati, nel 1975, in via ufficiale.

Erano gli anni sessanta e Robertson – come racconta nella sua autobiografia, Testimony, un grande libro sull’America e sulla giovinezza del mondo – era sulla strada dagli ultimi anni cinquanta, quando appena sedicenne era stato reclutato dallo sfrenato «Rompin’» Ronnie Hawkins, leader degli Hawks, «la rock’n’roll band più fica che c’era». Gli Hawks erano una band sudista, puro Arkansas, dove «l’aria sapeva dei pini di Ozark e di cibo fritto», mentre Robertson era canadese, di Toronto, dove alla band capitava spesso di passare, e dove una volta furono tutti arrestati per possesso di marijuana. Madre pellerossa e padre biologico ebreo, un gambler o pokerista di professione morto in un incidente stradale, anche se alcuni pronunciavano la parola «incidente» con aria dubbiosa, Robertson aveva uno «zio Natie» nel traffico dei diamanti rubati e zii, amici e cugini nelle Sei Nazioni: i Mohawk, i Cayuga, gli Onondaga, i Seneca, gli Oneida e i Tuscarora. Ai suoi geni pellerossa avrebbe dedicato parecchi anni dopo Music for the Native Americans. Al sud degli States, dove l’aveva portato la chitarra vibrando come una bacchetta di rabdomante, dedicò The Night They Drove Old Dixie Down, una malinconica ballata del 1969 che Joan Baez portò al primo posto in hit parade e che oggi, con quella sua dichiarata nostalgia per il Generale Lee e per il vecchio sud, finirebbe sul rogo insieme all’Amleto di Shakespeare e ai poster dei film di Harry Potter.

Canadese di nascita e southerner, sudista, per autoproclamazione, Mohawk ed ebreo, Robertson suonava po’ come il verso vivente d’una canzone di Dylan, tipo Mister Tamburino nel «mattino tintinnante» o Mack il Dito e Louis il Re con i loro «quaranta lacci da scarpe rossi bianchi e blu» o come qualunque altro, a piacere, dei tanti Arlecchini e Pierrot etnici e culturali che avrebbero guadagnato, col tempo e le melodie evergreen, un Nobel al loro puparo simbolista.

Robertson scrisse le sue prime canzoni a sedici anni. Hey Boba Lou e Someone Like You, due pezzi indiavolati alla Jerry Lee Lewis, apparvero in un album di Ronnie Hawkins, Dynamo, nel 1960. Solo che al suo nome era affiancato, come coautore e dunque «co-incassatore» delle eventuali royalties, un testa di legno della casa discografica, la Roulette Records, con uffici a Broadway, NYC. Robertson voleva protestare, «ma Ron mi disse: “Figliolo, in questo ambiente ci sono cose che non devi neanche provare a mettere in discussione. Ci sono dei tizi a New York City che non ti conviene far incazzare”». Erano «tempi duri in città», per citare sempre Dylan: «Una frotta di gente ti turbina intorno / che quando ti va bene sono calci e appena ti va male sono pugni». Morris Levy, boss della Roulette Records, quando Robertson entrò nel suo ufficio, lo squadrò per bene e poi, rivolto a Hawkins, ringhiando: «Proprio un bel ragazzino. Se finiamo in carcere non sarebbe male portarlo con noi. Scommetto che sei indeciso se assumerlo o scopartelo». Robertson, «in quel preciso istante», decise «di rinunciare a sollevare una qualunque disputa sulla questione diritti».

C’era una rivoluzione in corso, solo che riguardava quasi esclusivamente la musica, e non ancora la vita quotidiana dei giovani, la loro cultura, i costumi. Elvis Presley era solo in parte un fenomeno culturale. Nessuno si scandalizzò né sacramentò o lanciò lattine di Coca-Cola sul palco quando il Re passò da Nashville a Hollywood, dal rock duro al pop. Non c’era una grande distanza tra lui nel Delinquente del rock’n’roll e Pat Boone in Viaggio al centro della Terra. Ma qualcosa stava cambiando, e stava cambiando in fretta: i Beatles, i movimenti studenteschi in California, la scena radical sempre più estesa. Musica e controculture cominciavano a intrecciarsi strettamente tra loro, e quando a saltare dal folk impegnato e «di protesta» (come si diceva) al rock’n’roll dada-astrattista fu Bob Dylan, zompando da Masters of War e Hard Rain a Like a Rolling Stone e Memphis Blues Again, il pubblico dei concerti insorse. Sul palco, con Bob Dylan, in quei drammatici tour del 1965 e 1966, quando a Dylan davano del «venduto» e del «rinnegato», c’erano anche Robertson e la neonata Band (band e basta, senza nome) che aveva appena divorziato da Ronnie Hawkins.

Quando dal pubblico saliva lo schiamazzo contro la voce raspante di Dylan, contro la chitarra elettrica di Robertson e contro la batteria del grande Levon Helm, l’ex folksinger urlava: «Più forte! Suoniamo più veloci e più forte!» Era il nuovo mondo, un altro pianeta. Scrive Robertson: «Eravamo nel bel mezzo d’una rivoluzione rock’n’roll. O aveva ragione il pubblico, o avevamo ragione noi». Avevano ragione (e torto) tutti quanti. Era Il Decennio dell’Io (Castelvecchi 2013), come lo chiamò Tom Wolfe in un fortunato pamphlet di quegli anni, e ciascuno stava dietro alle proprie alienazioni e idiosincrasie. Quanto ai musicisti, più che suonare forte e veloce, vivevano pericolosamente, in molti sensi: «Quando qualcuno cambiava accordatura nel mezzo d’un assolo, io mi sentivo come Doc Holliday che cerca di smaltire la sbornia prima di buttarsi in una sparatoria al fianco di Wyatt Earp».

Ai tempi degli Hawks, solo un paio d’anni prima, «in un sacco di locali, se avevi i capelli lunghi, ti pestavano di brutto o ti sparavano. Frequentavamo un sacco di gangster, e secondo loro se avevi i capelli lunghi eri un finocchio». Adesso «nuove vibrazioni attraversavano il paese: le Pantere Nere, gli Hell’s Angels di Oakland, i poeti Beatnik, e una fiorente scena musicale che combaciava col nostro indirizzo musicale. Un giorno accompagnai Bob alla City Lights, la libreria di Lawrence Ferlinghetti a Frisco. Fummo accolti dai poeti Michael McClure e Allen Ginsberg. Vedere Allen, Michael e Bob chiacchierare con disinvoltura di scrittori e poeti mi fece ripensare agli anni passati con Ronnie, quando anche soltanto parlare di poesia era una buona ragione per essere presi a calci nel culo». Ma ogni Eden ha il suo serpente, come Robertson e la Band, insieme all’intera «scena musicale», avrebbero scoperto presto, quando le droghe cominciarono a dilagare, quando ad Altamont un concerto dei Rolling Stones finì in tragedia e l’«estate dell’amore» generò la Famiglia Manson e la strage di Bel Air.

Nell’ultima formazione degli Hawks, prima che lui e altri membri del gruppo si separassero da Ronnie Hawkins, rocker vecchio stile in un’America alternata, irriconoscibile, c’erano più canadesi che «native dixieland», per chiamarli così. Tranne Helm, un sudista di sangue puro, tutti gli altri (Robertson, Richard Manuel, Garth Hudson, Rick Danko) erano nati oltre frontiera, nella terra delle alci e dei Mounties, le Giubbe Rosse. Quando suonavano a Toronto «amici e parenti accorrevano in massa per vedere i figli della loro terra suonare ai massimi livelli. C’erano gangster e ladri, sarti, truffatori, cuochi e contorsionisti, biscazzieri e giostrai, di tutto». Anche qui, in Canada, i personaggi da vaudeville pulp che s’affaccendavano e spintonavano nei versi di Bob Dylan e della Band avevano preso sostanza, a dimostrazione che non c’era niente d’inventato. Era tutto vero: ogni canzone un fotocolor, il mondo un circo a tre piste.

Poco più che trentenne, ma sulla strada ormai da quattordici anni, Robertson cominciava a sentire la fatica. Idem Helm e gli altri, tutti ormai più o meno persi dietro le droghe, inclusa l’eroina. Pochi concerti, e poco da incidere. Valeva per la Band come per ogni altra band: il decennio dell’Io e del rock era finito, soffocato dalla vanitas e dalla sfiga, che rovesciano invariabilmente ogni utopia nel suo contrario. Di questa breve, brevissima parentesi, dalla stagione cioè di Elvis e di Ronnie Hawkins all’età del Sgt. Pepper e della cultura delle droghe, Robbie Robertson – che la visse da un capo all’altro, scrivendo «along the road» canzoni memorabili: The Weight, Up on Cripple Creek, The Shape I’m In – è stato un grande testimone, e il suo libro forse la migliore (e comunque un’eccezionale) testimonianza umana e letteraria. Presente all’inizio della festa, quando «il rock’n’roll era violento, dinamico, primitivo e creava dipendenza», fu lui a spegnere i riflettori quando la festa gli sembrò finita (ma restavano le dipendenze, e non c’era più, come disse Dylan, «nessuna cazzo di magia»).

Era tempo di sciogliere la Band e di passare ad altro. Fu un evento, celebrato dal primo grande film rock’n’roll, The Last Waltz, diretto da Martin Scorsese, che all’epoca aveva già diretto film memorabili come Taxi Driver, Mean Streets, New York New York. A celebrare il tramonto della «rivoluzione rock’n’roll» e lo scioglimento della Band c’erano tutti: Neil Young, Joni Mitchell, Ronnie Hawkins, Bob Dylan, Eric Clapton, Van Morrison, Muddy Waters, Ron Wood, Neil Diamond, Ringo Starr.

Robertson, dopo di allora, incise qualche disco da solista, nessuno particolarmente notevole. Scrisse numerose colonne sonore per Wim Wenders e Barry Levinson, per Oliver Stone, ma soprattutto per Scorsese, col quale collaborò per Toro Scatenato, Casinò, The Wolf of Wall Street, Gangs of New York e numerosi altri film, compreso l’ultimo, Killers of the Flower Moon, presentato quest’anno a Cannes e in uscita nei prossimi mesi. The Band tornò in pista nei primi ottanta senza di lui, e senza che ne uscisse niente di paragonabile ai trionfi dei vecchi tempi.

Di Robertson circola su Internet, qui, un bellissimo video che celebra il cinquantenario di The Weight, una delle più belle canzoni mai registrate. Artisti di tutto il mondo, dal Tibet al Texas, dal Congo al Bahrein, dall’Italia al Giappone, dall’Argentina alla Giamaica, la cantano in coro, ciascuno dalla propria location. Vecchio e divertito, Robbie impugna la sua chitarra, come in giovinezza, e il suo sorriso illumina il mondo, che lui chiamava «la scena musicale».

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Tra angeli e demoni: musica e vita del reverendo Gary Davis https://www.carmillaonline.com/2023/08/10/tra-angeli-e-demoni-la-musica-e-la-vita-del-reverendo-gary-davis/ Thu, 10 Aug 2023 20:00:19 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=78514 di Sandro Moiso

Ian Zack, Il reverendo Gary Davis. Genio della chitarra blues che lottò contro il diavolo, ShaKe Edizioni, Milano 2023, pp. 325, 22 euro

E’ talmente dura dover essere cieco Sono qui nel buio e procedo a tentoni E nessuno bada a me (Rev. Gary Davis)

E’ stato sicuramene uno dei maestri della chitarra blues, prova ne sia che musicisti del calibro di Bob Weir (Grateful Dead), Jorma Kaukonen (Jefferson Airplane, Hot Tuna), Stefan Grossman (maestro incontrastato del fingerpicking), Dave Van Ronk, Bob Dylan, Happy Traum, e incalcolabili altri [...]]]> di Sandro Moiso

Ian Zack, Il reverendo Gary Davis. Genio della chitarra blues che lottò contro il diavolo, ShaKe Edizioni, Milano 2023, pp. 325, 22 euro

E’ talmente dura dover essere cieco
Sono qui nel buio e procedo a tentoni
E nessuno bada a me
(Rev. Gary Davis)

E’ stato sicuramene uno dei maestri della chitarra blues, prova ne sia che musicisti del calibro di Bob Weir (Grateful Dead), Jorma Kaukonen (Jefferson Airplane, Hot Tuna), Stefan Grossman (maestro incontrastato del fingerpicking), Dave Van Ronk, Bob Dylan, Happy Traum, e incalcolabili altri ancora, si sono dichiarati suoi allievi oppure gli hanno pagato più di un tributo interpretando molte canzoni e numerosi brani del suo repertorio. Eppure il reverendo Gary Davis non è certo in cima alla lista dei bluesmen più conosciuti anche nell’ambito degli appassionati oltre che del grande pubblico.

Ian Zack, giornalista newyorkese che ha scritto per il «Washington Post«», il «New York Times», «Forbes» e «Acoustic Guitar» e che ha lavorato come organizzatore di concerti per uno dei più vecchi locali folk della Grande Mela, il Good Coffeehouse, gli ha dedicato un lavoro che ha richiesto anni di ricerche, interviste e ascolti di registrazioni musicali edite e inedite che ha vinto il premio per l’Historicaal Research in Recorded Blues, Gospel, Soul or R&B.

Say No to the Devil, questo il titolo originale dell’opera ora pubblicata in Italia dalle edizioni ShaKe, ricostruisce il percorso di vita, conclusasi il 5 maggio 1972, e musicale del bluesman originario della contea di Laurens nel South Carolina, dove nacque il 30 aprile del 1896. Un percorso difficile, aspro, segnato dalla cecità fin dall’infanzia nella regione del Piedmont che fu, allo stesso tempo, patria di un ben definito stile di blues e arpeggio della chitarra, il Piedmont Style, e un ambiente dai durissimi caratteri razziali e razzisti. Come ricorda l’autore della biografia:

I neri più anziani della contea di Laurens nel South Carolina ancora ricordano molto bene un vecchio traliccio ferroviario, dal quale penzolava da decenni un tratto di corda marcita. A sentir loro, era stata utilizzata l’ultima volta nel 1913 da una masnada di bianchi che avevano linciato un negro accusato di stupro. Il traliccio e la corda sono ormai solo vaghi frammenti di memoria, ma permangono altri spiacevoli ricordi del durissimo ambiente in cui è cresciuto Gary Davis, in particolare il Museo del Ku Klux Klan con annesso Redneck Shop, ospitati in quello che una volta era un cinema segregato. Tra gli oggettini che si possono acquistare allo “shop” ci sono mantelli con cappuccio, adesivi del Klan e fotocopie dei cartelli segregazionisti “Riservato ai bianchi”1.

Ambiente, però, difficile non solo dal punto di vista razziale, ma anche della sopravvivenza quotidiana, sicuramente determinata dal primo, se è vero che Gary fu uno dei due superstiti degli otto figli partoriti da Evelina Davis, di cui sei morirono prima dell’età adulta. Lei e il marito John erano mezzadri e cercavano di vivere del lavoro su terre possedute da altri mentre Gary, il primogenito, nacque quando la madre aveva diciassette anni.

Se si vuole è un quadro classico quello dipinto da Zack per delineare la prima parte della vita del musicista, che sembra uscito dalle pagine di Caldwell e Faulkner o di altri scrittori, bianche e neri, del Sud degli Stati Uniti. Un quadro in cui la madre, che probabilmente ebbe i figli con uomini diversi, non poteva aver tempo da dedicare alle cure di tutti o anche solo a quello che viene tradizionalmente definito come “amore materno”, in realtà spesso riservato a chi già gode di ben altri “diritti” razziali, economici e sociali. Come se tutto ciò già non bastasse, il padre di Gary, come lo stesso musicista ricordava, era stato ucciso, a colpi di arma da fuoco, quando lui aveva dieci anni, dallo sceriffo di Birmingham in Alabama.

Davis non avrebbe potuto ricevere carte peggiori nella partita della vita e, in seguito, avrebbe attribuito la propria sopravvivenza «alla mano del Signore»: gli era stata tolta la vista, ma aveva ricevuto in cambio qualcosa di molto speciale.

Infatti, già da molto giovane, Davis aveva iniziatoa cantare nella chiesa battista di Gray Court sempre in South Carolina, accompagnato dalla chitarra suonata nello stile fingerpicking che egli contribuì a definire, pizzicando le corde con l’indice e il pollice, canzoni e temi tratti dal blues, gospel, ragtime insieme ad altri provenienti dal repertorio tradizionale oppure di sua invenzione su un tempo in quattro parti.

A metà degli anni 1920, si trasferì a Durham, nella Carolina del Nord, un importante centro della cultura nera dell’epoca. Lì insegnò a Blind Boy Fuller e collaborò con un certo numero di altri artisti della scena blues del Piedmont. In seguito, J. B. Long presentò Davis insieme a Fuller all’American Record Company. Quelle sessioni di registrazione del 1935 segnarono l’inizio della carriera di Davis. Divenuto cristiano e ordinato ministro battista Davis iniziò a preferire la musica gospel al blues, notoriamente ritenuto “la musica del diavolo”.
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Trasferitosi a New York nel 1940, dove si esibiva in qualità di musicista itinerante e di predicatore agli angoli delle strade, avrebbe vissuto anni nella più nera miseria a fianco della moglie Annie, che avrebbe fatto di tutto per tenerlo lontano dal blues, dalle donne e dall’alcol.

Così mentre, nei primi anni Sessanta la scena rinnovata del folk revival avrebbe riportato in auge bluesmen come Missisippi John Hurt, Skip James, Furry Lewis e Son House, che avevano inciso dischi a 78 giri in gommalacca negli anni ’20 e ’30 per poi ripiombare nell’oscurità di lavori quotidiani umili, spesso legati alla terra, colui «che era stato con ogni probabilità il più grande di ttti i chitarristi blues immortalati su disco prima della Seconda guerra mondiale era già fortunato se poteva crogiolarsi alla tenue luce della sua cerchia di ammiratori.»2

Peter, Paul e Mary registrarono la versione di Davis di Samson and Delilah, conosciuta anche come If I Had My Way, una canzone di Blind Willie Johnson, che Davis aveva reso popolare. I diritti d’autore risultanti da quel successo permisero a Davis di comprare una casa, cui Davis si riferiva sempre come alla “casa che Peter, Paul e Mary costruirono”, nella quale visse insieme alla moglie per il resto della sua vita, fino all’infarto che lo stroncò nel maggio del 1972.

Ma nonostante ciò e il fatto che, a cavallo tra gli anni ’60 e ’70, molte altre sue canzoni fossero rese celebri da musicisti e cantanti di largo successo tra i giovani e nei festival folk e blues, la relativa oscurità che circonda la sua figura e il suo ruolo seminale nell’uso della chitarra blues

dipende in larga misura dalle sue scelte di vita. Per quanto sia rimasto fino agli ultimi giorni della sua esistenza uno dei più grandi, se non il più grande, di tutti i chitarristi tradizionali blues e ragtime, in quanto uomo di chiesa si rifiutò cocciutamente per gran parte della carriera di eseguire il blues, ossia suonarlo e cantarlo alla propria maniera su un palco o in sala di registrazione […] In un certo senso Davis rovescia la leggenda di Robert Johnson: non ha venduto l’anima al diavolo, come si vocifera abbia fatto Johnson, per acquisire una sovrumana abilità alle prese con la chitarra blues. Invece Davis ha rinunciato alla musica blues nel fiore degli anni per dedicare la vita a Dio in veste di predicatore. Proprio quando le incisioni blues stavano per spalancargli nuove porte professionali o il portafoglio dei discografici, il suo biglietto di sola andata dalla miseria, Davis rifiutò, e anche più di una volta3.

In realtà questa sua scelta fu ampiamente e spesso contraddetta dallo stile di vita e dalle passioni che lo accompagnarono fino alla fine dei suoi giorni: quella per le giovani ammiratrici e l’alcol. Una battaglia che il Reverendo fu costretto a combattere non solo contro il principe dell’oscurità, ma anche contro i suoi personalissimi demoni.

Passioni che l’ambiente giovanile, alternativo e hippie che spesso lo circondò di attenzioni negli ultimi anni, non fece altro che alimentare. Talvolta con esiti deleteri vista la frequenza con cui Gary Davis finì col salire sul palco ubriaco, incapace o quasi di suonare oppure dedito soltanto ad improvvisare lunghissimi e strampalati sermoni sul peccato e il significato della salvezza davanti ad un pubblico che spesso si annoiava e finiva con l’abbandonare le sue esibizioni.

Una sorta di destino triste, solitario e final che è ben narrato nelle pagine del libro di Zack e che accomuna la vita e l’esperienza del Reverendo a quella di molti altri interpreti afro-americani di blues e soul ciechi. Per i quali, quando non è stato l’alcol, spesso è stata l’eroina a svolgere un ruolo devastante nel corso della carriera.

Per l’obbiettività, l’attenzione e il costante amore per il soggetto trattato, nonostante tutto, che lo contraddistinguono, il testo dedicato da Zack al Reverendo Gary Davis può rivelarsi prezioso, a tratti commovente e sicuramente utile, se non imperdibile, per chiunque ami il blues e la cultura afroamericana del ‘900.

Un unico appunto va fatto al traduttore, forse non troppo esperto dell’argomento, visto che confonde gli Staple Singers, uno dei più influenti gruppi vocali soul e gospel, impegnati sulla scena dei diritti civili degli anni ’60, con un gruppo vocale femminile scambiando il suo fondatore e patriarca Roebuck “Pops” Staples, grande cantante e chitarrista nello stile swamp blues, per una donna. Forse confondendolo con l’unica superstite del gruppo a base famigliare ancora viva e presente sulla scena musicale e discografica odierna: Mavis Staples, figlia di Pops e sorella degli altri membri del gruppo.

Errore veniale per un testo comunque indispensabile in ogni biblioteca musicale attenta al blues e alla sua influenza sulla scena del rock alternativo americano


  1. I. Zack, Il reverendo Gary Davis. Genio della chitarra blues che lottò contro il diavolo, ShaKe Edizioni, Milano 2023, p. 25  

  2. I. Zack, op. cit., p. 16  

  3. Ivi, pp. 17-18  

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Gang: le lotte vanno cantate https://www.carmillaonline.com/2023/07/20/gang-le-lotte-vanno-cantate/ Wed, 19 Jul 2023 22:01:32 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=78318 di Luca Cangianti

Marino Severini con Alberto Sebastiani, Quel giorno Dio era malato. Sulle strade dei Gang, storie e canzoni, Milieu, 2023, € 16,50.

Tutto inizia a Bologna il 1° giugno del 1980 al concerto dei Clash. Marino Severini e suo fratello Sandro hanno una vera e propria illuminazione. Si arruolano nell’esercito rivoluzionario del combat rock e iniziano un’avventura musicale che giunge fino ai nostri giorni attraverso molte evoluzioni, contaminazioni e collaborazioni. Quel giorno Dio era malato, uscito da poco più di un mese per Milieu edizioni, è il [...]]]> di Luca Cangianti

Marino Severini con Alberto Sebastiani, Quel giorno Dio era malato. Sulle strade dei Gang, storie e canzoni, Milieu, 2023, € 16,50.

Tutto inizia a Bologna il 1° giugno del 1980 al concerto dei Clash. Marino Severini e suo fratello Sandro hanno una vera e propria illuminazione. Si arruolano nell’esercito rivoluzionario del combat rock e iniziano un’avventura musicale che giunge fino ai nostri giorni attraverso molte evoluzioni, contaminazioni e collaborazioni. Quel giorno Dio era malato, uscito da poco più di un mese per Milieu edizioni, è il racconto ispirato e dinamico del back stage creativo di un viaggio lungo quarant’anni tra autogrill, alberghi, camerini e palchi circondati da un popolo allergico alle logiche di palazzo.

Per il gruppo marchigiano dei Gang, la musica è militanza e la chitarra, come per Woody Guthrie, è una macchina utile a sconfiggere il fascismo. Le «lotte vanno cantate» dice Severini, anche quelle sconfitte, perché solo in questo modo possiamo creare l’immaginario antagonista necessario a sostenere nel tempo la resistenza degli oppressi. Da questo punto di vista si spiega la decisione del gruppo, presa all’inizio degli anni novanta, di passare dall’inglese all’italiano, accentuando aspetti narrativi e tradizionali che consentissero la valorizzazione della vita operaia, popolare e perfino contadina. I riferimenti politici e musicali emergono così da una miscela esplosiva di cantautori e movimenti rivoluzionari: Pete Seeger, Phil Ocks, Bob Dylan, Joan Baez, Ivan Della Mea, Paolo Pietrangeli, Christy Moore, Bruce Springsteen, Billy Bragg, Steve Earle, Jay Farrar, Tom Morello, i partigiani, gli zapatisti, i no tav e persino i seguaci della teologia della liberazione.

Per chi non abbia direttamente vissuto esperienze simili a quelle raccontate nel libro, a volte può esser difficile capire a pieno l’entusiasmo etico ed estetico che attraversa questa prosa simile a una ballata. Se però inquadriamo i codici qr che rimandano ai video delle canzoni, i cui testi sono perfettamente amalgamati con il flusso narrativo, tutto diventa d’immediata e piacevole comprensione. Perfino il comunismo sembra qualcosa a portata di mano: «per me – scrive Severini a tal proposito – è proprio questo in fin dei conti, conquistare un giardino per ogni essere umano, perché ogni essere umano ha diritto al proprio giardino, a coltivarlo, a prendersene cura, a godere della sua magnificenza, a spartirne con altri i semi dei fiori e delle piante».

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