Cronache del pre-bomba – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sat, 30 Nov 2024 07:35:20 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Il nuovo disordine mondiale/ 26 – La guerra post-umana https://www.carmillaonline.com/2024/09/22/il-nuovo-disordine-mondiale-26-la-guerra-post-umana/ Sun, 22 Sep 2024 20:00:05 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=84603 di Sandro Moiso

Tra pace e guerra non esiste un sottile confine, ma una vasta zona grigia, dove gli stati danno vita a quella che viene definita competizione strategica, utilizzando in diverse combinazioni i quattro elementi che formano il potere di uno stato: diplomatico, militare, economico e informativo. Proprio quest’ultimo fattore, complice la pervasività delle tecnologie digitali, ha assunto una rilevanza senza precedenti. (Alessandro Curioni – Intelligenza artificiale, etica e conflitti, 21 settembre 2024 «il Sole 24 ore»)

Quando esploderà il mio cellulare? Molti di noi hanno cominciato a chiederselo perché in fondo quello che Israele, il Mossad, i [...]]]> di Sandro Moiso

Tra pace e guerra non esiste un sottile confine, ma una vasta zona grigia, dove gli stati danno vita a quella che viene definita competizione strategica, utilizzando in diverse combinazioni i quattro elementi che formano il potere di uno stato: diplomatico, militare, economico e informativo. Proprio quest’ultimo fattore, complice la pervasività delle tecnologie digitali, ha assunto una rilevanza senza precedenti. (Alessandro Curioni – Intelligenza artificiale, etica e conflitti, 21 settembre 2024 «il Sole 24 ore»)

Quando esploderà il mio cellulare? Molti di noi hanno cominciato a chiederselo perché in fondo quello che Israele, il Mossad, i suoi servizi segreti hanno fatto nei confronti di militanti di Hezbollah potrebbe essere usato contro di noi in una futura guerra. Altri nemici e altre potenze ostili potrebbero ripetere quel tipo di attacco attraverso gadget tecnologici disseminati nella nostra vita quotidiana e quindi: quando esploderà il mio cellulare? (Federico Rampini – Quando esploderà il mio cellulare?, Corriere TV 23 settembre 2024)

Valutare le cause, le conseguenze e il risultato ultimo dei recenti attacchi israeliani di carattere digitale ai militanti e ai capi di Hezbollah, è qualcosa che si potrà fare soltanto più avanti nel tempo. Anche se, a giudizio di molti esperti, al momento attuale gli assassinii mirati e il terrorismo impiegati dall’IDF e dai suoi ipocriti alleati americani non sembra essere in grado di piegare la resistenza e l’azione militare anti-sionista sia a Gaza che in Libano. Resta ancora aperta, poi, la possibile azione militare contro l’Iran che però, così come del resto in Libano una volta messi gli stivali per terra, richiederebbe il pieno e dichiarato appoggio militare statunitense ad una guerra sul fronte mediorientale.

Un’azione militare totale che, nella migliore tradizione statunitense e occidentale, ha però bisogno di una “giusta causa” ovvero di un attacco via terra e via aria diretto da parte del fronte sciita sul territorio israeliano. Cosa che al momento attuale gli interessati evitano per non cadere nella trappola organizzata da Washington e Tel Aviv e non soltanto perché indeboliti dai ripetuti attacchi mirati contro comandanti e membri delle loro forze armate. Che, comunque, nel 2006, nonostante le distruzioni portate in Libano dai bombardamenti dell’aviazione dello Stato ebraico, bloccarono e di fatto sconfissero le truppe israeliane costringendole al ritiro dopo un’avanzata di pochi chilometri sul suolo della terra dei cedri.

I guerrafondai, quelli che vogliono prendere il mondo a manate si dichiarano sempre innocenti. I disordini non li hanno inventati loro, diamine… Agiscono, reagiscono, si difendono. Non cominciano nulla, semmai sono gli altri…[…] Prendete Beniamino Netanyahu. Sguazza dasempre nella confusione.[…] La vendetta a Gaza è un rompicapo militare che, dopo un anno, appare senza uscita […] Allora che fare? Cambiare scenario, diversioni, nuovi campi di battaglia più arabili, un cocktail sciagurato a cui tutti coloro che sono a corto di idee purtroppo restano affezionati. Il turbolento fronte Nord è lì per questo. Netanyahu dunque ha bisogno che Hezbollah lo attacchi, i missili che cascano qua e là non bastano, sono ordinaria amministrazione. Non bastano a giustificare una rappresaglia colossale, una Gaza bis su cui si possa infierire in permanenza. […] Bene! Ma se gli sciiti della Bekaa non collaborano, non «scavalcano» la linea rossa? La necessità della vittoria stimola il desiderio e la capacità di darle una mano1.

Alle osservazioni del giornalista torinese occorre aggiungere soltanto che il tutto ha però bisogno anche di un peloso aiuto americano che, pur fingendo di cercare una soluzione altra al conflitto regionale, lo inciti all’azione. Magari per eliminare vecchi nemici come quell’ Aqil, responsabile di aver organizzato l’attentato contro la caserma dei marines a Beirut nel 1983. Come ha affermato il consigliere per la Sicurezza nazionale della Casa Bianca, Jake Sullivan: «E’ qualcuno che gli Stati Uniti avevano promesso di portare davanti alla giustizia molto tempo fa. Tante famiglie vivono ancora nel dolore provocato dalle sue azioni. E ogni volta che un terrorista che ha ucciso degli americani viene consegnato alla giustizia è un risultato positivo»2.

Inutile sottolineare come per il portavoce della Sicurezza nazionale “assicurare alla giustizia” e “assassinio mirato” siano di fatto sinonimi, atti soltanto a mascherare le azioni terroristiche portate avanti in tutto il mondo ormai da anni dalle forze armate statunitensi e israeliane, là dove occorre, per interposta persona. Ma queste riflessioni sulle motivazioni degli attentati in Libano e a Beirut, così come quelle sui maneggi delle borghesie arabe per liberarsi dell'”asse della resistenza” e indebolire l’Iran3, fanno ormai parte di una storia passata. La Storia di una terza (o quarta?) guerra mondiale già in atto e che soltanto il pieno dispiegarsi dello scontro tra Stati Uniti e Cina porterà al suo pieno compimento, anche per quanto riguarda il fronte ucraino.

Quello su cui occorre invece riflettere sono invece le nuove modalità di guerra imposte dall’evolversi dell’IA e del cosiddetto IoT (Internet of Things), Internet delle cose, alla guerra in atto. Guerra che se già ha prodotto l’uso su larga scala dei droni pilotati da remoto come micidiali strumenti di distruzione adottati su tutti i fronti delle guerre in corso e l’uso di missili di ogni tipo, genere ed età (dai razzi Katjuša di fabbricazione russa, risalenti ancora alla seconda guerra mondiale a quelli più recenti e ipersonici oppure alle cosiddette “bombe plananti” dotate di una certa intelligenza operativa nella scelta degli obiettivi da colpire una volta lanciate dai bombardieri), nel corso degli ultimi giorni ha visto un ulteriore salto di qualità, con l’uso di strumenti quali cercapersone, smartphone, computer o, come è stato segnalato ma senza certificazione ufficiale, pannelli solari, come armi.

Già da tempo si sapeva della possibilità di individuare soggetti e bersagli attraverso l’uso sprovveduto dei telefonini e degli smartphone, cosa per cui recentemente il leader di Hezbollah aveva consigliato ai militanti e responsabili operativi di utilizzare i cerca persone per tenersi in contatto, mentre Osama Bin Laden, Messina Denaro e Yahya Sinwar hanno sempre preferito comunicare per mezzo di “pizzini” consegnati a mano. Ma i recenti attacchi terroristici israeliani nei confronti di militanti, ma anche civili, libanesi hanno aperto una finestra sul possibile uso e le finalità intrinseche racchiuse nell’intelligenza digitale degli oggetti di uso quotidiano.

Certo, è possibile che l’operazione del Mossad e del gruppo 8200, l’Unità di guerra cibernetica capace d’intercettare tutto quanto viene detto o scritto sui canali di comunicazione nemici e alleati, attraverso cui è stato possibile colpire i vertici di militari di Hezbollah sia con i cercapersone che con i missili sganciati da due F 35 israeliani sul quartiere di Dahiya, alla periferia meridionale di Beirut, sia stata preparata con cura certosina nel corso di anni. Basterebbe infatti leggere un romanzo come La Tamburina di John Le Carré che, pur risalente agli anni Ottanta, è ancora estremamente utile per spiegare le sottigliezze, gli accorgimenti, la pazienza e le astuzie con cui i servizi israeliani operano in ogni angolo del mondo.

Ma tutto ciò non basta ancora: reti operative spionistiche e di intelligence e ditte fasulle prestanome costituiscono soltanto uno degli aspetti della questione. L’altro è costituito dalla diffusione delle tecnologie digitali che da strumento di possibile controllo si sono trasformate anche in strumenti da usare direttamente nel corso delle guerre. Sia tra gli Stati che civili, non solo più come indicatori della posizione di chi li usa, ma come autentiche armi.

D’altra parte, da tempo, si discute della sicurezza delle rete e degli oggetti ad essa collegati oppure della possibilità di incendio ed esplosione delle batterie al litio, sia che si tratti di smartphone oppure di auto elettriche.
La batteria dei cercapersone esplosi infatti dovrebbe essere una batteria al litio, esattamente come quella dei nostri smartphone. Per rispondere a questa domanda bisogna guardare a qualche caso di cronaca del passato Nel 2016 Samsung ha presentato il Galaxy Note 7, uno smartphone tra i più potenti usciti in quell’anno. Questo dispositivo è diventato noto alle cronache proprio per le esplosioni. Un difetto di fabbrica, presente soprattutto nei primi modelli commercializzati, provocava un surriscaldamento delle batterie. Da qui partiva un effetto a catena che portava prima le batteria a gonfiarsi e poi a prendere fuoco. Il problema era così evidente che alcune compagnie aeree hanno vietato ai passeggeri di portare il dispositivo sul mercato. Samsung alla fine ha ritirato il modello. Le batterie al litio che abbiamo nei nostri dispositivi elettronici non sono tutte uguali. In base alla tecnologia con cui sono costruite hanno reazioni diverse alle sollecitazioni esterne. […] Negli ultimi anni sono emersi diversi casi di incidenti che hanno coinvolto le Tesla. Parliamo di batterie diverse, sia per le dimensioni che per le composizione. Anche in questo caso però vediamo delle caratteristiche simili. In caso di incidente le batterie non sono direttamente esplose ma hanno preso fuoco4.

Tralasciando, però, i problemi collegabili all’uso delle batterie al litio, diventa necessario addentrarsi invece nel labirinto delle differenti applicazioni e intelligenze digitali usate quasi quotidianamente da tutti.

Mentre ci si interroga su quale sia il peso della guerra cyber nel conflitto tra Russia e Ucraina, basterebbe fare un piccolo sforzo di astrazione e proiettare in un futuro non molto lontano quello che vediamo a trarne una debita conclusione. Facciamo un passo alla volta e diamo uno sguardo a quale sarà il nostro radioso futuro grazie alle tecnologie dell’informazione. Con diverse velocità, tutti i Paesi del mondo sono proiettati verso la digital transformation, termine vago e utilizzato in maniera ondivaga. Forse sarebbe più comprensibile se si parlasse di grande convergenza, ovvero quel processo che progressivamente interconnetterà tutte le tecnologie digitali. In effetti esse sono più numerose di quanto si possa pensare e per anni sono state separate, alcune completamente altre meno. L’esempio più evidente riguarda il mondo IT, a cui appartengono software e hardware che la stragrande maggioranza delle persone utilizza per lavorare, e quello OT (Operational Technology), che comprende i sistemi industriali destinati a gestire milioni di macchinari e strutture compresi acquedotti, reti elettriche, impianti ferroviari. Un terzo ambito è l’Internet delle Cose, diciamo quelle più piccole: dalle prese elettriche ai termostati di casa per arrivare fino ai dispositivi di quella che si chiama telemedicina. Si tratta di una quantità enorme di oggetti (in Italia sono circa 95 milioni) accomunati tutti dall’aggettivo “smart”. L’obiettivo è l’integrazione di tutte queste tecnologie per raggiungere livelli di servizio e di efficienza impensabili. […] Ecco, alla fine, che giunge l’ultima e forse più potente delle tecnologie: l’intelligenza artificiale, sistemi specializzati e addestrati a gestire enormi basi dati per estrarre conoscenza e quindi suggerire la giusta decisione. Ecco la grande convergenza, e la sua apoteosi sarà rappresentata dalla Smart City5.

Che questi sistemi siano stati e siano tutt’ora facilmente attaccabili è cosa risaputa, anche se spesso il maggiore allarme proviene dai rischi connessi all’uso di dati personali e bancari oppure al sabotaggio hacker di reti di servizio. Pericoli segnalati con dovizia di particolare in riviste e articoli specializzati.

Ogni singolo sistema tecnologico che ho citato presenta dei punti deboli. I sistemi OT hanno cicli di vita molto lunghi, spesso pluridecennali: questo significa che i software che li supportano sono obsoleti e presentano delle vulnerabilità note che non saranno mai corrette. Una volta connessi a Internet saranno raggiungibili attraverso i sistemi IT, esponendo le loro debolezze potenzialmente a chiunque. Il mondo dell’Internet delle Cose è già popolato da svariati miliardi di oggetti, il più delle volte connessi in rete senza alcun tipo di autenticazione. Allo stato attuale la gestione dei dispositivi domestici è affidata nella maggior parte dei casi ai singoli cittadini che dovranno occuparsi anche degli aspetti di sicurezza. A tutto questo aggiungiamo l’intelligenza artificiale la cui fragilità è pari alla sua potenza. È stato dimostrato che modifiche nelle basi dati con cui vengono addestrate oppure nei dati di input le inducono a commettere errori molto grandi. […] L’accessibilità dei sistemi, la complessità gestita da molteplici intelligenze artificiali specializzate che dialogheranno tra loro e l’insieme delle diverse debolezze di ognuna delle tecnologie produrranno una moltiplicazione e dilatazione dei rischi proporzionale alle opportunità. Se c’è del vero nell’affermazione che le auto a guida autonoma potrebbero quasi azzerare gli incidenti stradali, altrettanta verità vi è nella considerazione per cui un malware inserito nei sistemi di aggiornamento delle autovetture smart potrebbe causarne in dieci secondi centinaia di migliaia. Ora possiamo trarre almeno quella conclusione di cui scrivevamo al principio ponendoci una domanda: per colpire una smart city saranno più efficaci ed efficienti i missili o i virus informatici6?

Secondo Federico Rampini, il presidente degli Stati Uniti Joe Biden avrebbe messo al bando il software cinese installato sulle automobili, decisione che oltre a confermare l’escalation del protezionismo, è anche figlia dell’ultimo exploit del Mossad, poiché col passare dei giorni lo «sterminio dei nemici attraverso gadget tecnologici» ha suscitato altre analisi, ivi compreso nella comunità della difesa Usa.

Dal punto di vista strettamente tecnologico, infiltrare e manipolare a distanza degli apparecchi di uso quotidiano, non è una novità. Gli esperti hanno riesumato dagli archivi molti precedenti, israeliani e non. Gli stessi americani avevano fatto qualcosa di simile, che il mondo intero scoprì all’epoca delle rivelazioni di Edward Snowden: l’intelligence Usa aveva manomesso i cellulari di leader amici, tra cui l’allora cancelliera Angela Merkel, per intercettarne le comunicazioni. Un altro precedente celebre fu l’operazione israelo-americana che entrò nei comandi informatici di una centrale nucleare iraniana guastandola. E tuttavia quelli furono casi di uso «passivo» dei gadget, per fare spionaggio o sabotaggio, non per ucciderne gli utenti. L’exploit libanese (non rivendicato) del Mossad, pur non essendo veramente nuovo, ha oltrepassato numerose linee rosse: in termini di spettacolarità, e per il bilancio di vittime. Perciò ci si chiede se non abbia legittimato una nuova forma di guerra. La cyber-guerra del futuro, quella in cui ogni confine tra militari e civili sarà cancellato, le convenzioni internazionali diventeranno sempre più irrilevanti (non che siano mai state molto rispettate). La banalità degli oggetti in questione — i cerca-persone pre-smartphone — diventa un’aggravante. Perché non immaginare che qualcuno stia studiando di utilizzare a fini bellici i semiconduttori che fanno funzionare i nostri computer e cellulari così come i nostri elettrodomestici, praticamente ogni oggetto animato da memorie e circuiti elettronici? E le nostre automobili, per l’appunto, che ormai sono delle centraline digitali7.

Glenn Gerstell, per anni consigliere generale della National Security Agency, ha recentemente osservato sul «New York Times», a seguito degli attacchi israeliani, che le esplosioni sincronizzate di dispositivi wireless attivate dall’intelligence israeliana contro le milizie islamiche libanesi, rappresenta una impressionante anticipazione dell’accelerazione digitale della guerra. “Questo potrebbe essere il primo e spaventoso scorcio di un mondo in cui, in definitiva, nessun dispositivo elettronico, dai nostri cellulari ai termostati, potrà mai essere considerato completamente affidabile”.

Mentre Alessandro Curioni, esperto in sicurezza informatica ed ex- direttore del Centro di Ricerca IBM di Rüschlikon, si è spinto più in là nella riflessione immaginando come in un conflitto caratterizzato da una cyber war come quello in corso su più fronti anche le caldaie controllate da remoto potrebbero trasformarsi in micidiali strumenti di distruzione di interi stabili oppure di singoli appartamenti8, così come avvenne già durante il bombardamento di Dresda nel 1945 quando migliaia di persone morirono letteralmente bollite vive nelle cantine usate come rifugi antiaerei in cui avevano trovato riparo a causa del surriscaldamento e successiva esplosione delle caldaie a causa dell’innalzarsi della temperatura esterna dovuta all’uso di bombe incendiarie al fosforo da parte dell’aviazione alleata9.

Tutto ciò deve spingerci a riflettere su come tecnologie apparentemente docili e sistemi apparentemente intelligenti costituiscano in realtà, non per complotto programmato ma per semplice costrutto definito dal tempo in cui si vive, un autentico inserimento delle attività belliche in ogni ambito della vita civile, dimostrando come la guerra non costituisca un “errore” nel contesto del modo di produzione capitalistico, ma una costante mentre soltanto la cosiddetta pace, per quanto momentanea, può essere ritenuta “impropria”.

Ma oltre a questo ancora un’altra riflessione si impone a proposito di Intelligenza Artificiale e del suo uso così come è stato immaginato. Talvolta anche a “sinistra” e soprattutto in ambito fantascientifico. Una IA che se lasciata fuori controllo potrebbe essere causa di attacchi nei confronti della specie umana, ma che se usata con piena coscienza potrebbe costituire un’occasione evolutiva per la specie stessa e contribuire al miglioramento delle sue condizioni di vita e dell’organizzazione sociale. Sostanzialmente una visione culturalista, riformista e progressista che annulla l’azione di classe e della specie per il necessario ribaltamento politico delle strutture di governo ed economico-proprietarie legate all’attuale modo di produzione.

Un dibattito che fu particolarmente vivace, fiducioso e ottimistico, al limite della naiveté, nell’ambito del primo Cyberpunk e dei manifesti cyber degli anni Ottanta e Novanta, soprattutto a proposito dell’integrazione tra mente umana, rete e AI oppure della democrazia rappresentata dall’uso delle rete, che allora si andava appena delineando, e che ancora oggi attraverso il post-umanesimo o il trans-umanesimo oppure ancora per mezzo della corrente letteraria del Solarpunk si illude di poter utilizzare gli stessi strumenti per superare l’esistente senza per forza ricorrere agli obbligatori strumenti politici della lotta di classe e della rivoluzione.

Un dibattito di fatto reso nullo dall’attuale attività di controllo dell’enorme quantità di dati, Big Data, che da semplice strumento di controllo dei gusti e delle tendenze degli utenti dei social e di Internet si è trasformato in strumento di violenza e distruzione omicida, sia individuale che collettiva. Uno strumento totalmente sfuggito alle mani degli idealisti della rete e dell’IA e che ormai soltanto i signori del traffico delle informazioni e della guerra possono usare a proprio vantaggio.

Come dimostra anche il recente spostamento verso posizioni trumpiane e ultra-conservatrici, ma fa lo stesso per quelli ancorati al progetto “democratico” della Harris, dei miliardari più rappresentativi di quella che nel periodo sopracitato fu vista come l’utopia “hippie-cibernetica” della Silicon Valley californiana10, «dove esiste una nota “filiera” di innovatori direttamente collegati ad alcuni settori delle forze armate israeliane. Nei dintorni di Stanford e Palo Alto, Cupertino e Mountain View, cioè negli stessi luoghi celebri per i quartieri generali di Google, Apple e Facebook, esistono decine di società di cyber-sicurezza fondate da membri della Unit 8200, una divisione dell’esercito israeliano. È il modello che fu creato dal Pentagono con la Darpa, la sua filiale per il venture capital»11 che Israele ha portato all’ennesima potenza.


  1. Domenico Quirico, Quelle linee rosse disegnate apposta per costringere il nemico alla guerra, 20 settembre 2024 «La Stampa»  

  2. Paolo Mastrolilli, Israele-Libano, raid e missili. Gli Usa: “Evitare l’escalation”, 22 settembre 2024 «la Repubblica»  

  3. F. Paci, Intervista a Gilles Kepel: “Netanyahu fa il lavoro sporco che nessuno vuole fare”, 23 settembre 2024 «La Stampa»  

  4. Valerio Berra, Perché non è possibile che i nostri smartphone esplodano per un attacco hacker, 18 settembre 2024.  

  5. A. Curioni, La convergenza fragile dei sistemi digitali e le opportunità del futuro, 7 aprile 2022 – «il Sole 24 ore».  

  6. Ivi.  

  7. F. Rampini, E l’America vieta il software cinese sulle auto, Corriere della sera 23 settembre 2024.  

  8. A. Curioni, La vera vulnerabilità è nell’Internet delle cose, 21 settembre 2024 «il Messaggero»  

  9. Su tale drammatico bombardamento, durato più giorni, si vedano: F. Taylor, Dresda. 13 febbraio 1945: tempesta di fuoco su una città tedesca, Arnoldo Mondadori editore, Milao 2005: J. Friedrich, La Germania bombardata, Arnoldo Mondadori Editore, Milano 2004: W.G. Sebald, Storia naturale della distruzione, Edizioni Adelphi, Milano 2004; K. Vonnegut jr., Mattatoio n.5 ovvero la crociata dei bambini, Arnoldo Mondadori Editore, Milano 1970.  

  10. Si veda G. Riotta, Silicon Valley. In fondo a destra, 22 settembre 2024 «la Repubblica»  

  11. F. Rampini, cit.  

]]>
Tutto il mondo è Palestina. Un’intervista su resistenza, Asia Occidentale e dintorni. https://www.carmillaonline.com/2024/04/22/82221/ Sun, 21 Apr 2024 22:20:47 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=82221 di Jack Orlando

A sei mesi dal 7 ottobre, tra resistenza, genocidio ed escalation internazionali, la Palestina si conferma non solo uno dei più importanti nodi strategici della questione mediorientale, ma un prisma attraverso cui è possibile vedere un mondo che va delineandosi. Un mondo dove sempre meno contano le parole e le intuizioni europee. Ci sembra necessario quindi provare ad assumere punti di vista altri, in grado di superare schemi arrugginiti, e per farlo crediamo che il metodo migliore sia confrontarsi con chi, da fuori ed oltre noi, si trova ad affrontare gli stessi temi con occhi diversi. [...]]]> di Jack Orlando

A sei mesi dal 7 ottobre, tra resistenza, genocidio ed escalation internazionali, la Palestina si conferma non solo uno dei più importanti nodi strategici della questione mediorientale, ma un prisma attraverso cui è possibile vedere un mondo che va delineandosi. Un mondo dove sempre meno contano le parole e le intuizioni europee.
Ci sembra necessario quindi provare ad assumere punti di vista altri, in grado di superare schemi arrugginiti, e per farlo crediamo che il metodo migliore sia confrontarsi con chi, da fuori ed oltre noi, si trova ad affrontare gli stessi temi con occhi diversi.
Quella che segue è una lunga chiacchierata con Silvano Falessi, militante di lungo corso e partecipante della Global Campaign To Return To Palestine (qui).
Una lega internazionale animata sia da singoli che organizzazioni, partecipata da oltre ottanta paesi nel mondo, il cui obbiettivo è quello di fornire supporto alla causa palestinese, seguirne e divulgarne gli sviluppi ma, soprattutto, è uno spazio di confronto e approfondimento tra soggetti estremamente eterogenei in grado di sviluppare posizioni condivise pur nelle differenze specifiche.
L’ultima conferenza internazionale della Campagna si è tenuta a Pretoria, Sudafrica, nello scorso dicembre, poche settimane prima che la diplomazia sudafricana accusasse pubblicamente Israele di genocidio, portandolo davanti alla Corte Internazionale di Giustizia.

Per cominciare vorrei chiederti, dal punto di vista di un’organizzazione internazionale, come valuti lo scenario in atto in Palestina e soprattutto le sue implicazioni a livello internazionale?

Anzitutto vorrei partire dalla “Giornata della Terra” del 30 marzo che, nel suo quarantottesimo anniversario, si è intitolata “Tutto il mondo è Palestina”. Questo già un po’ risponde alla domanda: quello che sta avvenendo a Gaza non è solo un fatto relativo alla Palestina e ai palestinesi ma un evento che riguarda tutto il mondo.
Gli avanzamenti e gli arretramenti che si determineranno in questo momento saranno degli sviluppi di portata globale; non è semplicemente uno scontro tra colonizzati e colonizzatori. Dentro c’è un simbolismo in cui tutti ormai, data l’ampiezza la durata dello scontro, si identificano in un modo o nell’altro.
E tutti in questo scontro, non identificano soltanto il sionismo di insediamento israeliano come nemico, ma il sionismo internazionale, ossia quello che è la sua forma generale, il suo retroterra strategico, ossia il mondo occidentale e in particolar modo le sue istituzioni.
In primis la NATO e l’Unione Europea, che costituiscono la base materiale oltre che culturale e politica della dell’azione sionista anche oltre la Palestina.
Non a caso lo scontro con il sionismo, inteso come politica d’occupazione coloniale e apartheid, non riguarda solo la Palestina ma tutte quelle parti del mondo in cui un meccanismo del genere si è determinato.
Basti solo pensare che nell’Asia Occidentale, quello che noi attualmente chiamiamo in maniera eurocentrica Medio Oriente, l’entità sionista non occupa solo la Palestina ma anche parti del Libano e della Siria; la NATO a sua volta controlla militarmente porzioni di Siria e Iraq.
Per cui è evidente come sia in atto una dinamica di ampia portata in cui si identifica un po’ tutta la quella parte del pianeta che, in un modo nell’altro, noi potremmo definire extra occidentale; ma in particolar modo per quello che oggi viene definito come il Sud Globale, quell’umanità che ha subito secoli di colonizzazione da parte delle potenze occidentali. Il simbolismo e la rilevanza politica dello scontro in atto sono racchiusi in questo elemento comune.

Credo infatti che sia molto importante evidenziare un aspetto di ciò che dici, ossia la proiezione del sionismo, il fatto che non si limiti semplicemente al colonialismo di insediamento nella Palestina Storica ma si estende agendo su tutto il territorio circostante; c’è quindi una politica di aggressione imperiale rispetto a tutti i paesi della regione…

Se ci pensiamo bene, questa proiezione è congenita nel sionismo perché è nato nelle cancellerie europee, in particolar modo nell’Impero britannico (ad esempio con la Dichiarazione di Balfour e le promesse a Rothschild) a cui serviva sul momento come testa di ponte nella regione.
Poi è diventato effettivamente operativo nel momento in cui, dopo la Seconda Guerra Mondiale, il processo di decolonizzazione formale è iniziato a procedere velocemente; di fronte alla quale si è pensato di sostituire il colonialismo formale con quello sostanziale della Palestina, ma anche con una proiezione “informale” del neocolonialismo sul territorio mediorientale.
Non a caso “Israele” è un partner della NATO, anche se non ufficialmente per non disturbare una parte di interlocutori internazionali, ma “Israele” in quanto tale è inserita nel dispositivo politico unitario della NATO a tutti gli effetti; ne è anzi uno degli attori principali di questa proiezione.
In questo senso è interessante analizzare i concetti di avanzamento e arretramento in termini generali: alla fine di quest’ultimo scontro le idee di vittoria e di sconfitta non potranno essere valutate per come le intendiamo classicamente, piuttosto dovranno essere intese come un processo di arretramento o avanzamento a livello non solo specifico, ma internazionale.
In questo senso se perde l’entità sionista sarà un’avanzata non solo della Resistenza arabo-palestinese ma di tutto il Sud globale.
Se invece si avrà un prevalere delle istanze sioniste, questo in realtà non sarà neanche percepito come un arretramento; perché di fatto dal 7 ottobre si è dato un passaggio che già ha determinato un avanzamento assoluto non più negabile, che significa innanzitutto che la proiezione imperial-sionista sull’area non è più un fatto ineludibile, non c’è più quella invincibilità, quell’impossibilità di scontrarsi con la sua forza.
Questo non è un dato tattico ma strategico a cui bisogna aggiungere che, dopo oltre sei mesi, la Resistenza palestinese sia ancora in grado di reggere l’onda d’urto fenomenale dell’entità sionista.
Noi oggi parliamo di genocidio e non c’è onda d’urto più potente di un di genocidio. Il fatto che la Resistenza ancora sia in piedi significa che gode dell’appoggio della maggior parte della popolazione palestinese, questo anche è un risultato strategico che nessuno può negare.
L’altro aspetto di avanzamento collettivo è che si è ristabilita, dal 7 Ottobre in poi, la questione palestinese non più come una questione “identitaria” ma una questione internazionalista.
Perché nello scontro con l’entità sionista non sono coinvolti direttamente solo i palestinesi ma molti altri attori: la Resistenza libanese, quella irachena, gli yemeniti, che erano i paria del mondo nel paese più povero dell’Asia occidentale, che tuttora tengono testa a una coalizione internazionale e hanno interrotto uno dei canali di transito commerciale più importanti del mondo. In questo senso si dimostra una composizione di quella parte di mondo arabo e islamico che prima non era così evidente. Quello che alcuni definiscono l’Asse della Resistenza e che emerge rafforzato.

A livello macroscopico, nello scacchiere che definiamo Sud globale ci sono tutta una serie di attori estremamente attivi, anche se non interessati direttamente dalle dinamiche regionali in senso stretto; penso ad esempio al Sudafrica, al Brasile di Lula, l’Irlanda o anche l’Indonesia. Possiamo dire che si stiano schierando al fianco della Palestina anche per ridefinire proprio questo quadro di rapporti tra Sud e Nord globale?
Il fatto che l’ONU sia uno dei terreni di scontro di questa contesa sembra significativo perché da un lato abbiamo chi ha costruito quest’ordine, cioè il mondo occidentale, che ora cerca di svincolarsene sentendolo troppo stretto, mentre dall’altro troviamo invece tutti gli altri paesi che sono entrati in seconda battuta, spesso in posizione subalterna anche dentro le Nazioni Unite, ma che usano proprio quell’organismo per far valere le proprie ragioni, rendendolo un terreno di contesa.

Sì, in questo senso forse sarebbe più corretto dire che quello che sta avvenendo in particolare in Palestina, ma in realtà su tutta l’Asia Occidentale, è un’occasione per il Sud del mondo per riequilibrare il proprio rapporto con una buona parte del mondo occidentale, quello a cui è legata una matrice storica di sopraffazione e colonialismo.
Si potrebbe parlare anche della Cina e dei BRICS, ma il problema non è quello. Piuttosto c’è da chiedersi com’è che la parte più povera del mondo vive le contraddizioni internazionali di una fase storica che dura dalle colonie: cinque secoli in cui il Sud del mondo ha sempre subita questa sopraffazione da parte occidentale; ecco che questa è vista come l’occasione per riequilibrare i rapporti.
C’è tutta una parte del mondo africano che sta sfruttando l’occasione per regolare i suoi conti in sospeso con la secolare sopraffazione europea, non solo il Sudafrica con la sua proattività, con il ruolo di paese più forte del continente, sia economicamente e politicamente sia storicamente, essendo la nazione dell’Apartheid e della vittoria su un meccanismo segregazionista che è molto assimilabile ai dispositivi di governo (sionista) della Palestina.
Ma se parliamo di tutto quello che sta avvenendo nell’Africa occidentale francofona, dal Mali al Niger fino alle elezioni in Senegal, vediamo una spinta a estromettere l’ingerenza e l’egemonia europea incarnata dalla Francia, che per secoli è stata il tallone di ferro che ha schiacciato le possibilità d’emancipazione di quelle aree.
Qualcosa di simile vale anche per l’America Latina; basti vedere le posizioni espresse dalla Colombia che solo qualche tempo fa erano impensabili, essendo stata per decenni una pedina controrivoluzionaria in mano all’imperialismo statunitense, molto foraggiata dalla macchina bellica sionista; il fatto che oggi si interrompano le relazioni con l’entità sionista è un’ulteriore dimostrazione che questa è vista come un’occasione storica per regolare i conti e tentare di riequilibrare le relazioni internazionali.
In questo senso è giusto parlare di avanzamento e arretramento: perché non ci sarà né una vittoria assoluta né una sconfitta assoluta.
Non è immaginabile che chiunque avanzi o arretri si dia per vincitore o sconfitto definitivo. Non sarà così perché ogni risultato è legato alle dinamiche internazionali complessive.
Però oggi come oggi, comunque vada a finire, a più di sei mesi dal 7 Ottobre si può dire che comunque la causa palestinese e indirettamente la causa del Sud del mondo, è sicuramente avanzata perché quello che è successo e che sta succedendo anche ora, che non ha precedenti in questo secolo.

Tornando invece al Sudafrica e quindi alla questione dell’ONU, qual è il rilievo effettivo del fatto che il Sudafrica abbia portato Israele, accusandolo di genocidio, alla Corte Internazionale di Giustizia? Quanto quel processo effettivamente pesa su Israele e sulla sua percezione anche a livello mondiale, considerando che una buona metà della partita si gioca sul piano dell’opinione pubblica? Inoltre, dato che l’ultima conferenza della Campagna Globale per il Ritorno in Palestina si è tenuta proprio in Sudafrica, che ruolo ha giocato in questo passaggio?

Posso dire con orgoglio che l’idea di portare a processo l’entità sionista in un tribunale internazionale è nata proprio in quell’occasione. Nello scorso dicembre la Campagna si è riunita in Sudafrica in occasione del Decimo Anniversario della morte di Nelson Mandela, per cui si è pensato che proprio il Sudafrica fosse in quel momento la tappa giusta per il suo sviluppo a livello internazionale, soprattutto perché i simbolismi erano molto evidenti; quindi all’interno della conferenza si è creato un gruppo di lavoro specifico per approfondire e studiare quali potessero essere gli elementi in grado di mettere all’angolo internazionalmente lo stato israeliano.
Va precisato che ha un senso politico aver portato a processo “Israele” alla Corte Internazionale dell’Aia non tanto per il valore di per sé della Corte Internazionale o per il responso di processabilità. Più semplicemente è stato un passaggio in cui politicamente è stato sancito per la prima volta che “Israele” potrebbe essere uno Stato genocida ed è questo che ha effettivamente un valore politico in sé.
All’atto pratico non è cambiato niente sul campo di battaglia in terra di Palestina, anzi se possibile le cose sono anche peggiorate; ma lo scopo era mettere in risalto un dato politico con la convinzione che, qualsiasi fosse stato il responso, sarebbe stata una vittoria.
Poteva darsi che il Tribunale, come poi è avvenuto, decidesse di esporsi solo a metà, riconoscendo la processabilità ma non formalizzando una sentenza di colpevolezza di genocidio. Però ha anche dimostrato che non poteva non riconoscere ciò che sta avvenendo e questa comunque è già una prima vittoria.
Ma se il Tribunale Internazionale non avesse riconosciuto nulla e rifiutando qualsiasi ipotesi di genocidio, che poi era la posizione soprattutto degli Stati Uniti e di tutto l’ambiente NATO, allora si sarebbe dimostrato che quell’istituzione non funziona in maniera imparziale.
Se invece avesse avuto più coraggio e avesse sanzionato direttamente, con provvedimenti concreti, sarebbe stata una vittoria completa.
Per cui la valutazione è stata di tipo politico generale: facciamola, perché qualsiasi sarà responso sarà una vittoria. È stata pensata in questi termini, non perché ci si affida a una dubbia istituzione internazionale per risolvere qualcosa che solo la Resistenza sul campo potrà risolvere, su questo c’è grande consapevolezza.
L’altro aspetto del riferirsi al Tribunale Internazionale è il concepire lo scontro in atto come conflitto su più livelli, non solo uno scontro con mezzi militari ma anche con mezzi pacifici, tutti questi metodi possono concorrere a ottenere il risultato voluto.
Oggi opporsi a “Israele”, uno Stato che è comunque sotto processo per genocidio, è più semplice e dirlo pubblicamente non può più passare per antisemitismo, questo anche è un risvolto ideologico importante. Insomma, c’era poco da perdere ma tutto da guadagnare; era un megafono che ha fatto sì che oggi tutte le piazze del mondo parlino di genocidio.

In questo avanzamento, come tu dici, è centrale la dimensione simbolica che ha permesso di sdoganare il termine genocidio e farlo assumere a livello di massa. Però forse era relativamente facile far passare questo concetto all’opinione pubblica davanti a quello sta che succedendo.
Molto più difficile invece è riuscire a superare un preconcetto islamofobo molto diffuso. Nel 7 ottobre, ad esempio, alcuni hanno riconosciuto immediatamente un’azione di Resistenza, molti ci hanno visto esclusivamente un’azione violenta e deplorevole, secondo un classico registro democratico-umanitario, ma soprattutto trovano scandaloso il solo associare l’idea di Resistenza al fatto che a portarne la bandiera fosse Hamas, una formazione islamista.
Questa cosa a un certo punto si è arginata, più nelle piazze che nei discorsi mediatico-politici ovviamente.
Un po’ perché le piazze filo-palestinesi hanno rifiutato qualsiasi distinzione tra una Resistenza buona ed una cattiva, ma anche dal fatto che la mobilitazione internazionale fuori dall’Occidente ha sgito molto sul campo di una “solidarietà di fede”, una solidarietà del mondo islamico di cui gli Houti possono essere un esempio, anche se non esaustivo, di come si sia messa in moto non solo un’azione di vicinanza ma una vera e propria pratica antiimperialista. Ci troviamo quindi in un corto circuito in cui bisogna riconoscere legittimità per la prima volta ad una Liberazione i cui valori restano alieni ai nostri, in cui non c’è il socialismo come bandiera unificatrice. Per la prima volta ci si confronta esplicitamente con una pratica di autodeterminazione che esce completamente dai nostri schemi di ragionamento, perché non gioca più su un discorso di matrice europea come poteva essere per la fase della “decolonizzazione”. Siamo quindi immersi in un paradigma inedito…

È una delle ricadute che rientrano in quella logica di avanzamento irreversibile che si è determinata dal 7 Ottobre e dai suoi effetti ancora in corso, che hanno messo in discussione una visione dell’Arena Internazionale fondamentalmente eurocentrica, che vedeva tutto ciò che si muoveva a livello internazionale con le lenti di un movimento di chiara matrice Europea, nelle cui categorie esisteva semplicemente il meccanismo del Socialismo, che però non è più elemento preponderante dentro la dinamica internazionale ormai da un trentennio buono. Ma anche perché questo protagonismo estraneo alla concezione “occidentale” effettivamente mette in discussione l’assunto per cui tutto il mondo non ruota più intorno ad una logica eurocentrica.
Lo stesso fatto di non chiamare l’area Medio Oriente ma Asia Occidentale è già una messa in discussione tutto ciò che finora siamo stati abituati a leggere come realtà.
Oltretutto avanzamento ha significato anche aver un po’ disintossicato gli ambienti politici e sociali qui da noi, perché tutto sommato il problema dell’islamofobia non mai è stato centrale se non nei paesi occidentali, che hanno condotto per un quarto di secolo la “Guerra al Terrore”, di cui l’islamofobia è stata un meccanismo primario di coesione ideologica e culturale.
Oggi tutto questo è messo in discussione perché, se all’indomani del 7 ottobre era difficile affrontare la discussione sulla Resistenza, in sei mesi si è riusciti a scalfire e modificare anche insospettabili “eurocentrici”, che oggi sono costretti a riconoscere che il problema di ciò che sta avvenendo in Palestina e dintorni non è un fatto dell’islam, ma è un fatto anticoloniale.
Questo è un dato di fatto oggi inoppugnabile. Che la Resistenza arabo-palestinese venga presentata nei termini di uno scontro tra Hamas e Israele è una costruzione tutta occidentale e sionista; in realtà per qualunque palestinese o arabo è uno scontro contro il sionismo non di Hamas ma della Resistenza palestinese.
Su questo i palestinesi fanno molta attenzione e un risultato in tal senso è dovuto proprio alla loro determinazione sin dall’inizio a configurare la questione come uno scontro tra la Resistenza palestinese contro l’entità Sionista e non come uno scontro frontale tra due fazioni, pur consapevoli che i rapporti di forza all’interno della Resistenza palestinese sono determinati dalla potenza di fuoco della struttura militare messa sul campo. Di fatto togliendo ossigeno al collaborazionismo palestinese dell’ANP e quello arabo delle Petrolmonarchie.
È innegabile che oggi si facciano operazioni congiunte di Hamas insieme al Fronte Popolare o insieme alla Jihad Islamica piuttosto che al Fronte Democratico.
In questo senso la stessa Campagna Globale per il Ritorno in Palestina non è determinata solo dalle forze della Resistenza arabo-islamica, ci sono dentro componenti internazionali laiche o marxiste senza nessun problema e senza che nessuno sollevi il fatto che il Sudafrica, che sicuramente non può essere configurato come potenza islamica, si sia fatto carico di rappresentare le istanze arabo-palestinesi di fronte al Tribunale di Giustizia Internazionale.
Questo smottamento della narrazione eurocentrica è confermato ad esempio dal confronto nello stesso Tribunale Internazionale tra Nicaragua e Germania. Perché il Nicaragua si è presentato come parte accusatoria rispetto alla complicità tedesche nel genocidio, la stessa Irlanda oggi sta dalla parte dell’accusa al sionismo. L’avanzamento è palpabile.
Si aggiunga che la presenza nei paesi occidentali di grandi componenti immigrate ha fatto sì che oggi la narrazione di ciò che avviene in Palestina si sia anche adeguata alla composizione sociale di chi si è mobilitato e che, a differenza di venti anni fa, è composta non sono solo di indigeni ma di seconde e terze generazioni figlie di immigrati; soprattutto la componente araba e palestinese ha stabilito su cosa muoversi e su cosa tacere, anche scontrandosi con quelle istanze indigene che sentenziavano “Né con uno né con l’altro”, a cui hanno risposto chiaramente “con la Resistenza, contro l’entità sonista”.
E questo è anche il frutto di una battaglia politica latente ma comunque condotta, dove le parti più coscienti del Movimento indigeno si sono schierate apertamente su questa linea nelle manifestazioni per la Palestina, dove oggi non c’è più spazio per una posizione equidistante o che in qualche modo ricalca le istanze istituzionali.
Sono le istituzioni italiane che oggi sono schierate apertamente col sionismo mentre le piazze, le università, non hanno più una posizione equidistante ma sono chiaramente dalla parte della Resistenza dal momento in cui il concetto di “Potenza genocida” ha rotto l’indugio e il pudore verso quella narrazione dell’unica democrazia in Medio Oriente e del valore morale dell’esercito sionista è stato spazzato via dagli eventi. Spazzato via sia per le capacità della Resistenza sia dall’opera di macelleria che sta facendo l’entità Sionista sotto gli occhi di tutti.
Quando si ammazzano quasi 40.000 persone e di queste il 70%, se non di più, è costituito da bambini e donne non regge più una narrazione vittimista, sono talmente evidenti il torto e la ragione, che è assolutamente indifendibile qualsiasi equidistanza.
Per cui torniamo al concetto di avanzamento e arretramento: questo enorme sacrificio fatto dai palestinesi ha ristabilito le categorie di giustizia, di torto e ragione, di colono e colonizzato e così via. È un merito che va riconosciuto a prescindere ed è di valore universale.

Questo momento di scontro in Palestina si inserisce dentro una tendenza alla guerra che è un acceleratore esploso già due anni fa in Ucraina e sembra ormai un processo irreversibile molto chiaro e determinato. Ancora un anno fa gli attori istituzionali più democratici o più ottimisti, potevano dirsi coinvolti nell’aiuto all’Ucraina poiché paese aggredito; a un certo punto non solo sono scivolati verso un registro sempre più sciovinista, ma hanno dovuto adottare un doppio registro, estremamente ipocrita e difficile da mantenere, rispetto alla Palestina dove le condanne verso i crimini israeliani sono estremamente reticenti.
Prova ne è la reazione generale alla rappresaglia iraniana dopo che l’aviazione israeliana ne ha bombardato l’ambasciata a Damasco, in una provocazione senza precedenti.
Si sono insomma iniziate a creare le condizioni per cui parlare tranquillamente del fatto che la guerra è una realtà tornata concretamente e che di qui a un paio d’anni si assisterà probabilmente a un conflitto di proporzioni molto più grandi e devastanti.
In questa fase però il bellicismo è ancora una volontà politica delle classi dirigenti sostanzialmente autoreferenziale, senza alcuna partecipazione o condivisione popolare, c’è uno scollamento netto tra quello che è il sentire della popolazione e ciò che sono la narrazione mediatica e la volontà istituzionale. Un abisso evidente anche da tutte le statistiche in merito.
In mezzo in questa tendenza alla guerra, che spazi di mobilitazione si aprono a partire dalla questione palestinese e dalla sua capacità di mobilitare globalmente?

Quando si dice “tendenza alla guerra”, dal mio punto di vista, non credo che rispetto al passato ci sia stata un’accelerazione, perché basta pensare alla “guerra al terrore” che ha contraddistinto già tutto questo secolo, all’invasione dell’Iraq e dell’Afghanistan, eventi che hanno coinvolto enormi masse di forza materiale e umana dall’Occidente. Per dire: a un certo punto in Iraq era presente mezzo milione di occidentali legati alle operazioni militari.
Il problema è che questa tendenza alla guerra è insita al capitalismo in quanto tale, ne è una componente essenziale, anche perché nell’assetto del capitalismo, soprattutto occidentale, la sezione di capitale collegata al comparto militare-industriale ha preso il sopravvento.
In questo senso, dalle “nostre” parti, ciò che c’è di economicamente produttivo è più legato alla dinamica della guerra che non in altre latitudini.
Ma la novità è il fatto che oggi l’imperialismo è diventato più aggressivo perché sembra stia perdendo terreno; la presenza italiana nel Mar Rosso è sintomatica di quella proiezione delle classi dirigenti capitaliste privo un riscontro sociale né materiale o economico; questo lo dimostrano anche gli eventi in Ucraina dove la base produttiva occidentale, tanto terziarizzata da aver scelto di esternalizzare anche le risorse umane piuttosto che costruirle, non è in grado di garantire una base materiale per uno scontro generalizzato.
In questo senso, paradossalmente, più si allargherà e protrarrà il conflitto, più la tigre si dimostrerà di carta.
Non a caso si parla della re-immissione della coscrizione obbligatoria: per fare una guerra come loro vorrebbero bisogna avere il personale; questo è uno dei limiti che si sta palesando in Ucraina, dove non solo si necessita del “capitale umano” da sacrificare, ma la narrazione bellica deve reggere e questo è un punto debole perché, per quanto si veda lo sforzo bellicista fatto attraverso il mainstream mediatico, il consenso sociale è minimo.
Oggi non si può dire certo che la popolazione italiana si voglia lanciare nell’avventura. Non regge perché sono masse nella maggior parte dei casi politicamente amorfe o passive, ma che non scalpitano certo per andare a farsi massacrare per garantire i profitti alle multinazionali o la gloria alla nazione.
È certo che rispetto al pericolo sono ancora troppo passive, ma la realtà è che non c’è proprio culturalmente e psicologicamente una popolazione in Occidente disposta a fare la guerra.
Questo è un fatto di cui va tenuto conto, nonostante un quarto di secolo di narrazione bellicista molto improntata sulla proiezione all’esterno del capitalismo occidentale, non è stata amalgamata una base sociale disponibile da mandare “al macello”. Quelle europee non sono società “pronte” ad affrontare questi scenari, sono le classi dominanti che vorrebbero affrontarle anche senza esserne in grado. Questo è, da punto di vista storico, un fatto positivo – nel rifiuto della guerra imperialista -, è evidente che anche qui si è scollata la società, che è polarizzata al suo interno: le élite vogliono andare a fare guerra ma non ci vanno direttamente, servono le classi sottomesse per farla, che però attualmente non sembrano disponibili a farsi ammazzare, come poteva essere durante la Prima Guerra Mondiale, o per altri versi nella Seconda. Non c’è alcun entusiasmo bellicista all’interno delle società occidentali.
Questo non significa che l’animale ferito non diventi più aggressivo quando è stretto all’angolo, perché se la dinamica che è in corso di avanzamento di altre istanze internazionali avverse rispetto all’Occidente ne limita il campo d’agibilità, potremmo assistere a delle scelte isteriche e dissennate, che saranno però dei colpi di coda.
Ciò che probabilmente sta avvenendo in questo momento storico è il fatto che il processo di perdita della supremazia dell’Occidente rispetto al resto del mondo sia abbastanza irreversibile. Una sorta di “Crollo del Muro di Berlino” in salsa occidentale, per cui quella arabo-palestinese potrebbe essere una picconata decisiva.
Si può dire che tutto questo apra una finestra di solidarietà internazionale che potrà essere, in prospettiva, trasformata in una logica internazionalista e di classe.
Perché, oggi come oggi, da questa perdita di supremazia a guadagnarci non saranno solo i popoli oppressi, colonizzati o segregati, ma potranno essere gli stessi proletari dei paesi occidentali, cui spazzare via una classe dominante strategicamente indebolita è necessario più che mai. In questo senso vediamo un possibile punto di incontro tra le istanze del Sud globale e le possibili istanze di classe nell’occidente capitalista, e da questo punto di vista potrebbe essere un’occasione storica importante. Certo, come tutte occasioni, o le sfrutti o le perdi.
Se l’occasione si incontra con l’organizzazione diventa opportunità, se invece la si attraversa nella disorganizzazione e nella frammentazione allora passerà e basta.

]]>
Il nuovo disordine mondiale / 25: Fratture della guerra estesa https://www.carmillaonline.com/2024/04/15/il-nuovo-disordine-mondiale-25-fratture-della-guerra-estesa/ Mon, 15 Apr 2024 20:00:13 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=81870 di Sandro Moiso

«Grand Continent», Fratture della guerra estesa. Dall’Ucraina al metaverso, LUISS University Press, Roma 2023, pp. 170, 18 euro

«Grand Continent» è una rivista online consacrata alla geopolitica, alle questioni europee e giuridiche e al dibattito intellettuale con lo scopo di “costruire un dibattito strategico, politico e intellettuale”. Nata nell’aprile 2019, è pubblicata dal Groupe d’études géopolitiques, associazione indipendente fondata presso l’École normale supérieure nel 2017. A partire dal 2021 è integralmente pubblicata in cinque lingue diverse: francese, tedesco, spagnolo, italiano e polacco.

Gli articoli sono scritti da giovani ricercatori e universitari, ma anche da esperti e [...]]]> di Sandro Moiso

«Grand Continent», Fratture della guerra estesa. Dall’Ucraina al metaverso, LUISS University Press, Roma 2023, pp. 170, 18 euro

«Grand Continent» è una rivista online consacrata alla geopolitica, alle questioni europee e giuridiche e al dibattito intellettuale con lo scopo di “costruire un dibattito strategico, politico e intellettuale”. Nata nell’aprile 2019, è pubblicata dal Groupe d’études géopolitiques, associazione indipendente fondata presso l’École normale supérieure nel 2017. A partire dal 2021 è integralmente pubblicata in cinque lingue diverse: francese, tedesco, spagnolo, italiano e polacco.

Gli articoli sono scritti da giovani ricercatori e universitari, ma anche da esperti e intellettuali di vario indirizzo, come: Carlo Ginzburg, Henry Kissinger (†), Laurence Boone, Louise Glück, Toni Negri(†), Olga Tokarczuk, Thomas Piketty, Élisabeth Roudinesco e Mario Vargas Llosa .
«Grand Continent» ha animato un ciclo di seminari settimanali presso l’École normale supérieure, nonché un altro di conferenze trasmesse da Parigi in numerose città europee e divenuto un libro, Une certaine idée de l’Europe, pubblicato dall’editore Flammarion nel 2019 (con scritti di Patrick Boucheron, Antonio Negri, Thomas Piketty, Myriam Revault d’Allonnes e Elisabeth Roudinesco). Gli articoli della rivista sono stati ripresi in numerosi quotidiani e media internazionali.

Fratture della guerra estesa è il secondo volume cartaceo di «Grand Continent», il primo pubblicato anche in italiano. Uscito per la LUISS University Press, pur presentando contenuti per molti punti di vista ampiamente discutibili, si rivela comunque di grande interesse per chiunque voglia affrontare i problemi connessi all’attuale età della guerra e della crisi dell’ordine occidentale del mondo seguito sia alla fine della guerra fredda e alla fine dell’URSS che alla successiva crisi apertasi con la fine della globalizzazione o, almeno, di ciò che l’Occidente intendeva come tale.

Il titolo della rivista rinvia al Grande Continente, intendendo con questa definizione l’Europa nella sua possibile concezione francese (sottintendente per questo una grandeur che viene estesa all’intera politica continentale), sia nelle sue scelte economiche che politiche e strategico-militari.
Il contenuto, in questo numero, è ancora incentrato sulla guerra in Ucraina, essendo uscito, in Italia, proprio nel mese di ottobre 2024, a ridosso dell’azione militare di Hamas e delle sue conseguenze politiche, militari e umanitarie. Ma pur mantenendo il baricentro sulla frontiera orientale d’Europa, allarga comunque lo sguardo al rapporto tra guerra, tecnica, tecnologia e tecnocrazia (si vedano gli articoli da pagina 69 alla 113) e alla dottrina della “guerra ecologica” con gli articoli compresi tra pagina 117 e pagina 154.

Un panorama della guerra che viene oppure, a seconda dei punti di vista, che è già in atto che pone comunque al centro, fin dall’introduzione di Gilles Gressani e Mathéo Malik, il progressivo spostamento della centralità politica, militare ed economica dall’Occidente, e in particolare dall’Europa, ad altre aree, non solo geografiche.

Tra la pandemia e l’esplosione delle rivalità geopolitiche, un ordine è crollato; dal lento muoversi delle placche tettoniche, un nuovo mondo emerge, senza che si possa ancora definire la sua forma. Interregno: intervallo di tempo fra la morte, l’abdicazione, la deposizione di un re, o altro sovrano, e l’elezione o la proclamazione del successore. Periodo di vacanza, di passaggio, di transizione, di crisi. Interruzione di durata variabile. Tendenze di un mondo in profonda ristrutturazione, che però non siamo in grado di descrivere, trasformare o fermare1.

E’ una considerazione concisa e importante allo stesso tempo, quella appena citata. Una considerazione che riguarda l’ordine imperiale e geopolitico del mondo, in sempre più rapida trasformazione. Una considerazione in cui l’unico elemento assente è quello della lotta di classe che, comunque, tarda ancora a manifestarsi nelle forme e modalità ritenute canoniche. Motivo per cui, esattamente come per l’ordine geopolitico e imperiale messo in crisi, anche tanta Sinistra, sia istituzionale che (pretesa) radicale o antagonista, si è trovata impreparata, sorpresa e confusa una volta messa di fronte alla guerra. Fino al punto di schierarsi apertamente, e senza alcuna capacità previsionale, con uno dei fronti in lotta.

Ecco allora che la rivista qui recensita, che pure tifa per una delle parti già coinvolte nella lotta “dinastica”, in corso su scala planetaria da tempo, ma esplosa davanti a tutti a partire dall’invasione russa dell’Ucraina, ovvero per l’Europa così come fino ad ora ha voluto fingere di rappresentarsi, può costituire un utile punto di riferimento per una riflessione che voglia escludere qualsiasi complottismo o interpretazione ideologizzata a proposito del nuovo disordine mondiale.

Nuovo disordine mondiale in cui tutti gli attori statali, economici e militari, pur fingendo grande unità di intenti con i presunti vicini e alleati, giocano in realtà per se stessi. In una partita il cui disordine aumenta man mano che tutte le regole precedentemente stabilite dal Risiko occidentale vengono abbandonate, tradite o ridefinite da ogni giocatore senza accordo alcuno con tutti gli altri players. Si tratti di Unione Europea, di NATO o di Brics (solo per sintetizzare in poche sigle), nessuno sembra davvero affidarsi totalmente agli alleati. In particolare nei confronti di quelli occidentali ed europei. Come si sottolinea ancora nell’introduzione:

Nella guerra che oppone la Russia all’Ucraina, i tre quarti della popolazione mondiale scelgono di non scegliere. Il non allineamento resta una leva potente per difendere i propri interessi. Dall’India di Modi al Brasile di Lula, passando per l’Indonesia di Jokowi o per le potenze del Golfo, delle nuove potenze geopolitiche formulano nuove priorità. Hanno dei mezzi, delle ambizioni a volte immense. Sfrutteranno tutte le estensioni della guerra per guadagnare il riconoscimento dei loro interessi. Utilizzeranno anche dei “modelli di crescita elaborati nel secolo scorso, in particolare la politica industriale e il capitalismo politico”. Bisogna studiarli da vicino per capire la loro forza di attrazione sul resto del mondo, ai danni di un continente ancora una volta traumatizzato, finalmente – e definitivamente? – provincializzato2.

E tutto ciò, che non può far altro che acuire il disordine e farlo precipitare in una guerra “grande” che già non si sa più se sia la Terza o la Quarta guerra mondiale e che più che essere la manifestazione di un “piano” o di più “piani” organizzati, è invece quella di una confusione generale di intenti e obbiettivi che non coincidono affatto, ma che confliggono tra di loro, anche all’interno dei maggiori paesi coinvolti.

Si badi, per esempio, alle esternazioni di Macron sulla volontà di inviare truppe in Ucraina: è forse un tentativo di compattare la Nazione in vista di un nuovo ruolo geopolitico della Francia oppure quello di mostrare che la grandeur della stessa (vecchio sogno di De Gaulle) potrebbe sostituirsi alla presenza americana, soprattutto dal punto di vista militare in Europa, dopo le dichiarazioni di disimpegno del tutt’altro che pacifista Trump in caso di vittoria di quest’ultimo alle prossime elezioni presidenziali?

Oppure è una sfida al Regno Unito e alla Germania sul piano militare e politico per chi davvero, in Europa, dovrà portare i pantaloni “mimetici” in casa? E tutte queste possibili considerazioni come possono condurre ad un reale impegno militare comune europeo e ad una centralizzazione del comando della forze armate dei paesi della UE?

Senza contare l’eterna conflittualità con l’italietta dei piani Mattei e dei sotterfugi per rimanere nell’Africa Sub-sahariana a discapito della presenza politica e militare francese nella stessa area. Oggi resa ancor più critica dopo la vittoria elettorale in Senegal di una fazione politica a lungo perseguitata da un Presidente particolarmente fedele all’Occidente e alla Francia.

Ridurre il tutto al conflitto per il petrolio sarebbe enormemente fuorviante. Certo il conflitto per l’oro nero insanguina il pianeta fin dalla prima guerra mondiale ed è giunto, oggi, fin davanti alle spiagge di Gaza, ma sottolineare un unico movente per il disordine che attanaglia il pianeta, nelle sue forme più sanguinarie e distruttive, è davvero troppo riduttivo e fuorviante. Tenendo anche conto del fatto che, come si segnala ancora nella stessa introduzione: «L’importazione di chip da parte della Cina – 260 miliardi di dollari nel 2017, anno dei primi passi di Xi a Davos – è stata di gran lunga superiore alle esportazioni di petrolio dell’Arabia Saudita o all’export di automobili della Germania. Le somme che la Cina spende ogni anno per l’acquisto di chip sono superiori a quelle dell’intero commercio globale di aerei. Nessun prodotto è più importante dei semiconduttori nel commercio mondiale»3.

Pertanto, ancora solo a titolo d’esempio, la questione Taiwan va ben al di là del semplice interesse “nazionalistico” poiché, come ormai tutti dovrebbero sapere, l’isola rivendicata dalla Cina è il primo produttore mondiale di circuiti integrati. Settore, quest’ultimo, rispetto cui Pechino sta cercando di raggiungere una posizione di autonomia sia attraverso il controllo delle cosiddette “terre rare” necessarie per la produzione degli stessi, e del settore informatico ed elettronico più in generale, sia attraverso ciò che Xi definì proprio nel 2017 come l’”assalto ai valichi” ovvero al monopolio o ai monopoli della produzione dei semiconduttori, particolarmente importanti ormai anche dal punto di vista militare in un contesto in cui la Cina cerca da anni, in parte riuscendoci, di superare le forze armate americane sul piano dell’ammodernamento e nell’utilizzo dell’AI.

Se l’unico obiettivo della Cina fosse quello di giocare un ruolo maggiore in questo ecosistema (il settore dei semiconduttori – NdR), le sue ambizioni avrebbero potuto essere soddisfatte. Ma Pechino non sta cercando una posizione migliore in un sistema dominato da Washington e dai suoi alleati. L’invito di Xi a “prendere d’assalto le fortificazioni” non è una richiesta di una quota di mercato leggermente più alta. L’ambizione è diversa: si tratta di ricreare interamente l’industria globale dei semiconduttori, non di integrarsi al suo interno […] E’ una visone economica rivoluzionaria, con il potenziale di trasformare profondamente l’economia globale e i suoi flussi commerciali […] E non sono solo i profitti della Silicon Valley a essere minacciati: se lo sforzo cinese verso l’autosufficienza nei semiconduttori avrà successo, i suoi vicini, le cui economie dipendono per lo più dalle esportazioni, ne risentiranno ancora di più […] La posta in gioco è il più fitto insieme di catene di approvvigionamento e flussi commerciali del mondo, le filiere dell’elettronica che hanno sostenuto la crescita economica e la stabilità politica dell’Asia nell’ultimo mezzo secolo […] Nemmeno un populista come Trump avrebbe potuto immaginare una revisone più radicale dell’economia globale4.

Ma, ancora una volta, questo è solo uno degli elementi di confronto e conflitto, sospeso tra l’economico e il militare, che agitano le acque, non solo del Mar Rosso o del Golfo Persico. Motivo per cui, anche se per le ragioni precedentemente esposte, «Grand Continent» non poteva ancora parlarne, un ultimo sguardo, e forse anche qualcosa di più, va concesso a quanto sta capitando a Gaza e dintorni. A partire dall’ambigua posizione statunitense nei confronti di Isarele e del conflitto e ai massacri condotti nella striscia. Posizione che, con l’astensione (e non il veto) sulla mozione approvata dal consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite il 25 marzo, più che dimostrare una ben organizzata strategia statunitense del Medio Oriente dimostra invece come il percorso ambiguo e altalenante sia dovuto più a indecisioni e debolezze, sia nei confronti di un elettorato interno stanco di Biden che di un mastino come Netanyahu che, nel suo disperato attaccamento al potere, morde la mano del suo attuale “padrone” sperando nell’arrivo, a novembre, di un altro meglio disposto (per ora soltanto a parole), più che a un ben mirato piano di controllo delle contraddizioni dell’area.

In un contesto in cui, sia con un presidente democratico che repubblicano, gli Stati Uniti dovranno tenere sempre più conto delle tendenze centrifughe degli alleati arabi e, allo stesso tempo, della sempre più forte presenza economica e diplomatica cinese nell’area del Golfo. Con un progressivo allontanamento da Israele come unico garante degli interessi americani nell’area medesima.

In fin dei conti la confusione israeliana nell’azione a Gaza è lo specchio della confusione americana e occidentale in genere. Confusione che, attualmente, è in grado di garantire soltanto il diffondersi di un paesaggio di rovine da Gaza City a Kiev e Belgorod senza altra prospettiva del protrarsi e l’inasprirsi di una guerra che, in assenza di una diversa azione delle classi meno abbienti contro la stessa, seguirà il suo corso fino all’estensione di un panorama di rovine su scala planetaria e da cui uscirà, forse, un nuovo sovrano.

In questo senso le riflessioni e i contributi contenuti nella rivista in questione possono essere di stimolo anche per un lavoro politico che non sia soltanto di passiva accettazione dell’esistente o, al contrario, di interpretazione inutilmente e dannosamente ideologica degli avvenimenti e dei cambiamenti politici, militari ed economici attualmente in corso.


  1. G. Gressani e M. Malik, Introduzione a «Grand Continent», Fratture della guerra estesa. Dall’Ucraina al metaverso, LUISS University Press, Roma 2023, p. 8.  

  2. G. Gressani, M. Malik, op. cit., p. 11.  

  3. G.Gressani e M. Malik, op. cit., p.12.  

  4. C. Miller, Da Taiwan al metaverso: infrastrutture dell’iperguerra in «Grand Continent», Fratture della guerra estesa. Dall’Ucraina al metaverso, op. cit., pp.94-95.  

]]>
Il suicidio d’Europa con vista sul Dnepr https://www.carmillaonline.com/2024/03/18/il-suicidio-deuropa-con-vista-sul-dnepr/ Sun, 17 Mar 2024 23:47:53 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=81763 Di Jack Orlando

Benedetta Sabene, Ucraina. Controstoria del conflitto oltre i miti occidentali, Meltemi, Milano 2023, pp.284 18€

Il giorno che il presidente Zelensky dichiarò ad una giornalista italiana che in Europa c’era troppo filo-putinismo e che i suoi servizi di intelligence erano intenti a preparare delle liste di persone “da mettere a tacere” (più o meno testuale)1 , l’inviata non trovò nulla da eccepire. Né hanno avuto da ridire altri capi di stato rispetto al fatto che dei servizi di intelligence di un paese terzo stessero stilando delle liste di proscrizione, con quali criteri [...]]]> Di Jack Orlando

Benedetta Sabene, Ucraina. Controstoria del conflitto oltre i miti occidentali, Meltemi, Milano 2023, pp.284 18€

Il giorno che il presidente Zelensky dichiarò ad una giornalista italiana che in Europa c’era troppo filo-putinismo e che i suoi servizi di intelligence erano intenti a preparare delle liste di persone “da mettere a tacere” (più o meno testuale)1 , l’inviata non trovò nulla da eccepire.
Né hanno avuto da ridire altri capi di stato rispetto al fatto che dei servizi di intelligence di un paese terzo stessero stilando delle liste di proscrizione, con quali criteri poi non è dato sapere, sui propri cittadini.
Qualcuno, guarda caso in Italia, non sapendo parlare né star zitto l’ha perfino trovata una buona idea e ci ha tenuto a dirlo a tutti;2 e d’altronde era proprio un giornale italiano che all’indomani del febbraio ’22 ci aveva tenuto a pubblicare per primo la sua lista nera.3

Ora, potremmo anche dar per buona l’ipotesi che sia un gigionesco guizzo creativo del presidente ucraino, reminescenza della sua precedente vita da comico poco divertente, o un altro dei suoi eccessi rasenti la mitomania.
Eppure una dichiarazione del genere non dovrebbe lasciare indifferenti. Verrebbe da chiedersi chi sono questi fantomatici filo-putiniani, quali siano i loro tratti distintivi e perché rappresenterebbero una minaccia.
Soprattutto c’è da interrogarsi su perché sia stata accolta con una sorta di imbarazzato silenzio assenzo una proposta simile. Eppure le liste di proscrizione sarebbero cose che si vedono nell’autocratica Russia, non certo da tenersi in una democrazia, come quella che sta difendendo l’Ucraina.
In altre fasi politiche un’esternazione simile sarebbe valsa una generale levata di scudi, se non dei provvedimenti pratici.
Magari non del Bel Paese, che non è proprio campione della tutela dei suoi cittadini all’estero, ma dal resto dell’Unione vogliamo immaginare di si.

Per comprendere come si sia arrivati a questo punto viene in soccorso la giornalista Benedetta Sabene, con la sua recente Controstoria dell’Ucraina. Che non è utile solo per ripercorrere le tappe salienti del conflitto dai suoi prodromi al suo attuale incistarsi, fuori appunto dai miti occidentali, ma per leggere in controluce la tendenza generale che va manifestandosi nel Vecchio Continente, sempre più assorbito nella spirale bellica senza vie di fuga.

Una guerra non esplode mai da un momento all’altro, per volere di un folle sovrano che tiranneggia il proprio paese (oggi Putin, ieri Gheddafi o Saddam Hussein, tutti prima blanditi e poi demonizzati dall’Occidente). È coltivata da strategie di lungo periodo, contrattazioni più o meno pubbliche, processi storici indipendenti che si intrecciano allo scacchiere delle grandi potenze.
Contemporaneamente essa è preparata e rintracciabile nello spostamento di risorse, mezzi, armi e truppe sui territori. Chi oggi spende la sua ricchezza in mitra e cannoni, non lo fa solo per precauzione, sa che domani quelle armi spareranno.
Se segui il flusso degli armamenti, sai chi si sta preparando alla guerra e con chi, e oggi questi flussi sono dei fiumi in piena.

È in questa formula che può essere letto il lungo percorso della NATO che, in funzione antisovietica e poi antirussa, ha proceduto prima a flirtare con formazioni parafasciste e collaboratrici delle SS quali le forze di Stepan Bandera (non a caso il nuovo padre nobile dell’Ucraina) sin dal principio della Guerra Fredda come agenti destabilizzatori; poi disattendendo a tutti gli impegni presi con i dirigenti sovietici nella fase della “distensione”.
Quel famoso limite che non si sarebbe mosso di un pollice verso Est e che poi ha fatto chilometri portandosi appresso un sacco di bombe e pallottole.
Questo il vero principio della guerra, i lanciamissili atlantici a un passo da Mosca e i mille accordi infranti. Sarebbe banale ripeterlo, ma è proprio ciò che viene rimosso quotidianamente da una informazione che si è ormai fatta megafono esclusivo del partito della guerra.

Proprio quello dei media è uno dei fronti di guerra: orientare l’opinione pubblica, comprimendo a fondo le possibilità di dibattito e contraddittorio, demonizzando il nemico e silenziando ogni critica e criticità sono passaggi obbligati nella mobilitazione delle forze sociali per poterle inserire nel meccanismo bellico.
Preparare il terreno e le condizioni per cui le popolazioni europee saranno più docili nell’accettare le misure di compressione del loro stile di vita all’interno di un’economia di guerra, a sua volta propedeutico al passaggio successivo, la partecipazione effettiva ad una guerra combattuta boots on the ground; ipotesi in principio scongiurata da tutti, poi via via iniziata a sdoganare (citofonare Macron) come già fatto in precedenza con i carri armati, con le bombe a grappolo, con gli addestratori e ufficiali NATO.

È una informazione che bolla ogni voce dissidente di intelligenza col nemico, filoputiniani, come la stessa Sabene ha dovuto più volte sperimentare in prima persona.
Ed è una prassi che in Ucraina funziona a pieno ritmo: uno dopo l’altro, decreti legislativi restringono i margini di manovra dei giornalisti; la censura dello Stato e la repressione minano le capacità stesse di sopravvivenza economica dei media indipendenti, mentre siti parastatali diffondono dati sensibili su attivisti e professionisti dell’informazione esponendoli non solo all’azione della polizia ma direttamente alle minacce e aggressioni, a volte letali, di impuniti gruppi neonazisti.

Non siamo al livello dell’Ucraina, non ancora per lo meno, ma non è difficile notare l’accondiscendenza che gli apparati di potere mostrano con chi aggredisce i critici della tendenza alla guerra, come accaduto due anni fa a Bologna con provocazioni e aggressioni fisiche da parte di nazionalisti ucraini ai militanti di Cambiare Rotta,4 o più recentemente all’influencer palestinese Karem Rohana, aggredito da ignoti a Roma.5

Accondiscendenza che fa il paio con la solerzia mostrata invece nel reprimere le voci dissidenti: le indagini e le accuse mediatiche a docenti ed intellettuali, spesso per semplici opinioni private, i molteplici ed immotivati provvedimenti giudiziari allo stesso Roahana.
La compressione del diritto di parola è un buon termometro per misurare lo stato di salute di una democrazia; la cui difesa ad ogni costo continua ad essere il leitmotiv a giustificazione dell’estrema difesa del fronte orientale, ma che non sembra godere di ottima salute.
Il pressochè totale scollamento dell’agenda istituzionale dalle volontà politiche delle popolazioni e la sua genuflessione a centri di potere altri è una realtà di fatto ormai evidente, e non da oggi.
Lo svuotamento progressivo di ogni forma di sovranità popolare è parte integrante del modello neoliberale e alla prova della guerra diventa più che mai manifesto.6

Le leggi contro il dissenso organizzato, le accuse associative ai sindacati, la penalizzazione forsennata di qualsiasi forma di lotta, anche pacifica; tutte portate avanti in tempo di pace, si dimostrano cruciali per tenere insieme un consesso sociale ben poco disposto a sacrificare i suoi, seppur deperiti, privilegi sull’altare di un conflitto che gli è estraneo, e si preparano a fare il salto di qualità con ulteriori giri di vite.7

In Ucraina già da anni hanno cominciato a restringere gli spazi del dissenso. Ancora una volta usando una combinazione di dispositivi legali e azioni squadriste operate da milizie nazi coperte dallo Stato.
Ne rimane a monito il battesimo del nuovo corso post-maidan sancito con la strage nella Casa dei Sindacati di Odessa del 2014, con oltre quaranta innocenti massacrati barbaramente.
E ad oggi numerosi sindacati, organizzazioni e partiti d’opposizione anche di un certo peso e rappresentatività, sono messi fuori legge per “motivi di sicurezza nazionale”, ed i loro leader e attivisti arrestati e vessati.
Ma questa non è una peculiarità, un’anomalia ucraina dettata da una contingenza obbligata.
Questa è un’immagine del futuro: Kyev è la prima linea del conflitto, laboratorio di ciò che verrà messo a sistema nelle retrovie europee man mano che esse avanzano verso lo scontro.

La guerra è un meccanismo che procede su di un piano inclinato e non ammette limiti e paletti invalicabili, che non siano quelli imposti da una politica la cui lungimiranza considera la mediazione ed il compromesso come ipotesi realistiche.
Non per bontà, ma per calcolo.
E d’altro canto ogni confronto bellico termina con un accordo o con la distruzione dell’avversario; e la seconda ipotesi è tanto irrealistica quanto pericolosa.
Invece allo stato dell’arte una classe dirigente incapace di qualsiasi realismo o visione strategica insegue un delirio apocalittico, spingendosi avanti popolazioni spogliate di ogni capacità di risposta autonoma.
Il piano inclinato è percorso da un binario di cui non si vedono svolte o diramazioni possibili.
L’Europa marcia verso Est guardando il Dnepr e accarezzando il proprio suicidio.


  1. https://www.ilfattoquotidiano.it/2024/02/26/zelensky-troppi-filo-putin-in-italia-via-i-visti-poi-annuncia-una-lista-di-propagandisti-russi-e-critica-ue-inviato-il-30-delle-armi-promesse/7459628/  

  2. ogni riferimento a un politico (sic!) dei Parioli è puramente casuale 

  3. https://www.corriere.it/politica/22_giugno_05/rete-putin-italia-chi-sono-influencer-opinionisti-che-fanno-propaganda-mosca-fce2f91c-e437-11ec-8fa9-ec9f23b310cf.shtml  

  4. https://www.ilrestodelcarlino.it/bologna/cronaca/aggredita-da-tre-persone-si-salva-con-lo-spray-7a5fc3d1  

  5. https://www.romatoday.it/cronaca/pestaggio-karem-rohana-roma.html  

  6. valga a mò di esempio l’opinione contraria di quasi tutto l’elettorato italianodi fronte all’inflessibile politica pro-Kyev https://www.ipsos.com/it-it/russia-ucraina-ultime-news-italiani-riducono-timori-scoppio-terza-guerra-mondiale-3-monitoraggio-ipsos  

  7. ovviamente preceduti da campagne stampa, prima provocatrici, poi sibilline, infine assertive per poi arrivare a sanzione politica: https://www.ilfoglio.it/preghiera/2024/02/27/news/i-cortei-sono-sempre-una-violenza-6263413/  

]]>
La maschera col teschio e le immagini del mondo https://www.carmillaonline.com/2024/03/04/la-maschera-col-teschio-e-le-immagini-del-mondo/ Sun, 03 Mar 2024 23:36:13 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=81564 Di Jack Orlando

Leonardo Bianchi; Le prime gocce della tempesta, miti armi e terrore dell’estrema destra globale; Solferino; Milano 2024; 277 pp. 18€

Per chi abbia mai avuto familiarità con le forme dell’antifascismo militante il monitoraggio e l’inchiesta sui portali e sui canali di comunicazione di estrema destra è qualcosa di ben assodato. Pratica ricorrente e, per alcuni, quasi hobbistica, tipo entomologia. Con i suoi piccoli alieni da osservare e gallerie degli orrori da collezionare. Una pratica in sé abbastanza lineare: osservare, scartabellare e mettere ordine nei rimandi tra i portali ufficiali delle formazioni politiche, le riviste di area, i [...]]]> Di Jack Orlando

Leonardo Bianchi; Le prime gocce della tempesta, miti armi e terrore dell’estrema destra globale; Solferino; Milano 2024; 277 pp. 18€

Per chi abbia mai avuto familiarità con le forme dell’antifascismo militante il monitoraggio e l’inchiesta sui portali e sui canali di comunicazione di estrema destra è qualcosa di ben assodato.
Pratica ricorrente e, per alcuni, quasi hobbistica, tipo entomologia. Con i suoi piccoli alieni da osservare e gallerie degli orrori da collezionare.
Una pratica in sé abbastanza lineare: osservare, scartabellare e mettere ordine nei rimandi tra i portali ufficiali delle formazioni politiche, le riviste di area, i blog di approfondimento, le pagine social ecc…

Ecco, chi ha praticato in qualche forma questa disciplina nell’ultima dozzina di anni si sarà accorto di un mutamento genetico della “fasciosfera”, databile probabilmente tra il 2015 ed il 2017; poi inabissatosi progressivamente negli ultimi anni.

Accanto alle retoriche tradizionali, alle loro iconografie, alla propaganda cui si era abituati, iniziano a vedersi dapprima sparute, poi sempre più frequenti emersioni di un immaginario nuovo ed estraniante.
Su facebook iniziano a moltiplicarsi pagine che propongono video della wermacht in battaglia, filmati degli aerei kamikaze giapponesi, tutti restaurati in versione vaporwave e accompagnate da musica elettronica. Non c’è che dire, parecchio suggestivi. È la cosiddetta “Fashwave”, dura un po’, poi il megaban di Zuckemberg affonda tutte le pagine.
Nel frattempo Telegram, prima di essere normalizzata anch’essa, diviene un tripudio di canali neonazisti che riversano una cascata di materiale infografico e propagandistico.
Quel fenomeno di radicalizzazione molto americano che aveva interessato Reddit, 4chan e poi 8chan, passa da qui per solidificarsi in Europa.
Ora l’inchiesta da caccia virtuale va diventando pesca di profondità. Si passa da un canale all’altro, da una sigla all’altra, sempre più giù, si sondano maelstrom di orrori armati e sintetici.

Slogan, immagini, meme, suggestioni, slanci psicopolitici.
Tieni, ecco delle comode infografiche per imparare come si fa la guerra urbana.
Wait it’s all boogaloo? Always has been…
Anders Breivik è santificato da un sonnenrad, il sole nero runico, dietro la testa; la Divisione Charlemagne combatte; Dominique Venner samurai d’Europa che ha l’ideale della bellezza; Brenton Tarrant come Cristo con la tunica, che tiene il suo manifesto in una mano e l’iconico mitra nell’altra.
Fatti una cultura che è pieno di pdf. Lupi che si azzannano.
Nature hates equality.
E poi i manifesti per la Guerra razziale, i documenti programmatici per radicalizzare la lotta al 5G, i capitoli di The Siege. Soprattutto, la skull mask. Ossessiva, continua, che imbraccia il fucile, che fa il saluto romano, che rivolge allo spettatore gli occhi triggherati.
Hembrace your race.
La skull mask indossata in gruppo, nei boschi, nelle marce lugubri o calzata in solitudine, nella cameretta. Lo stendardo di un esercito senza capi né reparti, impegnato in una guerra senza quartiere né fronti. E fuori da internet colpisce duro e miete vittime innocenti.
The world you were born in no longer exist.

Ecco, di questa mutazione genetica, di cosa c’è dietro e soprattutto come si è tradotta fuori dagli schermi (spoiler: decine e decine di morti ammazzati per mano di stragisti sparsi per tutto il mondo occidentale) se ne è occupato Leonardo Bianchi, già autore di un volume sul complottismo1 e un altro sul deragliamento privatistico della politica in Italia,2 ritessendo il filo di una storia nera che ancora fatica ad essere presa in considerazione sul serio.

Un passo indietro per non perdere il filo.
Ormai si sa, gli Stati Uniti la sanno lunga in tema di suprematismo bianco: gli indiani da sterminare alla frontiera che erano poca cosa di fronte al Destino Manifesto di un Popolo Eletto, e fare posto per il lavoro schiavile prima e la segregazione razziale poi. Le masse si tengono a bada con un mix di razzismo di Stato e razzismo di strada, le pattuglie che catturavano gli schiavi si fanno polizia, l’epica sudista della guerra civile che veste i cappucci del KKK e nutre la pratica dei linciaggi. Insomma, c’è un gran bel campionario.
E quando tornano a casa dall’Europa in macerie gli yankees non si riportano indietro solo una muta di nazisti e criminali di guerra da riciclare nel conflitto con l’Unione Sovietica; tra i souvenir di alcuni soldati c’è anche una discreta fascinazione per nazismo e fascismo.
Il suprematismo americano ha incontrato il nazionalsocialismo europeo: un aggiornamento che ha come ricaduta immediata il fiorire di partitini nazi con tanto di camicia bruna tra gli anni ’50 e ’70, quei coglioni dei nazisti dell’Illinois per dare l’idea. Gruppi certamente minoritari ma ben organizzati e determinati, impotenti di fronte alla furiosa stagione della New Left e del Black Power, ma che fanno da terreno di coltura per una futura generazione di militanti.

È all’alba degli anni ’80 che infatti matura un nuovo paradigma. Il riflusso (leggasi la repressione) dei movimenti rivoluzionari lascia spazio al neoliberismo ed alla sua programmatica distruzione della politica e della società, l’imposizione dell’individualismo e la polverizzazione di ogni aggregato collettivo, non solo militante ma anche tradizionale. Non è semplicemente una ristrutturazione economica, è uno smottamento generale che mira a invadere tutto il campo delle attività umane: l’economia è il mezzo, l’obbiettivo è l’anima. Ma il trionfo del mercato, che mercifica qualsiasi cosa, ha come prezzo l’ipoteca degli stessi valori conservatori che lo accompagnano: un patrimonio che entrando nell’orbita dei consumi esistenziali inizia quindi a deperire, ma di questo se ne accorgono in pochi, almeno sul momento.

Tra quelli che sanno fiutare il cambio di passo ci sono proprio questi neonazi, riuniti in gruppuscoli che animano oscure radio e riviste, danno vita a sparute marce e aggrediscono minoranze e attivisti, nei loro campi si addestrano alla sopravvivenza, all’uso delle armi da fuoco e alle tecniche militari. Un ambiente claustrofobico, paranoide ed ultraviolento che, forse inconsapevolmente, sviluppa una strategia coerente e sistematica per la propria prassi politica.
Da questa melma emergono due testi che avranno un’importanza cruciale negli anni a venire e che sono imprescindibili per la comprensione del fenomeno.

Nel 1978 viene dato alle stampe The Turner Diaries3: un truce romanzo distopico che mette in scena le gesta di una fantomatica organizzazione di “patrioti” dedita a rovesciare il “sistema” attraverso il terrorismo sistematico e la guerra razziale, fino allo sterminio delle minoranze e dei liberali nel “Giorno della Forca”, all’instaurazione di un nuovo regime nazista e ad una apocalisse nucleare.
Letteratura da serie C che però amalgama la forza di diffusione ed identificazione della narrativa popolare, l’utilità tattica di un manuale di guerriglia con tanto di descrizioni minuziose delle azioni armate dei personaggi, e la necessità di un’indicazione strategica che risponda al senso di smarrimento e frustrazione dell’area suprematista. Metapolitica pura.
Che fosse voluto o meno, politicamente uno strumento simile con un pubblico tale è letteralmente un’arma di distruzione di massa. E non a caso diventerà un classico virale ancora oggi, in grado di fornire un orizzonte ed un vademecum per pletore di aspiranti stragisti.

Un paio d’anni dopo un ometto di nome James Mason dà il via ad una serie di articoli che culmineranno nel 1992 con la pubblicazione del libro The Siege (l’Assedio). La linea è la medesima dei Diari di Turner, ma si mettono un po’ di puntini sulle i. In estrema sintesi: il sistema democratico è controllato dagli ebrei attraverso i liberali, destinato a soppiantare l’egemonia dei bianchi grazie ad un piano di immigrazione massiccia e a finti valori femministi e antipatriottici, occorre reagire subito per evitare l’estinzione.
Siccome il declino è irreversibile, la linea è quella di accelerarne il collasso attraverso una pratica insurrezionale che punti prima al deflagramento di una guerra razziale e poi all’instaurazione di un etnostato bianco e reazionario. La tattica sarebbe quindi di costituire piccole cellule di combattimento anonime, autosufficienti, indipendenti e senza capi, che operano nella massima autonomia, eventualmente in coordinamento, per essere e colpire ovunque, seminare il panico, accelerare la caduta fino in fondo. La linea del fronte coincide esclusivamente con la volontà dei combattenti.
Per quanto i presupposti siano deliranti nondimeno intercettano una serie di nodi poco visibili sul momento ma che non tarderanno a manifestarsi come centrali; così come la pratica insurrezionale e accelerazionista non ha alcuna reale possibilità di vittoria, ma coglie nel segno indovinando una nuova metodologia che non solo fa fronte agli imperativi della lotta clandestina, ma che riesce a ricombinare il binomio spontaneità-organizzazione nella nuova fase dell’individualismo atomizzante.

Entrambi i testi saranno destinati ad una circolazione marginale e sotterranea per diversi anni, salvo riemergere in un contesto completamente diverso qualche decennio dopo. Non sono semplicemente dei disegni psicopatici e criminali, sono guizzi di avanguardia.
Gli animali politici sono tali quando fiutano la tendenza in anticipo, come i cani con i temporali, e questo non cambia anche quando la politica è quella degli “altri”, dei nemici, dei sadici.

E nemmeno è una peculiarità esclusiva degli americani. Anche l’Europa ha i suoi pionieri nella stessa fase: muore la stagione della politica rivoluzionaria e tra i suoi colpi di coda, negli edonistici ’80, in Italia assistiamo agli omicidi della sigla Ludwig,4 una storia paradigmatica dove non è mai stata chiarita del tutto la reale portata organizzativa del fenomeno, e dove il confine tra psicosi criminale e prassi politica si è fatto labile e confuso, complice anche l’incapacità mediatica di analizzare lucidamente gli eventi.
In generale la nouvelle droite di stampo italo-francese che aveva dominato il rinnovamento dell’estrema destra per un paio di decenni entra parzialmente in ombra di fronte al nuovo mondo globalizzato, in favore di una variante debitrice della lezione americana: l’alba del terzo millennio è il momento delle schegge impazzite, come la tedesca “Banda del Kebab”, e dei network internazionali di Hammerskin e Blood’n’Honour, molto più rozzi sul piano della teoria, molto più efficaci e aggressivi sul piano della pratica.

Un salto avanti, per non tirare troppo per le lunghe.
Nell’estate 2011, in una manciata di ore, Anders Breivik, neonazista norvegese, stermina da solo quasi settanta persone, per lo più teenager, tra il centro di Oslo e l’isoletta di Utoya. Ha pianificato da solo il suo attacco combinando un attentato con autobomba ad uno con fucili semiautomatici, contemporaneamente diffonde il suo delirante manifesto ideologico online.
È il caso più eclatante, ma non è l’unico. Negli stessi anni si moltiplicano gli attacchi dei cosiddetti “Lupi Solitari”, una sorta di spontaneismo armato ed individualista di matrice xenofoba e neofascista, gli Stati Uniti possono vantarne ad oggi il primato numerico e i tentativi di salto di qualità in organizzazioni paramilitari. Qui in Italia abbiamo avuto invece come rappresentanti Gianluca Casseri e Luca Traini; in tutti i casi si tratta sempre attivisti o simpatizzanti dell’estrema destra che, ad un certo punto, fanno il passo avanti e sparano senza aspettare direttive.
Solitari, ma non troppo.

2019, Christchurch, Nuova Zelanda. Brenton Tarrant, giovane australiano bianco e disoccupato, uccide cinquantuno persone a colpi di mitra in un doppio attentato contro una moschea e un centro islamico, e mentre lo fa trasmette tutto in diretta facebook con la sua gopro. Anche lui lascia un suo manifesto, anche lui è imbevuto di ideologia suprematista e teorie del complotto, ma non è mai stato un militante di estrema destra.
L’apprendistato politico, se così si può definire, di Tarrant è avvenuto on line a colpi di meme, forum e shitposting. È l’emblema della soggettività prodotta da una cultura virtuale psicopatica che mixa insieme xenofobia, misoginia, porno gore, teorie del complotto, umorismo cinico, videogame e alienazione sociale.5

Appresso a Tarrant ne arriveranno diversi altri, a brevissima distanza l’uno dall’altro, ognuno col suo manifesto. Attentati più o meno letali si rincorrono in giro per il globo, galvanizzando platee di account online.
È il manifestarsi del nuovo cambio di fase. È lo strabordare delle teorie dei Diari e dell’Assedio oltre sé stessi e il proprio ambiente.
Gli attentati sono tutti opera di giovani maschi bianchi di classe media che hanno perso il controllo della realtà e della propria vita.
In essi si concentra tutto il fallimento della cosmogonia occidentale che si presumeva principio ordinatore del mondo e invece si rivela una triste parruccata: il futuro felice che sognavano da bambini è una merda, gli improbabili standard di estetici e performativi che imperano li squalificano dal rapporto con l’altro sesso, le uniche comunità con cui interagire nel proprio disagio esistenziale sono quelle online, dove qualsiasi sensibilità è cauterizzata e il livore fermenta.
La famiglia, la scuola, il matrimonio, il lavoro, le regole, i sorrisi di cortesia, la cena coi colleghi, il barbecue coi parenti, il pakistano al minimarket sotto casa, la farina di grilli, l’economia, la crisi, le bollette, l’inflazione, l’immigrazione, il femminismo… La fottuta razza bianca è sotto assedio perché io sono sotto assedio.
Nell’intima anomia della propria cameretta crollano macerie su macerie e dallo schermo del pc urla un intero mondo che muore. La psiche individuale riceve la catastrofe e cerca di decifrarla mentre le soccombe.

Ecco che mitologie proprie d’Occidente, spinte all’esasperazione, vengono a galla come il canto del cigno della grande promessa tradita di una intera generazione. Specchi deformanti che restituiscono un senso traviato a ciò che è divenuto inesplicabile.
Ora gli scossoni della globalizzazione assumono i contorni di un malefico piano di sostituzione degli indigeni euroamericani con “popoli inferiori”; la crisi del predominio etero-maschile non è il prodotto di processi d’emancipazione storico-sociali ma ancora un ordito della lobby gay femminista per non far scopare i maschi etero e distruggere l’istituto della famiglia, come lo svuotamento di ogni forma di sovranità popolare rievoca il complotto pluto-giudaico dei Savi di Sion; il pericolo esistenziale della razza bianca non è che il riflesso perverso della classe media che affoga nei suoi debiti e nell’insostenibilità delle proprie illusioni.
In questo cervello collettivo deragliato c’è davvero il mondo al contrario.

Eccola qui l’ultima mutazione genetica, ibrido di arcaicismi e ipermodernità: il piano politico della violenza non opera più in linea con una deliberata scelta strategica. È qualcosa di più profondo; opera a livello soggettivo e salda la crisi strutturale e di senso dell’Occidente con la sofferenza psichica di individui disancorati e accelerati; alla base c’è una bruciante volontà di vendetta, contro tutto e tutti, la necessità di riscattare la propria vita svuotata in un unico gesto furente.
Lo rileva giustamente Leonardo Bianchi: è un atto di martirio, un evento estremo che in una sola volta riscatta tutta l’oppressione subita (o percepita) ed eleva l’attore al di sopra della propria misera condizione, testimonia la propria ribellione ed incita all’emulazione.
Ma il martirio, dalle comunità paleocristiane allo jihadismo contemporaneo, passando il risorgimento europeo, è sempre un gesto politico in senso assoluto.
Ecco perché è cruciale interrogare e interrogarsi su questo fenomeno al di là delle categorie patologizzanti e delle analisi superficiali; è sul senso ultimo della realtà e sulla possibilità di agire su di essa che si posizionano questi soggetti. In mezzo al sangue sparso tra supermarket e luoghi di culto, è l’immagine del mondo che ci si para davanti. Ed è uno spettacolo dell’orrore.

A conferma di ciò vi è lo sconfinamento di queste epifanie impazzite nell’arena del mainstream e del senso comune. Tanto per citarne un paio: la propaganda gender nelle scuole, la Grande Sostituzione Etnica, la dittatura del Politicamente Corretto; concetti ripetuti fino alla nausea da esponenti politici di primo piano, non di rado da capi di Stato, vomitati nei salotti televisivi e nelle campagne elettorali.
La destra mainstream parla una lingua simile a quella del peggior neonazismo; innegabile, ma non si pensi che significhi che il fascismo sia tornato al potere. Non quello che la Storia ci ha già consegnato per lo meno, nè si vede all’orizzonte la possibilità d’esistenza di un qualche etnostato bianco.

Se è possibile che non vi sia più una separazione netta tra ciò che è dicibile e ciò che è esecrabile, questo è proprio dovuto all’irreversibile deperimento di quel patrimonio ideale del liberalismo (non solo conservatore) che nominavamo più sopra e la cui arbitrarietà e mollezza ha finito per consumarlo dall’interno permettendo il reflusso degli istinti più estremi all’interno dello spazio moderato; tanto più che non vi è né vi può essere separazione netta dei corpi e degli ambienti politici, vedasi il caso dell’Alt-right americana in proposito; o se preferiamo andare ancora indietro si veda la parabola del MSI italiano con la sua natura ambigua e bifronte.

Non vi è mai stato alcun ambiente politico che sia vissuto senza un certo grado di osmosi tra le sue posizioni più radicali e quelle più accomodanti. Quella dell’esclusività delle idee moderate non è che una delle fandonie che il liberalismo ha raccontato a sé stesso.
Il punto semmai è comprendere come i cambi di fase strutturali interagiscano con la dialettica interna dei mondi politici.
In questo caso come il collasso privatistico e il conseguente annichilimento della politica tradizionalmente intesa abbia lasciato il campo a narrazioni spettacolariste ed esasperate buone per un elettoralismo da talk show, alimentate peraltro da un sistema mediatico-istituzionale che della paura e dell’emergenza permanenti ne ha fatto un paradigma di governo e business.
Ecco, questo svuotamento è coinciso con la progressiva riduzione della statualità ad agente amministrativo delle indicazioni capitalistiche, finendo per avvolgere tanto le società quanto i loro partiti in una dialettica sempre più irrazionale e intransigente. È in questo cortocircuito che una rinnovata mitologia protonazista si è inserita ed ha prolificato.

Ma non ci si può limitare a questo. Se a destra qualcosa non si è mai perso di vista negli anni, è l’elemento dell’assertività nella politica: più un discorso è ripetuto e sostenuto più esso ha possibilità di imporsi, più la posizione è spinta al proprio polo estremo, più il suddetto discorso finirà per far pendere il piano del politico dalla propria parte.
Non c’è un solo caso in cui la destra istituzionale (qualsiasi destra istituzionale) nel suo complesso non abbia mantenuto un atteggiamento ambivalente di fronte alle fughe in avanti della sua base: fossero uscite di pessimo gusto, manifestazioni grottescamente esplicite o veri e propri atti di terrore, i leader si sono limitati a smarcarsi dalle responsabilità dirette, al limite a condannare l’uso della violenza, ma mai sono arrivati a mettere in discussione gli assunti alla base di tali azioni.

Viceversa, a sinistra la resa totale al liberalismo tout court, con la messa in mora dell’istanza rinnovatrice anche più moderata, ha portato ad accettare una condizione di amministrazione della miseria e di guardia al bon ton del discorso pubblico ed alle proprie posizioni di rendita.
La visione progressista ha perso via via ogni contenuto finendo per sterilizzare e stigmatizzare qualsiasi spinta da sinistra, in un ottuso e pervicace equilibrismo ecumenico.
Nel mentre nella sua ala radicale, vittima di un pensiero debole e vittimistico che pensava possibile la critica al liberalismo senza pensarne il sostanziale superamento, si riduceva gradualmente lo spazio per l’offensività a sacche minoritarie e autoreferenziali, ci si è accasciati su schermaglie di rimessa e non certo per la repressione dei manganelli ma proprio per un’autocastrazione ideologica.

Il risultato è che oggi il piano inclinato della politica pende smaccatamente per la reazione, non tanto e non solo per quanto riguarda i risultati elettorali e l’agibilità delle formazioni di estrema destra, quanto per l’egemonia del discorso.
In ultima analisi, le destre in ogni loro forma non hanno vinto le loro guerre culturali per finezza strategica, ma perché non vi era nessuna alternativa degna che combattesse guerre opposte e così facendo ha avuto campo libero per invadere prepotentemente il terreno del reale.

A sinistra si è continuato a cianciare di diritti, ben attenti a soffocare ogni barlume di slancio vitalistico, immobili mentre tutto attorno si muoveva. A destra si è fiutato il vento e si è compreso che portava nubi di guerra civile6 e si è iniziato a parlarne la lingua, si è divenuti prime gocce della tempesta.

Ecco che, nella stagione in cui finalmente i nodi vengono al pettine, le finzioni si diradano e la realtà disvela il suo volto, il declino di un sistema mondo si fa manifesto lasciando che forze centrifughe accellerino la loro traiettoria; è questo il frangente in cui non si può più evitare di riguardare negli occhi ciò che il Novecento ha lasciato in sospeso, la verità scandalosa che trapela nonostante i mille mascheramenti: l’intero moto delle cose umane è retto dal rapporto di forze, una dialettica dell’inimicizia dispiegata e non più taciuta, in cui weltanschauung divergenti non possono che confliggere per determinare quale sia l’ordine delle cose a venire.
È la figura stessa del mondo la posta in palio ad ogni livello, da una parte essa ha già manifestato in schegge una sua proiezione futura, dall’altro c’è tutto un disegno che preme per essere ancora nominato.
O questo, oppure davvero avremo a scrivere di aver visto lo spirito del mondo al supermarket, che indossava la maschera di un teschio.


  1. Complotti; Minimum Fax 2021 

  2. La Gente; Minimum Fax 2017 

  3. tradotto in italiano come “La seconda guerra civile americana” 

  4. notevole nel merito il recente podcast Ludwig. Ultimi eredi del nazismo, di Laura Antonella Carli e Nicolò Tabarelli 

  5. per sinteticità, rispetto al fenomeno della radicalizzazione online rimandiamo all’articolo di qualche anno fa meme col fucile 

  6. per ovvi motivi di spazio rimandiamo al testo a cura di S. Moiso; Guerra Civile Globale. Fratture sociali del terzo millennio; Il Galeone edizioni; 2021 

]]>
Soldati di carta sulla strada per l’inferno https://www.carmillaonline.com/2023/11/22/soldati-di-carta-sulla-strada-per-linferno/ Wed, 22 Nov 2023 21:00:21 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=79958 di Sandro Moiso

Robert Stone, Dog Soldiers, con una prefazione di Massimo Carlotto, Edizioni minimum fax, Roma 2023, pp. 427, 19 euro

«Non sappiamo cosa stiamo facendo», rispose Converse, sicuro di sé. «Questo è il principio che dfendevamo in Vietnam. Questo è il motivo per cui siamo andati in guerra». (Robert Stone – Dog Soldiers)

Gli Stati Uniti, dal 1945 fino ad oggi, sono riusciti a condurre una guerra permanente in ogni angolo del globo. Una guerra lunga ormai quasi ottant’anni, formata da una serie di guerre sempre meno locali da cui, però, non sono mai usciti vincitori. Un record che [...]]]> di Sandro Moiso

Robert Stone, Dog Soldiers, con una prefazione di Massimo Carlotto, Edizioni minimum fax, Roma 2023, pp. 427, 19 euro

«Non sappiamo cosa stiamo facendo», rispose Converse, sicuro di sé. «Questo è il principio che dfendevamo in Vietnam. Questo è il motivo per cui siamo andati in guerra». (Robert Stone – Dog Soldiers)

Gli Stati Uniti, dal 1945 fino ad oggi, sono riusciti a condurre una guerra permanente in ogni angolo del globo. Una guerra lunga ormai quasi ottant’anni, formata da una serie di guerre sempre meno locali da cui, però, non sono mai usciti vincitori. Un record che se, da un lato, ha comunque arricchito il cosiddetto complesso militar-industriale di quel paese, dall’altro, ha anche fatto sì che forse non esista al mondo altro paese che abbia prodotto altrettanta letteratura basata sull’esperienza bellica.

Una tradizione letteraria che ha avuto inizio nell’Ottocento con i romanzi sulla Guerra civile di Stephen Crane, i racconti di Ambrose Bierce e le cronache di Walt Whitman, ma che già a partire dagli anni successivi alla prima carneficina mondiale, iniziò a produrre romanzi sulla delusione dei soldati e le loro paure e sofferenze, come quelli di William March, John Dos Passos o William Faulkner e Donald Trumbo. Oppure critici della violenza espressa nel corso del secondo conflitto globale e delle progressiva disumanizzazione del soldato americano e, ancora, dell’inutile sacrificio di migliaia di giovani in divisa e del loro drammatico ritorno a caso, dove nulla sembrava essere cambiato.

Tralasciando l’opera letteraria di Ernest Hemingway, che scrisse romanzi e racconti basati sulla sua personale esperienza sia della Prima guerra mondiale che della guerra civile spagnola, fu quella l’epoca dei romanzi di Norman Mailer, Glen Sire, Richard Matheson, James Jones e John Oliver Killens. Ma è soltanto dall’esperienza della guerra di Corea e, ancor più, da quella del Vietnam che la separazione tra guerra fuori dai confini nazionali e guerra in casa oppure tra guerra con un “nemico esterno” e guerra con il “nemico interiore”, ancor prima che interno, viene definitivamente superata. Sono i romanzi e i racconti di Tim O’Brien, Kent Anderson, Gustav Hasford, Denis Johnson e Karl Marlantes a parlarci, in tempi diversi, di quella guerra e dei traumi psicologici ancor prima che fisici riportati dai giovani soldati che la combatterono.

Mentre l’esperienza delle guerre successive in Centro America, in Medio Oriente e nell’Asia Centrale ci è stata narrata, in anni più recenti, da autori come Phil Klay e da Tobias Wolff. Ma è stata proprio la guerra del Vietnam ha ridefinire, come si diceva prima, lo sconfinamento tra conflitto esterno e interno, tra devastazione dei territori “altri” e di quello “interiore” dei soldati. Basti qui ricordare almeno due romanzi: Primo sangue di David Morrell, da cui sarebbe stato tratto il primo Rambo, diretto da Ted Kotcheff, e quello appena ripubblicato da Minimum Fax, Dog Soldiers di Robert Stone1.

Quest’ultimo, comparso in edizione originale nel 1974, è quello che maggiormente ha introdotto il discorso dell’autentico disfacimento morale di un paese e di una generazione che, fino a pochi anni prima si erano illusi di aver definito una “nuova frontiera” e un mondo di cui l’estate dell’amore del 1967 avrebbe segnato invece l’inizio, più che dell’utopia comunitaria, del declino. Prima i Beat, la libertà di immaginarsi “altri” (in letteratura, nella realtà e negli esperimenti lisergici di Ken Kesey2 ), poi la cruda realtà dei macelli in Estremo Oriente e delle droghe in polvere da iniettarsi in vena, sia al fronte che una volta tornati a casa. Con la mente guasta e il corpo in astinenza da sesso facile, adrenalina, eroina o morfina.

Robert Stone (Brooklyn 1937 – Key West 2015) nel 1971 partì per il Vietnam, dove avrebbe trascorso due mesi in qualità di corrispondente di guerra per «INK», un piccolo giornale inglese, e da lì avrebbe tratto l’ispirazione per il suo secondo romanzo, poi pubblicato nel 19743. In precedenza, nel 1962, mentre si trovava alla Stanford University aveva conosciuto Ken Kesey, all’epoca già famoso, che gli aveva dato la possibilità di conoscere molti altri scrittori, tra cui Jack Kerouac che, in qualche modo, lo avrebbe influenzato nello stile narrativo.

Si dice, infatti, che l’autore americano si sia ispirato per uno dei personaggi del suo romanzo più famoso, Ray Hicks, al personaggio reale di Neal Cassady, scrittore e protagonista della Beat Generation, che incontrò grazie al suo rapporto con Ken Kesey. Cassady che era anche stato l’ispiratore della figura di Dean Moriarty, il co-protagonista di Sulla strada di Kerouac. Mentre le pagine finali di Dog Soldiers hanno tratto abbondantemente spunto dalla morte reale dello stesso Cassady, avvenuta nel 1968, lungo una strada ferrata messicana.

Non a caso, si potrebbe definire Dog Soldiers un romanzo “on the road”, non solo tra Vietnam, Stati Uniti e Messico, ma anche nell’interiorità dei personaggi che lo animano. Interiorità descritta, nella migliore tradizione americana, non attraverso l’analisi dei pensieri dei singoli, ma attraverso le loro azioni e le loro parole. A metà strada tra noir e romanzo di azione, in cui la fuga si trasforma in un viaggio verso l’abisso e la fine. Del noir il romanzo porta la traccia amara e indelebile di Raymond Chandler, delle sue amicizie tradite e dei suoi anti-eroi spietati perché nessuno, mai e per nessun motivo, ha provato pietà per loro.

Mentre, per certi altri versi, si presenta come un romanzo apocalittico, in cui la corruzione dell’America nixoniana del Watergate si riflette nelle azioni dei personaggi, nei loro tradimenti, nella loro avidità (di sesso o soldi non fa differenza), sia che si tratti di giornalisti disillusi come John Converse, uno dei protagonisti principali, oppure di un ex-soldato come Ray Hicks, di una tossica confusa e sposata infelicemente con Converse o, ancora, di un agente corrotto della DEA.

Vite che trascorrono sul bordo di un inferno tutt’altro che metafisico di cui, in qualche modo saranno i cani. Definiti con un termine, dog soldiers, che rinvia sia alle targhette metalliche appese al collo dei soldati per l’eventuale riconoscimento dei loro corpi disfatti dopo la morte in battaglia, le dog tag, che alla tradizione guerriera degli Indiani delle pianure, in particolare di quelli appartenenti alle tribù Cheyenne.

Le cosiddette “società guerriere” erano raggruppamenti che, all’interno delle bande o delle tribù, si incaricavano dell’inquadramento dei guerrieri. Svolgevano incarichi di “polizia” interna e portavano avanti le attività guerresche sempre in prima linea. La loro rilevanza era enorme e tra i Cheyenne l’importanza delle società guerriere, specialmente di quella dei Soldati Cane, fu veramente notevole.

Quella dei Soldati Cane fu una delle più famose fra le società dei guerrieri cheyenne. Molti dei suoi appartenenti fecero il giuramento di suicidarsi oppure pronunciarono “l’incantesimo dei vecchi”. Questo perché, quando sfilavano in parata intorno all’accampamento prima della battaglia, i vecchi si schieravano ai loro lati e i banditori annunciavano a gran voce: “Guardate questi uomini, fintanto che sono vivi, per l’ultima volta perché butteranno via le loro vite”.

Il guinzaglio e il piolo costituivano gli oggetti simbolo degli appartenenti a tale società guerriera. I giovani appartenenti facevano voto di conficcare il piolo in terra e di legarsi ad esso nella battaglia, quando il nemico avesse cominciato ad avvicinarsi diventando sempre più pericoloso. Questo significava che avrebbero saldamente occupato la loro posizione e non sarebbero indietreggiati, combattendo fino a quando il nemico non fosse stato respinto o loro stessi non avessero incontrato la morte.

Per i Soldati Cane, che avevano fatto tale giuramento, era un grande onore morire combattendo legati al piolo. C’era anche un altro modo di impegnarsi al suicidio in guerra. Ma in questo caso non venivano utilizzati né guinzaglio né piolo; il guerriero si limitava a lanciarsi in mezzo ai nemici e a caricarli senza sosta, esponendosi così fino a quando non veniva ucciso. Gli altri giovani guerrieri, influenzati dal gesto, ne avrebbero seguito l’esempio.

Vite buttate si diceva prima, come quelle dei soldati mandati in guerra tra le paludi e le giungle del Vietnam oppure come quelle dei protagonisti del romanzo, non tutti destinati a morire, ma tutti ugualmente legati al piolo della siringa o del denaro. Mai eroi per coraggio e dedizione a una causa autentica, ma quasi sempre per calcolo personale o irrimediabile corruzione.

E’ una Saigon che offre ad ogni angolo eroina e prostituzione che spalanca le braccia a John Converse appena arrivato in Vietnam, durante un conflitto sempre più difficile per le forze americane e per i loro alleati. Ed per questo motivo che Converse, abbandonata l’idea di scrivere, si trova a smerciare tre chili di eroina dal Vietnam alla California, negli Stati Uniti di Nixon e della guerra alla droga, dando così inizio a una fuga durante la quale la linea di demarcazione tra preda e cacciatore è fluida e impalpabile come quella tracciata tra i due Vietnam.

«Ti conviene stare attento», gli disse Hicks. «Negli Stati Uniti succedono cose strane ormai».
«Non può essere più strano di qui».
«Qui è tutto più semplice», disse Hicks. «In America è tutto più strano. Io non so bene con chi tela fai ultimamente, ma scommetto che non hanno il senso dell’umorismo».
Converse guardò dall’alto l’amico seduto, barcollando un po’. Spalancò le braccia in un gesto plateale. «Ora come ora potrebbe anche mettersi a piovere sangue e merda», disse. «Non saprei dove altro andare»4

.
Dal romanzo, nel 1978, fu tratto il film Who’ll Stop the Rain (in Italia intitolato I guerrieri dell’inferno) diretto da Karel Reisz e interpretato da Nick Nolte nella parte di Ray. Stone, che nel frattempo aveva vinto il National Book Award con Dog Soldiers, partecipò alla sceneggiatura dello stesso, non fu mai particolarmente soddisfatto del risultato, anche se il film fu presentato in concorso al 31° Festival del cinema di Cannes.

Minimum Fax che già nel 2018 aveva proposto un altro ottimo romanzo noir basato sul reducismo successivo alla guerra di Corea, Country Dark di Chris Offutt, ha sicuramente il merito di continuare un’attività di pubblicazione, scoperta o riscoperta di romanzi particolarmente adatti a rilanciare l’attenzione del pubblico per la letteratura americana e per le profonde contraddizioni che attraversano la medesima società da decenni. E il romanzo di Robert Stone, oggi ancora una volta giunti alle porte dell’Inferno, vale davvero la pena di essere letto.


  1. Già comparso precedentemente in Italia con il titolo I guerrieri dell’inferno, Bompiani, Milano 1978.  

  2. Si veda Tom Wolfe, L’Acid Test al rinfresko elettrico, Feltrinelli, Milano 1970.  

  3. Il primo, A Hall of Mirrors uscito negli Stati Uniti nel 1966, gli era valso sia la Houghton Mifflin Literary Fellowship che il William Faulkner Foundation Award per il miglior romanzo d’esordio.  

  4. R. Stone, Dog Soldiers, Edizioni minimum fax, Roma 2023, p. 92.  

]]>
Il nuovo disordine mondiale 24 / Appunti palestinesi. Di nuovo il fuoco. https://www.carmillaonline.com/2023/11/07/il-nuovo-disordine-mondiale-24-appunti-palestinesi-di-nuovo-il-fuoco/ Tue, 07 Nov 2023 00:31:38 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=79917 Di Jack Orlando

0. Premessa. Di questi appunti ne avevamo già scritti poco più di due anni fa su queste stesse pagine1. Operazione Guardiano delle Mura, guerra di razzi, fiamme sulla Spianata delle Moschee, mobilitazione generale della gioventù, islam politico e pratica di liberazione. È da lì che ripartiamo per tentare una presa di parola. Perché non sia il solito eterno presente a colonizzare il discorso. Inutile rivangare per l’ennesima volta i torti, le date, le passate tragedie, gli attori consumati. Le parti sono chiare e il copione ormai noto.

La presa di parola è sempre [...]]]> Di Jack Orlando


0. Premessa.
Di questi appunti ne avevamo già scritti poco più di due anni fa su queste stesse pagine1. Operazione Guardiano delle Mura, guerra di razzi, fiamme sulla Spianata delle Moschee, mobilitazione generale della gioventù, islam politico e pratica di liberazione.
È da lì che ripartiamo per tentare una presa di parola.
Perché non sia il solito eterno presente a colonizzare il discorso.
Inutile rivangare per l’ennesima volta i torti, le date, le passate tragedie, gli attori consumati.
Le parti sono chiare e il copione ormai noto.

La presa di parola è sempre un intento combattuto in questi casi. Stretto tra la necessità di tracciare linee e porre punti per orientarsi e la nausea per la marea montante di notizie, perlopiù faziose o monche, che sommerge ogni spazio disponibile, toglie ossigeno e soffoca il ragionamento più di quanto lo stimoli.
Orrore per la pervicace e martellante chiacchiera da bar, piccola e oscena, che divora le possibilità dell’analisi. E necessità di esserci. Oltre il cicaleccio sulle quisquiglie dell’attualità.

Premettiamo che è una presa di parola mossa da cattive intenzioni, quella di chi è seduto avanti al PC, in una celletta degli alveari delle metropoli d’Europa, il culo al caldo come si suol dire. Guardiamo a quello che succede da dietro gli schermi, ci forziamo ad ingurgitare notizie e sottoporci immagini di strazio, tracciando dei fili rossi e cercando di costruire un senso a ciò che stiamo vivendo e osservando.
Prendiamo la parola per parlare “ai nostri”, per ribadire ancora l’ossessione del pensiero politico, per esercizio d’analisi, per andare a scuola dai fatti della Storia nel suo dispiegarsi.

Non scriviamo per prendere posizione. Ma per comprendere, per affilare lo sguardo, scandagliare piste, pescare strumenti per l’azione degli amici in ascolto. Scandalosa osservazione.
Eppure vogliamo sottolinearvela qui, che sia ben chiara. Non ci serve scrivere per prendere posizione perché diamo per scontato, almeno per quel che riguarda noi, qual’è lo schieramento cui apparteniamo.
Siamo, saremo sempre, tra le fila di quelli che sono al servizio dei dannati della terra. Tra uno stato nazione coloniale, razzista e genocida, ed una popolazione in guerra per la propria sopravvivenza abbiamo sempre avuta ben chiara quale sia la nostra parte.
Ergo non ce ne frega un cazzo di sprecare inchiostro per ribadirla, e ancora di meno ci interessa giustificare la nostra posizione, articolare preamboli giustificazionisti a scanso di equivoci, quasi a scusarci per il nostro uscire dai ranghi.

Siamo per gli ultimi, quelli che stanno in basso. Stabilita la nostra parte non ci interessa affatto giudicare dall’alto di una presunta superiorità morale, quella di chi tiene il culo al caldo di cui sopra, quali siano le pratiche di lotta legittime o consone ad una liberazione collettiva.
Ci prendiamo il pacchetto completo.
Riconosciamo primariamente il diritto collettivo all’autodeterminazione: ciò detto su mezzi, tempi e parole della rivolta ha diritto di veto solo chi è letteralmente con i piedi sul campo di battaglia.

1. Questione di sguardi.
Cominciamo da principio. Primo elemento imprescindibile, il punto di vista, la maniera in cui interpretiamo i fenomeni: il 7 ottobre non come tragica e sanguinosa giornata, ma come zenit di un processo politico che vediamo quale catalisi locale di una tendenza quanto meno internazionale.
Organizzazione politica e sentimento popolare, rivolta anticoloniale e passaggio strategico di geopolitica convivono in una giornata dal peso storico.
Hamas ha invaso Israele, ha ammazzato civili e soldati, ha rapito innocenti, ha compiuto una strage… Ha rovinato una festa.
Potremmo anzitutto smettere di ciarlare di Hamas, quale esclusivo attore in campo. L’offensiva è stata portata avanti dalla Resistenza Palestinese tutta (ovvero una rosa di organizzazioni militanti che comprendono, tra le varie, declinazioni differenti di islam politico, laicismo panarabista e marxismo leninismo), che già da anni si è dotata di un Comando operativo unico per portare avanti la lotta oltre le singole fazioni2. Comando unico che già aveva portato ad un livello più alto le capacità di resistenza e che, anche mentre si combatte dentro Gaza, continua a tenere il punto della questione3.

Questo aiuta a comprendere la vastità delle operazioni di guerriglia messe in campo e l’ampia partecipazione anche emotiva della popolazione palestinese. Ma soprattutto impone di smetterla con i distinguo, gli equilibrismi, le dichiarazioni dai guanti di velluto.
Tornando al 2021, segnalavamo come al termine delle ostilità, nonostante il tributo di sangue e nessun avanzamento territoriale, tutta la Palestina celebrò l’evento come una vittoria: una vittoria politica ed esistenziale, la dimostrazione che non solo un popolo recluso e privato dei più semplici mezzi sussistenza potesse ancora imporre la propria presenza al mondo intero, ma che era in grado di tirare su, nei cunicoli delle sue baraccopoli, sistemi di guerra tali da sfidare uno dei più potenti giganti militari del globo.
Una affermazione della vita che passa, paradossalmente, per il sangue.
E difatti ogni volta che Israele ha risposto col terrore e la brutalità che lo contraddistingue, nel tentativo di estirpare la resistenza, non ha fatto che alimentare il fuoco, portare altra gioventù sulla via della lotta.
Se nel 2021 la Palestina ha vinto la sua guerra. Nel 2023 ha sconfitto Israele sul suo stesso campo.

2. Un colpo al cuore del nemico.
Questo è stato il 7 ottobre.
I militanti palestinesi hanno sconfitto Israele in primo luogo perché ne hanno sfondato il dispositivo militare mostrando al mondo, specialmente al mondo del Medio Oriente, che la macchina bellica mostruosa e imbattibile di Israele (e per estensione dell’Occidente tutto) può essere sbaragliata con una combinazione di determinazione ed organizzazione.
L’esercito più potente del mondo è tale solo finché bombarda scuole e ospedali.
È terribile l’umiliazione dei propri soldati decimati mentre tentano di reagire con indosso elmetto e mutande da notte, dei propri mezzi corazzati distrutti e requisiti da contadini in ciabatte. L’invincibilità è una carta che non si gioca due volte.
In secondo luogo hanno inferto un trauma devastante alla psiche collettiva di Israele: uno Stato che tollera con difficoltà anche un solo caduto, figuriamoci quando a morire sono in centinaia, e che è alle prese con una lunga e lacerante crisi interna. È la goccia che fa traboccare il vaso, l’evento che scatena il definitivo attacco di panico.

Sul balletto dei numeri e dei morti eviteremo di tirare in ballo le notizie manipolate quando non inventate, i resoconti di massacri efferati, la pornografia del dolore e della morte violenta, ciò che preme segnalare è come molte delle vittime civili siano cadute nella reazione scomposta, o forse per certi versi intenzionale, delle forze di sicurezza israeliane4, tale per cui sono stati diversi gli attori dentro e fuori Israele a chiedere un’inchiesta che faccia luce su quanto avvenuto, e sul possibile utilizzo del Protocollo Hannibal, che prevede l’eliminazione fisica dei soldati stessi pur di scongiurarne la cattura5.
Dottrina militare alla luce della quale è più facile comprendere come gli ostaggi israeliani non siano in grado di frenare la furia omicida del Tsahal che, alle dichiarazioni da Gaza, ne avrebbe già ammazzati una sessantina sotto le sue stesse bombe.
Oltre a ciò domandiamo soltanto quanto possa essere netta la divisione civile/militare in uno Stato che considera se stesso come una nazione in armi cui ogni cittadino, uomo o donna che sia, deve prestare servizio nell’esercito ed essere perennemente mobilitabile; dove parte delle brutalità peggiori, quali quelle dei coloni, sono commesse da civili armati, con le spalle coperte dalla fanteria in divisa?

Ora, se in un momento di stabilità sociale, Israele è poco in grado di gestire un morto o un prigioniero delle sue fila, in una fase critica come quella che attraversa da oltre un anno, la faccenda è più complicata.
Netanyahu resta in sella solo in virtù dell’emergenza, per i resto è politicamente un morto che cammina, una caduta rimandata di poco ma ormai inevitabile. Lui, come la politica stessa è preso in mezzo tra spinte sanguinarie più esplicite quali quelle dei generali dell’esercito, di cui il ministro Gallan è grottesco portavoce, e più miti consigli quali quelli dell’americano Blinken, preoccupato di una deflagrazione incontrollabile.
Fratture che si approfondiscono giorno dopo giorno dentro la società israeliana che si cannibalizza da sé6, con le famiglie degli ostaggi che premono per una trattativa e vengono accusati di tradimento, con la polizia che reprime violentemente qualsiasi manifestazione di dissenso interno7 nonostante siano sempre di più i cittadini contrari ad una guerra boots on the ground, con la briglia sciolta ai coloni che scaricano sulla Cisgiordania una violenza disordinata che rischia di trascinare loro per primi nel baratro ed il proliferare di video di pessimo gusto in cui si deridono i civili palestinesi massacrati e gli stessi ostaggi8.

Nel momento in cui, tra le macerie di Gaza, inizieranno a cadere i fanti e aumenteranno le coscrizioni, è difficile che il tessuto sociale non si strappi in maniera ancora più irreparabile.
Israele aveva già perso prima ancora di mostrare al mondo il suo vero volto da killer seriale, perché non può resistere alla sua furia imperiale, a costo di sacrificare il suo stesso popolo.
E d’altronde, ogni processo di liberazione antimperialista tende ad una guerra civile che, a vario grado, straborda dalla colonia per riversarsi nella metropoli dominante.

3. Il martirio e la liberazione: nel buttare giù le recinzioni, nell’attaccare i posti militari ed i kibbutz, nell’uccidere e sequestrare militari e civili, occupando porzioni di territorio inviolabile, molti dei militanti palestinesi sapevano che non avrebbero fatto ritorno. Così come sapevano quale sarebbe stata la tragica conseguenza dell’azione. Una partita in più tempi, con la lucida consapevolezza di portarsi sulle spalle una tragedia.
E infatti tutto lo schieramento liberale d’Occidente, che in un primo momento è corso a schierarsi nei ranghi sionisti, anche dovendo aggiustare la propria posizione di fronte agli abominevoli atti e dichiarazioni israeliane non trova di meglio che buttare addosso ad Hamas la responsabilità delle vittime civili palestinesi. Come se fossero le organizzazioni palestinesi a bombardare i propri stessi ospedali.
Una critica che ricorda da vicino quelle che la nostra destra oppone ai fatti di via Rasella, le responsabilità delle rappresaglie dell’occupante buttate addosso ai resistenti. Umanitarismo peloso con l’obbiettivo di disarmare la mano che prova a liberarsi, negare la possibilità di risposta a chi la violenza la subisce quotidianamente e tenta una pratica di liberazione9.
Quello che non si capisce, o che si preferisce tacere, è che un popolo che viene rinchiuso, limitato nei movimenti, espropriato delle proprie terre e case, mutilato nel corpo e nel futuro possibile, ingiuriato, bastonato, rinchiuso e ucciso senza ragione, non può che trovare l’unica forma di vita possibile nella liberazione.

Per settantacinque anni (qualche decennio in più se contiamo gli anni in cui le bande armate di sionisti erano attive prima della fondazione ufficiale dello stato di Israele) i palestinesi si sono visti massacrare quotidianamente, hanno subito la violazione di ogni accordo e ogni norma di diritto internazionale ed il mondo è rimasto muto. Le loro case sono state demolite o occupate e intorno c’era silenzio. I luoghi di culto profanati nell’indifferenza generale; gli uomini, le donne, i bambini, gli anziani sequestrati di notte nei loro letti, ingoiati nelle prigioni o uccisi con un colpo davanti la porta di casa; ancora il mondo che guarda e tace. Qualche parola di circostanza, qualche impotente biasimo, ma un sostanziale semaforo verde allo sterminio e all’occupazione.
Gli unici momenti in cui il popolo palestinese ha ottenuto qualche tangibile risultato, costringendo il mondo a guardare, sono quelli in cui si è sollevato. Le organizzazioni militanti, le sommosse popolari, le pietre, i fucili e gli esplosivi sono gli unici mezzi con cui la Palestina è riuscita a strapparsi il bavaglio dalla bocca e ha fatto sentire la propria voce.

Ogni volta ha pagato con un pesante tributo di sangue, ogni volta ha sacrificato tanto i civili innocenti quanto gli insorti. E allora lentamente si è diffusa e cementata una ferma volontà di liberazione ad ogni costo.
Di fronte ad una quotidiana ed inesorabile morte collettiva, il sacrificio di sè stessi per la causa dell’autodeterminazione diventa un elemento culturale cruciale che restituisce senso e dignità ad una esistenza lacerata.
Tramite il martirio l’oppresso afferma la propria vita e rivendica la giustezza della propria causa; impone la sua verità al mondo ribaltando di segno la propria fine corporale e facendosi simbolo ed esempio10.

Andando a stringere non c’è scelta per un palestinese che non sia fuga, rassegnazione o combattimento. Se non si comprende questo elemento fondamentale non si può comprendere né come sia possibile una resistenza che dura da tre generazioni, né come possa ad ogni passaggio di fase essere sempre più radicata e potente nonostante il proprio costante dissanguamento. Più violenta è l’azione di Israele più i combattenti aumentano in numero e determinazione, e dalle fionde passano ai Qassam.
Dietro le azioni della resistenza non c’è un manipolo di fanatici ma un intero movimento sociale e nazionale che passa per attraverso tutto il popolo palestinese in patria e nella diaspora11; motivo per cui la volontà di sterminio è tanto radicata nei vertici di Israele: il progetto sionista non può dirsi compiuto finché rimane anche una minima traccia della Palestina, sia essa un corpo o un brandello di terra.

Soprattutto ecco perché l’operazione di terra e l’assedio sono destinati a fallire. I vertici della resistenza lo hanno dichiarato a più riprese fin dal primo giorno12. Non solo sono pronti ad una guerra di lunga durata, ma sono disposti a pagarne il prezzo fino all’ultimo, d’altronde non hanno altre vie. Tsahal e Netanyahu non possono dire lo stesso.

4. Geopolitica e sentimento della decolonizzazione.
Bisogna inoltre inquadrare quanto sta andando in scena dentro una cornice più ampia.
Le ricadute del conflitto russo-ucraino fuori dai confini occidentali, la rovinosa ritirata americana da Kabul, lo sgretolamento della Francafrique; il riallineamento di blocchi transnazionali secondo coordinate inedite e l’inarrestabile declino dell’Occidente sono tasselli di un quadro i cui significanti principali sono tendenza alla guerra e multipolarismo emergente.

Evitiamo di cadere nuovamente dal pero. Si combatte dentro Gaza ma si lotta per l’intero Medio Oriente. L’Asse della Resistenza antisionista conferisce profondità internazionale alla lotta palestinese poiché la natura stessa dello stato di Israele ha al suo centro un progetto coloniale, etnorazzista ed espansionista che non fa altro che mettere in pericolo l’integrità, la stabilità e la sicurezza dei paesi circostanti.
Se l’ingresso delle truppe di fanteria è stato più e più volte ritardato, nell’attesa di una copertura statunitense con uomini, navi e sottomarini nucleari quale forza di deterrenza, è proprio perché dal 7 ottobre stesso questo Asse è attivo sul fronte di guerra in forme differenti13.

Fin dal primo giorno, al confine tra Israele e Libano si è registrata una costante e calibrata pressione di Hezbollah che ha bersagliato le fattorie Sheeba e diversi mezzi e postazioni militari; un esercizio della forza cautamente controllato tale da evitare una escalation ma sufficiente a tenere sotto scacco le forze israeliane distogliendole dal fronte gazawi. Avversario temibile con cui diverse volte Tsahal ha dovuto fare i conti (amari) nonché uno dei più potenti attori politico militari della regione14.
Le forze Houti dallo Yemen hanno manifestato la propria solidarietà attraverso il lancio di missili balistici e droni15, mentre le milizie irachene e siriane hanno ripetutamente attaccato basi e truppe USA16.
L’Iran, considerato centro nevralgico dell’asse, sembra non esporsi sul campo nonostante le minacciose dichiarazioni rilasciate più volte contro i bombardamenti a Gaza e la sfacciata complicità statunitense. Ma più che un disimpegno sembra mantenere una posizione di “garante politico” dell’asse laddove un suo impegno significherebbe la definitiva conflagrazione regionale, mentre un ruolo di mediazione diplomatica, unita ad un coordinamento tattico delle forze ed una alquanto probabile sotterranea attività di intelligence e supporto logistico permette di mantenere una profondità strategica delle potenzialità dell’Asse, coprendolo da eventuali avventurismi sionisti.17.

Un attivismo frenetico che ha spinto la presidenza statunitense non solo a schierarsi immediatamente senza se e senza ma al fianco della “unica democrazia del medio oriente”, anche quando le posizioni e le volontà israeliane rasentano la mitomania e la psicosi omicida; ma ad impegnarsi direttamente nello scenario dispiegando in tempi strettissimi una forza di deterrenza che, lontano dalle roboanti dichiarazioni sugli aiuti all’Ucraina, segna un ben diverso coinvolgimento.
Non è un caso che nelle stesse ore si moltiplichino i segnali di ricerca di una via di fuga diplomatica dal pantano ai confini orientali d’Europa.

Stavolta la posta in gioco è cruciale, il rischio è quello dell’emergere di un blocco di potere indipendente nell’area dell’occidente asiatico che significherebbe per Washington la definitiva caduta d’egemonia globale, attraverso una perdita di controllo dei territori mediorientali. Alla luce di ciò si rende molto più evidente il ruolo geopolitico di Israele quale testa di ponte dell’imperialismo occidentale. Ma nonostante tutto il potenziale militare è evidente l’ansia statunitense di caparsi in fretta fuori da un brutto affare.
Con questi brividi d’ansia possiamo interpretare il frenetico tour di Antony Blinken in giro per la regione a seminare minacce e ipotesi letteralmente di fantapolitica quale quella di mettere in mano, dopo lo sterminio di Gaza, le redini della Striscia in mano all’ANP di Abu Mazen: l’organismo più depotenziato, delegittimato, inutile e detestato dai palestinesi stessi, il cui unico risultato tangibile è quello di frenare le spinte dal basso in Cisgiordania con una repressione delle forze palestinesi e una manifesta impotenza davanti ai soprusi israeliani18.

Ma se la retorica infiammata è moneta corrente nei discorsi dei diversi leader, con sicuramente un maggiore grado di sincerità e coinvolgimento rispetto alle tristi pagliacciate dei politici europei e americani; gli stati arabi, al pari di quelli occidentali, riflettono la volontà e gli interessi delle proprie classi dirigenti, sempre pronte a sacrificare tutto e tutti sull’altare del proprio disegno. Perduto è il popolo che spera nell’amicizia di uno Stato.
Ciò nonostante il riallineamento delle potenze procede parallelo ad un sentimento popolare che in tutto il mondo musulmano (ed in generale nel Sud Globale) vede come sempre più auspicabile l’allontanamento dall’egemonia occidentale e rileva nella causa palestinese la punta avanzata di un processo di liberazione globale.
Le immense piazze turche, gli accesi raduni libanesi e giordani, le manifestazioni oceaniche che dal Marocco al Pakistan non hanno disertato alcun paese della cintura, i ripetuti e diffusi assalti contro ambasciate, consolati e istituti israeliani ed americani si sono succeduti fin dall’inizio e non accennano a diminuire di intensità né di partecipazione19.

Il coro più gettonato nelle strade, accanto a quello per la Palestina libera, è Takbir-Allahu Akbar. Coro che impulsivamente smuove un certo nervosismo islamofobo anche alle più progressiste orecchie bianche ma che, lungi dal rappresentare una qualche improbabile volontà di sanguinaria conversione globale, esplicita una collettiva adesione ad una comunità di destino, quella musulmana, vissuta come unica alternativa politica e valoriale alla subordinazione all’occidente.
No, Hamas non è l’ISIS così come l’islam non è la barbarie jihadista che abbiamo visto all’opera in Siria.
Oggi l’Islam politico rappresenta una galassia di formazioni, prassi e istanze estremamente diverse tra loro, fino ad attraversare organizzazioni laiche e marxiste, accomunate tutte da un minimo comune denominatore: essere le espressioni organizzate della parte del globo che sta in basso. E non intendiamo solo geograficamente 20.

Non molti decenni fa le masse subalterne si rivolgevano al socialismo per cercare una via d’uscita dalla dominazione coloniale. E allora c’era una Russia sovietica pronta a foraggiarne le ragioni e le pratiche. Strumentalmente certo, eppure era un punto di riferimento materiale oltre che ideale; e soldi e armi contano più di attestati di solidarietà quando devi difenderti.
Oggi quello schema è tramontato ed è cambiato il registro, il vessillo verde ha sostituito la bandiera rossa e le parole d’ordine sono diverse, ma ciononostante il moto collettivo indica volontà di liberazione.
C’è un processo decoloniale in corso che parla una lingua diversa dal passato ma non ne ha mutato l’orizzonte, che ci piaccia o meno21.
Contro questa possibilità si scaglia il potere occidentale quando si schiera al fianco di Israele: contro questi popoli si è pronti a scatenare una guerra ben più ampia di quella che ci ha coinvolto con la Russia. Questa è la posta in gioco, ed è ormai inevitabile fare i conti con questa realtà.

5. Il movimento che viene.
Non dovrebbe stupire che la resistenza palestinese è a questi popoli che fa riferimento quando prende parola.
Oltre la diffusa islamofobia occidentale, dovremmo chiederci quanto tempo è che alle nostre latitudini le forze progressiste o rivoluzionarie hanno smesso di interagire con il resto del mondo? Ma soprattutto, quanto tempo è che abbiamo smesso di dimostrare una forza collettiva tale da poter essere considerati come interlocutori credibili?
Il nostro concetto di post-coloniale ha dismesso da un pezzo le lezioni di Fanon e Cabral ed è diventato puro accademicismo imbecille, ergo, non capiamo più un tubo di ciò che si muove fuori dai parametri del mondo bianco, ecco perché ci si sente in dovere di dire “si i palestinesi hanno ragione, però Hamas è cattivo” e via dicendo.
Come se fosse davvero utile o interessante, come lo avesse veramente chiesto qualcuno, di esprimere un parere immancabilmente superfluo e impotente.

Eppure nel ventre moscio di questo Occidente alla deriva si è mosso qualcosa, si è avuto un sussulto di vita che non ci si aspettava.
Davanti all’orrore indicibile che si sta consumando e alla colpevole impotenza delle istituzioni internazionali, nonostante una martellante campagna propagandistica di media e politica, abbiamo assistito ad un proliferare di mobilitazioni ed iniziative di solidarietà con una forza che quasi si dava per estinta.
Si è dato un cortocircuito che ha segnato in maniera esplicita e netta la frattura tra la narrazione dominante e la coscienza popolare; qualcosa che prima era ravvisabile nelle chiacchiere e nei sospiri di rammarico, ma che è venuto a galla con la Palestina, nonostante potremmo leggerci in controluce anche dell’altro.

E così si è disertata la chiamata alle armi in difesa della democrazia, parola completamente svuotata di significato, e si è attraversato le piazze di tutta Europa sfidando divieti e calunnie.
Gli stessi Stati Uniti sono solcati da un’ondata, che vede la stessa comunità ebraica in prima fila, mobilitativa senza precedenti che è arrivata ad occupare Capitol Hill per rivendicare un cessate il fuoco e ha portato oltre trecentomila persone a marciare per le strade di Washington22.

E se quarantamila persone in corteo a Roma sono un evento più che raro oggi, figurarsi il gigantesco serpentone di corpi che ha solcato il ponte di Londra.
Ancora più notevole è il protagonismo delle seconde generazioni, delle gioventù misconosciute delle nostre città, forze che premono per prendere parola e che nell’incontro nelle piazze si dimostrano il nerbo di un movimento a venire; prefigurano l’emergere di contraddizioni rinfocolate e di soggettività da scoprire.

Per farla breve, una così ampia e profonda dimostrazione di sdegno e solidarietà lascia intravedere delle energie vive che agitano le metropoli, ma se la testimonianza e lo sdegno sono sacrosanti, bisogna portare oltre il ragionamento.
Le sirene del potere imperialista urlano di scontro della civiltà e vorrebbero schierarci a difesa dei traballanti ed ipocriti valori atlantici. Tocca oggi disertare questa chiamata alle armi e se saremo i traditori dell’Occidente, tanto meglio, che ha smesso già da un pezzo di garantire una vita decente ai suoi stessi figli.

Per questo la Palestina ci riguarda da vicino, molto più vicino di quanto vorremmo credere. Occorre guardare ai fenomeni senza le lenti dell’universalismo bianco e venefico, ascoltare le voci che il resto del globo urla, tornare a ragionare seriamente di antimperialismo, allargare le alleanze, approfondire le reti di solidarietà e contro informazione, imporre un’agenda che non si limiti all’umanitarismo e rompere un meccanismo che ci trascina sempre più velocemente verso il baratro.

Lo diciamo chiaramente: la soluzione del problema palestinese non può che passare per la distruzione di Israele sionista; assunto che non significa certo buttare a mare o eliminare gli ebrei, ma vuol dire mettere a tacere una volta per tutte l’egemonia di un progetto fascista, genocida e coloniale che è ormai insostenibile per la sua stessa popolazione; ed è proprio dalle forze progressiste di quest’ultima, oggi ridotte a poco più che un lumicino, che verrà la spinta definitiva che potrà aprire la strada ad un reale processo di pacificazione e riconciliazione collettiva.
Ipotesi più volte silenziata ma che da tempo è presente nel dibattito, come dimostrato dall’impagabile lavoro di Edward Said23.

La liberazione della Palestina non è che uno dei passaggi obbligati per rovesciare la tendenza folle mortifera che avvolge in modo sempre più soffocante il pianeta intero.


  1. https://www.carmillaonline.com/2021/05/22/sei-appunti-palestinesi/  

  2. https://bnn.network/world/palestine/palestinian-factions-unite-a-joint-operational-command-to-counter-israeli-actions/ 

  3. https://www.infoaut.org/conflitti-globali/dichiarazione-rilasciata-dalle-5-forze-della-resistenza-palestinese-il-29-ottobre-2023  

  4. https://electronicintifada.net/content/israeli-forces-shot-their-own-civilians-kibbutz-survivor-says/38861 

  5. https://www.slobodenpecat.mk/it/poraneshen-izraelski-vojnik-otkriva-shto-e-direktivata-hanibal/ e https://mcc43.wordpress.com/2014/08/02/idf-soldati-israele-protocollo-hannibal/ 

  6. Ne ha parlato Moiso su queste pagine qualche giorno fa qui https://www.carmillaonline.com/2023/11/01/il-nuovo-disordine-mondiale-23-le-guerre-perdute-di-israele/#rf1-79758  

  7. https://www.newarab.com/news/israeli-police-attack-anti-zionist-jews-amid-gaza-war 

  8. https://www.fanpage.it/innovazione/tecnologia/gli-influencer-israeliani-prendono-in-giro-i-palestinesi-su-tiktok-cosa-sappiamo-su-questo-trend/ 

  9. https://networkcultures.org/tactical-media-room/2023/10/18/from-resistance-to-liberation-how-october-7th-made-palestinians-once-again-protagonists-of-their-own-history-eng-ita/  

  10. Illuminante per questo aspetto, anche se a tratti limitato e generalmente eurocentrico, rimane F. Dei; Terrore suicida. Religione politica e violenza nelle culture del martirio; Donzelli Editore; Roma 2016 

  11. https://www.sinistrainrete.info/politica/26693-leila-seurat-hamas-e-la-societa-palestinese.html  

  12. https://english.alarabiya.net/News/middle-east/2023/10/19/-Israel-is-killing-us-whether-we-resist-or-not-says-former-Hamas-chief  

  13. https://english.almayadeen.net/news/politics/axis-of-resistance-factions-join-forces-against-israel-us  

  14. https://www.youtube.com/watch?v=sPrF6Cqj6mY  

  15. https://www.reuters.com/world/middle-east/israel-warns-possible-hostile-aircraft-near-red-sea-city-eilat-2023-10-31/  

  16. https://thehill.com/policy/defense/4273531-us-troops-in-iraq-syria-attacked-13-times-in-past-week-pentagon-says/ 

  17. https://www.fpri.org/article/2023/10/iran-and-the-axis-of-resistance-vastly-improved-hamass-operational-capabilities/  

  18. https://www.raiplaysound.it/audio/2023/11/Radio3-Mondo-del-06112023-2a87a96f-b625-4316-81ce-f6643ca14757.html  

  19. https://crisis24.garda.com/alerts/2023/10/mena-pro-palestinian-rallies-likely-across-region-through-november-update-8  

  20. https://www.carmillaonline.com/2023/10/14/il-nuovo-disordine-mondiale-22-al-di-la-delle-banalita-sul-male-assoluto/  

  21. che poi il processo di decolonizzazione fosse un limpido e lineare cammino delle masse verso il socialismo europeo, è una di quelle cazzate della sinistra bianca che ci risparmiamo di commentare. 

  22. https://peoplesdispatch.org/2023/11/06/300000-march-in-washington-dc-for-palestine/  

  23. https://www.leparoleelecose.it/?p=15641  

]]>
Il nuovo disordine mondiale / 23: Israele perduta tra le sue guerre https://www.carmillaonline.com/2023/11/01/il-nuovo-disordine-mondiale-23-le-guerre-perdute-di-israele/ Wed, 01 Nov 2023 21:00:30 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=79758 di Sandro Moiso

Il comportamento dell’attuale governo di Israele rischia di essere il peggior nemico degli ebrei. (Primo Levi- intervista a «la Repubblica», 24 settembre 1982)

Ieri Israele ha perso la guerra. (Domenico Quirico, «La Stampa», 31 ottobre 2023)

Come ha annotato in una singola frase Domenico Quirico, essenziale come sempre, si può affermare che ciò che covava tra le fiamme e sotto le ceneri ancora ardenti del conflitto a Gaza ieri è balzato agli occhi di tutti. Soprattutto di una comunità mediatica che, nonostante le intimidazioni, le fake news, i divieti e le deformazioni di parte governativa israeliana, e [...]]]> di Sandro Moiso

Il comportamento dell’attuale governo di Israele rischia di essere il peggior nemico degli ebrei. (Primo Levi- intervista a «la Repubblica», 24 settembre 1982)

Ieri Israele ha perso la guerra. (Domenico Quirico, «La Stampa», 31 ottobre 2023)

Come ha annotato in una singola frase Domenico Quirico, essenziale come sempre, si può affermare che ciò che covava tra le fiamme e sotto le ceneri ancora ardenti del conflitto a Gaza ieri è balzato agli occhi di tutti. Soprattutto di una comunità mediatica che, nonostante le intimidazioni, le fake news, i divieti e le deformazioni di parte governativa israeliana, e filo-occidentale più in generale, non ha potuto fare a meno di notare che in quei 76 secondi di messaggio, filmato e trasmesso da Hamas il 30 ottobre dall’inferno di Gaza, le parole e l’urlo di Danielle Aloni, la donna presa in ostaggio insieme alla figlia di sei anni durante l’incursione del 7 ottobre, segnano una definitiva rottura di fiducia tra gli ebrei di Israele e l’attuale capo del governo Benyamin Netanyahu, la sua conduzione di una guerra scellerata e la pericolosità di una politica di occupazione coloniale sempre più genocidaria e arrogante. Ma non solo.

L’urlo di Danielle, insieme ai sondaggi che rivelano come un israeliano su due sia contrario all’operazione di terra a Gaza1, rivela una frattura più profonda. Quella che formalmente ha iniziato a manifestarsi da tempo con le dimostrazioni di piazza contro il governo Netanyahu, ma che da tempo una parte della comunità ebraica denunciava e continua a denunciare, dentro e fuori le mura del ghetto dorato di Israele.

Anche se, soprattutto qui nell’Italietta dell’opportunismo e del fascismo sempre strisciante e servile e del razzismo d’accatto, i media mainstream continuano ad usare termini bellicosi e insultanti nei confronti della comunità arabo-palestinese che da 75 anni rivendica il diritto al governo della propria terra senza imposizioni coloniali di alcun genere, esiste una storia di riflessioni sul destino di Israele e le sue origini provenienti proprio dall’interno del mondo e della cultura ebraica. Motivo per cui, qui di seguito, si cercherà di delineare ciò che Domenico Quirico ha sintetizzato nell’epigrafe posta in apertura di questo articolo attraverso le parole di storici, politici e filosofi di origine ebraica. Rimuovendo quindi quella stupida affermazione di “principio” secondo cui qualsiasi protesta o condanna anti-sionista va accomunata immediatamente all’anti-semitismo.

Come ricorda in uno dei suoi testi più importanti uno degli storici israeliani che da decenni si battono per una revisione della storiografia dello Stato di Israele e sull’uso mitopoietico della Shoa, senza negarla ma inserendola in un contesto non più metafisico (il male assoluto), ma incastonato in un quadro storico e culturale, oltre che sociale ben più complesso:

Nel 1938, con la ribellione araba contro il Mandato sullo sfondo, David Ben-Gurion dichiarò:
«Quando diciamo che gli arabi sono gli aggressori e noi quelli che si difendono, diciamo solo una mezza verità. Per quanto riguarda la sicurezza e la vita, noi siamo quelli che si difendono… Ma questa lotta è solo un aspetto del conflitto, che nella sua essenza è politico. E politicamente noi siamo gli aggressori, loro quelli che si difendono».
Ben-Gurion aveva ragione, naturalmente. Il sionismo era colonizzatore ed espansionista, sia in quanto movimento sia in quanto ideologia2.

Il mito del diritto al rientro degli Ebrei nei loro “millenari” territori d’origine, negando successivamente quello dei Palestinesi espulsi con la Nabka seguita alla dichiarazione dello Stato di Israele, si fondava sull’opera di un ebreo austriaco, giornalista, laico e privo della conoscenza della lingua ebraica, Theodor Herzl (1860- 1904), che a seguito dell’affaire Dreyfus (1894-95) di fatto inventò il movimento politico sionista.

Egli riassunse il suo punto di vista in un pamphlet profetico-programmatico di 30.000 parole: Der Judeenstaat (Lo Stato ebraico), pubblicato nel 1896, col sottotitolo Un moderno tentativo di soluzione della questione ebraica. […] Uno Stato siffatto avrebbe potuto essere utile alle grandi potenze sia in quanto «avamposto contro la barbarie», sia in quanto avrebbe risolto il problema della convivenza tra ebrei e gentili3.

I discorsi che abbiamo sentito negli ultimi giorni, ma anche negli anni precedenti, sulla barbarie di Hamas è dunque l’ultima manifestazione di una concezione razzista che il sionismo, non soltanto nel suo intimo, ha sempre portato con sé. Talvolta travestito sotto le spoglie del miglior utilizzo del territorio oppure sotto l’abito militare violento della rimozione e stermino dei “barbari”, ogni qualvolta questi osassero alzare la testa per non accettare una condizione schiavile a cui i colonizzatori li volevano ridurre e mantenere. E’evidente che una constatazione del genere ricorda una storia secolare di oppressione e sfruttamento coloniale non soltanto in Palestina (tutto sommato abbastanza recente), ma in ogni angolo del mondo in cui, a partire dal XV secolo, le potenze coloniali europee hanno fatto sentire il rombo dei loro cannoni e lo schioccare della frusta ai popoli sottomessi degli altri continenti.

Uno schiavismo, che come ricordava già Marx, non aveva nulla a che fare con quello delle società antiche, ma che ha costituito uno degli assi portanti del capitalismo, fin dalle sue origini. Uno schiavismo che sta alla base dei campi di concentramento usati dall’Uomo bianco in Sud Africa, in Nord America, in Australia, in India e successivamente qui in Europa con i lager e il gulag.

A testimonianza di ciò, occorre qui ricordare quanto scrisse Primo Levi, a proposito dell’intimo rapporto che legava l’industria pesante tedesca con l’amministrazione dei Lager, collegando per questo motivo i lager non alla metafisica del “male assoluto”, ma alla logica spietata dello sfruttamento del lavoro da parte del capitale4.

Non era certo un caso che per gli enormi stabilimenti della Buna fosse stata scelta come sede proprio la zona di Auschwitz. Si trattava di un ritorno all’economia faraonica e ad un tempo di una saggia decisione pianificatrice: era palesemente opportuno che le grandi opere e i campi di schiavi si trovassero fianco a fianco.
I campi non erano dunque un fenomeno marginale e accessorio: l’industria bellica tedesca si fondava su di essi; erano un’istituzione fondamentale dell’Europa fascistizzata, e da parte delle autorità naziste non si faceva mistero che il sistema sarebbe stato conservato, e anzi esteso e perfezionato, nel caso di una vittoria dell’Asse5.

Come si è affermato prima, le osservazioni e le note di Primo Levi rimettono sui giusti binari della Storia il tema della Shoa e dell’antisemitismo, liberandolo dai miti giustificazionisti dello stato di Israele per integrarlo all’interno dello sviluppo delle forme concentrazionarie che hanno reso possibile l’espandersi dello sfruttamento capitalistico, dal Panopticon di Bentham agli istituti carcerari privati americani di oggi, nati proprio come investimenti per l’utilizzo di manodopera a basso costo6.

Aggiungeva, però, poi ancora Levi:

Ora, il fascismo non vinse: fu spazzato, in Italia e in Germania, dalla guerra che esso stesso aveva voluto [e] il mondo […] provò sollievo al pensiero che il Lager era morto, che si trattava di un mostro appartenente al passato, di una convulsione tragica ma unica […]. E’ passato un quarto di secolo, e oggi ci guardiamo intorno, e vediamo con inquietudine che forse quel sollievo era stato prematuro […] ci sono campi di concentramento in Grecia, Unione Sovietica, in Vietnam e in Brasile. Esistono, quasi in ogni paese, carceri, istituti minorili, ospedali psichiatrici, in cui, come ad Auschwitz, l’uomo perde il suo nome e il suo volto, la dignità e la speranza. Soprattutto non è morto il fascismo: consolidato in alcuni paesi, in cauta attesa di rivincita in altri, non ha cessato di promettere al mondo un Ordine Nuovo7.

Non ha smesso di promettere la vittoria del bene contro l’”asse del male” e dei valori occidentali su quelli dei “barbari”. Trasferendosi talvolta là dove, invece, avrebbe formalmente dovuto essere escluso. Come sottolinearono allarmati, in una lettera al New York Times del 2 dicembre 1948, Albert Einstein e Hannah Arendt.

Fra i fenomeni più preoccupanti dei nostri tempi emerge quello relativo alla fondazione, nel nuovo stato di Israele, del Partito della Libertà (Tnuat Haherut)8, un partito politico che nell’organizzazione, nei metodi, nella filosofia politica e nell’azione sociale appare strettamente affine ai partiti Nazista e Fascista. È stato fondato fuori dall’assemblea e come evoluzione del precedente Irgun Zvai Leumi, una organizzazione terroristica, sciovinista, di destra della Palestina.
L’odierna visita di Menachem Begin, capo del partito, negli Stati Uniti è stata fatta con il calcolo di dare l’impressione che l’America sostenga il partito nelle prossime elezioni israeliane, e per cementare i legami politici con elementi sionisti conservatori americani. […]
Prima che si arrechi un danno irreparabile attraverso contributi finanziari, manifestazioni pubbliche a favore di Begin, e alla creazione di una immagine di sostegno americano ad elementi fascisti in Israele, il pubblico americano deve essere informato delle azioni e degli obiettivi del Sig. Begin e del suo movimento.
Le confessioni pubbliche del sig. Begin non sono utili per capire il suo vero carattere. Oggi parla di libertà, democrazia e anti-imperialismo, mentre fino ad ora ha apertamente predicato la dottrina dello stato Fascista. È nelle sue azioni che il partito terrorista tradisce il suo reale carattere, dalle sue azioni passate noi possiamo giudicare ciò che farà nel futuro.
[…] All’interno della comunità ebraica hanno predicato un misto di ultranazionalismo, misticismo religioso e superiorità razziale. Come altri partiti fascisti sono stati impiegati per interrompere gli scioperi e per la distruzione delle unioni sindacali libere. Al loro posto hanno proposto unioni corporative sul modello fascista italiano. Durante gli ultimi anni di sporadica violenza anti-britannica, i gruppi IZL e Stern inaugurarono un regno di terrore sulla comunità ebraica della Palestina. Gli insegnanti che parlavano male di loro venivano aggrediti, gli adulti che non permettevano ai figli di incontrarsi con loro venivano colpiti in vario modo. Con metodi da gangster, pestaggi, distruzione di vetrine, furti su larga scala, i terroristi hanno intimorito la popolazione e riscosso un pesante tributo9.

Giudizio rafforzato da quanto dichiarato 34 anni dopo da Primo Levi in un’intervista rilasciata a Giampaolo Pansa a seguito del massacro di palestinesi avvenuto all’epoca a Sabra e Chatila in Libano.

Per Begin «fascista» è una definizione che accetto. Credo che lo stesso Begin non la rifiuterebbe. E’ stato allievo di Jabotinski: costui era l’ala destra del sionismo, si proclamava fascista, era uno degli interlocutori di Mussolini. Sì, Begin è stato suo allievo […] Begin sta in piedi soprattutto con i voti dei giovani e degli immigrati recenti, cioè non dei profughi dell’Europa Orientale, bensì di quegli ebrei che vengono dai paesi del Medio Oriente o che sono nati in Israele. E’ tutta gente che nutre una forte animosità nei confronti degli Stati vicini, dai quali spesso provengono, e ciò, in una certa misura, spiega questa guerra e quel che è avvenuto durante la guerra. La mia condanna comunque è totale10.

Secondo Hannah Arendt (1906-1975), storica e filosofa ebreo-tedesca e una dei più influenti teorici politici del XX secolo, uno «Stato ebraico» non si sarebbe limitato a distruggere l’entità palestinese, come già aveva denunciato nella lettera citata prima, ma si sarebbe rivelato pregiudiziale per la stessa comunità ebraica di Palestina. Uno Stato-nazione che traeva la propria legittimità da una potenza straniera e lontana era, a suo avviso, foriero di sicuro disastro.

Il nazionalismo è piuttosto nefasto quando s’appoggia unicamente alla forza bruta della nazione. Un nazionalismo che riconosce la necessità di dipendere dalla forza di una nazione straniera è ancora peggiore. E’ questo il destino incombente sul nazionalismo ebraico e sul progettato Stato ebraico, inevitabilmente circondato da Stati Arabi e popolazioni arabe. Persino una maggioranza di ebrei in Palestina – anzi, perfino il trasferimento di tutti gli arabi di Palestina, come i revisionisti [sionisti] richiedono apertamente – non cambierebbe, nella sostanza, una situazione in cui gli ebrei devono, nello stesso tempo, chiedere la protezione di una potenza estera contro i loro vicini e pervenire a un accordo efficace con loro. […] se i sionisti continueranno a ignorare i popoli del Mediterraneo e a guardare unicamente alle grandi potenze lontane, finiranno coll’apparire strumenti o agenti di interessi estranei e ostili. Gli ebrei che conoscono la loro storia dovrebbero rendersi conto che una situazione del genere condurrebbe inevitabilmente a una nuova ondata di odio anti-ebraico, l’anti-semitismo di domani11.

Ma i nemici non sarebbero stati soltanto fuori dalla comunità ebraica, visto che la stessa Arendt avrebbe in seguito manifestato i suoi timori per le critiche e minacce ricevute a seguito della pubblicazione del suo reportage sul processo Eichmann tenutosi in Israele (La banalità del male, Feltrinelli 1964).

Coloro che sono dalla mia parte mi scrivono lettere private, ma nessuno più osa farle circolare in pubblico. E con ragione: sarebbe estremamente pericoloso, poiché un’intera e assai ben organizzata muta [mob] di cani rabbiosi si scaglia subito su chiunque osi fiatare. Insomma siamo al punto in cui ciascuno crede in quello in cui tutti credono: in vita nostra abbiamo spesso vissuto questa esperienza12.

Basti pensare all’omicidio di Yitzhak Rabin, primo ministro israeliano favorevole alla pace di Oslo, assassinato nel novembre 1995 da un estremista ebreo.
Oppure a quegli storici israeliani come Benny Morris, Ilan Pappe, Norman Finkelstein, Tom Segev, Shlomo Sand che per le loro ricostruzioni obiettive della storia dello stato di Israele e della cacciata dei palestinesi con la Nabka oppure per la critica dell’uso esagerato e ideologico della Shoa per giustificare i crimini contro i palestinesi, sono stati criticati, minacciati e perseguitati e, in alcuni casi (Finkelstein, figlio di sopravvissuti ai lager), costretti a recarsi in esilio all’estero a causa degli attentati subiti.

La violenza contro i Palestinesi si è dunque sempre accompagnata, in Israele alla violenza e alla repressione contro il dissenso interno. Fino a oggi, fino a quel video di cui si è parlato in apertura che è stato censurato dai canali televisivi israeliani in nome dell’unità e della sicurezza nazionale. Secondo Michel Warschawski, (figlio di un rabbino, nato in Francia nel 1949, trasferitosi ancor sedicenne a Gerusalemme e fondatore del movimento anti-sionista Alternative Information Center fin dal 1984):

Per giustificare dinanzi l’opinione pubblica locale e internazionale la violenza nei confronti dei civili, è indispensabile «decivilizzare» tale popolazione. Di qui l’uso sistematico, nei territori palestinesi occupati del concetto di terrorismo: la sanguinosa repressione di una popolazione è mascherata sotto il nome di «guerra contro il terrorismo». Non sono più donne e bambini che vengono dilaniati dalle bombe a frammentazione; non sono più intere famiglie che lo stato d’assedio condanna alla miseria e talvolta alla morte per fame: sono dei terroristi. Anche il concetto di guerra ha la sua importanza: lascia intendere che, di fronte alla quinta potenza militare del mondo, non c’è una popolazione civile, ma un’altra forza militare, e che ciò giustifica l’uso di carri armati, di elicotteri da combattimento e di aerei da caccia. […] è l’intera società palestinese che diventa il nemico; è essa che bisogna sradicare «come un cancro», come dirà un comandante in capo dell’esercito, Moshe Yaalon. […] Nonostante lo stato d’assedio e i bombardamenti, nonostante tutti i morti e i feriti, nonostante le massicce distruzioni e i colpi inferti alle istituzioni civili e militari, nessun segno di capitolazione è vista. La determinazione dei palestinesi e delle palestinesi, di ogni tendenza si esprime nella loro ostinata volontà di rimanere sul posto e di condurre una vita normale in mezzo alle distruzioni. […] Ma, come tutti gli imbecilli gallonati del mondo, i generali israeliani, compresi quelli che hanno deposto l’uniforme per diventare ministri, sono convinti che quello che non sono riusciti ad ottenere con l’uso della forza, lo otterranno usando una forza ancora maggiore13.

Aggiungendo una considerazione proprio sulla condizione reale di Israele:

Per ironia della storia, il sionismo che voleva far cadere le mura del ghetto ha creato il più grande ghetto della storia ebraica, un ghetto super-armato, certo e capace di estendere in permanenza il suo territorio, ma pur sempre un ghetto, ripiegato su se stesso e convinto che, al di fuori delle sue mura c’è la giungla, un mondo radicalmente e irrimediabilmente antisemita che non ha altro obiettivo che quello di distruggere l’esistenza degli ebrei, Nel Medio Oriente e su tutta la Terra14.

E sottolineando all’epoca, ancora a proposito degli accordi di pace di Oslo, che:

nel corso dei sette anni di «processo di pace», i palestinesi hanno assistito a una creazione di più del 40 per cento della colonizzazione ebraica su terre dalle quali Israele si era impegnato a ritirarsi entro cinque anni […] il periodo di Oslo è quello del più classico rapporto coloniale nei confronti degli autoctoni: favori, creazione di una classe di intermediari per gestire la vita quotidiana della popolazione occupata, polizia indigena per mantenere l’ordine15.

Ricostruzione di una situazione in cui, più che la crescita o meno di Hamas tra una popolazione che ancora a settembre di quest’anno, secondo un sondaggio, riteneva per il 53% che solo la lotta armata possa condurre alla formazione di uno Stato palestinese contro un 20% ancora convinto dell’utilità di quegli accordi, si è oggi resa evidente agli occhi di tutti la perdita di consenso dell’Autorità palestinese. Probabilmente per essere stata la “migliore” interprete, insieme a i suoi ormai corrotti leader, di quella ipotesi di accordo.

Il misto di nazionalismo offensivo e di vittimismo provoca all’interno della società israeliana una violenza che non è facile misurare dall’esterno. Eppure basta ascoltare le trasmissioni dei dibattiti alla Knesset per rendersene conto: [dove] si fa a gara a chi presenta il progetto di legge più drastico non solo contro i «terroristi» ma contro ogni forma di dissidenza in Israele. La Corte suprema e i media, ma spesso anche la polizia e la Procura16, pur facendo parte delle strutture di polizia o militari., vengono regolarmente denunciati come anti-ebraici, e persino come «mafia di sinistra». […] La povertà intellettuale di un Benyamin Netanyahu, il provincialismo culturale di un Ariel Sharon li rende ciechi: credendo di servirsi degli Stati Uniti per il loro progetto coloniale, essi non sono in realtà, che lo strumento di un progetto molto più ambizioso che ha , fra l’altro, come obiettivo la rovina del popolo di Israele.
[…] Questa scelta rischia, d’altro canto, di trascinare nella tormenta una parte importante delle comunità ebraiche sparse nel mondo. Il comportamento di Israele sulla scena internazionale rende odioso lo Stato ebraico in ogni parte del mondo, senza parlare dei pretesti forniti agli antisemiti di ogni sorta […] L’identificazione incondizionata, nel Nordamerica e in Europa, dei dirigenti delle comunità ebraiche con Israele rischia di avere conseguenze fatali per le comunità che essi pretendono di rappresentare. […] Nella catastrofe che si preannuncia, i portavoce spesso autoproclamati delle comunità ebraiche sparse nel mondo avranno anch’essi la loro parte di responsabilità. Anziché utilizzare l’esperienza accumulata in secoli di vita diasporica per mettere in guardia il giovane Stato ebraico, sono affascinati dalla forza. dall’immagine del parà ebreo che sa essere altrettanto brutale del legionario francese e del marine americano. Godono vedendo degli ebrei che, una volta tanto, non sono esclusi dal diritto, ma hanno finalmente l’occasione di escludere il diritto dalla loro esistenza17.

E’ giunto però il momento di interrompere questa lunga carrellata di giudizi e previsioni sull’azione e il destino dello Stato ebraico in rapporto alla condizione dei Palestinesi e degli interessi “reali” delle comunità ebraiche sia al suo interno che nella diaspora; constatando come tutto quanto è avvenuto dal 7 ottobre in avanti fosse ampiamente prevedibile, se soltanto i governi israeliani e, in particolare, quello di estrema destra di Benyamin Netanyahu, avessero voluto dare ascolto, ancor prima che al Mossad o allo Shin Bet, all’esperienza, alla cultura e alla riflessione di tanti che invece, seppur in misura diversa, sono stati osteggiati, colpiti, insultati all’interno della stessa Israele e dai suoi falsi alleati dei paesi occidentali. I quali ultimi, pur portando il vero fardello storico della Shoa, preferiscono ancora discolparsi appoggiandone qualsiasi sciagurata avventura militare.

Avventura, quest’ultima, destinata comunque a schiantarsi contro un mondo che, nel bene e nel male, sta manifestando sempre più il bisogno di allontanarsi dal modello culturale e politico occidentale. Certo non in nome di valori rivoluzionari e anzi, spesso, in nome di valori tradizionali, patriarcali e autoritari certamente non condivisibili da chi milita ancora nelle forze che intendono rovesciare, una volta per tutte, l’attuale modo di produzione e le sue distinzioni, ormai insopportabili, di classe, religione, “razza” e genere. Troppo spesso mascherate dietro a fumosi discorsi sui diritti, le libertà e la democrazia.

Modo di produzione, caratterizzato da contraddizioni, oltre che di classe, interimperialistiche di carattere geopolitico ed economico, che nel Medio Oriente, nel ruolo coloniale di Israele e nella questione palestinese trovano ancora uno degli snodi più importanti, esplosivi e fragili. Come ben dimostra il fatto che mentre in Ucraina gli Stati Uniti, pur in guerra, hanno potuto far combattere altri eserciti e popoli in nome dei loro interessi, a ridosso di Gaza, minuscola striscia di terra ma tutt’altro che insignificante politicamente, hanno dovuto muovere portaerei, soldati, aerei e sistemi balistici. Esponendosi in prima persona, ma anche cercando opportunisticamente di mascherare i propri interessi imperiali dietro un volto umanitario.

La colpa di Netanyahu, nei confronti degli alleati-padroni, è così quella di aver costretto il gigante americano a mostrare, in maniera confusa, le proprie carte, che sono sempre le stesse, sia nelle mani di Biden che di un presidente repubblicano: America First!
Questo ha indebolito ulteriormente Netanyahu, poiché gli Stati Uniti non potranno appoggiarlo apertamente fino in fondo e potrebbero anche abbandonarlo al suo destino, insieme a quello degli ebrei di Israele.

Molte cose si stanno muovendo nel mondo e non solo per responsabilità di Putin, Netanyahu, Zelensky, Hamas e tanti altri villain proposti in continuazione dai media occidentali come nemici o amici (sempre inaffidabili) da appoggiare o combattere a seconda del caso. Questa novità inizia a pesare sui rapporti internazionali18, a partire dalle Nazioni Unite fino alle divisioni interne all’Unione europea, ma anche sui popoli coinvolti in guerre sempre più feroci e senza altri sbocchi che la distruzione di uno dei contendenti oppure di tutti. Anche questo c’era nell’urlo di Danielle Albani.

Mentre la protervia, l’arroganza e la ferocia contenute nella risposta di Netanyahu durante la conferenza stampa dello stesso giorno non hanno fatto altro che dimostrare la confusione e la debolezza di un governo, di una strategia militare e di un uomo che, puntando tutto su una soluzione militare, hanno già perso. Senza riuscire ad incrinare l’orgoglio di un popolo e la sua capacità di resistere, sostanzialmente, da 75 anni allo stato d’assedio, alle prevaricazioni, alle violenze, ai soprusi, ai sequestri di beni e persone, alle torture praticate nei suoi confronti da ogni governo succedutosi alla Knesset, con la scusa di proteggere efficacemente le comunità ebraiche. Ora quella promessa è venuta meno, nella realtà e nello stesso immaginario degli ebrei di Israele e non basteranno certo le bombe sui campi profughi, sulle donne e sui bambini di Gaza a ristabilire quella fiducia.

Per numerose, già troppo numerose, che siano le perdite palestinesi, Israele ha perso senza aver ancor nemmeno affrontato l’inferno della resistenza in una città distrutta, un assedio il cui eccessivo prolungamento finirebbe con lo scoraggiare più gli assedianti che i difensori di Gaza City oppure la possibile discesa in campo delle milizie di Hezbollah. Che già in passato hanno dimostrato la capacità di di mettere in difficoltà Israele. Con una intensa guerriglia nel Sud del Libano che portò alla ritirata di Israele nel 2000. Oppure nel 2006, quando un’incauta missione di Gerusalemme nel Sud del Libano per liberare due soldati prigionieri si trasformò in 5 settimane di guerra, da cui Israele dovette sottrarsi con un non molto onorevole rapido ritiro.

Terrorismo è un’etichetta che si presta a molte definizioni, ma che, soprattutto, in Occidente serve a designare qualsiasi avversario politico che si opponga all’ordine imperante, anche con l’uso della lotta armata. Prima di Hamas ed Hezbollah sono stati definiti terroristi i combattenti dell’OLP e prima di loro i partigiani italiani (banditen per gli occupanti nazisti e per i fascisti che a loro si appoggiavano), solo per fare degli esempi. Terrorista è chiunque non appartenga all’ordine imperiale del mondo e si rifiuti di essere integrato nello stesso, con l’uso della forza oppure, più semplicemente, si rifiuti di abbandonare la terra su cui è nato e vissuto.

Le forze di sicurezza [israeliane] affermano che la loro azione consiste nel “prevenire il terrore”, ma le testimonianza dei soldati mettono in luce che il termine “prevenzione” è in realtà utilizzato in senso molto esteso, tanto da diventare una parola in codice per intendere qualsiasi tipo di azione offensiva attuata nei Territori. Le dichiarazioni qui raccolte mostrano che una parte significativa delle azioni offensive non mira a prevenire uno specifico atto terroristico, quanto piuttosto a punire, produrre un effetto di deterrenza o a rafforzare il controllo sulla popolazione palestinese. Ma l’espressione “prevenzione del terrore” costituisce una sorta di visto di autorizzazione per qualsiasi azione condotta nei Territori, oscurando la distinzione fra un uso della forza rivolto contro i terroristi e quello che colpisce i civili. La IDF può così giustificare il ricorso a metodi che servono a intimorire e ad opprimere la popolazione in generale19.

Facciamocene una ragione, così come per l’uso del termine anti-semita per chi si oppone al sionismo e al colonialismo israeliano. Siamo in compagnia di Hannah Arendt, Albert Eistein, Primo Levi e Marek Adelman (comandante della resistenza ebraica del ghetto di Varsavia) e tanti altri ebrei che vivono e sono vissuti nella diaspora. Senza sentire il richiamo di uno Stato che più che sforzarsi di esser tale si è trasformato in un ghetto per gli ebrei e per i palestinesi. Che forse un giorno troveranno il modo di liberarsi insieme.

Per ora ci basti registrare ciò che ha affermato un noto giornalista di «Haaretz» e dell’«Economist», Anshel Pfeffer: «Questa è la tragica fine dell’era Netanyahu. E quando dico “fine”, potrebbero passare mesi, forse anche un anno o due. Ma questa è la fine dell’epoca di Netanyahu»20. Prima molto probabilmente, forse ancora prima della fine della guerra in corso. Fatto che lega probabilmente il destino di Bibi a quello di un altro “messianico” difensore dell’umanità e dell’Occidente contro la “barbarie asiatica”: Volodymyr Zelens’kyj21.


  1. cfr. Nadia Boffa, Per ora Netanyahu è messo peggio di Hamas, «Huffington Post» 30 ottobre 2023  

  2. Benny Morris, Vittime. Storia del conflitto arabo-sionista 1881-2001, Rizzoli, Milano 2001, p. 837.  

  3. B. Morris, op.cit., pp. 33-37  

  4. Non a caso, forse, un ex-generale delle SS, che si occupavano della gestione e amministrazione dei campi di concentramento, Reinhard Höhn (1904-2000), sfuggito come tanti altri dirigenti e tecnocrati del Terzo Reich alla “denazificazione” fu il fondatore del primo istituto di formazione al management nella Germania del dopoguerra. Proprio per questo istituto è passata gran parte della dirigenza d’azienda tedesca: 600.000 persone almeno. Cfr. J. Chapoutot, Nazismo e management, Giulio Einaudi Editore, Torino 2021 (ed. originale Gallimard 2020).  

  5. Primo Levi, Prefazione 1972 ai giovani, in P. Levi, Se questo è un uomo, Einaudi scuola, Torin 1972, pp. 5-6.  

  6. cfr. Nils Christie, Il business penitenziario. La via occidentale al Gulag, Elèuthera, Milano 1996.  

  7. P. Levi, Prefazione 1972, cit., pp. 6-7.  

  8. Partito politico da cui deriva e ha le sue radici il partito di Netanyahu, il Likud, fondato nel 1973 proprio da Menachem Begin.  

  9. Albert Einstein e Hannah Arendt (più altri 48 firmatari), lettera al New York Times, 2 dicembre 1948  

  10. P. Levi, «Io, Primo Levi chiedo le dimissioni di Begin», intervista rilasciata a G. Pansa, «la Repubblica» 24 settembre 1982.  

  11. H. Arendt, Zionism Reconsidered ora in Idith Zertal. Israele e la Shoa. La nazione e il culto della tragedia, Einaudi, Torino 2000, p. 165  

  12. Lettera a Karl Jaspers del 20 ottobre 1963 ora in I. Zetal, op. cit., nota 104 a p. 161  

  13. M. Warschawski, A precipizio. La crisi della società israeliana , Bollati Boringhieri, Torino 2004, p. 15-49  

  14. M. Warschaski, op. cit., pp. 63-64  

  15. Warschawski, op. cit., pp. 86-90  

  16. Occorrerebbe, forse, analizzare come una serie di successo come Fauda (trasmessa su Netflix), i cui principali attori sono oggi attivi in chiave militare a Gaza, abbia influito sulla formazione di una concezione più dura della funzione della polizia e dei servizi ad essa collegata e nel far ritenere inutile o vile chi non abbia un tale approccio ai problemi inerenti alle condizioni socio-economiche e politiche degli arabi in Palestina  

  17. Ivi, pp. 115-124  

  18. Al di là delle scontate condanne dei bombardamenti israeliani sui campi profughi da parte dei paesi del Golfo, costretti a ciò per non inimicarsi troppo l’opinione pubblica araba, oppure delle minacce provenienti dall’Iran, è da segnalare invece la rottura dei rapporti diplomatici con Israele da parte di vari paesi latino-americani come Cile, Colombia e Bolivia o la condanna della condotta militare israeliana da parte di un paese come il Brasile.  

  19. Premessa a La nostra cruda logica. Testimonianza dei soldati israeliani dai Territori occupati, (a cura di “Breaking the silence”), Donzelli Editore, Roma 2016, p.11.  

  20. A. De Girolamo – E. Catassi, L’ora di Netanyhau è giunta al termine, «Huffington Post» 1 novembre 2023.  

  21. Cfr. qui  

]]>
Un abominevole e maledetto ordigno https://www.carmillaonline.com/2023/10/25/un-abominevole-e-maledetto-ordigno/ Wed, 25 Oct 2023 20:00:49 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=79652 di Sandro Moiso

Jean Giono, Il disastro di Pavia. 1525: la sconfitta di Francesco I in Italia, Edizioni Settecolori, Milano 2023, pp. 356, 25 euro

Come trovasti, o scelerata e brutta invenzion, mai loco in uman core? Per te la militar gloria è distrutta, per te il mestier de l’arme è senza onore; […] Per te son giti ed anderan sotterra tanti signori e cavallieri tanti, prima che sia finita questa guerra, […] mai furo al mondo ingegni empi e maligni, ch’imaginò sì abominosi ordigni. (Ludovico Ariosto – Orlando furioso, canto XI)

La prima edizione del poema ariostesco, contenente [...]]]> di Sandro Moiso


Jean Giono, Il disastro di Pavia. 1525: la sconfitta di Francesco I in Italia, Edizioni Settecolori, Milano 2023, pp. 356, 25 euro

Come trovasti, o scelerata e brutta
invenzion, mai loco in uman core?
Per te la militar gloria è distrutta,
per te il mestier de l’arme è senza onore;
[…] Per te son giti ed anderan sotterra
tanti signori e cavallieri tanti,
prima che sia finita questa guerra,
[…] mai furo al mondo ingegni empi e maligni,
ch’imaginò sì abominosi ordigni.
(Ludovico Ariosto – Orlando furioso, canto XI)

La prima edizione del poema ariostesco, contenente quaranta canti, apparve a Ferrara il 22 aprile 1516. La seconda edizione fu pubblicata ancora a Ferrara il 13 febbraio 1521. Una terza edizione fu pubblicata, sempre a Ferrara, il 1º ottobre 1532. Ariosto aveva rielaborato il testo in maniera più ampia e il poema venne quindi portato a quarantasei canti, modificandone suddivisione e architettura. Ed è in quella che compaiono molti riferimenti alla storia contemporanea, con numerosi accenni alla grave crisi politica italiana del Cinquecento, di cui la battaglia di Pavia, con tutte le sue conseguenze militari e politiche, fu una delle maggiori espressioni.

La battaglia di Pavia fu combattuta il 24 febbraio 1525 durante la guerra d’Italia tra l’esercito francese guidato personalmente dal Francesco I e l’armata imperiale di Carlo V e si concluse con la netta vittoria dell’esercito dell’imperatore, mentre lo stesso re francese fu fatto prigioniero dagli imperiali. La battaglia segnò un momento decisivo delle guerre per il predominio in Italia e affermò la temporanea supremazia di Carlo V.

La battaglia segnò anche un momento di passaggio nelle strategie militari che, da allora, sarebbero poi state caratterizzate dal largo utilizzo delle armi da fuoco; nonché di importante mutamento nella composizione delle truppe, che avrebbe previsto una distribuzione più omogenea della fanteria, della cavalleria come dell’artiglieria. Così, se durante il Medioevo la cavalleria pesante aveva costituito l’ossatura degli eserciti, tra il XIII e il XVI secolo questa disposizione cambiò definitivamente.

A questo epocale cambiamento di tecniche e ruoli faceva riferimento l’Ariosto nei suoi versi, all’interno di un poema epico che, fingendo di elogiare ancora le virtù di coraggio ed eroismo di una cavalleria aristocratica già in via di estinzione, in realtà, proprio attraverso la follia di Orlando, denunciava, non solo ironicamente, la brutalità di una classe signorile che avendo fatto della guerra il suo unico metro di giudizio del valore della vita umana aveva finito col soccombere proprio a causa di questa.

A riprova di ciò è utile qui ricordare che già nel secolo precedente la”guerra delle due rose” (nota in inglese come Wars of the Roses)1, una feroce lotta dinastica combattuta in Inghilterra tra il 1455 e il 1485 tra due diversi rami della casa regnante dei Plantageneti, aveva provocato l’estinzione delle linee maschili di entrambi i casati dei Lancaste e degli York e si era conclusa con l’affermazione di una nuova dinastia, quella dei Tudor.

Piaccia o meno ai pacifisti “puri” e ai perbenisti odierni, la guerra con le sue cause e conseguenze, lo sviluppo delle sue tecniche e della sue strategie è sempre stato un elemento essenziale dei cambiamenti epocali, sia di carattere sociale che politico ed economico, compresi quelli indotto dalla lotta tra le classi nella storia e che spesso ha assunto le caratteristiche della vera e propria guerra combattuta.

Per questo motivo qualsiasi discorso sulla guerra è talmente serio da non poter esser lasciato nelle mani degli incompetenti, dei fanatici o dei timorosi, tutti egualmente incapaci di trattare l’argomento, con tutti i suoi corollari, in maniera credibile e utile. Sia che si tratti di saggi oppure di romanzi o, ancora come in questo caso, di romanzi-saggi e saggi-romanzati. Tra coloro che ne possono talvolta parlare in maniere realistica vi sono, innanzi tutto, i militari, gli ex- combattenti oppure gli antimilitaristi. Proprio come nel caso del libro pubblicato dalle Edizioni Settecolori. Il cui l’autore è stato sia ex-combattente che pacifista anti-militarista.

Jean Giono nacque a Manosque, il 30 marzo 1895 in una famiglia modesta. Suo padre, Jean-Antoine Giono, era un ciabattino, libertario, autodidatta. Nel 1911 Giono lasciò il collegio, per lavorare e contribuire alla vita della famiglia. Nel 1916, partecipò alla Prima guerra mondiale, nelle battaglie di Verdun, del Chemin des Dames e del Monte Kemmel dove fu leggermente ferito agli occhi. Scoprendo così l’orrore della guerra e i suoi massacri: uno shock che lo avrebbe segnato per il resto della vita.

Al ritorno dalla guerra riprese l’attività lavorativa precedente e iniziò a scrivere instancabilmente, riscontrando un discreto successo di pubblico e critica. Nel 1931 pubblicò Le grand troupeau (Il grande gregge) che raccontava l’esperienza della guerra. L’idea di gregge rinviava allo stesso tempo alla truppa militare e al gregge di pecore, messi in parallelo nel libro. Negli anni successivi, durante i quali si tornò a sentire la minaccia di una guerra, Jean Giono iniziò ad agire e a impegnarsi. Partecipò a riunioni a favore della pace, quindi aderì all’Associazione autori ed artisti rivoluzionari, vicino ai comunisti. Benché uomo di sinistra, a tendenza libertaria e anarcoide, Giono rimase soprattutto pacifista. L’evoluzione dei comunisti a favore del riarmo, però, lo avrebbe allontanato da loro nel 1935.

All’avvicinarsi del secondo conflitto mondiale, Giono sviluppò sempre di più nei suoi testi, sia narrativi che di saggistica, argomenti a favore della natura e contro la guerra e le dittature. Tra questi occorre qui segnalare almeno: Refus d’obeissance (Disobbedienza) e Lettre aux paysans sur la pauvreté et la paix (Lettera ai contadini sulla povertà e la pace)2. In questi anni la posizione dell’autore francese fu intransigente: né guerra, né fascismo, né comunismo. Si impegnò a rifiutare di obbedire in caso di conflitto. Tuttavia, quando venne chiamato, rispose all’appello. Una famiglia da mantenere ed un’opera da terminare ebbero un peso maggiore della sua coscienza. Giono fu però lo stesso incarcerato per pacifismo per due mesi.

«Pa-pà è in prigione! Pa-pà è in prigione!» ripeteva ballando la figlia più piccola di Jean Giono, entusiasta della nuova avventura del padre. A mandarlo dietro le sbarre, nel settembre 1939, era stato un volantino anonimo che riportava alcune sue frasi contro la guerra. A quarantacinque anni Giono si era visto accusare di un’improbabile serie di reati, ma soprattutto di quello, innegabile, di pacifismo. […] Gentile e cordiale, aveva fatto amicizia con ogni tipo di criminale: «I più simpatici erano gli assassini». Quando l’11 novembre era finalmente uscito, aveva capito che doveva rinunciare a qualsiasi intervento nella vita politica: se voleva sopravvivere, doveva fare soltanto lo scrittore.
Nella torbida atmosfera dell’epurazione seguita alla vittoria degli Alleati, le invidie dei colleghi per la sua popolarità si erano scatenate contro di lui. Giono, che aveva nascosto e ospitato ebrei, resistenti e comunisti, era venuto a sapere chedegli esponenti della Resistenza chiedevano a gran voce il suo arresto o perfino la sua fucilazione. Era stato accusato a torto di aver scritto articoli filotedeschi e di essersi schierato a favore dei nazisti e dei collaborazionisti. In realtà Giono, come molti altri colleghi, da Colette a Cocteau, aveva pubblicato pochi pezzi esclusivamente letterari su giornali collaborazionisti ed era rimasto ben lontano dall’estrema destra legata ai tedeschi3.

Si sarebbe parlato meno invece dello spirito di resistenza che aveva ispirato Le voyage en calche, proibito dalla censura tedesca. Ma, intanto, il Comitato nazionale degli autori l’aveva iscritto nel suo elenco nero.

Giono sapeva che l’avrebbero arrestato. Quando la figlia lo aveva scongiurato di scappare, aveva risposto gentilmente: «Figlia mia, dove vuoi che vada? Vuoi che mi metta a correre? Che vada a nascondermi dietro un albero? Vuoi davvero vedermi fare così? Vogliono arrestarmi, mi arrestino pure. Non sarà la prima volta. Nell’attesa, ho ancora un po’ di tempo per lavorare. Chiudimi la porta!».
Alla fine lo scrittore era stato liberato con l’obbligo di risiedere lontano da casa e l’interdizione di pubblicare e di avere un conto in banca: la miseria, ma anche la libertà. «Dopo il 1945 gli scrittori mentono per mettersi in buona luce con individui che si sono dichiarati gli unici difensori della fede» avrebbe detto, ricordando le innumerevoli conversioni degli opportunisti cheavevano segnato quel burrascoso periodo. Intanto in lui si era operata una trasformazione definitiva; l’uomo che per la seconda volta era stato ingiustamente imprigionato non era più quello di prima4.

Alla fine della guerra, Giono era un uomo disilluso, vittima dell’ostracismo dell’intellighenzia dell’editoria francese, condivisa con autori come Céline (incarcerato) e Simenon (costretto all’esilio preventivo negli U.S.A.). Era evidente che nella Resistenza sia i comunisti che i gollisti non avevano apprezzato le posizioni antimilitariste di Giono. Così alla svolta avventuroso-romantica dei suoi romanzi e scritti, avvenuta dopo quella “lezione”, appartiene Il disastro di Pavia (1963),

Per l’autore non c’erano dubbi: «La storia ha senso solo retrospettivamente e per chi gliene vuole dare uno; ma questa volontà è solo una frivolezza di un altro tipo». A lui interessava davvero solo quella che gli storici accademici chiamavano sprezzantemente la petite histoire. Quella, e soltanto quella, era la storia e le note della descrizione dell’indescrivibile battaglia di Waterloo di Stendhal echeggiano in tutto il libro. […] Ad attrarlo non era solo la sfida di misurarsi con un tema reale, ma anche il fatto che si trattasse di una sconfitta, almeno per la Francia. Come se non bastasse, ad avvicinarlo al brillante re francese, Francesco I, c’era anche l’esperienza comune della prigionia. Ma anche l’introverso imperatore di Spagna, Carlo V, aveva qualcosa in comune con lui: la gotta5.

E’ una storia prima di tutto di ritratti quella presentata da Jean Giono, e non a caso il primo capitolo del libro si intitola proprio Ritratti, ma non solo. Sono le vicende personali, grandi e piccole di una moltitudine di cavalieri e di contadini, di soldati e di principi e imperatori; la descrizione della loro mentalità e del loro immaginario; le vicissitudini degli eserciti e delle società toccate concretamente dalla guerra a fare di Il disastro di Pavia un grande saggio storic romanzatoo, vicino non solo a La Certosa di Parma di Stendhal ma, per certi versi, al capolavoro assoluto di Lev Tolstoj: Guerra e pace.

In cui le figure dei due principali contendenti riassumono già in sé le contraddizioni e i due differenti mondi e modi di fare la guerra che sul campo di Pavia si scontrarono. Da un lato il re di Francia, esponente di un’educazione e di uno spirito “cavalleresco” che a Pavia avrebbe visto la sua definitiva sconfitta, tanto da portare alla cattura e imprigionamento dello stesso Francesco I.

Ha sei anni in più di Carlo V: in realtà è più vecchio di un secolo. Paragonato all’imperatore borghese è un re proletario, cioè un re che lavora, di persona […] è un perfetto «eroe per donne».
[…] Francesco è alto due metri, e i filtri d’adorazione nei quali è stato immerso hanno reso questa statura deliziosa. Possiede la seduzione dei Rastignac, così efficace nelle capitali. […] È stato fabbricato per trascinare i cuori al suo seguito: li trascina; se ne ciba; la sua bocca è come un quarto d’albicocca nel mezzo della più bella barba del secolo, già ben fornito di barbe. […] Ma se talvolta ha l’andatura pantofolaia del professionista che va a cercare in pigiama il latte alle undici del mattino, è bello come il sole quand’è a cavallo nei tornei, nelle battaglie e nelle corse e, a ogni colpo, supera quel difficilissimo ostacolo che è il farsi benvolere dai gelosi. Luisa di Savoia può esserne fiera. E lo è: non si imita il coraggio; se ci si arrischia a farlo ci si perde quantomeno la faccia. Se seduce le donne è con l’occhio languido, ma se seduce gli uomini (e i Baiardo, i La Trémoille, i La Palice) è con il suo coraggio disinteressato,generoso, addirittura prodigo […] In lui, niente di moderno, niente che faccia presentire il moderno: appartiene totalmente alla sua epoca; è più antiborghese di Lenin6.

Un eroe romantico, dal punto di vista di Giono che, nei suoi romanzi forse più famosi e di successo, appartenenti al cosiddetto “ciclo dell’Ussaro”, delineerà come nessun altro l’eroe per sempre giovane e affascinante, coraggioso e disinteressato: Angelo, nomen omen totalizzante7. Alle sue mire si contrapponeva, invece, l’uomo che avrebbe in segui5o potuto dichiarare che sul suo impero non tramontava mai il sole: Carlo V, di tutt’altra pasta e visione del mondo e del comando.

Carlo V era un uomo dalle molte malinconie e dalla natura cupa. Fu a lungo disgraziato, in tutti i sensi del termine, fino addirittura a sembrare uno stupido[…] Era un ingordo così come si può essere un Don Giovanni. Su questo punto non si diede mai per vinto, né di fronte ai medici (ovviamente contrasse presto la gotta), né di fronte alle circostanze: durante la ritirata d’Algeri, in mezzo alle tempeste e alle urla dei turchi, affondava i denti in salsicce di bottarga. Tuttavia, non possedeva né un animo né un cuore sprezzanti del pericolo.[…] È meglio immaginarsi Carlo V come un piccolo borghese. […] Il borghese è un uomo che lavora per interposta persona e che, godendo di tutti i profitti del lavoro, senza tuttavia aver contribuito allo sforzo che li ha prodotti, usufruisce del piacere di vivere in un mondo negativo, talvolta anche di costruirlo e d’imporne le leggi8.

Lo scrittore francese continua poi ancora con queste osservazioni:

È un borghese in un mondo cavalleresco. In questo sta la sua debolezza: non ha un arsenale borghese da cui attingere armi borghesi, ed è obbligato a fabbricarsi la propria artiglieria finanziaria con quello che ha a disposizione; e sta in questo la sua forza: disorienterà sempre il povero cavaliere che, brandendo la sua spada, si aspetta che gli altri lo affrontino allo stesso modo; lo disorienterà con un prestito d’Anversa al 16 d’interesse (tradotto: al 6,25%, mentre i prestiti dei mercanti oscillano tra il 12 e il 15%). […] I suoi contemporanei (e i suoi avversari) si rivestono di ferro, montano a cavallo, si servono dei soldi per vivere; lui si veste con abiti di lana, si siede in poltrona e si serve della vita per guadagnare. Non ha un conto personale; si fa rappresentare da città: Anversa, Douai, eccetera, o da società di mercanti: Genova. Non risana province o situazioni malsane (quello che tutti i re, conti, duchi e baroni della sua epoca fanno molto bene con daghe, cavalleria e furia francese); risana invece il suo debito fluttuante, le sue rendite, i suoi prestiti a usura e i suoi prestiti a fondo perduto; non compie sforzi per respingere i nemici, ma per rinviare scadenze inquietanti. Nel 1515, mentre Francesco I si fregia il cappello col fiore di Marignano, lui realizza dei «consolidamenti successivi» della cifra di ottantamila lire9. Le vittorie riportate sono le vittorie dell’intelligenza delle cose, del senso politico, dell’arte di governare, del coraggio fisico; solo che, se si menzionano queste virtù quando lo si vuole ritrarre, si corre il rischio di dipingere non un uomo (e nemmeno un principe), ma una specie di consiglio di amministrazione10.

Anche se Carlo V metterà insieme il primo grande impero non solo di carattere europeo e mondiale allo stesso tempo, la sua non costituisce la vittoria di un imperatore del passato, ma del capitalismo sugli arcaismi della società aristocratica e nobiliare. Non per nulla la Chiesa lo osteggerà in qualche modo, come già aveva fatto trecento anni prima con Federico II di Svevia.

Occupa la scena nel momento in cui il capitalismo insabbia gli ingranaggi della Chiesa e dello Stato. È l’inizio dei monopoli: miniere, ferro, navi vengono mossi, manovrati e frugati dalle banche. […] L’oro delle Indie Occidentali prende il largo in direzione delle Indie Orientali, sulle vie dell’ambra, della seta, del muschio, solo di passaggio in Spagna, in Francia, in Italia11

E’ la prima globalizzazione e la sua arma segreta sono le banche dei Fugger e i loro affari, che si ingrandiscono insieme a quelli dell’Impero12. Anche se all’orizzonte, ancora non colto in tutta la sua futura grandezza, già si manifesta, a partire dall’estate della vittoria di Pavia, il futuro irriducibile avversario del capitale e dei suoi funzionari (imperatori, banchieri, signori o altri che siano): il proletariato con le sue rivolte e le guerre contadine in terra di Germania.

Questo è ciò che si delinea a partire dal campo di battaglia sanguinoso e crudele di Pavia, dove l’innovazione tecnologica (l’arma da fuoco, l’archibugio) trionfa sul valore. In un mondo in cui la guerra per un aristocratico o per un re come Francsco I costituiva ancora uno dei piaceri della vita, insieme alla caccia e all’amore (più o meno galante).

Nel XX secolo, noi vediamo la guerra dal punto di vista di chi ha l’obbligo del servizio militare […] Nove volte su dieci, quando la facciamo in prima persona è per costrizione e per forza, con ordine e nei ranghi. Gli eserciti moderni hanno bisogno di disciplina. Ma, nel XVI secolo, fanno la guerra solo quelli che la vogliono fare, quelli che sono contenti di farla, quelli che la fanno per piacere. La pace li fa star male. A maggior ragione, i capi. […] Vedremo alla battaglia di Pavia dei capitani (Montmorency soprattutto) e anche dei soldati lamentarsi di occupare dei posti lontani dalla mischia e «disertare in avanti» per prendervi parte, malgrado gli ordini. Siamo lontani dalla mobilitazione generale. Mentre a Pavia ci si batte, in Francia, in Italia, in Spagna, i lavoratori lavorano, i calzolai fabbricano delle scarpe, i fabbri forgiano, eccetera, i contadini, gli artigiani, i commercianti se ne stanno a casa loro, nelle loro pantofole e continuano a fare i contadini, a fare gli artigiani e a commerciare. La guerra è un mestiere da signori […] come anche l’amore e la caccia. È il divertimento di quelli che non hanno un altro modo per divertirsi13.

Per Francesco I era normale affermare:

«Vinceremo perché siamo i più belli». La Francia non può essere sconfitta perché è la Francia. Il re è coraggioso: perché vorreste che lui non si battesse? Carlo VIII ha vinto al Taro, Luigi XII ad Agnadello, Francesco a Marignano: non c’è che da continuare. Niente di meglio che avere un re in battaglia: «È come all’écarté14: bisogna per forza vincere e, allora, andiamo!». È idiota, ma elegante, e allora si va, sfortunatamente15.

C’è qualcosa che aiuta a capire certe convinzioni di Macron, ma anche di De Gaulle e di Napoleone III in tutto ciò, anche se i diari e le memorie dei borghesi dell’epoca «non viene detto che questi uomini sono stati uccisi, si dice invece che sono stati incoronati dalla morte»16.

Quanto agli operai di queste imprese guerriere, loro non hanno niente da difendere a parte la loro pelle, anche se, conquistati dall’esempio che viene dall’alto, spesso la tengono in poco conto. Non hanno problemi di coscienza: già da tempo la miseria gli ha trasmesso la certezza della loro esistenza. Tuttavia, siccome nello stabilimento che hanno scelto hanno talvolta l’occasione di riempirsi le tasche, questa pesantezza pecuniaria gli permette di apprezzare la bellezza di una manovra. Ovviamente sono tutti dei mercenari, ma sembra che abbiano aperto bottega all’insegna della loro provincia o del loro paese; sono i nomi di Piccardia, di Guascogna, della Svizzera, dell’Aragona o di Castiglia che vengono gridati in combattimento e se il manipolo di piccardi o d’aragonesi ha vinto nel suo angolino, il resto della battaglia non li interessa più di tanto, e se il loro campo alla fine è vinto, per loro è vinto, ma… È raro che il loro orgoglio naturale soffra di una sconfitta. Quello che li distingue al di sopra di tutto è una totale assenza d’anima. Vengono pagati per fare un lavoro: lo fanno finché li pagano. Se i soldi non arrivano più, non lavorano più, fossero pure in piena battaglia; ugualmente, e sempre in piena battaglia, talvolta reclamano un aumento di stipendio e, se gli viene rifiutato o se si è costretti a rifiutarglielo, sono pronti a disertare in massa e in ordine, o addirittura a passare nell’ac-campamento nemico. Se si promette e poi non si mantiene, si ribellano violentemente, sino a fare degli ostaggi tra i loro stessi ufficiali, o anche tra i duchi, addirittura tra i principi che molesteranno e non consegneranno che al mantenimento delle promesse, aumentate con nuove esigenze17.

Stranamente sono proprio loro a portare in campo un parte del futuro, come la Wagner e le guerre degli ultimi decenni condotte dai contractor americani insegnano. La guerra degli eroi, ammesso che sia mai esistita per i poveracci, è finita da tempo. Come ci insegna anche Franco Cardini nel suo saggio posto al termine del testo di Giono.

In realtà, l’agonia degli eredi di Rolando e di Lancillotto era cominciata prima: se ne vedono le avvisaglie già sulla piana di Campaldino nel 1289, quando tra i «feditori», i combattenti a cavallo dell’armata fiorentina, c’era anche il giovane Dante Alighieri. Quando nella mischia che veniva dietro al primo urto della battaglia i cavalieri si trovavano accerchiati dai fanti, facevano la fine di povere aragoste chiuse nel loro carapace: ammazzati sotto di loro i nobilissimi destrieri che li avevano fedelmente serviti, e disarcionati, venivano fatti a pezzi dai borghesacci e dai rozzi artigiani dei comuni cittadini, gentaglia vile ch’era stata armata a forza ma che sul campo cominciava a delineare quella che sarebbe stata la fanteria, «regina delle battaglia». Così a Courtrai in Fiandra nel 1302, la «battaglia delli speroni», perché dopo la mischia quei nobili aurei ornamenti dei talloni cavallereschi erano divenuti bottino di guerra di quella marmaglia appiedata; e così di rovescio in rovescio, da Poitiers nel 1356 ad Azincourt nel 1415 fino a Mantova nel 1526, dove morì dopo un’agonia atroce l’eroe di casa Medici, il «signore della guerra» Giovanni delle Bande Nere. Ma a quel punto il Fiore della Cavalleria era già stato reciso.
Era caduto sotto i colpi della storia e del progresso, dalla balestra alla picca e, soprattutto, all’archibugio e alla bombarda. [..] Ma quei maladetti, abominosi ordigni sarebbero stati da allora in poi, per mezzo millennio e più, i nuovi Signori della Guerra. Solo il XX secolo ci ha regalato qualcosa di ancora più spaventoso: al punto che, come hanno dimostrato recentissimi eventi, sembra che ancora non si sia pervenuti a rendersi conto di quanto potrebbe aspettarci.
Fine del Fiore della Cavalleria, dunque. Ma nemmeno questo, in fondo, è vero. Perché la cavalleria, quella nobile e purissima, non è mai morta: forse perché non era nemmeno mai nata, forse perché è sempre stata moribonda… I veri grandi guerrieri – anche quando ancora la cavalleria come arte del combattere non era nata – appartengono tutti al passato, sono sempre oggetto di risplendente, ma antica leggenda: lo leggiamo già nell’Eneide, dove Virgilio si è ispirato a Omero per affermare che gli eroi di una volta, quelli capaci d’imprese meravigliose, ormai non ci sono più18.

E su queste parole e giudizi di Franco Cardini conviene chiudere la recensione di un ottimo testo, sia dal punto di vista saggistico che letterario, per chiunque sia interessato alla guerra, alla sua storia, alle sue tragedie e ai suoi, sempre falsi, miti ed eroismi.


  1. Il riferimento alle due rose nella denominazione della guerra risale al XIX secolo, dopo che Walter Scott, nel 1829, aveva pubblicato il romanzo Anna di Geierstein, facendo riferimento agli stemmi dei due casati che avrebbero recato rispettivamente una rosa di colore rosso e una bianca. Tuttavia l’unico simbolo coevo di cui si ha notizia, è la rosa bianca degli York.  

  2. Questo pamphlet, pubblicato originariamente nel 1938, è stato tradotto in Italia da M.G. Gini, nella Collana Saggi, edizioni Ponte alle Grazie, Milano 1997.  

  3. G. Scaraffia, Jean Giono e il senso della storia, introduzione a J. Giono, Il disastro di Pavia. 1525: la sconfitta di Francesco I in Italia, Edizioni Settecolori, Milano 2023, pp. 7-8. 

  4. G. Scaraffia, op. cit., pp. 8-9.  

  5. Ivi, pp. 9-10.  

  6. J. Giono, op. cit., pp. 28-31  

  7. Si segnalano qui i tre principali, tutti a firma di Jean Giono: L’ussaro sul tetto (Le Hussard sur le toit, Gallimard 1951), traduzione di L. Magrini, Collezione Medusa n.449, Milano, Mondadori, 1961; Una pazza felicità (Le Bonheur fou, 1957), Collana Narratori della Fenice, Parma, Guanda, 1996; Angelo (Angelo, 1958), trad. di F. Bruno, Collana Narratori della Fenice, Milano, Guanda, 2000,  

  8. J. Giono, Il disastro di Pavia, op. cit. pp. 15-24.  

  9. La lira era l’unità monetaria francese prima della Rivoluzione – NdA.  

  10. J. Giono, op. cit., pp. 19-20.  

  11. Ivi, pp.26-27.  

  12. Cfr.: W. Winker, Fugger il ricco, Giulio Einaudi Editore, Torino 1943.  

  13. J. Giono, op.cit., pp. 36-37.  

  14. Gioco di carte in cui ogni giocatore può, se l’avversario è d’accordo, scartare le carte che non gli sono utili e riceverne delle altre [N.d.T]  

  15. J. Giono, op. cit., p. 47.  

  16. Ivi, p. 50.  

  17. Ivi, p. 109.  

  18. F. Cardini, «Oh, gran bontà de’ cavallieri antiqui». In J. Giono, op. cit., pp. 350-351.  

]]>
Il nuovo disordine mondiale / 22: Al di là delle banalità sul “male assoluto”. https://www.carmillaonline.com/2023/10/14/il-nuovo-disordine-mondiale-22-al-di-la-delle-banalita-sul-male-assoluto/ Sat, 14 Oct 2023 20:00:54 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=79556 di Sandro Moiso

Somdeep Sen, Decolonizzare la Palestina. Hamas tra anticolonialismo e postcolonialismo, Meltemi editore, Milano 2023, pp. 260, 22 euro

Mai fu più tempestiva e utile la pubblicazione di un testo, anche se probabilmente è stato il gioco del caso ha far sì che quello di Somdeep Sen, appena edito da Meltemi nella collana Biblioteca/Antropologia, uscisse in contemporanea con uno dei momenti più drammatici, divisivi e, probabilmente, risolutivi dell’infinito conflitto mediorientale legato all’occupazione israeliana dei territori un tempo considerati palestinesi.

Così, mentre la situazione a Gaza sembra precipitare in un buco [...]]]> di Sandro Moiso

Somdeep Sen, Decolonizzare la Palestina. Hamas tra anticolonialismo e postcolonialismo, Meltemi editore, Milano 2023, pp. 260, 22 euro

Mai fu più tempestiva e utile la pubblicazione di un testo, anche se probabilmente è stato il gioco del caso ha far sì che quello di Somdeep Sen, appena edito da Meltemi nella collana Biblioteca/Antropologia, uscisse in contemporanea con uno dei momenti più drammatici, divisivi e, probabilmente, risolutivi dell’infinito conflitto mediorientale legato all’occupazione israeliana dei territori un tempo considerati palestinesi.

Così, mentre la situazione a Gaza sembra precipitare in un buco nero, di cui a pagare le conseguenze saranno nell’immediato i civili palestinesi ma in futuro anche il destino di Israele, diventa quasi indispensabile la lettura di un testo che, indirettamente, serve a smontare quell’immagine di “male assoluto” che oggi i media occidentali embedded tendono a dare di Hamas, rimuovendo i 75 anni di storia trascorsi dalla Nabka (espulsione dei palestinesi dalle loro terre) e le conseguenze che le scelte politiche dello stato colonizzatore e dei suoi alleati hanno avuto anche sulla formazione e il successo dello stesso movimento.

Una rimozione vergognosa della memoria che serve oggi a demonizzare quello che, piaccia o meno, rappresenta in Palestina il maggior movimento di resistenza all’occupazione e alla segregazione dei territori palestinesi e dei loro abitanti originari e, allo stesso tempo, allo sforzo continuativo e collettivo delle potenze occidentali teso alla cancellazione dell’identità palestinese e del diritto all’esistenza di un intero popolo.

Somdeep Sen, di origine indiana e probabilmente proprio per questo non dimentico della storia del colonialismo occidentale e delle sue pretese di egemonia culturale, è diventato Professore associato alla Roskilde University nel 2018, dopo un lungo percorso accademico di ricerca in scienze sociali e politiche tra Stati Uniti, Germania e Danimarca. È coautore di The Palestinian Authority in the West Bank (con M. Pace, 2018) e autore di numerosi articoli su “The Huffington Post”, “open-Democracy” e “London Review of Books” e non può certo essere considerato, come in Italia forse alcuni farebbero, un estremista. Tenuto anche conto che l’opera pubblicata da Meltemi è stata precedentemente edita dalla Cornell University Press di Ithaca (New York) nel 2020.

Certo, l’autore più che ispirarsi genericamente ai post-colonial studies sceglie un preciso riferimento nell’opera, ancora oggi spesso insuperata, di Frantz Fanon e nel fare ciò, è evidente, sceglie, il campo in cui schierarsi. Che non è esattamente quello di Hamas, ma piuttosto quello della causa palestinese in tutte le sue, spesso complesse e contraddittorie, sfaccettature. Nel fare questa scelta egli compie un lavoro non solo sulla Palestina e su Gaza, ma su una vasta mole di esempi riscontrabili negli stati sorti successivamente alla decolonizzazione e all’uso della memoria della lotta contro il colonialismo che in questi è stato fatto, in forme più o meno autentiche oppure più o meno ingannevoli, e della “liberazione” reale oppure soltanto apparente che ne è conseguita.

La panoramica di questi esempi, che vanno dall’India allo Zimbabwe, Sud Africa, Cuba, Tanzania e Kurdistan turco è svolta nel capitolo finale, il settimo, intitolato Della liberazione, ma la parte che più interesserà il lettore, alla luce dei fatti in via di svolgimento a Gaza e in Israele, è sicuramente quella contenuta nei primi sei. Tutti intensamente e vividamente, oltre che lucidamente, dedicati alla Palestina, alla sua eliminazione per opera del colonialismo di insediamento; al post-colonialismo palestinese come eredità degli accordi di Oslo, alla violenza anticoloniale e alla lotta dei palestinesi per la propria esistenza.

E’ soltanto in tale dettagliato complesso di elementi che è possibile inquadrare il ruolo e la funzione di Hamas, cui contribuiscono, all’interno della ricerca, elementi di autentica etnografia raccolti sul campo dall’autore nel corso dei periodi trascorsi nella Striscia di Gaza, in Cisgiordania, in Egitto e in Israele in svariate occasioni tra il 2013 e il 2016. Ed è forse utile partire proprio da una testimonianza che Somdeep Sen utilizza all’inizio del primo capitolo (Decolonizzare la Palestina: premessa) per comprendere lo svolgimento successivo delle analisi.

Non sappiamo cosa accadrà in seguito. La vita è incerta. Non ci è concesso avere progettualità. Qui la gente pensa a breve termine e si preoccupa dei bisogni immediati, non sapendo quale destino incombe sul futuro. Magari il confine verrà chiuso, o magari non otteniamo il visto. Ai palestinesi non è consentito sognare il proprio futuro [Ahmed Yousef, intervista dell’autore, Gaza, maggio 2013]1.

L’affermazione contiene già in sé non soltanto l’emblematica fotografia della condizione “coloniale” vissuta dai palestinesi, ma anche l’enorme distanza che separa il mondo dei “valori” occidentali, ancora troppo spesso sbandierati anche da coloro che con alcuni aspetti della società occidentale si ritengono in conflitto2, da chi non sa neppure come o se ancora vivrà il giorno successivo. Un’enorme distanza di condizioni e aspettative di vita che, disgraziatamente per i partecipanti, si è potuta misurare nell’assalto alla festa musicale, intitolata profeticamente “Mondi paralleli”, il giorno dell’offensiva di Hamas e, molto tempo prima, con quello al Bataclan di Parigi3. Ma prima di proseguire vale ancora la pena di citare qui alcuni ricordi dell’autore.

Il 23 novembre 2015, il mercato (o shuk) di Mahane Yehuda a Gerusalemme fu scena di un’aggressione all’arma bianca. Le registrazioni della videosorveglianza mostrano due adolescenti palestinesi, Hadil Wajih Awwad, 14 anni, e suo cugino Nurhan Ibrahim Awwad, 16 anni, che cercano di colpire con delle forbici i passanti vicino a una stazione metrotranviaria. La scena ben presto è invasa da uomini armati che per cercare di sedare l’aggressione sparano ripetutamente agli adolescenti, finché questi non si accasciano a terra1. Hadil rimase uccisa, mentre Nurhan venne ferito e poi accusato di tentato omicidio. Successivamente si diffuse la notizia che Hadil era la sorella di Mahmoud Awwad, un giovane a cui un militare dell’IDF (Israel Defense Force) sparò in testa con un proiettile d’acciaio rivestito di gomma durante la protesta del 1 marzo 2013 nel capo profughi di Kalandia. Più tardi quell’anno, Mahmoud morì per i traumi riportati.
Il giorno dell’aggressione che coinvolse i cugini Awwad, stavo conducendo delle interviste a Gerusalemme est. Quando seppi dell’accaduto presi la tranvia verso ovest in direzione di Mahane Yehuda, aspettandomi di trovare sulla scena un’elevata presenza di militari e polizia. Tuttavia, dopo solamente un’ora dall’aggressione, la vita scorreva in maniera normale: la tranvia funzionava regolarmente e il trambusto del mercato si era ristabilito; il luogo dell’aggressione era già stato ripulito, e il marciapiede lavato dal sangue non lasciava traccia di Hadil e Nurhan. Non essendoci nulla da vedere sulla scena, entrai nel mercato e mi sedetti in una caffetteria per riordinare le idee. Lì, origliai la conversazione tra una guida turistica israeliana e il suo cliente, che, apparentemente scosso dall’aggressione, disse: “Ma erano solo ragazzi”. La guida turistica rispose: “Sì. Ma qui la vita funziona così. Questi arabi vengono qui e usano le nostre scuole e i nostri ospedali. Bene, potete usarli. Ma se vieni da me con un coltello, io ti ammazzo”. Notando che il suo cliente non era convinto, aggiunse: “Guardi, è quello che succede sempre. Israele ha attaccato Hamas a Gaza, e loro dicono che una donna incinta è morta. Ma anche una cagna rabbiosa resta incinta, ma non significa che non la uccidiamo”. La guida turistica stava presumibilmente facendo riferimento alla morte di Noor Hassan, che quando venne uccisa durante un attacco aereo israeliano era incinta di cinque mesi .
A quanto pare, per gli uomini armati e la guida turistica presenti al mercato, non vi era dubbio che una morte rapida fosse quello che i giovani aggressori meritassero. Questa impressione fu altrettanto manifesta durante una presunta aggressione all’arma bianca in Cisgiordania, quando il noto colono e politico israeliano Gershon Mesika guidò la sua auto contro la sedicenne Ashraqat Taha Qatnani, prima che venisse uccisa a colpi d’arma da fuoco dai soldati dell’IDF. In maniera disinvolta, Mesika aveva detto: “Non mi fermai a pensare; schiacciai l’acceleratore e mi scagliai contro di lei. La ragazza cadde, e allora i soldati arrivarono e continuarono a sparare finché non la neutralizzarono completamente”4.

Cronaca “in diretta” che non vale a giustificare la violenza contro gli inermi, ma a fotografare una condizione sociale e politica e gli stati d’animo che la determinano. Soprattutto utile per porsi una domanda su chi siano in realtà le “bestie” e gli “animali” con cui tanta stampa italiana e tanti discorsi pubblici di politici israeliani si son riempiti la bocca e i titoli dopo il 7 ottobre. Ispirati da uno sguardo sostanzialmente razzista sugli avversari che hanno osato levare la mano non tanto su civili e militari, ma contro lo stato di Dio di Israele, già frutto di un altro male assoluto, quello della Shoa.

Come afferma Francesca Mannocchi su La Stampa del 15 ottobre:

Il linguaggio disumanizzante arriva dai vertici della leadership israeliana, e non da ora. Nel 2013 Ayelet Shaked, che sarebbe poi diventata ministro della Giustizia, scrisse pubblicamente, che tutti i palestinesi fossero «il nemico», compresi «gli anziani, le donne, tutte le città, tutti i villaggi, le proprietà e le infrastrutture», auspicando che venissero uccise anche le donne che resistevano all’occupazione così che non potessero mettere al mondo «altri piccoli serpenti»5.

Anche se Yahweh non è stato molto citato in questi giorni, quel che permane al fondo del discorso occidentale e sionista è quello assimilato dal discorso sul popolo eletto, oggi integrato dalla arroganza con cui l’Occidente, i suoi dignitari e i suoi pretoriani militari e mediatici si ritengono unici depositari delle democrazia, della libertà e del diritto ovvero del “bene assoluto”. Discorso, quello sul razzismo di fondo che permea la mentalità occidentale suffragandone la “superiorità” e il diritto al dominio dei popoli “selvaggi”, di cui il testo di Sondeep Sen non salva, naturalmente, nulla.

In questo libro, sostengo che la presenza dello Stato di Israele e la natura delle sue imprese nei territori palestinesi costituiscano, per molti aspetti, colonialismo di insediamento. In tal senso, la situazione politica in cui sono destinati a orientarsi i palestinesi, nel complesso, e una fazione come Hamas, nello specifico, non si discosta da quella di altri contesti coloniali. Generalmente, il colonialismo prevede il dominio e la supremazia localizzati di un’entità esogena perennemente capace di “riprodursi in un dato ambiente” (L. Veracini, Settler Colonialism: A Theoretical Overview, Palgrave Macmillan, New York. 2010, pp. 3-4). Come osserva Ania Loomba, il colonialismo non implica solo l’espansione dei “vari poteri europei in Asia, in Africa o nelle Americhe”; la formazione del potere coloniale richiede anche la “scomposizione o ricomposizione” delle comunità già esistenti. Le pratiche di “scomposizione o ricomposizione”, che comprendono “il commercio, il saccheggio, le negoziazioni, la guerra, il genocidio, la schiavitù e le ribellioni” (A. Loomba, Colonialism/Postcolonialism, Routledge, Londra 1998, p.2; tr. it. di F. Neri, Colonialismo/ Postcolonialismo, Meltemi, Roma 2000), hanno parimenti messo in campo forme istituzionalizzate di dominio culturale. Infine, il colonialismo implica la creazione dello “status” (inferiore) dei colonizzati nei discorsi dei colonizzatori […] La verosimile esistenza di istituzioni, pratiche e discorsi di dominio in Palestina mi ha consentito di tracciare dei paralleli tra la condizione palestinese e altri contesti coloniali. Tuttavia[…] il contesto del colonialismo di insediamento si distingue in quanto tali istituzioni, pratiche e discorsi di dominio non sono solamente intesi a stabilire e riprodurre il dominio localizzato dei colonizzatori o a esigere le risorse e il lavoro dei colonizzati, ma la narrazione del colonialismo di insediamento insiste anche sul fatto che gli indigeni non esistono in quanto persone o comunità con un’identità distinta. In Palestina, quindi, i colonizzati si ritrovano a combattere le istituzioni, le pratiche e i discorsi del colonialismo di insediamento che, nel tentativo di concretizzare il mito dell’inesistenza indigena, si sforza di eliminare l’impronta della presenza palestinese in “Terrasanta” (I. Pappe, The Ethnic Cleansing of Palestine, One World, Oxford; tr. it. Di L. Corbetta e A. Tradardi, La pulizia etnica della Palestina, Fazi Editore, Roma 2008)6.

Ecco allora che eliminazione della tradizione e della cultura locale e segregazione ed eliminazione fisica dei popoli colonizzati vanno di pari passo con l’allargarsi degli insediamenti “esogeni”. E’ successo in Africa, dove in Sud Africa fin dalla fine dell’Ottocento si concretizzarono i campi di concentramento che divennero il modello per tutti quelli successivi7, ed è successo in America, sia a Sud che a Nord, dove fino agli anni Sessanta ed oltre ogni immagine cinematografica mirava a rappresentare i popoli nativi in rivolta come demoniaci e intrinsecamente selvaggi e malvagi. Tanto da giustificare il fin troppo celebre motto: il solo indiano buono è quello morto. Oltre al fatto di averne rinchiuso i superstiti in riserve che spesso non costituivano altro che campi di concentramento ante-litteram.

Eppure, eppure…è ancora estremamente utile utilizzare il metodo adottato da Frantz Fanon per distinguere nettamente il mondo dei colonizzatori da quello dei colonizzati, così come fa Somdeep Sen:

questi ultimi vivono in un’area povera, affamata, sovraffollata, carente di infrastrutture e abitazioni permanenti, bisognosa dei servizi più essenziali per un’esistenza dignitosa; di contro, il mondo dei colonizzatori è privilegiato dalla permanenza di pietra, acciaio e strade pavimentate, e i suoi abitanti sono appagati e raramente in cerca di “cose buone” (F. Fanon, The Wretched of the Earth, Grove Press, New York; tr. it. di C. Cignetti, I dannati della terra, Einaudi, Torino 2007, p. 6). In mezzo a questi mondi vi è la struttura di oppressione dei colonizzatori – caserme e stazioni di polizia – che parla la lingua della violenza, sorveglia la zona abitata dai colonizzati e assicura che questa rimanga separata e distinta da quella dei colonizzatori. Questa distinzione fanoniana risulta evidente in Israele-Palestina. Per esempio, la ricchezza, le infrastrutture e, in generale, il privilegio materiale che ho riscontrato a Tel Aviv, per dire, è in netto contrasto con la povertà e il sovraffollamento dei campi profughi palestinesi nei territori occupati in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza. Mentre la prima zona simboleggia stabilità, è fatta di pietra e acciaio, ed è effettivamente il luogo di dimora del privilegiato, l’ultima zona non si presta a un’esistenza dignitosa, i suoi residenti sono privi delle comodità più basilari, come acqua pulita ed elettricità, e le loro vite sono caratterizzate da instabilità e incertezza. All’estremità di questi due mondi vi sono passaggi di confine e checkpoint: qui vi risiede la struttura dell’esercito israeliano – veicoli e persone armate – che sorveglia i palestinesi, stempera il loro spirito ribelle e assicura che il mondo dei colonizzati non sconfini in quello del colonizzatore. La violenza anticoloniale palestinese che risponde al divario tra questi due mondi (e realtà) rispecchia la violenza delle frange armate in contesti coloniali (e) rivoluzionari al di là della Palestina. Fanon scrive che la violenza dei colonizzati deve seguire un piano di disordine e rompere le infrastrutture materiali del dominio coloniale (Fanon 2007, p. 3). Sebbene la violenza di Hamas sia materialmente incapace di realizzare questo piano fanoniano, […] esso ambisce a interrompere il dominio coloniale di Israele sui territori palestinesi nella speranza di rendere sempre più arduo continuare a mantenerlo8.

Il 7 ottobre ha infranto le certezze del dominio e, molto probabilmente, i civili di Gaza e forse non soltanto loro, sono destinati a pagare duramente non tanto le uccisioni e le violenze avvenute nei kibbutz e in altri luoghi di Israele, ma l’umiliazione subita dallo Shin Bet, dal Mossad, dall’IDF, Tsahal e Zro’a Ha-Yabasha (il braccio terrestre), che dovrà essere lavata col sangue. Come tutto sommato il massacro di Wounded Knee di un gruppo di Sioux Lakota, nel 1890, portava ancora con sé la vendetta per la sconfitta subita da Custer al Little Bighorn nel 1876.

Come afferma ancora l’autore «essendo tale la “circostanza” politica in cui opera Hamas, è “facile” stabilire la natura anticoloniale della sua lotta armata»9 e proprio per questo ogni azione e iniziativa militare deve essere relegata nel giudizio a puro e semplice atto di terrorismo e barbarie. Anche se quest’ultima è sicuramente comparsa all’interno delle ultime azioni, specialmente nei confronti dei kibbutz più isolati e della festa musicale, ciò non basta a cancellare le responsabilità dei colonizzatori e del governo Netanyahu attualmente in carica, spesso sottolineate anche da giornali israeliani come Haaretz, nell’aver sostenuto e incoraggiato ripetutamente la violazione di tutti gli accordi precedenti da parte dei coloni nell’occupazione di nuove terre già attribuite allo “Stato palestinese”, soprattutto in Cisgiordania e nelle enclave arabe di Israele. Situazione politica aggravata dalla hybris con cui lo stesso non ha dato retta, prima del 7 ottobre, agli avvertimenti lanciati dai servizi egiziani e americani su una possibile e imminente azione palestinese proveniente da Gaza10.

Cosi come appare ipocrita e cinica la finta pietà degli enti internazionali, degli stati europei e degli Stati Uniti per un assedio che non fa altro che amplificare quello continuo a cui la Striscia è stata di fatto sottoposta fin dalla sua fasulla indipendenza in occasione del suo abbandono da parte delle truppe israeliane e la rimozione degli insediamenti dei coloni avvenuta per volere di Ariel Sharon11. “Pietas” dettata più dal timore di un allargamento del conflitto a livello regionale o, addirittura, mondiale cui l’Occidente non si sente preparato; mentre, molto probabilmente, a rallentare l’ingresso delle truppe israeliane nella striscia più che il timore per la sorte degli ostaggi o le preoccupazioni di carattere umanitario per la popolazione palestinese sventolate in sede internazionale, è l’autentico labirinto di rovine e di tunnel sotterranei che possono rendere l’azione militare rischiosa e costosa dal punto di vista delle perdite12.

Il mancato rispetto degli accordi di Oslo e la violazione dei confini di “ghetti” riducendone la superficie e le proprietà in mano ai palestinesi costituisce, però, non soltanto un elemento ulteriore di oppressione e conflitto, ma anche la contraddizione maggiore con cui deve fare i conti Hamas nella sua gestione politico territoriale che deve fingere l’esistenza di uno stato post-coloniale, ossia già liberato, in presenza di una situazione che, grazie ai controlli di Israele su tutti i suoi confini e sui rifornimenti di acqua, elettricità, generi alimentari, benzina, farmaci e quant’altro ancora, resta di fatto ancora coloniale. Fatto che indebolisce qualsiasi autorità chiamata a governare i territori per una serie di ragioni che lo studioso di origine indiana spiega in questo modo:

con postcolonialismo mi riferisco alla specifica natura dell’amministrazione governativa pseudo-statale di Hamas, in quanto continuo a sostenere che l’Autorità palestinese manifesti le patologie dello Stato postcoloniale. Joel Migdal (Strong Societies and Weak States: State-Society Relations and State Capabilities in the Third World, Princeton University Press, Princeton (NJ) 1988) ritiene che lo Stato postcoloniale, quale nuovo partecipante al sistema internazionale, sia pregiudicato da “forze centrifughe”: che si tratti di una popolazione che non riconosce l’autorità statale, di centri alternativi di potere che mettono in discussione l’élite politica e le istituzioni nella capitale nazionale, o di una territorialità contestata o troppo vasta da mappare e controllare, queste forze sfidano la capacità dello Stato postcoloniale di assicurare la propria riconoscibilità e legittimità in tutto il suo paesaggio demografico.
[…] Dunque, per lo Stato postcoloniale che opera sotto il dominio coloniale – proprio come la sua controparte nel periodo successivo alla colonizzazione – è imperativo esercitare continuamente la sua autorità in modo da rendersi visibile ai cittadini (apolidi). In realtà, lo Stato postcoloniale, che operi prima o dopo la ritirata dei colonizzatori, è in netto contrasto con la sua controparte europea, che gode di un’esistenza consolidata grazie al fatto di essersi integrata nelle vite dei suoi cittadini e di aver reso la sua presenza, proprio come i fiumi e le montagne, tanto naturale quanto la natura stessa (Migadl 1988, pp. 15-16)13.

Situazione vissuta, e accettata, dall’Autorità Nazionale Palestinese che, però, con soddisfazione occidentale e israeliana ha fatto evaporare qualsiasi ipotesi di lotta armata per la liberazione e l’indipendenza dai suoi programmi o almeno da quelli di Abu Mazen, inamovibile e silente anche in questi drammatici frangenti, ma che continua a governare la Cisgiordania, rinviando le normali elezioni politiche da diverso tempo, ben conscia del fatto che nel confronto elettorale oggi Hamas non avrebbe rivali proprio grazie alla corruzione che ha contraddistinto da tempo l’amministrazione del leader ottuagenario e del suo partito.

Secondo Fanon, dinanzi all’esistenza così spaccata dei colonizzati, la violenza anticoloniale non deve limitarsi a distruggere, ma deve anche essere una forza creativa che ripristini le parti spaccate dell’identità dei colonizzati e assicuri che queste affiorino così come contenute nella loro storica indigenità. Nel riconoscere che la violenza anticoloniale sia effettivamente capace di rafforzare la percezione di sé dei colonizzati, Fanon ribadisce che attraverso la violenza della decolonizzazione la nuova persona decolonizzata, disumanizzata sotto la colonizzazione, riacquista la propria umanità. In tal senso, secondo Fanon, la decolonizzazione violenta è un processo formativo, poiché elimina il complesso di inferiorità dei colonizzati, costruisce la coscienza collettiva e li avvia verso una causa nazionale comune (Fanon 2007, p. 50). La mia tesi qui è che anche la natura anticoloniale della violenza di Hamas abbracci questa tattica totalizzante. [Pertanto] ritengo che la violenza di Hamas incarni la fanoniana capacità di ricostituire l’umanità dei colonizzati e di creare un senso d’identità nazionale. Ciò significa che gli atti di violenza anticoloniale dei colonizzati, e le perdite materiali e umane che spesso ne conseguono, raramente rimangono sul piano esperienziale individuale dell’euforia o della tragedia; piuttosto, una volta che gli individui commettono atti di violenza, o subiscono le ripercussioni degli incontri violenti con i colonizzatori, questi trascendono la sfera pubblica, e la collettività rivendica la loro appartenenza alla causa nazionale. Di conseguenza, la violenza diventa un atto di violenza palestinese, la tragedia diventa la tragedia palestinese, e la lotta armata diventa uno strumento per totalizzare la comunità della nazione lungo il percorso della causa nazionale, a dispetto della pretesa dei coloni israeliani che la Palestina e i palestinesi, in realtà, non esistano14.

Lo stato palestinese, ipotizzato dagli accordi di Oslo è dunque una finzione con cui sia Hamas che ANP devono fare i conti, come si è già detto più sopra, anche se da prospettive diverse.

Gli accordi di Oslo hanno avviato e incentivato la postcolonialità, incoraggiando le fazioni palestinesi ad astenersi da una condotta politica anticoloniale e, al contrario, a operare come se i colonizzatori si fossero già ritirati. Questa postcolonialità si concentra a livello istituzionale nell’Autorità palestinese, che si atteggia esattamente a Stato postcoloniale di Palestina in quanto decide della vita politica, economica, sociale e culturale dei palestinesi, nonostante il “vero” Stato
di Palestina sia lontano dal realizzarsi. [Ma] ritengo che Hamas si destreggi grazie al suo duplice ruolo: come movimento di resistenza armato, Hamas esemplifica la reazione a ciò che gli accordi non sono riusciti a fare, ossia costituire lo Stato sovrano di Palestina e smantellare il dominio coloniale sionista; ma, come governo di Gaza, incarna anche la postcolonialità, così come indicata dagli accordi di Oslo, atteggiandosi a Stato postcoloniale e governando la vita e la politica nei territori palestinesi ancora colonizzati15.

Come afferma ancora l’autore non è soltanto la religione, così come si vorrebbe far credere in Occidente, a caratterizzare Hamas, anche se questa rappresenta un aspetto tutt’altro che irrlevante nella politica identitaria del movimento; dopotutto, il nome Hamas è l’acronimo di Haraket al-Muqāwamah al-‘Islāmiyyah, ovvero il movimento di resistenza islamica. Risposta identitaria spesso sollecitata dal razzismo di cui si è parlato più sopra, senza dimenticare la definizione che Marx diede della stessa come “sospiro degli oppressi” nella introduzione alla sua Critica della filosofia del diritto di Hegel16 pubblicata negli Annali franco-tedeschi nel 1844.

Tutta la Striscia di Gaza, infatti, divenne un luogo di contraddizioni quando Hamas adottò una duplice modalità di esistenza dopo la storica vittoria alle elezioni del Consiglio legislativo palestinese nel 2006. A seguito dell’inequivocabile trionfo della fazione islamica, Fatah si rifiutò di prendere parte al governo di Hamas, che nel corso della battaglia di Gaza del 2007 consolidò il governo della Striscia, continuando allo stesso tempo a impegnarsi nella resistenza armata17. In tal modo, Hamas oscillava tra le immagini dello Stato postcoloniale e il movimento anticoloniale: in quanto governo della Striscia di Gaza rappresentava un’autorità civile che si atteggiava a futuro Stato palestinese, ma continuando a impegnarsi nella lotta armata riconosceva anche il fatto che la Palestina fosse lontana dall’essere liberata.
I rappresentanti di Hamas che incontrai nella Striscia di Gaza incarnavano regolarmente questa duplice immagine nella loro personalità pubblica. Al nostro incontro al Ministero di affari esteri, il viceministro degli esteri Ghazi Hamad sembrava un rappresentante di Stato: in abito, di spalle agli emblemi pseudo-statali dell’Autorità palestinese, e a fianco della bandiera palestinese, rievocava più la figura di un burocrate che di un fedayeen (combattente della resistenza armata) avvolto nella kefiah, o di uno dei combattenti di al-Qassam che mi ero figurato leggendo della resistenza palestinese18. Tuttavia, nonostante la somiglianza con un burocrate, era altresì veloce a ricorrere al vocabolario della lotta di liberazione. Quando gli chiesi di riflettere sul futuro di Hamas in quanto organizzazione, dichiarò: “Prima di tutto, dobbiamo liberare il territorio. Prima di fare qualsiasi altra cosa, dobbiamo creare un chiaro programma politico di liberazione usarlo per acquisire uno Stato palestinese”19.

Quest’ultima permane la questione di fondo che, tanto con gli accordi di Oslo che con i massacri e la repressione, Israele e i suoi alleati occidentali con il silenzio assenso di tante borghesie arabe non sono riusciti ad eliminare. Hic rhodus hic salta, questo resta il dilemma che invece d’essere stato rimosso è diventato cruciale in questo momento di disordine mondiale e di tendenza alla guerra generalizzata, mentre va ribadito ancora una volta che l’ingresso delle truppe di Israele a Gaza potrebbe rivelarsi come un autentico incubo20. Per comprenderlo a fondo e per comprendere alcuni aspetti dell’autentico “stallo messicano” in cui sono finiti i maggiori attori regionali e internazionali, il lavoro di indagine di Somdeep Sen resta di fondamentale importanza.


  1. Somdeep Sen, Decolonizzare la Palestina. Hamas tra anticolonialismo e postcolonialismo, Meltemi editore, Milano 2023, p. 13  

  2. Si pensi soltanto ai facili compianti sulla mancanza di futuro dei giovani occidentali a causa della crisi ambientale tanto spesso sventolati da Greta Thunberg e dai suoi seguaci. 

  3. Al di là del fatto che non c’è alcunché da rivendicare da una partita doppia che tenga conto dei morti civili, degli stupri o delle violenze sui bambini da una parte e dall’altra, quello che va sottolineato è la doppiezza dei discorsi di governi, come quello attualmente in carica in Italia, che dopo aver criminalizzato i rave per motivi di consenso elettorale, avendo poco altro da promettere ai propri elettori, hanno versato autentiche lacrime di coccodrillo sui giovani morti o rapiti nel deserto. Ancora una volta al fine di demonizzare l’avversario e il suo essere “il male assoluto”.  

  4. Somdeeo Sen, op. cit., secondo capitolo: L’eliminazione della Palestina a opera del colonialismo di insediamento, pp. 41-42.  

  5. F. Mannocchi, Israele, la disumanizzazione del nemico, La Stampa, 15 ottobre 2023  

  6. Somdeep Sen, op. cit., pp. 21-22  

  7. A.J. Kaminski, I campi di concentramento dal 1896 ad oggi. Storia, funzioni, tipologia, Bollati Boringhieri Editore, Torino 1997  

  8. Somdeep Sen, op. cit., pp. 22-23  

  9. Ivi, p. 22  

  10. cfr. D. Frattini, Il Paese volta le spalle a Netanyahu. “Dopo la guerra vada a casa”, Corriere della sera, 14 ottobre 2023 

  11. Lo smantellamento della presenza civile e militare israeliana all’interno di Gaza si basò sul piano di disimpegno, introdotto per la prima volta nel 2003 dal primo ministro israeliano Ariel Sharon, durante la Conferenza di Herzliya, che includeva anche i piani di evacuazione di quattro insediamenti in Cisgiordania. Il piano fu inizialmente approvato dal governo israeliano nel giugno 2004, e poi dalla Knesset a ottobre dello stesso anno. Nell’agosto 2005 il piano di ritirata fu messo a punto e applicato. I coloni israeliani evacuati dalla Striscia di Gaza e dalla Cisgiordania furono risarciti in base alla legge sulle procedure di risarcimento approvata dalla Knesset nel febbraio 2005. Dato che, al tempo, i coloni israeliani rappresentavano una piccola minoranza nella Striscia di Gaza, questo disimpegno fu presentato dal primo ministro Sharon come un modo per “preservare la maggioranza ebrea” nello Stato di Israele. Tuttavia, nonostante il disimpegno unilaterale ufficiale dalla Striscia di Gaza, le autorità israeliane hanno mantenuto il controllo sui confini di Gaza via aria, terra e mare, e non ultimo per mezzo del continuo assedio dell’exclave costiera.  

  12. “L’obiettivo di sradicare completamente Hamas è estremamente ambizioso e difficilmente raggiungibile” afferma a Huffpost il responsabile Programma Difesa dello IAI, Alessandro Marrone, analizzando gli aspetti tattici dell’operazione di guerra. Parlare di Gaza equivale a parlare di Hamas e viceversa, perché il gruppo islamico controlla politicamente e militarmente la Striscia. “Ha cambiato la sua geografia, costruendo cunicoli, laboratori, vie di fuga, depositi, trappole e vedette che possono rendere molto difficile andare a identificare e colpire i miliziani”. La rete sotterranea è così fitta che la chiamano la metropolitana di Gaza. La conoscenza del territorio è dunque l’arma in più dei fondamentalisti, dato che “la loro capacità militare è fusa con l’urbanistica civile”. Il che comporterebbe un ulteriore problema qualora l’Idf ricevesse l’ordine di entrare. “Ci sono alcuni siti identificati come centri di comando, ma non ci sono ad esempio le caserme”. Quindi si andrà casa per casa, aumentando il rischio di coinvolgere civili.
    “Israele ha la superiorità aerea e negli ultimi giorni ha sganciato più di 6mila bombe e colpito più di 3.800 obiettivi”, continua Marrone. “Ma non è un’azione risolutiva e bisogna vedere se abbia aperto la strada per l’operazione di terra”. L’ultima volta che le truppe israeliane ne hanno condotta una nel cuore della Striscia di Gaza era il 2008, con l’operazione Piombo Fuso, servendosi di forze speciali, artiglieria, droni e, ovviamente, aerei. Ora però “Gaza è più intrinsecamente legata a Hamas”, precisa l’analista che si aspetta “un’operazione molto maggiore rispetto a quella di quindici anni fa, per via dell’attacco subito” il 7 ottobre. Se all’epoca ci vollero quasi trenta giorni, stavolta è previsione pressoché unanime che sarà molto più lunga. “Non si sa quanto, ma lo sarà. Per come è costruita Gaza, è qualcosa che richiede molto tempo anche per una potenza militare come Israele”. Con una conseguenza piuttosto evidente: “Più durerà, più vittime ci saranno, più Hamas potrà radicalizzare il mondo arabo contro Israele. Al contrario, per Israele più sarà lunga e più metterà a dura prova l’opinione pubblica occidentale” in L. Santucci, Un azzardo estremo. Israele pronta a invadere la “metropolitana di Gaza”, Huffington Post, 13 ottobre 2023.  

  13. Somdeep Sen, op. cit., pp. 28-30  

  14. Ivi, pp. 25-26  

  15. Ivi, pp. 36-37  

  16. “La miseria religiosa è insieme l’espressione della miseria reale e la protesta contro la miseria reale. La religione è il sospiro della creatura oppressa, il sentimento di un mondo senza cuore, così come è lo spirito di una condizione senza spirito. Essa è l’oppio del popolo. Eliminare la religione in quanto illusoria felicità del popolo vuol dire esigerne la felicità reale. L’esigenza di abbandonare le illusioni sulla sua condizione è l’esigenza di abbandonare una condizione che ha bisogno di illusioni”  

  17. La battaglia di Gaza indica il conflitto armato tra Hamas e Fatah che avvenne tra il 10 e il 15 giugno 2007. Le circostanze che portarono a questo conflitto ebbero origine nell’ambito delle regole imposte alla politica palestinese dagli accordi di Oslo.  

  18. Le brigate Izz ad-Din al-Qassam sono l’ala militare di Hamas.  

  19. Somdeep Sen, op. cit., p. 16.  

  20. “Si tratta dell’ingresso di forse 300mila uomini in un’area ristretta coperta dalla grande distruzione che la stessa Israele ha provocato con i bombardamenti aerei delle ultime ore, densa di “nemici” che hanno nelle loro mani i suoi propri ostaggi. Insomma un incubo, come dice anche l’esercito israeliano, che arriva a questo appuntamento ammaccato nella sua reputazione dall’aver subito l’onta dell’attacco imprevisto di Hamas.”, L. Annunziata, L’utopia di una coalizione mondiale a Gaza, nel momento più difficile l’idea per risalire, La Stampa, 14 ottobre 2023.  

]]>