Cornici – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Tue, 17 Dec 2024 21:00:04 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Ideologia, mascheramento e resistenza nella società agraria https://www.carmillaonline.com/2024/10/29/ideologia-mascheramento-e-resistenza-nella-societa-agraria/ Tue, 29 Oct 2024 21:00:32 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=85064 di James C. Scott

[Di seguito si riporta l’Introduzione al volume di James C. Scott, L’infrapolitica dei senza potere, traduzione di Elena Cantoni, elèuthera, Milano 2024, pp. 336, € 20,00. Si ringrazia la casa editrice per la gentile concessione – gh]

La struttura di questo volume ripercorre almeno tre traiettorie delle mie ricerche, forse simili a quelle di molti colleghi, scienziati sociali ed etnografi che si sono impegnati nello studio della società agraria.

La prima traiettoria è segnata dalla delusione e dalle speranze infrante nel cambiamento rivoluzionario. Si tratta di un’esperienza piuttosto comune per gli americani arrivati alla coscienza politica negli [...]]]> di James C. Scott

[Di seguito si riporta l’Introduzione al volume di James C. Scott, L’infrapolitica dei senza potere, traduzione di Elena Cantoni, elèuthera, Milano 2024, pp. 336, € 20,00. Si ringrazia la casa editrice per la gentile concessione – gh]

La struttura di questo volume ripercorre almeno tre traiettorie delle mie ricerche, forse simili a quelle di molti colleghi, scienziati sociali ed etnografi che si sono impegnati nello studio della società agraria.

La prima traiettoria è segnata dalla delusione e dalle speranze infrante nel cambiamento rivoluzionario. Si tratta di un’esperienza piuttosto comune per gli americani arrivati alla coscienza politica negli anni Sessanta. Per me e per molti altri, quel decennio rappresentò il culmine di quella che potremmo chiamare una storia d’amore con le modalità contadine di liberazione nazionale. Posto che l’ultimo mezzo secolo è stato un cimitero di speranze infrante anche per quanto riguarda la democrazia, un’autentica autodeterminazione nazionale e la giustizia economica in gran parte degli Stati agrari, non è facile evocare l’ottimismo inebriante che molti nutrivano allora. La morsa delle principali potenze coloniali sui loro imperi d’oltremare era stata spezzata dalle devastazioni della seconda guerra mondiale; alla Conferenza di Bandung, le potenze non allineate avevano proclamato un futuro wilsoniano di nuove nazioni sovrane che avrebbero trattato in regime di parità le une con le altre; e i movimenti rivoluzionari ovunque nel mondo sembravano determinati a cancellare una volta per tutte le schiaccianti ineguaglianze di terre, ricchezza e potere (e dunque opportunità di vita) che avevano segnato l’esistenza di tanta parte della popolazione mondiale. Anche in Occidente, il movimento per i diritti civili degli anni Sessanta negli Stati Uniti, oltre alle rivoluzioni sociali e culturali in Francia e Germania, sembravano parte integrante di una nuova apertura politica e di nuove potenzialità di emancipazione.

Per qualche tempo, io fui totalmente trascinato da questa flusso di possibilità utopiche. Seguii con trepidazione – e, in retrospettiva, con una buona dose di ingenuità – il referendum per l’indipendenza nella Guinea di Sékou Touré, le iniziative panafricane di Kwame Nkrumah, le prime elezioni indonesiane, l’indipendenza e le prime elezioni in Birmania, paese in cui avevo vissuto un anno, e naturalmente le riforme agrarie nella Cina rivoluzionaria e le elezioni nazionali in India.

Il contesto intellettuale e politico del successivo disincanto merita un breve riassunto. Alla fine degli anni Sessanta insegnavo alla University of Wisconsin. Madison era teatro di continue manifestazioni studentesche contro la guerra in Vietnam, a partire dall’impegno teso a impedire alla Dow Chemical, produttrice del napalm, di reclutare nel campus. Con il mio collega e mentore Edward Friedman, tenevo un affollato corso di lezioni sulle «rivoluzioni contadine». L’aula era stipata di quasi quattrocento studenti, per i quali la posta in gioco non era affatto irrilevante dato che nel 1965 c’era la leva obbligatoria. Per gran parte di loro, la nostra impostazione non era abbastanza progressista. Alla fine di ogni lezione gli studenti sgomitavano per impadronirsi dei microfoni e contestarci, e a decine si riunivano a preparare quattro o cinque pagine di contro-argomentazioni da distribuire ai compagni alla lezione successiva. La politica era importante, e tenere una lezione in quelle condizioni era al tempo stesso esaltante e (così sembrava allora) scoraggiante. Fu, tanto per i docenti quanto per gli studenti, un apprendistato d’urto sulla rivoluzione – con l’enfasi sull’urto.

Il disincanto assunse due forme: l’indagine storica e gli eventi contemporanei. Mi resi conto – e avrei dovuto arrivarci prima – che virtualmente ogni grande rivoluzione vittoriosa finiva per creare uno Stato più potente di quello che aveva abbattuto, uno Stato capace a quel punto di estrarre più risorse dalla stessa popolazione al cui servizio si sarebbe dovuto mettere. La Rivoluzione francese aveva portato al Termidoro e poi al precoce e bellicoso Stato napoleonico. La Rivoluzione d’Ottobre in Russia portò alla dittatura leninista del partito d’avanguardia e poi alla repressione degli scioperi dei marinai e operai di Kronštadt, alla collettivizzazione forzata e ai gulag. Se l’Ancien Régime si era retto su brutali disuguaglianze feudali, gli effetti delle rivoluzioni apparivano altrettanto scoraggianti. Non soltanto lo Stato rivoluzionario riusciva a imporsi con una presa sulla società che governava ancora più ferma del predecessore, ma le aspirazioni popolari che avevano fornito l’energia e il coraggio per la vittoria della rivoluzione venivano, in ogni lettura di lungo termine, quasi inevitabilmente tradite. La Rivoluzione messicana fu una significativa eccezione, nel senso che i contadini riuscirono perlomeno a tenersi le terre che avevano strappato alle haciendas.

Gli eventi allora in corso non erano meno inquietanti sul fronte di ciò che le rivoluzioni contemporanee significavano per la classe più vasta nella storia mondiale: i contadini. I Viet Minh, saliti al potere nel Vietnam del Nord dopo la Conferenza di Ginevra del 1954, avevano spietatamente represso una rivolta popolare di piccoli proprietari e agricoltori indipendenti nelle stesse regioni che erano state i focolai storici delle sollevazioni contadine. In Cina diventò evidente che il Grande Balzo in Avanti – nel corso del quale, messa a tacere l’opposizione, Mao costrinse milioni di contadini in vaste comuni agrarie e mense collettive – stava avendo risultati catastrofici. Gli studiosi e gli esperti di statistica discutono ancora dei costi umani inflitti tra il 1958 e il 1962, ma è improbabile che le vittime siano state meno di trentacinque milioni (grosso modo la popolazione attuale del Canada). E proprio nel momento in cui si riconoscevano i costi umani del Grande Balzo in Avanti, le notizie spaventose di carestie ed esecuzioni nella Cambogia dei Khmer rossi completavano un quadro di rivoluzioni contadine degenerate in repressioni letali.

Dunque la delusione non era tanto rispetto ai contadini ma rispetto a coloro che si erano impadroniti del potere, spesso a loro nome e con il loro sostegno, per poi imporre con la forza forme utopiche di collettivizzazione su quella medesima classe. È possibile che sia i contadini sia le élite rivoluzionarie nutrissero delle aspettative utopiche di un nuovo ordine, ma era evidente che le rispettive visioni dell’utopia divergevano in modo radicale.

Chi ha familiarità con quel periodo ricorderà che si assistette anche al primo boom degli studi sullo sviluppo e dell’inedita economia dello sviluppo. Se le élite rivoluzionarie avevano immaginato vasti progetti di ingegneria sociale nella vena collettivistica, gli specialisti dello sviluppo confidavano con pari certezza nella propria capacità di creare crescita economica con l’ingegneria delle forme di proprietà, la promozione della salute pubblica, gli investimenti nell’infrastruttura dei mercati, l’offerta di credito e, quando necessario per competere con i rivoluzionari di sinistra, persino (modeste) ridistribuzioni delle terre. I praticanti dell’arte dello sviluppo, sebbene spesso animati da un personale desiderio di espandere il benessere umano, durante la Guerra Fredda furono di fatto reclutati in uno sforzo controrivoluzionario di portata mondiale il cui scopo era frenare l’avanzata del comunismo. Di solito la ridistribuzione delle terre – la chiave per la sussistenza nei paesi poveri – è anatema per le economie liberali, e non a caso venne attuata solo come extrema ratio durante la Guerra Fredda. Ed è un dato diagnostico che, una volta caduto il Muro di Berlino e crollato il blocco sovietico, la riforma agraria scomparve del tutto dalle agende di USAID e della Banca Mondiale. Avendo nutrito fin dall’inizio scarse illusioni sugli scopi e i limiti dell’economia dello sviluppo, non posso dire di essere rimasto deluso.

 

Che cosa vogliono i contadini?

Essendomi gettato nello studio delle guerre contadine di liberazione nazionale, mi trovai sempre più a leggere di vita contadina, organizzazione dei villaggi, credenze popolari, feudalesimo, pratiche agricole dei piccoli proprietari, strutture familiari, mezzadria e bracciantato, religioni agrarie. In un certo senso, fu allora che trassi la logica conclusione indicata dalla mia traiettoria intellettuale. Posta la mia scarsa fede nelle capacità dello Stato rivoluzionario o dell’establishment dello sviluppo di servire gli interessi e le aspirazioni dei contadini, decisi di dedicarmi a uno studio approfondito dei ceti agrari nel Sudest asiatico e altrove.

L’obiettivo sembrava meritevole: una carriera accademica incentrata sulla comprensione di contadini e agricoltori. Non soltanto rappresentavano, allora, la maggioranza dell’umanità, ma sono a tutt’oggi la classe più numerosa in pressoché tutti i paesi poveri: a dispetto di tassi senza precedenti di urbanizzazione, esistono più contadini oggi che mezzo secolo fa. Si riteneva inoltre che la classe contadina – anche quando indicata dai rivoluzionari come «massa» contadina, quasi che contasse solo il suo peso numerico – rappresentasse l’anima di una nazione, ne incarnasse la cultura, lo spirito e il futuro. Retorica a parte, se le rivoluzioni non erano in grado di soddisfarne le aspirazioni e le esigenze, allora non c’era altro da dire. Il benessere e la dignità della classe contadina – era questo il mio ragionamento – dovevano essere il basilare metro di giudizio per la valutazione di qualsiasi ordine economico e politico. Partendo da questa premessa, mi impegnai a indagare rivolte e rivoluzioni attenendomi il più strettamente possibile alla prospettiva dei contadini. Per mia fortuna potevo contare sull’aiuto di molti grandi studiosi di vita agraria e movimenti contadini ai cui piedi continuo a sedere. Tra questi, Marc Bloch, Aleksandr V. Cajanov, Barrington Moore Jr., E.P. Thompson, Eric Wolf, Fei Hsiao-tung, Eric Hobsbawm, Clifford Geertz, Carl Landé, R.H. Tawney e Charles Tilly. Il mio lavoro dipende in larga parte dalle loro intuizioni e dalle domande che posero.

È impossibile immergersi in questa letteratura senza concluderne che esiste un enorme divario tra le politiche delle élite urbane da una parte e i coltivatori rurali dall’altra. Anche quando condividono una lingua e una cultura in senso lato, è come se parlassero dialetti reciprocamente inintelligibili. Persino quando in teoria partecipano allo stesso movimento nazionalista, alla stessa fede religiosa, allo stesso partito politico o alla stessa rivoluzione, è probabile che le rispettive poste in gioco, i rispettivi interessi e intenti, divergano in misura significativa. Gli storici e i giornalisti scrivono la storia perlopiù dai grandi centri urbani e dalla prospettiva delle élite alfabetizzate. In genere la popolazione rurale viene vista come il destinatario più o meno passivo di progetti concepiti e implementati dall’alto. Se vengono alla ribalta, è solo quando sfondano la patina sottile di presunta placidità con rivolte, movimenti millenaristi, occupazioni di terre, incendi, e così via. Negli ultimi vent’anni circa, la massiccia migrazione della forza lavoro nazionale e internazionale ha determinato un notevole restringimento del «gap cosmopolita» urbano/rurale. Quando questo nuovo cosmopolitismo rurale viene apertamente mobilitato come forza politica, per esempio nella vittoria dell’opposizione a base rurale del luglio 2011 in Thailandia, il risultato non fa che mettere in luce le tensioni tra le classi popolari rurali e urbane da un lato e le élite della capitale dall’altro.

La seconda traiettoria delle mie ricerche era di provare a evidenziare con precisione le effettive differenze di stile, pratiche, valori e interessi tra la sfera delle politiche di villaggio e quella delle élite urbane. Proprio come nessuna cultura equivale a un’altra, così non esistono due luoghi tra loro identici; perciò tracciare i contorni esatti delle politiche rurali, viste nel loro insieme, richiede un’attenta etnografia. Esistono, tuttavia, alcune differenze generali tra le comunità agrarie e di villaggio e gli agglomerati urbani. Precisare alcune di queste differenze di massima ci permette di coglierne la grana, e di capire il motivo per cui molti degli strumenti concettuali dell’analisi sociale che risultano adeguati alle società industrializzate rischiano di portarci fuori strada se applicati ai villaggi rurali.

I villaggi sono comunità del faccia-a-faccia e, in quanto tali, respingono le astrazioni. I rapporti di classe, la cui concretezza è così dolorosamente tangibile in quasi tutti i contesti rurali, sono percepiti non tanto come categorie – per esempio, proprietari terrieri e contadini – quanto come persone concrete, con storie, famiglie, valori, idiosincrasie e caratteristiche individuali. I contadini sanno bene che esistono proprietari terrieri con interessi di classe in comune, ma questo specifico proprietario è unico, e il suo rapporto con fittavoli e braccianti sarà altrettanto particolare. Conoscono la sua famiglia, genitori e nonni compresi, che con ogni probabilità avrà una reputazione condivisa nel villaggio; sono al corrente dei suoi fatti e misfatti passati; sanno come lui li considera. Quel proprietario è più una personalità specifica (apprezzata o detestata) che un rappresentante della sua classe. È a lui che affibbieranno un nomignolo ed è di lui che rideranno alle spalle. E naturalmente anche il proprietario terriero conosce i suoi locatari «a tutto tondo» e non come astrazioni. L’uno e gli altri hanno una conoscenza reciproca ben più dettagliata di quella che intercorre tra il padrone e gli operai di una fabbrica. Come gli abitanti del villaggio francese protagonisti del romanzo La Terra di Zola, è probabile che siano al corrente degli averi di ciascuno fino all’ultimo articolo di biancheria da letto. Non si può parlare di rapporti e conflitti di classe in questo tipo di comunità senza tener conto del loro profondo radicamento nelle storie personali che li hanno plasmati.

In buona parte del Sud globale, gli agricoltori vivono in modo precario, al limite della sussistenza. Hanno poco o nulla in termini di riserve o risparmi che possano servire da garanzia in un periodo nero. La morte di un animale da tiro, una malattia invalidante durante la stagione di lavoro nei campi, la perdita di un raccolto o un crollo nei prezzi di ciò che coltivano, può spingerli oltre quel limite. Nella peggiore delle ipotesi, questo significava tradizionalmente denutrizione o addirittura morte per fame; nella migliore, la perdita delle terre e la susseguente dipendenza a vita da un parente, un proprietario terriero o un patrono per la sussistenza e la protezione. Un rovescio, allora come oggi, poteva anche determinare la frammentazione, temporanea o permanente, della famiglia. Oggi significa spesso la migrazione in un altro continente.

Gli esiti potenzialmente catastrofici di una cattiva annata fanno sì che la situazione di gran parte della popolazione rurale sia, nella frase memorabile di Tawney, quella «di un uomo che sta sempre con l’acqua alla gola, così che basta la minima increspatura sulla superficie ad annegarlo»1. Questo significa, in breve, che i contadini in una tale situazione sono caratterizzati da una netta avversione al rischio: si impegnano a minimizzare le probabilità di un qualunque fallimento economico, potenzialmente letale. Le conseguenze sul loro comportamento sociale ed economico sono pervasive. È probabile che seminino colture diverse in campi distinti, affinché la perdita di un raccolto sia meno devastante; sceglieranno colture con una resa costante, anche se modesta, invece che colture le cui rese sono in media più alte ma che hanno una tenuta più fragile; tipicamente punteranno su prodotti commestibili oltre che commerciabili. Preferiscono essere proprietari di un piccolo appezzamento piuttosto che fittavoli e, in modo analogo, fittavoli piuttosto che braccianti, poiché ogni gradino in discesa su quella scala rappresenta una perdita di sicurezza nella sussistenza, anche se, nelle annate buone, potrebbe fruttare di più. In ambito sociale, questa etica di sussistenza significa cercare di tenersi buoni parenti, vicini, proprietari terrieri e amici che, in caso di necessità, possono accorrere in tuo aiuto. Specularmente, significa anche estendere la medesima assistenza agli altri, quando possibile, nella consapevolezza che la prossima volta potresti esserci tu nei loro panni.

Quando si tratta di capire le politiche di una popolazione rurale che vive costantemente in bilico, sul filo del rasoio, va sempre tenuto presente che questa etica della sussistenza porta a giudicare gli accomodamenti sociali ed economici più per la loro capacità di proteggere da esiti catastrofici che per le loro caratteristiche di sfruttamento quantitativo (per esempio quanta parte del raccolto esige il proprietario terriero). Di conseguenza, un sistema di regime fondiario magari più oneroso che però, in un anno sfavorevole, riduce gli affitti ed estende il credito sarà più stabile di un sistema meno oneroso negli anni favorevoli ma implacabile in caso di perdita del raccolto. Similmente, un sistema fiscale che calibri i tributi in base alle fluttuazioni nella resa dei raccolti, e dunque nel reddito della popolazione, sarà meno detestato di un sistema, come l’imposta capitaria a somma fissa, che non tiene conto delle cattive annate. A parità di altre condizioni, ogni forma di riscossione che violi l’etica di sussistenza sarà politicamente più esplosiva delle forme di estrazione che, per quanto esose, moderano le proprie pretese nelle stagioni negative e dunque evitano le conseguenze sociali più disastrose. Uno dei motivi per cui gli Stati coloniali si trovarono spesso alle prese con rivolte contadine era proprio il fatto che promuovevano rapporti capitalistici di produzione e politiche di prelievo fiscale fisso sul reddito, soppiantando un sistema di estrazione certamente predatoria, ma necessariamente più flessibile (data la debolezza degli Stati precoloniali), con un altro che non lasciava margine alle esigenze di sussistenza.

L’importanza dell’etica di sussistenza nei contesti agrari poveri è un tema che ho sviluppato in modo piuttosto dettagliato nel mio The Moral Economy of the Peasant. Rebellion and Subsistence in South East Asia. Ma sarebbe fuorviante lasciare il lettore con l’impressione che si possano capire le implicazioni politiche della miseria semplicemente in termini di calorie, contanti o calcolo del rischio. Non credo sia possibile comprendere davvero le politiche delle classi subalterne di questo tipo se non le consideriamo anche come istanze locali di dignità e rispetto2.

Così come non si dà un’esperienza puramente astratta in una piccola comunità del faccia-a-faccia, parimenti non c’è esperienza di povertà che non sia socialmente e culturalmente incarnata. Ogni comunità presenta rituali che contrassegnano la posizione dell’individuo e della sua famiglia. Ci sono infatti standard minimi di condotta culturalmente accettabile per le feste di nozze, i funerali, i riti di passaggio e le celebrazioni religiose annuali. Non essere all’altezza di quei minimi equivale non soltanto a rivelare la propria indigenza, ma a scendere culturalmente sotto la soglia minima della cittadinanza e della posizione sociale. A suo modo, significa perdere la faccia e la piena appartenenza alla comunità. Nella comunità malese di coltivatori di riso in cui ho vissuto, la festività collettiva più importante era la fine del mese di digiuno islamico, celebrata dalle famiglie agiate con grandi banchetti cui venivano invitati tutti i parenti e i vicini. L’umiliazione più cocente per gli abitanti poveri del villaggio era la mancanza di mezzi per poter offrire quel genere di banchetti, ovvero il fatto di essere sempre gli ospiti, mai gli anfitrioni, di non poter contraccambiare. Molti di loro preferivano restare a casa piuttosto che subire la mortificazione di accettare cibo a quelle condizioni. Le nozze e soprattutto i funerali, data la loro imprevedibilità, potevano essere occasioni per accrescere il proprio status o per abbatterlo. Esisteva un livello minimo, condiviso da tutti, perché un matrimonio o un funerale, una bara o un banchetto, potessero essere considerati decorosi. Non disporre di quel minimo significava esporsi all’onta pubblica o al dileggio privato – oppure soccombere alla necessità di chiedere un prestito rovinoso o di vendere la terra per dimostrarsi all’altezza delle aspettative. Si capisce così anche come mai, nei contesti cristiani in cui i regali di Natale sono un simbolo di status sociale, le famiglie povere si indebitino fino al collo per procurare ai figli doni che attestino la propria posizione socioculturale nonostante siano economicamente disastrosi. In senso più lato, il possesso della terra, l’indipendenza economica o l’offerta di banchetti culturalmente accettabili non sono soltanto un indice del proprio reddito ma anche della propria reputazione sociale, del proprio status non servile. L’obiettivo dell’agire economico per gran parte dei poveri è il raggiungimento di una quota minima di agio e, soprattutto, di dignità culturale e rispetto di sé, non la massimizzazione della resa di ogni transazione.

Lo scopo del capitolo successivo è di esaminare le peculiarità legate alla classe, alla cultura e all’economia nei contesti agrari poveri. E come cercherò di dimostrare, comprendere le differenze essenziali tra le politiche rurali dei subalterni e le politiche urbane delle élite ci aiuterà anche a comprendere ciò che accade quando élite e classi contadine entrano in contatto, come alleate o avversarie, nei movimenti politici.


James C. Scott (Mount Holly 1936 – Durham 2024) è stato docente di Scienze politiche e di Antropologia nell’Università di Yale, ha fatto ricerca sul campo soprattutto nel Sud-est asiatico (non a caso parla anche birmano e indo-malese). Tra i principali esponenti della perestroika accademica, che nelle Scienze politiche ha portato a un riequilibrio tra gli studi di tipo quantitativo, preponderanti, e quelli di tipo qualitativo, ha pubblicato numerosi libri tradotti in tutto il mondo. In italiano sono usciti Le origini della civiltà. Una controstoria (2018) e L’arte di non essere governati. Storia anarchica degli altopiani del Sudest asiatico (2020) per Einaudi e Il dominio e l’arte della resistenza (2021 n.e.), Lo sguardo dello Stato (2019), Elogio dell’anarchismo (2022 n.e.) e L’infrapolitica dei senza potere (2024) per elèuthera. Nel 2005 la rivista «American Anthropologist» gli ha dedicato un numero speciale intitolato Moral Economies, State Spaces, and Categorical Violence e nel 2020 ha ricevuto l’Albert O. Hirschman Prize per il suo importante contributo interdisciplinare in antropologia, economia e storia. Tra una lezione e l’altra allevava pecore nella sua casa in Connecticut.


  1. R.H. Tawney, Land and Labour in China, Beacon Press, Boston 1966, p. 77. 

  2. I due capitoli che seguono uscirono in forma di saggio due anni dopo la pubblicazione di The Moral Economy of the Peasant e in particolare dopo la pubblicazione di The Rational Peasant, volume in cui Samuel Popkin contestava quel mio primo saggio. Credo che, allo scopo di creare un uomo di paglia, Popkin avesse intenzionalmente frainteso la mia argomentazione, dando a intendere che io vedessi i contadini come degli ingenui altruisti. Niente potrebbe essere più lontano dal vero. In quel saggio descrivevo i comportamenti razionali che un contadino, all’incombere di una possibile crisi di sussistenza, potrebbe adottare per minimizzare le perdite. Di fatto, il tipo di condotta descritto era perfettamente coerente con quello che un fautore della scelta razionale avrebbe potuto ipotizzare nella situazione esistenziale propria di un contadino. Anzi, tempo dopo, alcuni commentatori descrissero la mia argomentazione come una tesi di scelta razionale avant la lettre. In ogni caso i due libri venivano spesso accoppiati nei corsi universitari dedicati alla questione, perché sembravano partire dagli stessi dati, ma li interpretavano attraverso lenti analitiche diverse. La tesi che sostenevo in quei saggi era che gli accorgimenti sociali pensati per prevenire gli esiti peggiori acquisiscono, con l’andare del tempo, un valore normativo tale da essere assunti come diritti morali. Credo che le prove documentarie di questa dinamica siano schiaccianti. A dispetto della tentazione di rispondere al libro di Popkin con una puntuale critica della teoria della scelta razionale – un compito poi svolto da innumerevoli altri – decisi piuttosto di concentrarmi su un aspetto del mio The Moral Economy che a posteriori reputai carente, o quantomeno incompleto: l’aver trascurato gli aspetti religiosi e ideativi dei movimenti contadini. In altre parole, quel saggio presentava il ceto contadino come troppo freddo e lucido, e soprattutto avulso da quei valori religiosi che sono invece ben radicati nella cultura popolare. Dopotutto è stato solo dopo la Rivoluzione francese che in Occidente l’idea di rivoluzione ha cominciato a distaccarsi, e anche allora solo in modo tenue, dal pensiero religioso. Viceversa, per una gran parte del Sud globale mi sembrava che rivolta e religione popolare fossero inseparabili. Perciò, invece di rispondere alla critica di Popkin, decisi di occuparmi di quelle che io stesso ritenevo essere le lacune del mio scritto. Insomma, i due capitoli successivi sono stati la mia piccola forma di penitenza intellettuale per rispondere alle critiche che ritenevo il mio libro dovesse ricevere e che invece non aveva ricevuto! 

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Umano, troppo umano https://www.carmillaonline.com/2024/09/21/umano-troppo-umano/ Sat, 21 Sep 2024 05:00:12 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=84495 di Domenico Gallo

“Glory and life to the new flesh” David Cronenberg

Il numero 361 della prestigiosa rivista italiana di filosofia aut aut è stato intitolato “La condizione postumana”[1]. Uscita nel gennaio- marzo del 2014, la monografia curata da Giovanni Leghissa iniziava la sua profonda riflessione con due domande: “Siamo sicuri di sapere cosa sia l’umano? Disponiamo di definizioni condivise dell’umano?”  Interrogativi che sfacciatamente richiamano a un lavoro interdisciplinare e a camminare lungo i confini degli specialismi che si intersecano e che sfumano, confini che si deve percorrere se, analogamente, qualcuno chiedesse “cosa è la vita”, oggi che [...]]]> di Domenico Gallo

“Glory and life to the new flesh”
David Cronenberg

Il numero 361 della prestigiosa rivista italiana di filosofia aut aut è stato intitolato “La condizione postumana”[1]. Uscita nel gennaio- marzo del 2014, la monografia curata da Giovanni Leghissa iniziava la sua profonda riflessione con due domande: “Siamo sicuri di sapere cosa sia l’umano? Disponiamo di definizioni condivise dell’umano?”  Interrogativi che sfacciatamente richiamano a un lavoro interdisciplinare e a camminare lungo i confini degli specialismi che si intersecano e che sfumano, confini che si deve percorrere se, analogamente, qualcuno chiedesse “cosa è la vita”, oggi che creazioni/esseri artificiali si affacciano nelle nostre società? È possibile che la potente tradizione umanistica, intesa nel complesso di tutte le sue correnti, compresa quella marxista, sia partita da un postulato di unicità della specie umana e lo abbia mantenuto, seppure modificato, fino a oggi, affrontando prima i paradigmi darwiniani e, nel contemporaneo, la prospettiva trans-umana. Luigi Luca Cavalli Sforza spiega nel suo saggio L’evoluzione della cultura come la “cultura” sia “l’accumulo globale di conoscenze e di innovazioni, derivante dalla somma di contributi individuali trasmessi attraverso le generazioni e diffusi nel nostro gruppo sociale”[2]. Si è trattato di uno straordinario risultato dipeso da una capacità di comunicazione fra individui, anche di generazioni diverse, resa possibile dal linguaggio. L’evoluzione biologica degli umani e la trasmissione della cultura da una generazione alla successiva sono state caratterizzate, seppure espresse in periodi diversi, da similari meccanismi di mutazione e selezione. Analogamente le scienze si sono trovate di fronte sia a variazioni di caratteristiche biologiche, pur nell’ambito di homo sapiens, sia alla scoperta di variazioni culturali che, con la globalizzazione sono condannate a scomparire. È dunque impensabile pensare all’umano senza tenere conto che, oltre alle sue caratteristiche genetiche, le nuove generazioni ereditano una serie di elementi filosofici, scientifici, tecnici, linguistici e artistici sempre maggiore che costituisco un patrimonio ereditario che, a oggi, ha reso unico l’umano. “Il dispositivo corporeo è da sempre la più palpabile garanzia d’identità per l’essere umano, e il suo legame più immediato con la natura. È ben vero, infatti, che esso è sede di fenomeni tipicamente umani, di pratiche simboliche, di ritualità e relazioni; ma è altrettanto vero che partecipa della sostanza e della qualità del mondo all’uomo. […] Il corpo è essenzialmente un costrutto culturale, che viene vissuto dall’uomo secondo modalità immaginarie: esso patisce sempre, quindi, una determinazione sociale e tecnologica, e perciò, in ultima analisi, storica”[3]. Nel 1997, assieme ad Antonio Caronia, avevamo iniziato un’analisi di come la fantascienza contemporanea, il filone autoproclamatosi cyberpunk, fosse il linguaggio più efficace per descrivere le radicali trasformazioni che stavano travolgendo l’umano a seguito di una immersione radicale in un ambiente digitale ad alta interazione, con tecnologie protesiche associate a un sistema di memorizzazione e distribuzione dell’informazione estremamente evoluto e globale. Il saggio che ne era seguito, intitolato Houdini & Faust, a una lettura di oggi soffre di una serie di imprecisioni terminologiche proprio riguardo a termini quali uomo, umano, natura, artificiale. Erano parole che stavano mutando, prendendo atto che “tutta la storia dell’uomo si lascia descrivere come la storia della progressiva artificializzazione del suo corpo”[4], anzi eravamo convinti che l’umano fosse simbolicamente nato nel momento stesso in era avvenuto il transito tra l’assolutamente naturale e il primo artificiale. Non sappiamo se è stato l’uso di una pietra per offendere o difendersi da un aggressore, l’osso usato come clava immaginato nel film 2001: Odissea dello spazio di Stanley Kubrick o un’altra “riprogrammazione” di un oggetto casualmente a disposizione, ma la nascita dell’umano non può che essere coincisa con un’azione protesica, con l’uso di un oggetto come estensione e potenziamento del pugno o altro di simile. Questo utilizzo di oggetti per aumentare e migliorare la sopravvivenza di un individuo e del suo gruppo è stato probabilmente copiato e tramandato, estinto e riscoperto molte volte, fino a quando il meccanismo di eredità culturale descritto da Cavalli Sforza ha preso il sopravvento per diventare un’informazione ereditabile, e quindi permanente, nell’esistenza pratica degli umani. Se rileggiamo Marshall McLuhan relativamente all’invasione digitale e protesica, due aspetti dell’evoluzione tecnologica che non sono separabili ma intimamente connessi, constatiamo come ogni tecnologia disponibile non sia altro che un potenziamento e una specificazione di un’attività umana, e nulla delle tecnologie sviluppate e diffuse in ogni epoca può essere considerata come non umana o a-umana. “Tutti i media, dall’alfabeto fonetico al computer, sono estensioni dell’uomo che gli causano cambiamenti profondi e duraturi e trasformano il suo ambiente. L’estensione è un’intensificazione, un’amplificazione di un organo, un senso o una funzione, e dovunque essa abbia luogo il sistema nervoso centrale sembra originare un torpore auto-protettivo dell’area affetta, isolandola e anestetizzandola così dalla consapevolezza cosciente di ciò che le sta accadendo”[5]. Il progresso scientifico e i dispositivi diffusi a livello di massa hanno ha prodotto un progressivo avvicinamento tra l’umano e le tecnologie da lui prodotte, fino a portarlo in quella condizione che McLuhan descriveva come “un organismo che indossa il cervello furi dal cranio e i nervi fuori dalla pelle”[6]. Era il 1964, e quella che potremmo definire una visione originale della sociologia e dell’antropologia già preannunciava un mondo in un cui il concetto stesso di umano sarebbe stato posto in discussione, quasi provocatoriamente ad affermare che, a partire dalla sua origine nella valle del fiume Omo in Etiopia, fosse la prima volta che collettivamente e interdisciplinarmente si dovesse ragionare su cosa veramente volesse dire essere umani. Un’urgenza che era dettata dall’accelerazione folle con cui le tecnologie avevano iniziato a entrare nel corpo, rendendolo più forte e resistente, più longevo, più performante, più aggressivo, quindi potenziando l’aspetto fisico dell’umano, la sua durata, nell’idea che l’umano fosse una macchina bio-meccanica, ma, contemporaneamente, ampliando la sua sensorialità attraverso la disponibilità istantanea dei contenuti di banche dati globali, diffondendosi nelle reti, interagendo a distanza, comunicando istantaneamente in ogni punto del pianeta, ma anche manipolando, flettendo e falsificando la realtà come mai era riuscito a fare.

Riccardo Gramantieri offre con questo saggio un contributo al dibattito interdisciplinare che riesce a inquadrare l’arco temporale di un fenomeno culturale che spesso, e sbagliando, si è voluto collocare temporalmente negli ultimi decenni, quando l’accumularsi di tecnologie digitali e bio-meccaniche uscite dai laboratori e diffuse a livello di massa sono diventate elementi fondamentali della nuova quotidianità. La manifestazione in atto è il punto terminale di un complesso tragitto dell’immaginario che, a oggi, era ancora da definire completamente, anche se è stabilito che sia stata la fantascienza a costituirsi come laboratorio intellettuale in cui l’identità dell’umano ha sperimentato letterariamente la sua mobilità, l’accompagnarsi allo sviluppo della società in un legame imprescindibile. Gli anni Ottanta del Novecento sono stati caratterizzati da un lavoro collettivo sulla narrativa di fantascienza che cercava di comprendere il rapporto tra le produzioni dell’immaginario e le trasformazioni antropologiche provocate dal diffondersi di nuovi media, media da intendersi secondo la definizione di McLuhan, cioè il complesso delle tecnologie e non solo quelle della comunicazione, come invece è diventato patrimonio del linguaggio comune. Uno dei primi interventi è stato il breve saggio di Caronia intitolato Il cyborg. Saggio sull’uomo artificiale[7], uscito in prima edizione nel 1984 per l’editore Theoria, a cui sono seguiti altri due successivi ampliamenti con le edizioni Shake (2001, 2008). Caronia metteva in relazione la storia dei tentativi di sviluppare automi meccanici sempre più sofisticati con la fantascienza che prendeva origine dal Frankenstein di Mary Shelley, proseguiva nella narrativa popolare dei pulp statunitensi per poi evolversi nei modelli sempre più complessi di Philip K. Dick, Cordwainer Smith, Alice Sheldon e Samuel R. Delany. Uno degli elementi di novità dell’approccio usato ne Il cyborg da Caronia consisteva nel comprendere che la capacità elaborativa che produceva l’immaginario non era peculiarità esclusiva degli autori dotati di una maggiore qualità letteraria ma poteva essere presente anche nelle produzioni più semplici e immediate che potevano essere facilmente essere bollate di scarsa qualità letteraria. Non si trattava però dell’approccio sociologico introdotto da Umberto Eco in Apocalittici e integrati, che si rivolgeva ai prodotti di consumo o di evasione, ma che sembrava essere specifico della fantascienza e dei suoi meccanismi, e della sua specifica competenza di elaborazione attorno al rapporto tra l’umano e la macchina, tra l’umano e le strutture di potere che si avvalevano della tecnologia per reprimerlo, tra l’umano e i confini esterni e interni che gli si paravano davanti. Tra i molti interventi collettivi italiani che affrontano la fantascienza e il suo rapporto con le discipline della cultura, la Rivista di antropologia contemporanea ha dedicato un fascicolo monografico al rapporto tra antropologia e fantascienza; nell’intervento di apertura intitolato “Le meraviglie del possibile” viene introdotto il “desiderio di altrove”, tratto dall’intervista a Wu Ming come “nozione che ingloba un’idea di utopia e alterità possibile, in senso che è certamente politico ma va anche oltre, investendolo di dimensioni intellettuali ed esistenziali più ampie” [8], riconoscendo alla fantascienza quella peculiarità che James G. Ballard aveva sintetizzato definendola la letteratura del Ventesimo secolo.

Gramantieri dimostra quali radici profonde siano innervate nell’immaginario della modernità, per successivamente maturare negli elementi costituenti dell’immaginario della postmodernità, percorrendo un itinerario a ritroso su come un intero dizionario scientifico si sia progressivamente ibridato con la letteratura, seguendo in autonomia proprie strade che dai laboratori d’avanguardia dei primi dell’Ottocento sono transitate nei circoli intellettuali progressisti e conservatori per approdare, infine, alle rutilanti invenzioni immaginarie dell’epoca dei pulp statunitensi. È in questa esperienza editoriale che, assieme alla divulgazione scientifica, la narrativa poliziesca, l’esotico e il sovrannaturale, il romanzo d’avventure, l’epopea dello sviluppo industriale e civile statunitense, la fantascienza si sviluppa fino a diventare uno degli elementi portanti della cultura di massa del mondo occidentale. È una cultura che si associa a una profonda evoluzione del lavoro, sempre più a contatto con la macchina, sia per gli aspetti di produzione nelle assembly line, sia nell’evoluzione delle competenze artigianali in conoscenze tecniche specializzate necessarie nella ricerca e sviluppo come nella sempre maggiore richiesta di manutenzione degli impianti industriali. È un rapporto ambiguo e contraddittorio che vede la nascita di un proletariato industriale metropolitano, con un suo progetto di rivendicazioni salariali e sociali, che raccoglie paure, tensioni e speranze, un magma che la nuova classe dei tecnici, dei progettisti e degli studenti introietta, forse fraintende, ma che inizia a diventare egemone nell’immaginario dell’intero Novecento. Già nel 1931, un autore pulp di discreto successo, iniziava a raccontare la storia del professor Jameson, l’ultimo sopravvissuto della razza umana che, grazie a un intervento alieno che gli inserisce il cervello in un involucro metallico, lo rende immortale e in grado di viaggiare nel cosmo[9]. Così iniziava una serie articolata di racconti firmata da Neil R. Jones, nota come la serie degli Zoromi, e pubblicata sulla rivista Amazing Stories che, assieme ad altri esempi, contribuisce a diffondere verso milioni di lettori l’idea del cyborg e di un possibile futuro di interfacce e protesi. È una sensazione che molti stavano probabilmente provando all’interno delle nuove produzioni a base tecnologica in rapida diffusione, sperimentando con la lettura, una attività non più elitaria ma di massa, un rafforzamento delle emozioni che riguardavano la riduzione della distanza tra macchine e umani. La lunga vita dell’idea postumana, la complessa rete di scritture immaginarie scovate, classificate e correlate da questo lavoro di Gramantieri, che offre testi e connessioni inediti nel dibattito sul postumano, nell’idea condivisa di una condizione connaturata nella stessa evoluzione di homo sapiens, offre materiali e provocazioni per quell’aspetto che è chiamato trans-umanesimo, ovvero la possibilità di una rideterminazione dei rapporti di dominio che gli umani hanno costituito nei confronti dell’intero mondo, degli animali, delle pianti e degli oggetti. Secondo Ballard, in ogni epoca, la fantascienza è “l’unica forma letteraria che guardi in avanti. Tutte le altre forme in cui si esprime la letteratura sono rivolte al passato. Il loro carattere contraddistintivo è la visione retrospettiva, mentre la fantascienza utilizza il futuro per interpretare il presente piuttosto che attraverso il passato. Il vocabolario usato dalla fantascienza è quasi totalmente composto da elementi orientati al futuro, come le scienze, le tecnologie, lo sviluppo della politica, dei problemi sociali, della pubblicità e così via”[10]. Non deve quindi stupirci se nella fantascienza, all’interno del suo lavorio con cui affronta l’estrema mutabilità e le potenzialità del presente, ci offra visioni apparentemente contraddittorie che vanno a popolare un immaginario complesso in cui si intrecciano tensioni, speranze, disillusioni e paura, utopia e distopia, oppressione e rivolta, frustrazione e riscatto. È l’emergere nel quotidiano di prospettive radicali e di alterità in grado di modificare le esistenze rapidamente e senza controllo che porta a immaginare narrazioni devianti rispetto allo stato di cose presenti. Per questo motivo il diffondersi della “nuova carne” stimola prospettive di super umanità, di immortalità, di potenziamento fisico e psichico, di dominio del cosmo attraverso biologia radicale, trapianti e protesi, ma anche di una modifica del paradigma dell’umanesimo, visto che gli stessi progetti di potenziamento possono essere applicati ad animali, piante e oggetti. Una serie di creazioni artificiali ha travagliato l’immaginario, come automi, robot, replicanti, androidi, simulacri, intelligenze artificiali, ognuno di loro riproduceva, specializzava e potenziava una caratteristica umana, aiutando e sostituendo gli umani in disciplinate attività di produzione e guerra, ma anche indisciplinandosi, fino a darsi progetti propri e autonomi e, a volte, opporsi e combattere l’umano. La visione di Philip K. Dick è nota e descrive un mondo in cui macchine ed esseri artificiali assumono un aspetto umano e “sono animate da qualche sinistro proposito”[11], mentre gli umani, snaturati da un subdolo sistema dittatoriale e consumista, sono alienati fino a sminuire la propria vitalità e perdere la loro più preziosa caratteristica, l’anima. Per Dick, un mondo in cui esseri artificiali si evolvono fino a simulare una grottesca umanità e gli umani sono confusi e hanno perduto quella loro eccezionalità che gli proviene dalla volontà divina è un mondo orribile, è una distopia, ma la sua visione umanistica e conservatrice, per quanto eccezionalmente coniugata nei più importanti romanzi della fantascienza, si è incrinata di fronte alla critica “ironica ed empia” del pensiero femminista di Donna Haraway. Haraway prende molto seriamente il contributo della fantascienza all’interno del dibattito politico, proprio perché intende contestare radicalmente “le tradizioni religioso-secolari ed evangeliche della politica statunitense, non escluso il femminismo socialista”[12], scegliendo un punto di vista empio, blasfemo, verso quelle che sono considerate origini culturali incontestabili di un’integrità dell’umano, o dell’uomo, termine con cui la cultura del patriarcato intende comprendere umani maschi e femmine. Un’integrità dell’umano che evoca inevitabilmente una creazione originale e un’immutabilità da preservare. Allora una visione culturalmente empia consente di mettere il cyborg al centro di una realtà che non deve garantire un’ortodossia alle passate origini ma di una progettualità futura che sia ibrida, sporca, empia, ironica, creativa, capace di tenere insieme aspetti incompatibili. Dichiarando che “il confine tra fantascienza e realtà sociale è un’illusione ottica”[13], Haraway sembra suggerirci che discutere di politica, di filosofia e di antropologia attraverso la fantascienza può condurre a soluzioni innovative e capaci di superare “la tradizione del capitalismo razzista e fallocentrico”[14], un’idea che poneva l’umano (e in generale l’uomo) nella posizione privilegiata di appropriarsi della natura, dominare e sfruttare gli esseri e gli oggetti che ne fanno parte, mentre una figura come il cyborg (quello che noi stiamo, volenti o nolenti, diventando) è un individuo eterodosso di un mondo post-genere che non deve ubbidire a nessuna delle categorie della tradizione, ma creare da sé il proprio progetto individuale e collettivo. La condizione trans-umana può consistere nella riflessione su un mondo in cui oggetti e componenti vegetali e animali entrano nell’organicità dell’umano, al di là delle consuete esperienze dell’alimentazione, della respirazione e delle ulteriori interazioni classiche, modificandone singolarmente le funzionalità, l’aspetto, le percezioni, l’emotività, il pensiero, mentre oggetti, animali e piante assumono caratteristiche umane come un’intelligenza che può funzionare sul modello umano come secondo altri modelli. Leghissa propone di considerare questo processo come un’evoluzione possibile verso una serie di scelte etiche orientate a creare un rapporto da pari tra le diverse specie che “dovrebbe spingere l’uomo a intrattenere un diverso rapporto con l’animale”[15] (e con gli altri abitanti vegetali e minerali del pianeta). Una modifica, in analogia a quanto prefigurato nel Manifesto cyborg di Haraway, destinata a scardinare un ordine economico, politico ed etico che oggi identifichiamo nel patriarcato e nella sua applicazione delle gerarchie come metodo. Autrici come Ursula Le Guin e Alice Sheldon sono state le più efficaci critiche sia del determinismo biologico sia della scontatezza dei ruoli che caratterizzano il mondo globalizzato dal progetto occidentale, proponendo tra le più vivaci e impressionanti visioni altre, defamiliarizzando la realtà quotidiana in cerca di quei “vizi di forma” così significativi per Primo Levi e che sono stati alla base della sua straordinaria fantascienza.

Questo saggio è l’introduzione al volume di Riccardo Gramantieri, Presagi di Postumanesimo. Dal romanzo vittoriano all’epoca dei Pulp, Mimesis, pp. 568, euro 38,00 stampa.

[1] G. Leghissa (a cura di), La condizione postumana, aut aut 361, gennaio-marzo 2014, il Saggiatore, Milano 2014

[2] L.C. Cavalli Sforza, L’evoluzione della cultura, Codice Edizioni, Torino 2004 – 2016 p. 1

[3] A. Caronia e D. Gallo, Houdini e Faust: Breve storia del cyberpunk, Baldini&Castoldi, Milano 1997, p. 98

[4] A. Caronia e D. Gallo, op. cit., p. 98

[5] M. McLuhan, Intervista a Playboy, Franco Angeli, Milano 2013

[6] M. McLuhan, Gli strumenti del comunicare, Garzanti, Milano 2002, p. 68. Nell’edizione citata troviamo: “la tecnologia elettromagnetica richiede dall’uomo una docilità profonda e la quiete della meditazione, come s’addice a un organismo che ha ora il cervello fuori del cranio e i nervi fuori della pelle.” Si è preferito proporre una differente traduzione del testo originale.

[7] A. Caronia, Il cyborg: saggio sull’uomo artificiale, Shake, Milano 2008. Da diverso tempo penso che, forse, oggi Caronia avrebbe accettato di modificare il sottotitolo in Saggio sull’artificializzazione dell’umano.

[8] F. Dei, F. Dimpflmeier e F. Vietti, “Le meraviglie del possibile: antropologia e fantascienza”, in Rivista di antropologia contemporanea vol. 1, gennaio-giugno 2023, il Mulino, Bologna 2023, p. 6

[9] N. Z. Jones, “Il satellite di Jameson”, in I. Asimov (a cura di), Alba del domani: La fantascienza prima degli ‘Anni d’oro, Nord, Milano 1976

[10] J. G. Ballard, “1968: Uncredit. Munich Round Up. Interview with J.G. Ballard”, in S. Sellars and D. O’Hara. Extreme Metaphors: Interviews with J.G. Ballard 1967-2008, Fourth Estate, London 2012, p. 11

[11] P.K. Dick, “L’androide e l’umano”, in L. Sutin (a cura di), Philip K. Dick. Mutazioni: Scritti inediti, filosofici, autobiografici e letterari, Feltrinelli, Milano 1997, p. 225

[12] D. Haraway, “Un manifesto per Cyborg: Scienza, tecnologia e femminismo socialista nel tardo Ventesimo secolo”, in Manifesto Cyborg: Donne, tecnologie e biopolitiche del corpo, Feltrinelli, Milano 1995, p. 39

[13] D. Haraway, “Un manifesto per Cyborg: Scienza, tecnologia e femminismo socialista nel tardo Ventesimo secolo”, op. cit. p. 40

[14] D. Haraway, “Un manifesto per Cyborg: Scienza, tecnologia e femminismo socialista nel tardo Ventesimo secolo”, op. cit. 41

[15] G. Leghissa, “Premessa”, in G. Leghissa (a cura di), La condizione postumana, aut aut 361, gennaio-marzo 2014, il Saggiatore, Milano 2014, p. 7

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Avanti barbari!/2 – Estranei al centro https://www.carmillaonline.com/2024/08/14/estranei-al-centro/ Wed, 14 Aug 2024 20:00:50 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=83235 di Sandro Moiso

Amico, sono selvaggio e urlo ounga wawa Ounga ounga, la mia Glock punta la spia Ounga ounga, nigga wawawawa Ounga ounga, basta che non facciamo cazzate So di non essere integrato Cerco il mio interesse (PNL, Différents, Que la famille, 2015)

Mentre qualche commentatore si ostina a parlare di una convinta partecipazione dei giovani delle banlieue alla recente tornata elettorale con cui la Sinistra è riuscita a riconsegnare nelle mani di Macron il ruolo di ago della bilancia del governo, ignorando per altro che una percentuale di elettori arrivata al 67% degli aventi diritti al voto lascia [...]]]> di Sandro Moiso

Amico, sono selvaggio e urlo ounga wawa
Ounga ounga, la mia Glock punta la spia
Ounga ounga, nigga wawawawa
Ounga ounga, basta che non facciamo cazzate
So di non essere integrato
Cerco il mio interesse

(PNL, Différents, Que la famille, 2015)

Mentre qualche commentatore si ostina a parlare di una convinta partecipazione dei giovani delle banlieue alla recente tornata elettorale con cui la Sinistra è riuscita a riconsegnare nelle mani di Macron il ruolo di ago della bilancia del governo, ignorando per altro che una percentuale di elettori arrivata al 67% degli aventi diritti al voto lascia qualche perplessità sulla “grande mobilitazione popolare antifascista”, si è deciso di pubblicare qui di seguito un estratto da una delle due postfazioni poste a chiusura del testo di Gioacchino Toni e Paolo Lago, Spazi contesi, cinema e banlieue, edito da Milieu, 2024.

***

[…] Il conflitto moderno, almeno a partire dagli anni Sessanta del secolo scorso, si è sviluppato a partire dai quartieri periferici per terminare poi con occupazioni momentanee o assalti dei centri amministrativi e commerciali delle metropoli. Basti pensare all’importanza che ebbe la battaglia di corso Traiano a Torino, nel luglio 1969, nel determinare in seguito non solo lo sviluppo delle lotte operaie e delle avanguardie politiche interne al ciclo dell’auto e non della sola FIAT, ma anche le modalità della conduzione delle lotte stesse. Il ghetto degli immigrati recenti, il quartiere Mirafiori, si era trasformato nel centro della lotta e delle rivendicazioni, non solo operaiste o di fabbrica, che avrebbero caratterizzato gli anni successivi (occupazione di case, richiesta di servizi alle autorità amministrative locali e nazionali, ricostruzione di un tessuto sociale che, seppur distrutto nel Sud da cui molti partecipanti a quelle battaglie avevano dovuto allontanarsi per trovare lavoro, si era ricostituito su nuove e più moderne basi nelle periferie delle grandi città del Nord).

[…] Ciò che abbiamo visto, e vediamo avvenire, nelle attuali banlieue non è, tutto sommato, molto diverso, anche se con protagonisti e modalità nuove oltre che in un panorama politico, economico, nazionale e internazionale molto cambiato.

[…] Le illusioni dei padri e dei nonni degli attuali giovani banlieusards sull’integrazione attraverso il lavoro o la lotta sindacale, nonostante il conflitto coloniale franco-algerino che si era macchiato di crimini orrendi anche in terra di Francia, sono finite con la disoccupazione, il razzismo dilagante anche tra le classi lavoratrici francesi, la crescita demografica di algerini e magrebini che da sempre spaventa le classi medie, e non solo, bianche.

Ecco allora che il centro-città può essere soltanto più lo scenario per scorrerie “vandaliche” in cui, come è accaduto sempre più spesso negli ultimi anni, da Torino a Londra; durante le quali i giovani si appropriano della merce esposta nei negozi di lusso, rendendo esplicito ciò che Amitav Ghosh ha affermato, nel suo romanzo L’Isola dei fucili, a propositi del nuovo rapporto istituitosi tra nuovi migranti, o discendenti di tali, e Occidente.

I giovani migranti che avevo conosciuto non erano stati trasportati da un continente all’altro per diventare una rotella in un ingranaggio gigantesco che, come nel caso delle piantagioni, esisteva al solo scopo di appagare desideri altrui. Gli schiavi e i coolie lavoravano per produrre beni – la canna da zucchero, il tabacco, il caffè, il tè o la gomma -destinati alla madre patria dei colonizzatori. Erano i desideri, gli appetiti delle metropoli a spostare le persone da un continente all’altro. Allo scopo di sfornare a getto continuo le merci più richieste. In tale meccanismo gli schiavi erano produttori, non consumatori; per loro era impossibile concepire gli stessi desideri dei padroni.
Adesso invece ragazzi come Rafi, Tipu e Bilal volevano le stesse cose di chiunque altro: smartphone, computer, automobili. Né avrebbe potuto essere altrimenti: fin dall’infanzia, le immagini più allettanti che avevano visto non erano i fiumi o i campi che [un tempo – NdR] li circondavano, bensì gli oggetti sullo schermo dei loro cellulari.
Ora capivo perché i giovanotti arrabbiati sulle imbarcazioni intorno a noi avevano tanta paura di quel miserando barcone di rifugiati: quella minuscola imbarcazione simboleggiava il ribaltamento di un progetto secolare, decisivo per il formarsi dell’Europa. […] quel piccolo peschereccio simboleggiava il venir meno del secolare progetto che aveva garantito loro enormi privilegi. Dentro di sé sapevano che quei privilegi non gli sarebbero più stati garantiti dalle persone e dalle istituzioni in cui un tempo confidavano.
Il mondo era cambiato troppo, e troppo in fretta; i sistemi attualmente in vigore non obbedivano più ad alcun padrone umano, ma, imperscrutabili come demoni, seguivano imperativi tutti loro1.

Aggiungendo poi ancora nelle stesse pagine:

Fin dagli albori della tratta degli schiavi, le potenze imperiali europee avevano intrapreso il più grandioso e crudele esperimento di rimodellamento planetario che la storia avesse mai conosciuto: in nome del commercio, avevano spostato le persone fra i continenti su una scala quasi inimmaginabile, finendo per cambiare il profilo demografico dell’intero pianeta. Ma pur ripopolando altri continenti, avevano sempre cercato di preservare la bianchezza dei territori europei.
Adesso quel progetto veniva sovvertito: i sistemi e le tecnologie – dagli armamenti al monopolio delle informazioni – che avevano reso possibili quei giganteschi interventi demografici avevano ormai raggiunto la velocità di fuga, e nessuno li controllava più2.

Questa citazione letteraria serve a focalizzare l’attenzione sul tema vero che è sotteso alla narrazione delle rivolte delle banlieue oppure dell’azione urbana dei banlieusards: quella della scomparsa del centro. Inteso qui sia in senso urbanistico che politico-economico e geopolitico. Vediamo come e perché.

Mentre gli intellettuali a la Tomaso Montanari di turno piangono ancora sullo scempio delle città d’arte come Firenze ad opera del turismo digitalizzato di Airbnb, […] la distinzione classica tra centro e periferia è saltata definitivamente.
E’ fallita a livello geopolitico, in un mondo in cui la centralità dell’Occidente rispetto al resto del mondo si è andata lentamente, all’inizio, e poi sempre più rapidamente sgretolando come le cronache militari, politiche ed economiche degli ultimi anni (dal ritiro dall’Afghanistan fino alla guerra in Ucraina e alla crisi militare e umanitaria di Gaza) confermano quasi quotidianamente.

E’ fallita a livello tecnologico ed economico, in un mondo in cui lo sviluppo delle nuove tecnologie, soprattutto quelle digitali, non ha più un centro preciso di riferimento poiché tale produzione necessita di terre rare spesso in possesso quasi esclusivo di paesi terzi rispetto a quello che fino a pochi anni fa era ancora ritenuto il centro mondiale dell’innovazione tecnologica e scientifica, mentre gli sviluppatori delle stesse spesso si trovano in continenti posti “fuori” dal fortino bianco di provenienza dei marchi. Mentre gli stessi marchi occidentali sono ormai subissati in tutti gli ambiti da quelli di origine asiatica. Senza tener conto della rapida obsolescenza cui sono condannate tutte le novità proposte per tener vivo e competitivo il mercato delle stesse.

E’ fallita a livello statale, nel momento in cui ogni decisione dei parlamenti deve sottostare, soprattutto qui in Europa, a decisioni emanate da organismi sovranazionali e sovraparlamentari che rendono quasi inutili le farse elettorali e le inutili scelte tra destra, sinistra e novelli populismi. Tutti, una volta giunti al governo, egualmente ricattabili con la scusa della necessità di rispondere a parametri stabiliti sovranazionalmente.

E’ fallita a livello urbano, là dove la rivendicazione al diritto alla città ha perso negli anni un reale peso specifico, poiché ogni parte della città si è trasformata in ghetto. Ghetto per i turisti il centro urbano antico o d’arte, trasformato ormai in vetrina per merci di diverso valore, dal lusso alle miserie di H&M; ghetto per i ricchi nei quartieri residenziali sempre più esclusivi e separati dal resto della città; ghetto per le classi disagiate o medie impoverite tutto il resto.

Ma allora ha ancora senso parlare di ghetto, quando tutta la città, per un’infinità di motivi che sarebbe ancora qui troppo lungo elencare, ma in cui la mancanza di lavori regolari e regolarmente retribuiti gioca un ruolo fondamentale di trasformazione sociale, si è trasformata in un insieme di “ghetti”?

E in questa perdita di “centro” ha ancora senso parlare di “classe operaia” e della sua centralità?
Sono questi i temi sui quali il miglior cinema della banlieue obbliga a ragionare, avendone anticipato tempi, temi e sguardo sul “reale”.

In fin dei conti, nel film Athena, l’assedio e l’assalto militare della polizia al quartiere difeso dai giovani, che per primi avevano preso l’iniziativa assaltando le stazioni di polizia dopo l’ennesimo omicidio di un giovane magrebino, non ha forse anticipato simbolicamente tutto quanto è successo nella striscia di Gaza dopo il 7 ottobre 2023 e l’irriducibilità degli abitanti della Striscia?

E questa presa di coscienza, dei giovani protagonisti dei film citati, della distanza e della estraneità incolmabile che li separa dal centro urbano, economico e politico delle città in cui vivono, non produce forse una forma di identitarismo collettivo più ampio di quello caratterizzato dall’etnia, dalla politica oppure dalla religione che spinge milioni o miliardi di abitanti del cosiddetto Sud globale ad odiare sempre di più il Nord e il suo centralismo perduto?

Non sono forse questi “nuovi barbari”, tutt’altro che semplicemente ghettizzati come vorrebbe la pietà di stampo cristiano e liberal, i nuovi vampiri, come nel romanzo di Richard Matheson Io sono leggenda, destinati consapevolmente ad ereditare e contemporaneamente distruggere il vecchio ordine del mondo?

Un mondo in cui, ormai, centro e periferia si confondono anche in ordine di importanza, ma che non è capace di fare altro che continuare a mostrare la propria autentica barbarie, spesso travestita da ecumenismo, e il proprio autentico vampirismo nei confronti degli altri “mondi”, oggi decisamente più giovani e motivati nella loro furia e dal loro desiderio di riscatto.


  1. A. Ghosh, L’Isola dei fucili, Neri Pozza Editore, Vicenza 2019, pp. 307-309.  

  2. A. Ghosh, op. cit., p. 308.  

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Le radiazioni atomiche del dottor Frankenstein https://www.carmillaonline.com/2024/06/22/le-radiazioni-atomiche-del-dottor-frankenstein/ Sat, 22 Jun 2024 20:00:33 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=82891 di Franco Pezzini

È appena uscito il volume di Ginevra Ballati e Iacopo Cassigoli, Per i nostri voli interplanetari. Disastri atomici, UFO e inquietudini spaziali tra arte, letteratura del secondo Dopoguerra e immaginario pop, pp. 160, volume con immagini a colori, € 20,81, UrsaMaior, Pistoia 2024. Quella che segue è la mia introduzione. F.P.

1958: in una fase di continui richiami all’energia atomica come rischio e insieme potenzialità esce il film Frankenstein 1970 di Howard W. Koch – una pellicola di fantascienza orrifica certamente minore ma di notevole interesse simbolico. Il barone Victor von Frankenstein sta continuando la sua attività di scienziato [...]]]> di Franco Pezzini

È appena uscito il volume di Ginevra Ballati e Iacopo Cassigoli, Per i nostri voli interplanetari. Disastri atomici, UFO e inquietudini spaziali tra arte, letteratura del secondo Dopoguerra e immaginario pop, pp. 160, volume con immagini a colori, € 20,81, UrsaMaior, Pistoia 2024. Quella che segue è la mia introduzione. F.P.

1958: in una fase di continui richiami all’energia atomica come rischio e insieme potenzialità esce il film Frankenstein 1970 di Howard W. Koch – una pellicola di fantascienza orrifica certamente minore ma di notevole interesse simbolico. Il barone Victor von Frankenstein sta continuando la sua attività di scienziato dopo le traumatiche vicissitudini patite sotto il nazismo, quando era stato torturato e sfigurato per il suo rifiuto di collaborare. La guerra è finita da anni, e ora per motivi economici il barone permette a una troupe televisiva di girare un horror sulla sua storia familiare (i grandi costruttori di mostri del passato) nel proprio castello in Germania.

Il fatto è che anche lui, come gli antenati, vagheggia di portare in vita una creatura. Per questo si è procurato un reattore atomico, ma per i corpi deve ricorrere ai soliti vecchi sistemi: e avvia dunque la disinvolta mattanza della squadra televisiva. Ovviamente la creatura si rivolterà contro il barone, ed entrambi periranno per un incidente al reattore. Scese le radiazioni a livelli di sicurezza, emergerà infine che sotto le bende il mostro ha lo stesso viso del barone, e avrebbe dovuto perpetuare l’esistenza dell’ultimo epigono della stirpe Frankenstein.

Come detto, a parte l’indubbio divertimento, la pellicola è interessante a livello di simboli e implicazioni. Anzitutto il barone è interpretato da Boris Karloff, il più leggendario interprete della creatura (anzi, del Mostro, come si usa dire nel cinema americano) in film consegnati all’immaginario planetario dalla stagione d’oro Universal, attraverso la produzione geniale e poetica postespressionista degli anni Trenta e quella più popolare e folle dei Quaranta: l’agnizione finale che il volto sia quello di Karloff non costituisce dunque solo un Amarcord, ma una sorta di garbata rivendicazione entro una storia che parla (non casualmente) di riprese video e di troupe. Il mostro della Universal è quello del baraccone delle meraviglie, il gangster dell’anima latore delle ambiguità del Vecchio Mondo, l’impressionante e fiabesca anomalia in un onirico e freudiano bianco e nero che minaccia la società – in particolare qualche giovane coppia pegno del futuro – e dovrà scomparire in un incidente clamoroso. Dal fondo ora di un film indipendente come Frankenstein 1970, Karloff ammicca a quei fasti passati ormai acquisiti da un fandom ultrapopolare e giovanissimo da drive-in, che trova il suo santo protettore nell’incredibile Forrest James Ackerman e ha appena visto inanellarsi surreali naïveté come I Was a Teenage Werewolf di Gene Fowler Jr. e I Was a Teenage Frankenstein di Herbert L. Strock, entrambi 1957 (a fronte dei quali il film con Karloff presenta ovviamente un’altra dignità).

Il fatto è che negli Stati Uniti degli anni Cinquanta, sull’onda della Guerra fredda, i vecchi mostri del gotico sono stati archiviati per lasciar spazio ai raggelanti alieni del Pianeta Rosso (comunista), a qualche mostruosità avventurosa da fronteggiare con la scienza invece che con l’occulto (il birichino sciupafemmine uomo pesce della Laguna Nera, 1954-56, alcuni gotici “riconvertiti”) e a un linguaggio di tipo fantascientifico.

Ma sta succedendo dell’altro: l’Inghilterra si sta riprendendo il gotico con le mitologiche riscritture Hammer delle saghe di Frankenstein (1957) e Dracula (1958), con Peter Cushing e Christopher Lee, per la regia di Terence Fisher e la sceneggiatura di Jimmy Sangster – e con loro cambia tutto. Il mostro diventa una figura impastata delle ambiguità sociali di tutto un mondo circostante (nella saga di Frankenstein il vero mostro è il barone, che però spicca da titano sull’odiosa società intorno); e se c’è un eroe non è più il giovanotto facciafresca di un’America che ostenta ottimismo, ma un uomo maturo e segnato dalla vita, affidabilmente british anche quando porta il cognome olandese Van Helsing. Il lavoro della Hammer, col miracolo di una piccola casa di produzione che subentra al colosso Universal nel dettare gli incubi a tutto il pianeta, avrà un peso non relativizzabile nell’immaginario – con curiosi cortocircuiti tra manti neri vampireschi e minigonne della Swinging London – e contribuirà all’innesco dello stesso revival magico dei Settanta. Inizia così una nuova stagione del gotico su schermo (ora in costume ottocentesco e a colori, sangue compreso) e Frankenstein 1970 con le sue radiazioni atomiche è il canto del cigno della vecchia.

Mary Shelley aveva probabilmente immaginato il materiale tecnico necessario allo studente (giovanissimo e borghese, non barone) Victor Frankenstein come un paio di borse di attrezzature galvaniche, che il giovanotto si porterà a zonzo per l’Europa assieme ai pezzi anatomici; ma già le prime liberissime trasposizioni teatrali avevano piazzato sulla scena istallazioni ingombranti come negli opifici della rivoluzione industriale. La stessa autrice, nell’edizione definitiva 1831, mostrerà di recepire questi spunti. Che, trasposizione dopo trasposizione, con attrezzature sempre più incontrollabilmente steampunk, alla fine si arrivi all’energia atomica non è dunque strano.

Del resto, radiazioni atomiche recheranno conseguenze impreviste anche nei laboratori del film giapponese Furankenshutain tai Baragon, letteralmente “Frankenstein contro il Baragon”, in Italia Frankenstein alla conquista della Terra) di Ishirō Honda, 1965. Lì il superuomo da guerra progettato da scienziati tedeschi nel secondo conflitto, e a distanza di anni realizzato dai giapponesi, diventa il mostro di Frankenstein e ingigantisce accidentalmente per effetto delle radiazioni: finirà utilizzato per fronteggiare l’ennesimo collega di Godzilla, il kaijū (cioè “mostro radioattivo”) Baragon emerso da un tempio maledetto a minacciare il Sol Levante… In un paese che cerca di metabolizzare il trauma di Hiroshima e Nagasaki, c’è qualcosa di un po’ disturbante che il feticcio pop sia il caposaldo di un’intera stirpe di mostri che flirta con l’atomica.

Siamo ormai approdati all’immaginario su Godzilla (o più filologicamente Gojira), e all’ultima parte dell’originalissimo lavoro di Ginevra Ballati e Iacopo Cassigoli che a partire dalle provocazioni sullo spazio tra Movimento Spazialista e Movimento Nucleare, trasmissioni nell’etere e dischi volanti, arte interplanetaria e radiazioni cosmiche, minacce atomiche e Eaismo, infinitamente piccolo dell’atomo e infinitamente grande degli spazi, porta su e giù – come è prezioso fare – tra cultura “alta” e “bassa”, arte e fantascienza, cronaca e affabulazione – una serie di parole d’ordine, e finisce con l’implicare una lunghissima storia immaginale. Una storia collettiva, ma in fondo anche personale di quanti, come il sottoscritto, siano figli del boom economico e in quell’orizzonte hanno visto svilupparsi una serie di miti d’epoca qui ben evocati.

 

La televisione richiamata in Frankenstein 1970 è quella del resto tanto importante per la nostra generazione: e lo spoglio del materiale del Radiocorriere TV (oggi meritevolmente riproposto online) mi permette di collocare al 1972 nell’ambito della serie Realtà e fantasia la programmazione alla TV del ragazzi del film giapponese Atragon del già citato Ishirō Honda, 1963, che avrebbe molto colpito la mia immaginazione. Atragon – probabilmente da “drago atomico”, il tipo di sottomarino in questione – mostrava l’epico scontro tra l’incredibile sottomarino Gotengo in grado di muoversi anche nella terra o nell’aria, e sottratto a fine guerra dall’irriducibile capitano Hachiro Jinguji (Jun Tazaki) per riscattare l’onore del Giappone, e il redivivo impero di Mu, attualmente sommerso, che ça va sans dire mira a conquistare il mondo. Di qui la concitata tagline giapponese “Il temuto regno sottomarino sfida la superficie! La risposta d’emergenza della corazzata atomica multiuso!”, nell’ambito di una storia godibilissima dove non manca il solito kaijū, in questo caso il serpentiforme Manda, dio e custode di Mu (in seguito integrato nella saga di Godzilla). A commentare il film al passaggio in Rai erano stati il geofisico Antonio Rapolla dell’Università di Napoli, il direttore generale della Tecnomare Giuseppe Muscarella e il titano dell’orizzonte che questo libro andrà a scandagliare, il giornalista esperto di misteri e mondi perduti Peter Kolosimo.

Ma quella storia di energia atomica volta a scopi difensivi contro un nemico di tutti i popoli della terra emersa – i Mu di un’imperatrice cattivissima – presentava anche un altro abbinamento significativo di quella temperie culturale: quello tra un futuro estremamente avanzato e tempi passati non solo recenti (gli echi del secondo conflitto mondiale) ma anche molto remoti. Ecco così Kolosimo che parla dei continenti scomparsi Atlantide, Mu e Lemuria in libri che più generazioni divoreranno e portatori eventuali di tecnologie avanzatissime (anche Atlantide, il continente perduto di George Pal, 1961, metteva in scena sommergibili e un’arma dalla distruttività similnucleare); ecco i dischi volanti della clipeologia, il sottosettore dell’ufologia attento ai presunti contatti con oggetti volanti nel passato, tanto florida a Torino negli anni Sessanta (quando nel 1964 vi viene fondata la rivista «Clypeus»); ecco un’archeologia che flirta con lo spiritismo (a suon di rivelazioni di spiriti egizi o etruschi). Però i rivoli sono tanti: pensiamo a un libro come Il mattino dei maghi di Louis Pauwels e Jacques Bergier, 1960, in Italia 1963, con le sue riflessioni sulle tecnologie perdute, o al lavoro sul linguaggio fantastico del gruppo torinese Surfanta nato nel 1964. E attraverso una serie di maree culturali nella risacca della Guerra fredda, la voglia di mistero si declina in forme ora parascientifiche (archeologia misteriosa, ufologia, parapsicologia…), ora occultistiche (sotto il velo della cultura ufficiale nei lunari anni Sessanta – a usare l’aggettivo di un bel saggio di Fabio Camilletti –, ma pronte a eruttare fuori col grande revival magico dei Settanta). Un’ondata di pubblicazioni emerge negli Stati Uniti, in Francia, in Italia, e sui rotocalchi spuntano come funghi lisergici articoli su questi temi…

La televisione – oggetto-simbolo del viaggio nell’etere – registra le aperture d’epoca, la nuova frontiera e le sue varie declinazioni, sia per adulti (si pensi a Sapere, ricchissimo programma di divulgazione scientifica varato da Giovan Battista Zorzoli, e trasmesso 1967-1976, che non disdegna i risvolti pop), sia per ragazzi (per esempio Spazio – Il settimanale dei più giovani, a cura di Mario Maffucci – dove già il titolo suona indicativo).

Ed è in fondo la televisione, con buona pace dei cospirazionisti, a renderci partecipi di un evento epocale come lo sbarco sulla luna. Preceduto da fiumi di dirette alle quali assistevo (non a quella a notte fonda dell’allunaggio, domenica 20 luglio 1969, ma ricordo l’indomani mattina l’acquisto del giornale con i titoloni alla piccola edicola di quartiere), renderà lo spazio qualcosa di più concreto per gli spettatori. E stabilirà una sorta di paradigma del modo di interrogarsi dell’uomo dell’età atomica: come lo sintetizza la rivista «Epoca», varando nel 1972 la storica serie di inserti Gli uomini del mistero (primo numero su Nostradamus), “Perché nell’era spaziale rinasce l’interesse per maghi, veggenti e alchimisti?”. È l’avvio del grande revival magico, più o meno coevo allo sbarco sulla luna ma anche al Sessantotto e alla rivoluzione sessuale.

E intanto, tra manifesti, esperimenti, suggestioni l’arte – nelle sue varie declinazioni – è attenta a cogliere le energie d’epoca: Buzzati, Fellini, Giorgio Monicelli fondatore di «Urania», Calvino, David Bowie, Flaiano, Zanzotto, e tanti altri (fino idealmente ai Wu Ming di Ufo 78, 2022), contribuiscono con il loro lavoro a un immaginario che media tra il panico legato al rischio d’un cataclisma atomico e l’ottimismo sotteso a un’epoca ancora in grado di coniugare al tempo futuro. Fin nell’uso innovativo di termini come spazio o nucleare.

Poi certo, come mostrano Ballati e Cassigoli, una serie di suggestioni era assai precedente, fin dall’origine della Guerra fredda: il Movimento Spazialista era nato nel 1946 attorno alla personalità di Lucio Fontana, il primo manifesto in italiano era stato redatto nel 1947, nel 1948 è seguito il secondo, nel 1950 il terzo, e nel 1952 il Manifesto del Movimento spaziale per la televisione. A collocare queste intuizioni all’inizio della confusa e diramatissima storia fin qui abbozzata, che con i conflitti culturali della Guerra fredda ha molto a che vedere e condurrà a strascichi imprevisti: come quando nel 1977, sull’onda del fortunato filone anticristico del primo The Omen dell’anno prima, esce Holocaust 2000 di Alberto De Martino – che associa all’Anticristo nientemeno che la costruzione di una fatale e gigantesca centrale termonucleare.

Si riserva dunque agli autori la libertà (rigorosa) di articolare il discorso con l’originalissimo taglio che da Fontana traghetta a Godzilla. E intanto ci lasciamo portare dall’affascinante esperienza di un viaggio che per molti di noi recupera almeno scampoli di un passato amato e remoto.

Torino, maggio 2024

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La notte della svastica di Katharine Burdekin https://www.carmillaonline.com/2023/12/26/la-notte-della-svastica-di-katharine-burdekin/ Tue, 26 Dec 2023 06:00:18 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=80379 di Domenico Gallo

nota all’edizione Sellerio 2020

“Nel paradosso si rivela la realtà”, così scriveva Friedrich Dürrenmatt ne I fisici, e leggendo La notte della svastica a più ottant’anni dalla sua prima pubblicazione, oltre a un profondo senso di sgomento e di disagio, non si può che cogliere la profonda verità incernierata dietro la più assoluta e tragica delle fantasie. Possiamo solo immaginare le reazioni imbarazzate dei lettori dell’epoca quando il romanzo, sotto lo pseudonimo maschile di Murray Constantine, viene pubblicato dall’editore socialista Victor Gollancz nel 1937 con una severa copertina gialla. Sotto il titolo, poche righe in grassetto descrivono l’ambientazione [...]]]> di Domenico Gallo

nota all’edizione Sellerio 2020

“Nel paradosso si rivela la realtà”, così scriveva Friedrich Dürrenmatt ne I fisici, e leggendo La notte della svastica a più ottant’anni dalla sua prima pubblicazione, oltre a un profondo senso di sgomento e di disagio, non si può che cogliere la profonda verità incernierata dietro la più assoluta e tragica delle fantasie. Possiamo solo immaginare le reazioni imbarazzate dei lettori dell’epoca quando il romanzo, sotto lo pseudonimo maschile di Murray Constantine, viene pubblicato dall’editore socialista Victor Gollancz nel 1937 con una severa copertina gialla. Sotto il titolo, poche righe in grassetto descrivono l’ambientazione futuribile: “Siamo nel settimo secolo dell’era hitleriana. L’impero nazista si estende per tutta l’Europa e l’Africa, mentre l’impero giapponese copre l’Asia e l’America. La civiltà è stata annientata da secoli. La religione si è ridotta al culto del Dio del Tuono”. Le collane di Gollancz erano improntate da una aperta militanza e intendevano documentare la vita e le difficoltà delle classi lavoratrici. La prima edizione de La notte della svastica è in catalogo assieme a romanzi impegnati come La strada di Wigan Pier, il romanzo di George Orwell dedicato alla condizione dei minatori, e un capolavoro popolare come La cittadella di A.J. Cronin. Contemporaneamente nella collana Left Book Club Edition di Gollancz vengono pubblicate opere politiche come Spanish Testament di Arthur Koestler e Stella rossa sulla Cina di Edgar Snow, per i lettori di sinistra. Nell’Inghilterra che sta per essere trascinata nel conflitto mondiale le divisioni sociali sono aspre e le notizie provenienti da Italia, Germania e Spagna mettono irrimediabilmente a fuoco la complessità e la versatilità del fascismo europeo. Angosce che, contemporaneamente, si scontrano con la profonda avversione verso lo stalinismo di autori come Orwell e Koestler. Nel 1940, in pieno conflitto mondiale, La notte della svastica trova una nuova edizione nel Left Book Club Edition, i libri dalla copertina rossa, raggiungendo così un grande numero di abbonati della sinistra britannica; poi questo libro troppo difficile scompare dal mondo editoriale.

Dobbiamo a Daphne Patai, studiosa statunitense dell’utopia e della cultura delle donne, il primo e più importante contributo alla comprensione di questo suo strano e sgradevole romanzo che è La notte della svastica. L’introduzione alla riedizione critica del romanzo del 1985 chiarisce a lettori e studiosi che Murray Constantine è lo pseudonimo di una scrittrice che aveva al suo attivo altri romanzi, e lo pseudonimo maschile lascia finalmente il posto al nome femminile di Katharine.

Katharine Burdekin, in realtà, era Katharine Penelope Cade, una donna nata nel 1896 in un piccolo centro del Derbyshire nel nord dell’Inghilterra, in una famiglia benestante ed la più giovane di quattro tra fratelli e sorelle. La sua infanzia si divide tra lo studio, le molte letture e l’impegno volontario nella Red Cross. Nonostante fosse una studentessa molto capace, la sua famiglia non le concesse di iscriversi a Oxford come i fratelli maschi, ma lo scoppio della guerra irrompe violentemente nella sua vita. Il fratello viene arruolato assieme un amico australiano, il campione di canottaggio e medaglia d’argento olimpica Beaufort Burdekin. Beaufort viene ferito in battaglia e rientrato temporaneamente in Inghilterra si sposa con Katharine. Quando il marito torna al fronte, Katharine lavora all’ospedale militare di Cheltenham come inserviente addetta alle pulizie e ai pasti, e, contemporaneamente, si occupa del fratello Allan, sofferente di shock bellico e successivamente ricoverato come schizofrenico. È attraverso questa esperienza che Katharine sviluppa il suo primo pacifismo che sarà un elemento fondamentale di tutta la sua narrativa. Finita la guerra, dopo la nascita delle due figlie, Katharine Jayne e Helen Eugenie, la famiglia si stabilisce in Australia, ma il matrimonio finisce rapidamente. Katharine torna in Inghilterra con le figlie e si stabilisce in Cornovaglia assieme alla madre e alla sorella. La famiglia vive di rendita e dedica molto tempo alla lettura e alla discussione; in questa atmosfera apparentemente tranquilla Katharina pubblica il suo primo romanzo, Anna Colquhoun. È il 1922.

Nel 1926 Katharine incontra una donna che le sarà amica e compagna per tutta la vita. Isobel Allen Burns viene assunta come istitutrice delle piccole Katharine Jayne e Helen Eugenie, ma rapidamente si sviluppa tra le due donne un affetto profondo. Dal punto di vista storico si è cercato di comprendere se il rapporto tra Katharine e Isobel abbia avuto una componente sessuale, soprattutto per collegare la sua esperienza alle molteplici espressioni narrative che hanno riguardato l’omosessualità e, in generale, la compresenza nei singoli personaggi di tratti e pulsioni sia maschili sia femminili. Tuttavia non c’è prova di un rapporto esplicitamente lesbico tra loro e il racconto dei famigliari più stretti riporta che Katharine ebbe comunque alcune relazioni con uomini dopo la fine del matrimonio. Sempre dalla famiglia provengono diversi ricordi di Katharine che descrivono la mutevolezza del carattere caratterizzato da crisi depressive intervallate da periodi di intensa capacità creativa. Muore nell’agosto del 1963, momentaneamente dimenticata come i dieci romanzi che aveva pubblicato dal 1922 al 1940.

Il suo primo romanzo pubblicato, Anna Colquhoun (1922), è un’opera realista dedicata a una donna forte, autonoma, che intende tenere il destino nelle proprie mani e diventare una famosa musicista. Anna rifiuta il ruolo che la società intende imporgli, si oppone alla pressioni della tradizione, esattamente come l’aspirante scrittrice stava praticando nella sua vita reale dopo la fine del matrimonio. Il primo libro viene pubblicato come Burdekin, il cognome da sposata che manterrà per tutti i primi sei libri pubblicati con variazioni del nome: Kay o Katharine. Dopo A Reasonable Hope (1924), una storia in cui affronta sia i traumi della guerra sia il tema dell’omosessualità, Katharine Burdekin inizia a utilizzare il registro della narrativa fantastica e di fantascienza. The Burning Ring (1927) è una storia di viaggi nel tempo in cui un giovane egocentrico attraversa varie epoche utilizzando superpoteri come l’invisibilità e la capacità di cambiare aspetto. Il romanzo successivo è The Children’s Country (1929), una storia fantastica per giovani lettori che si ambienta in paese senza adulti dove è possibile sperimentare una vita con codici sessuali non tradizionali , ma è con il romanzo successivo che la fantascienza inizia a diventare il linguaggio per esplorare il tema della condizione femminile. In The Rebel Passion (1929), il protagonista viene trasportato dall’Inghilterra del Ventesimo secolo a quella del Ventunesimo, in una società nata dopo una guerra che ha opposto Europa e Asia, in cui le donne hanno ottenuto la completa uguaglianza nei diritti, viene normalmente applicata l’eugenetica e si sta diffondendo un’utopia rurale in parte disegnata sul modello rurale sviluppato da William Morris e in parte seguendo il modello socialista. Quiet Ways (1930) è un’opera autobiografica e antimilitarista, e racconta di un’infermiera del Voluntary Aid Detachment che si innamora di un soldato ferito e traumatizzato dai combattimenti. The Devil, Poor Devil! (1934) è il primo romanzo in cui Katharine Burdekin utilizza lo pseudonimo di Murray Constantine, si tratta di un’opera propriamente fantastica in cui il diavolo deve affrontare il problema che l’umanità ha praticamente smesso di credere in lui. Secondo quanto riportato da Daphne Patai la scelta dello pseudonimo era stata motivata dalla consapevolezza che i suoi romanzi erano apertamente antifascisti e temeva per l’incolumità della sua famiglia. All’epoca, infatti, la British Union of Fascists di Oswald Mosley era al massimo dei consensi ed erano frequenti intimidazioni e azioni violente contro i loro oppositori. Proud Man (1934), ancora pubblicato sotto pseudonimo, rappresenta un ulteriore sforzo di trattare i temi del pacifismo e dell’antimilitarismo creando lei stessi moduli ancora inconsueti per la fantascienza. Un essere giunto dal futuro mette a confronto la società da cui proviene con quella inglese del periodo tra le due guerre mondiali. Nel futuro l’evoluzione ha portato a una specie umana androgina, governata da uno stato pacifico e mondiale, vegetariana e senza differenze di classe. La creatura postumana prima si presenta come femmina e poi come maschio, mostrando nei fatti il superamento della dualità sessuale che conosciamo e prospettando, attraverso i meccanismi estrapolativi della fantascienza, una materializzazione della metafora di una società che è stata capace di annullare le stesse differenze biologiche dei generi. Ma il nodo tra biologia e totalitarismo letteralmente esplode ne La notte della svastica, precursore non riconosciuto di tutte le successive distopie e testo che conferma brillantemente analisi teoriche incentrate sui fortunati termini di “biopolitica” e “biopotere”.

Sotto molti aspetti Katherine Burdekin, come testimonia la sua bibliografia, deve essere considerata un’autrice di letteratura fantastica e fantascienza, oltre essere stata una scrittrice femminista e socialista, anzi è proprio lei a inventare e sperimentare per prima quello spazio estrapolativo, utopico, distopico e radicale che è proprio della fantascienza femminista e che, dopo di lei, ha visto impegnate Judith Merril, Doris Lessing, Ursula Le Guin, Joanna Russ, Alice Sheldon, Margareth Atwood, Angela Carter, Octavia Butler e Maggie Gee.

Ma su quale immaginario aveva lavorato Katherine Burdekin per concepire le proprie opere più visionarie? Sicuramente nei suoi romanzi sono evidenti l’approccio ipotetico di un classico della letteratura britannica come La battaglia di Dorking di George Tomkyns Chesney, un’ucronia pubblicata nel 1871 ambientata in un futuro in cui la Gran Bretagna ha perduto una guerra con la Prussia. La nazione sconfitta è diventata una provincia tedesca, tassata e soggiogata dall’invasore. La storia alternativa di come sia avvenuta la sconfitta e come fosse la vita prima della catastrofe militare è affidata al racconto di un veterano che, prima di morire, affida alle nuove generazioni il racconto di una diversa realtà. La narrazione del veterano della battaglia di Dorking per diversi aspetti ricorda il racconto dialogo tra Von Hess e Arnold che è alla base della parte centrale de La notte della svastica e ricostituisce quel rapporto spezzato tra lo shock del mondo deformato e la realtà storica del lettore. Un altro scrittore che con le sue opere ha consentito a Katharine Burdekin di familiarizzare con l’idea di un mondo futuro che fosse una proiezione deformata ed estrema del presente è Herbert George Wells con classici come La macchina del tempo (1895), Il risveglio del dormiente (1899), ma anche L’uomo invisibile (1896) che viene richiamato in The Burning Ring. La macchina del tempo infatti ci consente uno sguardo su come la divisione di classe e le diseguaglianze esistenti alla fine dell’Ottocento, anziché ricomporsi in un futuro di progresso e giustizia, si possano invece inasprire, invertendo quell’idea lineare di progresso che ottimisticamente abbiano mutuato dal Secolo dei Lumi. Anche Il tallone di ferro (1907) di Jack London risuona con la tensione distopica de La notte della svastica, mentre da Il mondo nuovo (1932) può essere stata tratta l’analogia che vede il romanzo di Aldous Huxley svolgersi nell’Anno di Ford 632 mentre Katharine Burdekin ambienta il suo nell’anno 720 dopo la morte del dio Hitler. Nonostante queste premesse l’accelerazione che Katharine Burdekin imprime alla propria narrazione la distacca per pessimismo e profondità da tutta la letteratura precedente e segna irrevocabilmente quella futura. Anzi, dovranno essere progressivamente smascherati gli orrori dei fascismi e combattuta una guerra mondiale per attribuire al romanzo una base di inquietante realismo. Nel 1937, alla data della sua prima pubblicazione, il nazionalsocialismo di Hitler è considerato da molti un regime autoritario che, nonostante il suo aperto antisemitismo, ha ottenuto risultati sociali ed economici rilevanti; nessuno prima di Katharine Burdekin ne aveva colto l’intima relazione tra violenza e sessualità, l’insito disprezzo verso le donne che risiede alla base del ruolo di “madre fertile”, la dimensione sociale della violenza e il ruolo delle caste quali elementi costituenti dello Stato, la dimensione religiosa e irrazionale del fanatismo politico e l’uso della dimensione collettiva per indebolire le diversità individuali e favorire il controllo e l’omologazione, come poi teorizzato da George Mosse nel saggio La nazionalizzazione delle masse (1974). Pochi anni dopo 1984 di George Orwell è un tributo letterario, politico e antropologico non dichiarato a La notte della svastica.

L’assetto del mondo descritto da Katherine Burdekin che si è instaurato dopo una Guerra dei Vent’anni, diviso tra impero nazista e dittatura nipponica che si fronteggiano in una secolare Guerra fredda, ripropone dal punto di vista geopolitico sia La svastica sul sole (1962) di Philip K. Dick (oggi soggetto della fortunata serie TV The Man in the High Castle) sia il mondo tripartito in perenne guerra di 1984. Ma soprattutto è l’ostilità tra la dittatura e la storia a legare indissolubilmente questi tre romanzi, il grande inganno che nasconde il passato a cui si oppongono, sempre più debolmente, i segni delle contraddizioni: il manoscritto di Von Hess e la fotografia originale di Hitler, il ritaglio del “Times” che capita al “correttore” Winston Smith di 1984 e il libro sovversivo La cavalletta ci opprime del romanzo di Dick che racconta un diverso mondo possibile. Anche nel paludato thriller Fatherland (1992) di Richard Harris è il contenuto di una cassetta di sicurezza a detenere le prove di crimini nazisti abilmente occultati dopo la vittoria sull’Unione Sovietica. Sono quei fotogrammi deteriorati a cui si richiama Marc Bloch in Apologia della storia o mestiere di storico (1949) quando descrive l’attiva dello storico come di una persona che svolge la pellicola del tempo all’indietro e si trova a osservare fotogrammi sempre più deteriorati e ambigui. Sono i segni di un passato che si divincolano dalla propaganda e dall’apparenza dell’ideologia per pretendere il ristabilirsi del primato della realtà. Katharine Burdekin intuisce che la distruzione della storia e della personalità sono elementi chiave per un governo dei pochi sui molti, dell’uomo sulle donne, delle élite sulle masse. L’amnesia mondiale, seguita alla trasformazione del partito nazionalsocialista in mito, arriva fino al punto di scontrarsi con la stessa biologia, riducendo la donna a un animale da riproduzione attraverso la perdita di memoria e di identità, a un elemento della filiera bellica specializzata nella produzione di soldati. In maniera quasi sotterranea la società nazista si stava muovendo nella direzione di funzionalizzare l’intera popolazione a un progetto di dominio mondiale attraverso una perversa logica fordista, come dimostrava anche il programma di sterilizzazione ed eutanasia dei disabili passato alla storia con la sigla Aktion T4. Ma, come spesso la fantascienza mette in campo, la natura può opporsi al con la catastrofe. In questo caso è emblematicamente la sterilità, elemento fondante de Il racconto dell’ancella (1985) di Margaret Atwood o del recente Il pianeta di ghiaccio (1998) di Maggie Gee.

Se la superstizione è la base della religione di Hitler, allora non c’è un posto per la scienza o per la tecnica nel fosco anno 720. Il mondo si è fermato negli anni Trenta, per poi retrocedere e perdere progressivamente conoscenze collettive e individuali fino all’instaurarsi di un nuovo eterno feudalesimo. Il mondo intero deve diventare analfabeta e, a parte un apocrifo libro religioso, solo sterili manuali tecnici hanno resistito come supporto alle parole scritte. Del resto Marshall McLuhan, a partire dagli anni Cinquanta, aveva osservato che molte tecnologie, e una di queste è la scrittura, si sono evolute per la loro capacità di governare il tempo. Ma l’umanità dell’era del dio Hitler vive un’esperienza atemporale del sempre uguale, garantendo all’élite e alla loro progenie la nefasta utopia di un potere infinito. Katharine Burdekin ignorava ancora l’alleanza tra nazionalsocialismo e Confindustria tedesca che aveva portato al cancellierato di Hitler nel 1933 con un programma anticomunista e antisindacale, realizzando un “miracolo industriale” fortemente basato sul lavoro obbligatorio dei prigionieri politici e dei cittadini classificati asocialen.

Dopo le due edizioni de La notte della svastica Katharine Burdekin pubblica Venus in Scorpio. A Romance in Versailles, 1770-1793 (1940), firmato assieme a Margaret Leland Goldsmith, una giornalista statunitense che viveva in Inghilterra, ancora con lo pseudonimo di Murray Constantine. Dopo la guerra scrive ancora sei romanzi che non vengono pubblicati. Nel 1963, Katharine Burdekin muore dopo una lunga malattia senza che nulla associ al suo nome le opere pubblicate come Murray Constantine. Ma con l’edizione curata da Daphne Patai del 1985 de La notte della svastica e la pubblicazione postuma del romanzo utopico The End of This Day’s Business (1989), grazie alla Femminist Press, Katharine Burdekin trova finalmente il posto che le compete all’interno del pensiero politico e femminista del Novecento.

La notte della svastica vantava un’unica edizione italiana per Editori Riuniti, curata nel 1993 da Carlo Pagetti. La sua introduzione offre le prime informazioni critiche su questa distopia/ucronia e su Katherine Burdekin. Oltre a un suo saggio “Nell’anno del Signore Hitler 720. Swastica Night di Katharine Burdekin”, apparso nel volume Cittadini di un assurdo universo (Nord, Milano, 1989), la bibliografia italiana dedicata a questa scrittrice vede il capito “Sogni e Incubi femminili”, nel volume di Oriana Palusci Terra di lei. L’immaginario femminile tra utopia e fantascienza (Tracce, Pescara, 1990) e il capitolo “Il problema della distopia femminile. Ginocentrismo e afasia in Swastica Night di K. Burdekin”, nel volume di Beatrice Battaglia Nostalgia e mito nella distopia inglese (Longo, Ravenna, 1998).

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Sport e dintorni – I migranti del pallone https://www.carmillaonline.com/2023/11/07/sport-e-dintorni-i-migranti-del-pallone/ Tue, 07 Nov 2023 21:00:33 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=79810 di Alberto Molinari e Gioacchino Toni

[In occasione dell’uscita del volume di Alberto Molinari e Gioacchino Toni, I migranti del pallone. I Calciatori stranieri in Italia, Un secolo di storia, Prefazione di Sergio Giuntini (Le Monnier, 2023), si riporta un breve stralcio dell’Introduzione ringraziando l’editore per la gentile concessione]

«Seguire le vicende dei calciatori stranieri approdati in Italia permette di ricostruire una storia della società e del costume nazionali e aiuta a capire meglio il calcio, le sue tendenze e contraddizioni storiche» Sergio Giuntini, Presidente della Società Italiana di Storia dello Sport

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Sin dalle origini, [...]]]> di Alberto Molinari e Gioacchino Toni

[In occasione dell’uscita del volume di Alberto Molinari e Gioacchino Toni, I migranti del pallone. I Calciatori stranieri in Italia, Un secolo di storia, Prefazione di Sergio Giuntini (Le Monnier, 2023), si riporta un breve stralcio dell’Introduzione ringraziando l’editore per la gentile concessione]

«Seguire le vicende dei calciatori stranieri approdati in Italia permette di ricostruire una storia della società e del costume nazionali e aiuta a capire meglio il calcio, le sue tendenze e contraddizioni storiche» Sergio Giuntini, Presidente della Società Italiana di Storia dello Sport

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Sin dalle origini, la storia del calcio è stata caratterizzata dalla mobilità dei giocatori. I migranti del pallone sono oggi presenti in tutti i campionati professionistici del mondo. […] Nel caso italiano, alla fine dell’Ottocento una pattuglia di svizzeri e inglesi giunti a vario titolo nella penisola – come imprenditori, rappresentanti di compagnie commerciali e di navigazione, ingegneri, tecnici – diede un contributo decisivo alla nascita del football in Italia. Quasi un secolo e mezzo dopo, l’Italia era il secondo paese scelto come meta professionale dai calciatori espatriati.

Tra questi estremi, si dipana una storia nella quale i giocatori stranieri hanno avuto una parte importante nel calcio italiano, non solo dal punto di vista strettamente sportivo. La loro presenza in Italia ha suscitato passioni contrastanti e alimentato polemiche politiche; ha condizionato gli equilibri economici del mondo del pallone e dato vita a contese giuridiche; ha rappresentato talvolta una cartina di tornasole degli atteggiamenti delle istituzioni e dell’opinione pubblica nei confronti degli stranieri in generale.

Le vicende di questi atleti, come singoli o come gruppi legati dalla provenienza geografica, si sono configurate come un racconto polifonico di grande interesse nel quadro della storia dello sport e dei suoi intrecci con la società italiana e la dimensione internazionale.

Gli studi storici sul calcio italiano hanno trattato il tema in modo sporadico, all’interno di ricostruzioni complessive della storia del gioco. In campo internazionale, le prime ricerche dedicate alle migrazioni degli sportivi risalgono agli anni Novanta del secolo scorso e si sono articolate successivamente in varie direzioni attraverso indagini sociologiche e ricostruzioni storiche.

Gli studi sociali hanno messo in luce le relazioni tra fenomeni migratori e globalizzazione, hanno elaborato tipologie dei migranti sportivi e sviluppato modelli esplicativi dei flussi dalla “periferia” ai centri principali del calcio mondiale.

Gli studi di carattere storico, meno numerosi, hanno sottolineato tra l’altro la necessità di collocare le migrazioni dei calciatori, come degli altri sportivi, nell’ambito dei processi migratori generali, suggerendo di applicare al caso dello sport le categorie interpretative utilizzate nell’approccio storico alla mobilità internazionale del lavoro.

Particolarmente interessanti risultano le chiavi interpretative e le indicazioni metodologiche proposte da Pierre Lanfranchi e Matthew Taylor che nei loro contributi hanno studiato il quadro complessivo della mobilità internazionale dei calciatori e analizzato alcuni casi specifici. Altri interventi su segmenti particolari dell’emigrazione calcistica hanno arricchito da vari punti di vista la conoscenza storica del fenomeno.

In una prospettiva storica si colloca anche questa ricerca, articolata in un arco cronologico compreso tra il calcio delle origini e gli effetti della “sentenza Bosman” del 1995 che liberalizzò i trasferimenti dei calciatori nell’Unione europea.

La ricostruzione ripercorre le vicende delle migrazioni calcistiche verso l’Italia sul versante sportivo e nei loro risvolti sociali, politici, economici, culturali, di costume, delineando le traiettorie geografiche dei flussi migratori e i profili delle più significative figure del calcio straniero in Italia, dai grandi protagonisti a personaggi minori, le cui storie esemplificano le vicissitudini professionali dei migranti del pallone.

La ricerca si concentra su diversi aspetti del fenomeno, come i fattori economici di spinta e di attrazione che hanno portato i giocatori alla scelta di emigrare, uniti ad altre cause di natura culturale, sociale, politica, geografica; le variabili sportive ed extrasportive che hanno condizionato le aperture e le chiusure delle frontiere calcistiche e il dibattito politico-sportivo che ha accompagnato questi passaggi; le reazioni nei paesi di partenza e le ricadute delle migrazioni sul calcio italiano; le modalità di integrazione dei nuovi arrivati nella realtà locale; le rappresentazioni del calciatore straniero e gli atteggiamenti nei suoi confronti, tra fascinazione per un modello esotico e pulsioni xenofobe e razziste.

[…]

La ricerca si è basata su numerose fonti a stampa (testate sportive, d’opinione e politiche) e su documenti di archivio; in particolare, per gli anni Cinquanta e Sessanta, sono state utilizzate diverse carte conservate a Roma presso l’Archivio nazionale del CONI.

Nella ricostruzione si è cercato di dare conto nel modo più ampio possibile della presenza dei giocatori stranieri in Italia per restituire la complessità e le articolazioni delle traiettorie seguite dai flussi migratori, senza una pretesa di completezza che esula dalle finalità di questo lavoro.

Dato l’elevato numero di atleti arrivati in Italia, è stato necessario operare una selezione. Sono stati presi in considerazione i calciatori più rappresentativi e di maggiore valore tecnico, quelli che costituiscono casi interessanti per diversi risvolti delle loro vicende (sportivi, sociali, politici, di ambientamento, di costume) e altri che esemplificano efficacemente le dinamiche e le caratteristiche del mercato calcistico italiano nei suoi rapporti con i paesi europei ed extraeuropei.


Serie completa Sport e dintorni

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Noi, al sicuro nel Pentacolo Elettrico (Victoriana 46) https://www.carmillaonline.com/2023/11/04/noi-al-sicuro-nel-pentacolo-elettrico-victoriana-46/ Sat, 04 Nov 2023 21:00:55 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=79623 di Franco Pezzini

(È appena uscito per i tipi il Palindromo, a cura di Gabriele Scalessa, il volume Carnacki – L’indagatore dell’occulto di William Hope Hodgson, con le classiche illustrazioni di Florence Briscoe. Il testo che segue è la mia Introduzione.)

«Cosa intende fare?» mi domandò.

«Sarà un esperimento pericoloso?».

«Lo diventerà se non segue tutte le mie

indicazioni. Entrambi corriamo il rischio

di non uscire vivi da questa stanza. Ho

la sua parola che posso contare sulla sua

obbedienza qualunque cosa accada?».

William Hope [...]]]> di Franco Pezzini

(È appena uscito per i tipi il Palindromo, a cura di Gabriele Scalessa, il volume Carnacki – L’indagatore dell’occulto di William Hope Hodgson, con le classiche illustrazioni di Florence Briscoe. Il testo che segue è la mia Introduzione.)

«Cosa intende fare?» mi domandò.

«Sarà un esperimento pericoloso?».

«Lo diventerà se non segue tutte le mie

indicazioni. Entrambi corriamo il rischio

di non uscire vivi da questa stanza. Ho

la sua parola che posso contare sulla sua

obbedienza qualunque cosa accada?».

William Hope Hodgson, “Il maiale”

 

Il successo delle riviste e dell’editoria popolare nell’Ottocento e specificamente nell’età vittoriana è a monte di un fenomeno la cui lunga coda interessa ancora noi oggi, cioè la nascita di una nuova epica popolarissima – diremmo di genere, con caratteri paraletterari o qualche volta pienamente letterari – che avrà strabordante fortuna postmoderna in forma transmediale. Dopo il successo infatti di diluviali saghe di eroi popolari a puntate a metà ottocento con i penny dreadful, la serialità di storie a episodi – annunciata fin dai tempi di Dupin e della Rue Morgue, 1841, con il varo del primo poliziesco moderno (ancora grondante gotico, sia pure) e del primo indagatore per “casi” – vede emergere nuovi modelli di eroi attrezzati, rispetto al passato, a un genere radicalmente diverso di quest. La nuova quest non mira all’orizzonte del sovrannaturale/meraviglioso (il santo Graal…), ma a risolvere misteri essenzialmente umani, legati spesso a un altro nuovo fenomeno già notato da Poe nel proto-poliziesco L’uomo della folla (The Man of the Crowd, 1840): il mistero della vita nella metropoli moderna, di lì idealmente a monte di una serie di romanzi che quel grembo di male notomizzavano in modo più o meno fantasioso, da I misteri di Parigi (Les mystères de Paris, 1842-1843) di Eugène Sue, a infiniti altri meno noti a firma di autori diversi (I misteri di Marsiglia, di Londra, di Napoli, di Pietroburgo etc.).

Nasce così, dalla radice-Dupin poi indefinitamente criticata dai discendenti a smarcare una propria autonomia, il detective seriale moderno: connotato da peculiarità, idiosincrasie, stigmi di eccezionalità che lo rendono più o meno un outsider, come l’Arcidetective Holmes e infiniti altri rivali (usiamo per ora questo termine, capiremo poi perché) eccellenti o miseri, pullulanti in età vittoriana, ma destinati per li rami ad arrivare ai giorni nostri e anzi proseguire oltre. La grande dinastia dei detective seriali (a volte donne, non dimentichiamolo) finisce però col gemmare due altre linee di discendenza: come ovvia conseguenza dei misteri alla Sue, quella dei “casi” di grandi ladri come Raffles o Lupin – che finiscono spesso con l’indagare pure loro, risolvendo vicende criminali, trovando tesori etc. – e quella di indagatori su un fronte del tutto diverso, cioè sovrannaturale-fantastico. Il sovrannaturale-meraviglioso afferiva a un contesto dove era ovvio pensare a santi o cavalieri devoti attivi in vere e proprie indagini, a storie edificanti di miracoli e angeli, al confronto col diavolo; il sovrannaturale-fantastico è figlio invece di un’età laica, dove in questione è l’incertezza di un corpus di casi che sovvertono la visione nota del mondo e la necessità di nuovi “specialisti” – non più religiosi nel senso di chiese fin troppo istituzionalizzate (nel poliziesco classico un caso molto particolare è quello del padre Brown di Chesterton, che però opera anche sul fronte psicologico-morale). Vero, il primo detective dell’occulto moderno, il dottor Martin Hesselius di Le Fanu, precede nel 1869 (poi nella raccolta In a Glass Darkly, 1872) il diffondersi modaiolo dei poliziotti e deve parecchio all’Apollonio del Lamia di Keats, 1820, ma il suo successore immediato e più efficiente, il Van Helsing del Dracula di Stoker, 1897, deve almeno qualcosa a Holmes. A differenza che poi nel cinema e nel fumetto, Van Helsing non è un indagatore seriale, bensì una tantum nell’ambito della vicenda che lo vede fronteggiare la battaglia apocalittica contro l’Anticristo transilvano: ma la sua lezione verrà ben appresa dal personaggio di cui parleremo.

Nel frattempo è successo dell’altro: l’alta marea dell’irrazionale che dal boom dello spiritismo (idealmente l’ultima delle rivoluzioni del 1848) capitalizza il convulso orizzonte dell’esoterismo tra Sette e Ottocento, vede impennare l’occulto nei salotti borghesi tra tavolini ciangottanti, illuminazioni, viaggi astrali e paludamenti similegizi dei nuovi teurghi e goeti: la nascita nell’Inghilterra vittoriana (1887-1888) dell’Hermetic Order of the Golden Dawn ne è solo l’evento più clamoroso. In breve gli indagatori dell’incubo spopoleranno, quasi a colmare un’imperiosa necessità dell’immaginario in tensione tra i due poli del positivismo scientifico e delle sirene dell’irrazionale: con l’avvertenza però che lo stesso positivismo di moda – che tanto influisce sullo spiritismo e in fondo sull’approccio pragmatico del “purché funzioni” di tante esperienze esoteriche – entra in gioco anche nell’approccio alle storie di indagatori dell’occulto. Nell’età del ballo Excelsior, che celebra i nuovi eroi di estrazione borghese portatori di luce – ingegneri, inventori, chimici e altri specialisti nelle più varie scienze & tecniche, magari con un pizzico di massoneria – a confrontarsi col sovrannaturale per salvare un “paziente” sarà sempre più frequentemente un medico: un buon vecchio dottore come l’Haberden de La Polvere bianca (Novel of the White Powder) in I tre impostori (The Three Impostors, 1895) di Machen, i perplessi colleghi dei racconti di Lovecraft, o invece un vero dottore psichico come il raffinato John Silence (1908) di quell’Algernon Blackwood confratello di Machen sotto i labari Golden Dawn, ma assai meno critico di lui sulla vocazione occultista dell’Ordine. John Silence è in effetti un iniziato nelle cui elegantissime storie emerge un complesso tessuto di conoscenze gnostiche e teurgiche, un illuminato che fronteggia il male con la sua spiritualità luminosa – sulla base di convinzioni esoteriche, filosofiche ed etiche dello stesso Blackwood.

Ben diverso è il caso dell’esoterismo genuinamente letterario (o paraletterario, se si preferisce) di un altro occult detective collega di Silence e di poco successivo, il Thomas Carnacki del britannico William Hope Hodgson, nato nel 1877 e morto sul campo di Ypres in Belgio nel 1918. Un autore di straniante potenza i cui romanzi fantastici – si pensi a Naufragio nell’ignoto (The Boats of the “Glen Carrig”, 1907), La casa sull’abisso (The House on the Borderland, 1908), I pirati fantasma (The Ghost Pirates, 1909), La terra dell’eterna notte (The Night Land, 1912) – spalancano in forme originalissime vertiginose prospettive allucinatorie tra inconscio e distopia fantascientifica, apocalittica e cosmologia, orrore e spaesamento psichico. Ricordare il suo ruolo di predecessore di Lovecraft è persino scontato, ma a fronte di un culto pop di spiacevole naïveté che sembra far arenare su HPL ogni tipo di discorso a detrimento di altri autori, va detto che la lezione di Hodgson sarà fondamentale per un po’ tutto il fantastico orrifico del Novecento.

Certo, a fronte dei grandi romanzi hodgsoniani, le storie di Carnacki possono venire giudicate una prova minore, dettate dalla necessità di sbarcare il lunario: Lovecraft le stroncava un po’ acidamente come “vastly inferior” agli altri lavori di Hodgson, “his poorest work” e Carnacki sarebbe un mediocre stereotipo di detective dell’occulto (è noto come HPL non cogliesse il fascino dell’occulto “tecnico”). Vero, i casi di John Silence si presentano assai più ricchi letterariamente e più profondi sul piano interiore. Eppure le storie di Carnacki sono testi di grande interesse, di intatto divertimento per i lettori e capaci di rivelare un aspetto diverso della genialità dell’autore, portando una ventata di novità in un filone destinato altrimenti a ripiegarsi nelle imitazioni delle voci di Le Fanu, Blackwood e pochi altri mattatori. Alcuni aspetti di questi racconti richiamano del resto la produzione maggiore dell’autore, e sembra sbagliato ignorare i nessi (per quanto impliciti): Il maiale (The Hog, pubblicato postumo nel 1947) fa pensare alle disturbanti creature simil-suine de La casa sull’abisso (oltre ovviamente alla simbolica biblica del maiale come animale impuro e in particolare all’episodio evangelico del branco di maiali indemoniati: Mt 8,28-34, Mc 5, 1-20, Lc 8,26-39); Il “Jarvee” infestato (The Haunted “Jarvee”, 1929) rimanda alla ricca serie di testi marinari di varia ampiezza varati da Hodgson negli anni; la cosmologia impazzita delle rivelazioni dispensate da Carnacki è coerente con le visioni distopiche dei romanzi, al di là del meccanismo tranquillizzante del rito ripetitivo dei “casi” (la riunione tra amici, etc.). Tratteniamo per ora queste considerazioni.

Intrigante anzitutto la vicenda editoriale. Inizialmente di Carnacki compaiono sei storie, pubblicate tra il 1910 e il 1912 sulle riviste The Idler e The New Magazine, e riunite in volume nel 1913; più tardi, nel 1947, un’edizione Mycroft & Moran legata ad Arkham House ne aggiungerà tre – due apparse postume su riviste (The Premier Magazine, Weird Tales), la terza mai prima pubblicata. Il sospetto che le abbia scritte August Derleth, responsabile della casa editrice e uso a riprendere spunti lovecraftiani, sembra però si debba respingere: c’è una coerenza stilistica tra le prime e le ultime storie pubblicate.

A differenza della luminosa vita interiore che permette a Silence di fronteggiare il Male (e gli offre uno spessore empatico particolarmente gradevole), nel caso del rigido e bizzarro edoardiano Carnacki il pragmatismo e un certo positivismo innestato sulla tecnica prevalgono. Sia perché a lui interessa la soluzione concreta dei problemi sottopostigli – poi oggetto di divertiti resoconti del dopocena agli amici – assai più che le sorti dell’anima sofferente in quanto tale (eccettuato forse il caso dell’impressionante Il maiale, più simile per rapporti tra detective e paziente ai casi di Silence); sia perché in effetti i misteri possono trovare soluzione naturale (frodi, manipolazioni eccetera) o ibrida, insieme naturale & sovrannaturale.

Per risolverli l’ingegnoso Carnacki, memore forse di un nesso onomastico con il conte Michel de Karnice-Karnicki, inventore di una elaborata safety coffin detta Le Karnice per salvare accidentali sepolti vivi, si appoggia a un’intera santabarbara di strumenti tecnici. A partire dalle macchine fotografiche care agli studiosi coevi di spiritismo (“Certe volte la macchina fotografica riesce a vedere cose che sfuggono alla normale vista umana: capite cosa intendo?”) ma in fondo già a Jonathan Harker (il Dracula stokeriano pullula di nuovi ritrovati della tecnica moderna) e dal “fonografo modificato con auricolari al posto dell’altoparlante”; fino ad attrezzi tali da combinare tecnologia e magia, come “un disco di vetro composto di tubi a vuoto disposti in maniera particolare” o il delizioso e originalissimo Pentacolo Elettrico. Suggestioni che sembrano preannunciare quello che oggi chiamiamo steampunk, e aprono al filone occultista nuove prospettive nel segno di un’improbabile tecnologia. Carnacki utilizza poi una serie di tradizionali mezzi magici: e sul punto l’Autore mostra di saper giocare con ammiccanti allusioni alla scuola del maestro Le Fanu, ma già in qualche modo, anche qui, preludendo a Lovecraft.

Troviamo dunque richiami sornioni a una serie di pseudobiblia, nel segno dell’ormai consolidato filone dei libri arcani, autentici (Poe, Le Fanu) o fittizi (Bierce): un fantomatico testo di formule protettive del XIV secolo, il Manoscritto Sigsand; la monografia di un certo Harzam, Astral and Astral Co-ordination and Interference con Addenda a cura di Carnacki; alcuni saggi di tal professor Garder (Experiments with a Medium e Astral Vibrations Compared with Matero-involuted Vibrations Below the Six-Billion Limit); False Re-Materialisation of the Animate-Force through the Inanimate-Inert sembra invece non un testo ma il nome di una teoria. Una menzione merita poi il misterioso Rituale Saaamaaa legato a un certo incantesimo di Raaaee (nome di entità?), di pericoloso utilizzo ma in grado di bloccare temporaneamente le forze malefiche… dove l’uso di lettere raddoppiate o triplicate (le edizioni circolanti dei presentano una certa varietà di grafie) già parla il linguaggio degli onómata barbariká, i nomi barbari usati in magia, che – raccomandano gli Oracoli caldaici, fr. 150 – “non [devi] cambiarli mai”.

Poco importa che i chiarimenti tecnici appaiano spesso fumosi, come in un certo linguaggio esoterico da bollettini spiritisti o teosofici, visto che l’insieme resta godibile e divertente al lettore. Lo spiritualismo di queste storie è alla grossa quello di età edoardiana, con l’enfasi sul tema del piano astrale: che però Carnacki collega con un cerchio rotante di gas esterno al pianeta. Lì ristagnerebbero ab-umani e mostruosità esterne come nel mare – si è osservato in relazione alla sua passione per storie di navigazione – allignano mostri marini; ma a reggerlo sarebbero comunque fantomatiche Forze Protettive – “In other words, it is being proved, time after time, that there is some inscrutable Protective Force constantly intervening between the human-soul (not the body, mind you) and the Outer Monstrosities”. Forze dai connotati non chiari, visto che le spiegazioni fantareligiose o demonologiche sono di solito evitate, al di là di alcune somiglianze tra ab-umani e mostruosità esterne coi demoni: si può parlare di una fanta-fisica con forze che conservano e altre che distruggono, ma è probabile che l’autore abbia costruito tutto questo sistema – in qualche rapporto, come detto, con gli scenari febbricitanti dei romanzi – attraverso progressivi colpi di teatro, senza la preventiva organizzazione di una teoria. A complicare le cose è anche l’uso di varianti lessicali rare o inventate (talune presenti solo in certe edizioni), come astarral che sembra intendersi per astral (uno, astarrale/asteriale, aggettivo e l’altro, l’astrale, sostantivo?), Monstrocities (mostruocità? cfr. ferocities, atrocities) per Monstrosities, etc.

Tutto il “sovrannaturale” o piuttosto Ab-naturale dei suoi racconti muove nel segno di energie sfuggenti e impatti sull’etere, ricadute di oscure leggi cosmologiche, forze psichiche e induzioni inconsce di pensiero, sull’onda in fondo delle arzigogolate speculazioni mistico/fisiche tra Sette e Ottocento che nutrono la formazione esoterica dei predecessori di Carnacki, cioè Hesselius e colleghi (“scientifiche” o letterarie: si pensi solo alla fantomatica “forza odica” di Karl von Reichenbach, al “Vril” di Bulwer-Lytton, etc.), ma appunto anche di fantasie spiritualiste o teosofiche coeve. I fantasmi veri e propri sarebbero forze di traumi umani inizialmente inanimate ma che acquisiscono un’inopinata animazione: tra questi fenomeni rilevano in particolare le manifestazioni Aeiirii – in apparenza le più comuni, incapaci di recare una completa materializzazione (cfr. aer come aria?) ma in grado di attaccare oggetti solidi – e Saiitii (anche Saaaiti, Saaitii: cfr. Sais in Egitto?), queste ultime particolarmente allarmanti perché coinvolgono la materia, ma ancora legate a dinamiche umane. A differenza dell’aggressione “demoniaca” di ab-umani e mostruosità esterne, spiriti astrali memori forse delle antiche tiritere di demoni gnostici o di cognizioni magico-astrologiche rinascimentali ma da Carnacki senz’altro riconducibili a nebulose (magari “lunghe migliaia di chilometri”) ed “emanazioni” cosmiche.

Come i grandi detective del poliziesco, Carnacki – ispirato a Sherlock Holmes ma anche a Hesselius – ha le sue fisime: vive in un alloggio da single e racconta i propri casi a quattro amici che poi, puntualmente, butta fuori “in modo amichevole” alla fine della serata. Uno di questi è Dodgson (cfr. Hodgson), una specie di Watson che funge da narratore: un ruolo funzionale a distanziare l’Eroe (un tipetto molto particolare e vagamente bizzoso, come del resto spesso gli indagatori popolari), garantendogli una sorta di camera stagna col mondo misterioso cui si confronta. Si noti l’assonanza onomastica tra il personaggio e lo scrittore; viene del resto il dubbio che a questo richiamo nobile se ne abbini uno più infastidito, quell’hog de Il maiale come possibile storpiatura del nome di Hodgson, pesantemente bullizzato durante la sua esperienza giovanile sul mare. Non si fatica a immaginare le dinamiche derisorie e la trasfigurazione fantastica di questo male in senso cosmico-metafisico.

Come detto, nei racconti il sovrannaturale non entra sempre e il detective deve talora fronteggiare impostori; qualche volta la storia sovrappone i due elementi. E tutto ciò, unito a una scrittura di buon ritmo, permette di mantenere tutt’oggi agli episodi una notevole suspense.

Carnacki influenzerà con potenza la storia del filone. Le sue trovate verranno riprese da altri, sia a livello di ispirazione generale che di singoli dati. Come nel caso di Dennis Wheatley, “il principe degli scrittori thriller” esperto di stregoneria e magia nera, nell’ambito dei casi del duca De Richleau: per esempio in The Devil Rides Out (1934) troviamo non solo gli Ab-humans (cap. 12), ma “the last two lines of the dread Sussamma Ritual” (cap. 27) – come in La stanza che fischiava la quasi omofona “Unknown Last Line of the Saaamaaa Ritual” –, e i Signori della Luce intervengono a tutela dell’anima dei buoni in modo molto simile alle Forze Protettive di Hodgson… Con la differenza però che Wheatley riconduce il tutto a una tradizionale dialettica religiosa luce/tenebra, mentre nei casi di Carnacki l’ottica resta più ambiguamente fantafisica.

Inevitabile che un personaggio tanto promettente conosca nel tempo una ricca serie di sviluppi anche apocrifi, come in chiave di pastiche – nel meraviglioso fumetto di Alan Moore e Kevin O’Neill The League of Extraordinary Gentlemen, nelle puntate: Black Dossier (2007) e Century (2009), nelle storie del Diogenes Club di Kim Newman e in Sherlock Holmes: The Breath of God di Guy Adams (2012) – e persino in esplicite parodie, quali The Dragonhiker’s Guide to Battlefield Covenant at Dune’s Edge: Odyssey Two di David Langford (1988) e The Sniffling Room di Rick Kennet (2000). In precedenza si è citata la categoria dei rivali di Sherlock Holmes: e Carnacki approda sugli schermi una volta sola, nel 1970, appunto nella serie televisiva inglese The Rivals of Sherlock Holmes, interpretato da Donald Pleasence in un adattamento del racconto Il cavallo dall’invisibile (The Horse of the Invisible, 1910). Ma il cinema ha celebrato un gruppo di personaggi che in termini parodistici sembrano dovere molto alla lezione di Carnacki: e si parla della squadra di Ghostbusters, i dottori Peter Venkman (Bill Murray), Raymond Stantz (Dan Aykroyd) e Egon Spengler (Harold Ramis) dei due esilaranti film di Ivan Reitman (1984 e 1989), a monte di una serie di altri prodotti (un pallido reboot 2016, serie di cartoni animati, fumetti, videogame, giochi di ruolo…). Certo, non c’è il Pentacolo Elettrico, ma a fronteggiare spettri e divinità ancestrali soccorrono trovate tecnologico-occultistiche che ne costituiscono una sorta di ideale derivazione.

Tutto facile, insomma? Be’, non proprio. Anzitutto perché l’armamentario di Carnacki non ci garantisce – è lui ad ammetterlo – una protezione completa contro le forze dell’ab-umano, a differenza di quanto accade in molte tranquillizzanti avventure dei suoi colleghi: e del resto non si vedrebbe come, in un orizzonte – evocato dai romanzi, ma in fondo alluso dalla confusa cosmogonia dei racconti – su cui si levano nubi nerissime. Carnacki e i suoi amici possono garantirsi il rituale tranquillizzante di quattro chiacchiere attorno a un tavolo e un buon dopocena a base di storie di spettri, veri o farlocchi. Ma quel che attende il pianeta, tra bufere eteriche, apocalissi astrali e infestazioni di Monstrocities incomprensibili, resta sullo sfondo, come un panorama assurdamente altro fuori dalla finestra con le tendine: ed è persino più tremendo dell’allucinata escatologia lovecraftiana – perché persino meno comprensibile, oltre che meno telefonato da un fandom di devoti. Dunque non siamo troppo frettolosi nel giudicare questi racconti, lasciamo che ci sorprendano. Nel nostro rifugio in mezzo al Pentacolo Elettrico ci resta qualche buon motivo per tremare.

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The Innocence of Simon Iff (Victoriana 44) https://www.carmillaonline.com/2023/10/18/the-innocence-of-simon-iff-victoriana-44/ Wed, 18 Oct 2023 07:12:59 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=79485 di Franco Pezzini

Aleister Crowley, Le indagini di Simon Iff, a cura di Jacopo Corazza e Gianluca Venditti, traduzione di Francesco Vitellini, pp. 224, Arcoiris, Salerno 2023.

(Nella collana La biblioteca di Lovecraft delle edizioni Arcoiris è uscita in anteprima a Stranimondi la prima traduzione italiana di questa interessante, originale e maliziosa raccolta narrativa di Aleister Crowley. Il testo che segue è la mia Introduzione.)

 

Nel salone del circolo c’era solo un ometto anziano, conosciuto come un matematico di grande importanza, con un tocco di follia. Aveva da [...]]]> di Franco Pezzini

Aleister Crowley, Le indagini di Simon Iff, a cura di Jacopo Corazza e Gianluca Venditti, traduzione di Francesco Vitellini, pp. 224, Arcoiris, Salerno 2023.

(Nella collana La biblioteca di Lovecraft delle edizioni Arcoiris è uscita in anteprima a Stranimondi la prima traduzione italiana di questa interessante, originale e maliziosa raccolta narrativa di Aleister Crowley. Il testo che segue è la mia Introduzione.)

 

Nel salone del circolo c’era solo un ometto anziano, conosciuto come un matematico di grande importanza, con un tocco di follia. Aveva da poco terminato un pamphlet per dimostrare che gli antichi avevano una certa conoscenza della matematica della quarta dimensione e che la loro affermazione di problemi, come la duplicazione del cubo, implicava la conoscenza di un mezzo in cui i valori incommensurabili diventavano misurabili. Considerava particolarmente forte il postulato delle parallele di Euclide, che non solo non è stato dimostrato, ma si è rivelato indimostrabile. Era anche un profondo studente della Massoneria, i cui arcani gli fornivano ulteriori argomenti sulla stessa tesi.

 

Per consuetudine critica, spesso si ascrive tout court Simon Iff, il protagonista dei racconti che andrete a leggere, alla categoria dei detective dell’occulto: ciò che, corretto per alcuni versi, richiede però almeno robuste puntualizzazioni – con particolare riguardo a questa prima raccolta, sostanzialmente poliziesca. In effetti, Iff – creato da Crowley per sbarcare il lunario alla fine del 1916 durante uno squattrinato soggiorno a New Orleans, dunque con l’obiettivo pragmatico di un’agevole collocazione editoriale – è un mistico e un occultista: vocazioni che al suo riapparire con un ruolo importante nel romanzo Moonchild, avviato dall’autore proprio a New Orleans all’inizio del 1917 (ma pubblicato solo nel 1929), troveranno ampio spazio. Di più, Iff è nei fatti un alter ego dell’autore mago e profeta delle leggi del Thelema, sgomitante del suo egocentrismo e della sua voglia di colpire gli interlocutori. Se una compenetrazione tra autore e personaggio è in qualche misura normale, nel caso di un vanitoso come Crowley il meccanismo appare scoperto: del resto non ha mai smesso – e non smetterà – di proporsi come protagonista di narrazioni.

Grady L. McMurtry, discepolo di Crowley e riorganizzatore dell’O.T.O., ha ipotizzato che almeno in Moonchild Iff si ispiri all’occultista Theodor Reuss fondatore dell’Ordo stesso (nonché, pare, spia della polizia), e altri hanno visto un modello nell’amico Allan Bennett (che però in Moonchild ha anche un altro ruolo-calco più diretto, il mistico Mahatera Phang): ma occorre ricordare che proprio Crowley in un nota olografa in margine a un altro suo romanzo, Diary of a Drug Fiend edito nel 1922, descrive Iff come “una mia raffigurazione quale uomo anziano”. In Moonchild il gioco di proiezioni permette all’autore di “duplicarsi” con dialettica spudorata tra un Sé giovane e avventuroso, Cyril – mago e amante, nonché vero protagonista – e un Sé molto più maturo, appunto Iff, mistico e maestro. Ma se Moonchild è insieme un romanzo iniziatico, una sorta di ideale risposta a The Magician di W. Somerset Maugham (1908), e una feroce satira degli ex-sodali Golden Dawn, le quattro serie (colte, spumeggianti, divertenti) che Crowley dedicherà al mistico, mago, psicologo e detective Simon Iff mirano a cavalcare mode narrative d’epoca – il proliferare di storie di indagatori del crimine e dell’occulto, i dialoghi brillanti di un ambiente sociale elitario che intriga il grosso pubblico, un certo tipo di poliziesco un po’ cerebrale alla Philo Vance (più tardo, dal 1926), sia pure con note di genuina originalità. D’altra parte Iff nei racconti è molto anziano, pur sembrando assurdamente giovanile; ma anche in questa prima tranche di avventure non manca un Crowley giovane, incarnato in Jack Flynn, editor del giornale The Emerald Tablet dietro cui intravediamo la testata crowleyana The Equinox; e c’è persino, tanto per continuare l’autofiction, una sontuosissima “Coppa Crowley n. 3” con fragole, Grand Marnier Cordon Rouge, champagne e ghiaccio.

L’occulto va perciò inteso semmai in un’accezione un po’ particolare. Nel primo racconto della raccolta, “The Big Game” (“Caccia grossa”), troviamo un cenno fuggevole a “una specie di club di adorazione del diavolo, […] una delle loro passioni era la cocaina” ma il caso permette di smascherare assassini rimasti impuniti; il secondo, “The Artistic Temperament” (“Il temperamento artistico”), ripropone echi del Ramo d’oro di Frazer in rapporto a un incredibile caso criminale, ed è impossibile non pensare ai racconti dell’altra serie più o meno coeva Golden Twigs (cfr., in questa stessa collana, Aleister Crowley, I ramoscelli d’oro, 2021); il terzo, “Outside the Bank’s Routine” (“Fuori dagli schemi”), riguarda un delitto enigmaticissimo e dai dettagli paradossali che può far pensare a una storia di fantasmi. Nel quarto, “The Conduct of John Briggs” (“La condotta di John Briggs”), occorre difendere un accusato d’omicidio, attraverso “la voce del suo particolare demone”; nel quinto, “Not Good Enough” (“Non abbastanza bravo”), ritornano echi di Frazer; nel sesto, “Ineligible” (“Inammissibile”), la ricostruzione di un passato nerissimo fa pensare a certe pagine di romantici torbidi francesi dell’Ottocento. Il concetto di occulto richiama dunque più spesso in questi mystery a un’accezione di segreto e umbratile, tenebroso, ancestrale o torbidamente velato, con il magico sullo sfondo e i misteri di una psicologia liberissimamente invocata dal Semplice Simon: colui che a colpi di domande e sintesi provocatorie decostruisce le verità giudiziarie o sociali per cogliere verità più sconcertanti e segrete.

Dal tardo 1914 al tardo 1919, la Grande Bestia 666 è in America, dove tra mille avventure cerca di importare il culto del Thelema: un periodo importante per la sua vita, anche se è ben lungi dall’immaginare il successo postumo lì, mezzo secolo dopo, che contribuirà all’esplosivo revival magico (tardi Sessanta-inizio Settanta) in tutto l’occidente e all’impennata dell’immaginario crowleyano nella musica. I soldi scarseggiano, quindi Aleister usa la propria fantasia e rapidità di scrittura per varare la saga di un nuovo personaggio. A metà gennaio 1917 termina di scrivere la prima serie di sei storie, The Scrutinies of Simon Iff (quelle in sostanza del volume che avete in mano), in prima battuta edite su The International tra settembre 1917 e febbraio 1918: per inciso sotto lo pseudonimo di Edward Kelly, come un tipaccio di cui si ritiene reincarnazione, l’equivoco medium e compagno d’avventure del “Merlino moderno”, il ben più presentabile mago elisabettiano John Dee. Vi si trova sotteso un qualche scherzo birichino all’ex-amico pittore Gerald Kelly, in seguito meglio noto come Sir Gerald Festus Kelly (1879-1972), ritrattista tra i preferiti della famiglia reale inglese, ma soprattutto cognato renitente di Aleister attraverso le sue nozze con la sorella Rose?

La prima serie è ambientata nel Vecchio Mondo. Seguono Simon Iff in America (dodici storie, scritte tra dicembre 1917 e gennaio 1918), Simon Iff Abroad (tre storie, scritte probabilmente nel 1918) e Simon Iff, Psychoanalyst (due storie, scritte tra 1918 e 1919). È senz’altro eccessivo proclamare – come fa Crowley annunciando con clamore la seconda serie – che si tratti dei polizieschi più sensazionali dopo quelli di Doyle su Holmes, ma è vero che il taglio appare innovativo: un dosaggio originale tra mystery e occult detective fiction, con ampio spazio alla psicologia e un po’ di Thelema. I testi sono fitti di citazioni letterarie (moltissime da Shakespeare) e di riferimenti più o meno cifrati, maliziosi o meno, alla vita e ai contatti dell’autore. Per dire, il cenno del racconto “Inammissibile” al Loch Ness richiama al luogo di Boleskine House, dove l’autore era vissuto a periodi e aveva celebrato rituali; e gli Exclusive Plymouth Brethren lì citati sono quelli del culto fondamentalista cui appartenevano i suoi genitori, e da cui la Bestia 666 era stata ovviamente cacciata. Anche più emblematico per il periodo che l’autore sta attraversando è un cenno a tre femme fatale – o piuttosto divoranti dark lady – contenuto nel terzo dei racconti:

 

Il ragazzo ebbe un sussulto, quasi svenne. “Esistono donne di questo tipo?” chiese Macpherson. “Pensavo fosse una favola.”

“Ne ho conosciute tre, intimamente”, rispose Simon Iff. “Edith Harcourt, Jeanne Hayes, Jane Forster. Quello che dice il ragazzo è vero. Posso dire che l’indulgenza nel bere o nelle droghe tende a creare questi mostri dalle donne più nobili. Delle tre che ho menzionato, le ultime due erano cattive per natura. Edith Harcourt era una delle donne più belle che siano mai vissute, ma sua madre le aveva insegnato a bere quando era ancora una bambina, e in un momento di stress il nemico nascosto è uscito da dove era in agguato: le ha distrutto l’anima. La sua personalità fu completamente trasformata; sì, signore, nel complesso, credo nella possessione da parte del diavolo. Tutte e tre le donne hanno rovinato gli uomini che hanno frequentato, o alcuni di loro. Jeanne Hayes ha rovinato la vita di suo marito e ha strappato l’anima al suo amante prima di uccidersi, Jane Forster ha portato un valido avvocato alla follia malinconica. Delle loro vittime minori, semplici cuori infranti e così via, si perde il conto. Edith Harcourt ha reso la vita di suo marito un inferno per tre anni, e dopo il divorzio si è scatenata del tutto e ha distrutto molti altri con le sue carezze infami.”

“L’ha conosciuta intimamente?”

“Era mia moglie.”

 

Dove sotto il velame della narrazione, Edith Harcourt è identificata da una nota olografa dell’autore per Rose Edith Kelly (1874-1932), da lui avventurosamente sposata, e assurta a prima delle Donne Scarlatte: è attraverso lei, nel ruolo di Ouarda la Veggente, che gli è giunta la famosa Rivelazione del Cairo, 1904, a monte del culto filosofico/religioso del Thelema. Si sono lasciati rovinosamente nel 1910, con divorzio ufficiale e strascico di rovelli. Rose ha avuto da Aleister due figlie, una morta prestissimo, l’altra crescerà lontana dal padre. Scivolata tristemente nell’alcool, l’ex-Donna Scarlatta sarà ancora modello per la povera Margaret del Magician di Maugham.

Jeanne Hayes, cioè Jeanne Eugenie Heyse, poi Heyes (1890-1912), in arte Ione de Forest, inglese di famiglia belga-irlandese, ha avuto la parte di Luna nei crowleyani Riti di Eleusi (1910) ma si è dedicata poi alla pittura, sposando il paleografo Wilfred Merton: ha poi avuto un rapporto con il poeta e scrittore Victor Neuburg (discepolo e per un periodo partner magico e di vita del bisessuale Crowley), e si è suicidata mentre attendeva il divorzio (“ha rovinato la vita di suo marito e ha strappato l’anima al suo amante prima di uccidersi”, sintetizza Iff). A trovare il corpo è stata la pittrice Nina Hamnett, che ricorderà questo sottomondo di arte, passioni ed eccessi nel suo Laughing Torso (1932), ed Ezra Pound celebrerà la giovane in una lirica e nel Canto VII.

Jane Forster, cioè la bellissima Jeanne Robert Foster (1879-1970) nata Olivier o Ollivier, modella, giornalista e poeta, citata come “il Gatto” nelle Confessioni di Crowley, da lui ribattezzata Soror Hilarion (è la terza Donna Scarlatta) e modello per la Mollie Madison di altri racconti, sarebbe stata d’accordo per lasciare il marito e sposare Aleister, che però ha lasciato improvvisamente: per una volta, la Bestia 666 è stata colpita al cuore, e il testo risulta scritto sull’onda di questa amarezza profonda.

Insomma Iff è un vero e proprio concentrato del Crowleyverse: ma sarebbe sbagliato, anche per i pragmatici motivi del varo di questi racconti, estrapolarlo dalla grande famiglia degli indagatori tanto florida tra i due secoli. Ed è inevitabile cercarvi parentele. Il paradosso è che, pur nell’ovvia distanza di profilo, il detective in fondo più simile all’occultista Iff nel lasciare spazio alle pieghe e piaghe della vita interiore sia ben diverso dei dottori psichici fioriti nei primi decenni del Novecento (e tanto meno dei loro predecessori vittoriani): si tratta in fondo di un indagatore del foro interno nientemeno che in talare, il sacerdote-detective Padre Brown creato nel 1910 dallo scrittore, poeta, polemista e critico d’arte Gilbert Keith Chesterton (1874-1936), con qualche anticipo sulla sua ufficiale conversione al cattolicesimo (1922).

Come osservato in altra sede, pochi personaggi paiono più distanti di Crowley e Chesterton: eppure sono entrambi geniali, combattivi, ingombranti, ironici fino al sarcasmo, cultori entusiasti del paradosso (“prince of paradox” è stato definito Chesterton, ma anche il magistero di Crowley – come esplicitato in Moonchild – vede nel paradosso un vero e proprio sistema di pensiero), autori prolifici di saggistica, narrativa e poesia. Entrambi eversivi, da lati diversi, rispetto al conformismo etico di un’epoca, al “modo di pensare meccanico dei protestanti” (come lo definisce Gramsci nelle Lettere dal carcere), al grigiore spesso vuoto di una morale pubblica vittoriana – sopravvissuta alla grande regina, gli strascichi correranno ancora per mezzo secolo – sull’onda in fondo della lezione del grande provocatore Wilde. I due hanno anzi modo di battibeccare a distanza fin dal 1901 (quando Chesterton mostra qualche interesse per la poesia di Crowley, con riserve solo sui suoi paganesimi d’importazione dai toni simbolistici modaioli): e si scambiano ironie via via crescenti, anche se nel complesso relativamente morbide. Certo, la prosa davvero letteraria, ricca e scintillante di Chesterton lascia parecchio indietro quella di Crowley. Come quest’ultimo del resto esplicita nella propria “autoagiografia” proprio a proposito delle avventure di Iff, in generale il sistema sottostante le medesime si basa

 

per la maggior parte su semplici principi meccanici. Potrei anche paragonarli a problemi di scacchi. Il metodo generale era pensare a una situazione la più inspiegabile possibile, quindi di chiudere tutte le fessure con lo stucco e, dopo essermi accertato che nessuna spiegazione fosse possibile, fare un ulteriore sforzo e trovarne una. Trovo difficile considerare questo genere di cose come seria letteratura, eppure l’istinto artistico in me è così inestirpabile che il Vecchio Adamo fa capolino abbastanza spesso da rimuovere queste storie dalla categoria dei jeux d’esprit.

 

Nel senso proprio di una verità radicalmente umana che lui intende testimoniare (o almeno così dichiara, ma in questo caso è credibile, anche per il tipo di obiettivi polemici). Certo, c’è un abisso tra il piccolo prete di parrocchia, sorridente e un po’ trasandato, “che attraverso le raffinate esperienze psicologiche date dalla confessione e dal lavorio di casistica morale dei padri, pur senza trascurare la scienza e l’esperienza, ma basandosi specialmente sulla deduzione e sull’introspezione, batte Sherlock Holmes in pieno, lo fa apparire un ragazzetto pretenzioso, ne mostra l’angustia e la meschinità” (ancora Gramsci) e il vecchio viveur che può affettare esperienze ascetiche ma alternandole alle abboffate di foie gras e alle degustazioni di vini pregiati in club esclusivi. Ma entrambi rappresentano la critica a un certo modello di eroe raziocinante, e in fondo di mondo ideale, a partire da un approccio antropologico e psicologico e da un’ironia costante.

Si può faticare a star dietro ai fuochi d’artificio – talvolta un po’ forzati – dei paradossi di Iff. E tuttavia il brio e l’intelligenza, le divertite sorprese e gli arzigogoli di questi racconti mantengono una vivacità intatta e rappresentano godibilissimi documenti non solo per una storia dell’esoterismo ma per quella di un genere poliziesco che col fantastico flirta in fondo fin dalle prime origini, riuscendo al contempo a evocare effervescenti siparietti d’epoca.

Come Padre Brown, Iff notomizza i rovelli interiori, difende innocenti accusati e smaschera criminali e ipocriti, sia pure con interesse ben diverso dalla salus animarum cui mira l’eroe di Chesterton. Così alla Innocence of Father Brown (1911, come espresso nel titolo della prima raccolta sul prete-investigatore, seguita da altre 1914, 1926, 1927, 1935) ecco affiancarsi/contrapporsi la “semplicità” di Iff; al riferimento del primo alla fede cattolica, fa riscontro nel secondo quello al Thelema. Per esempio “L’universo è un fenomeno di amore sotto la volontà”; o anche, emblematicamente, “Come mi ha sentito dire circa un milione di volte, Jack, ‘Fai ciò che vuoi sarà tutta la Legge’”.

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Eminenti ecologie. Ambiente e Bellezza in età vittoriana tra idillio e apocalisse https://www.carmillaonline.com/2023/09/02/eminenti-ecologie-ambiente-e-bellezza-in-eta-vittoriana-tra-idillio-e-apocalisse/ Sat, 02 Sep 2023 20:00:21 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=78745 di Franco Pezzini

[È appena uscito in libreria a cura di Emanuela Chiriacò, per i tipi Primiceri di Padova, il volume La Regina Cannibale. L’immaginario ecologico nell’età vittoriana e post vittoriana, con un saggio conclusivo di Paola Del Zoppo. Quella che segue è la mia prefazione.]

Lo sappiamo, l’età vittoriana con il suo impatto tanto vivido sull’immaginario di oggi, sorta di Paradiso perduto di eroi in mantellina e trine, pince-nez e ombrello (perennemente a spasso nell’odierno orizzonte transmediale, attraverso nuove edizioni di romanzi e racconti, trasposizioni su schermo, pastiche) rappresenta per [...]]]> di Franco Pezzini

[È appena uscito in libreria a cura di Emanuela Chiriacò, per i tipi Primiceri di Padova, il volume La Regina Cannibale. L’immaginario ecologico nell’età vittoriana e post vittoriana, con un saggio conclusivo di Paola Del Zoppo. Quella che segue è la mia prefazione.]

Lo sappiamo, l’età vittoriana con il suo impatto tanto vivido sull’immaginario di oggi, sorta di Paradiso perduto di eroi in mantellina e trine, pince-nez e ombrello (perennemente a spasso nell’odierno orizzonte transmediale, attraverso nuove edizioni di romanzi e racconti, trasposizioni su schermo, pastiche) rappresenta per altri versi e in modo concretissimo, in grazia del suo impero quasi planetario, una sorta di prova generale del nostro mondo globalizzato. Compreso per quanto riguarda i rapporti con la natura e le minacce che la insidiano, il clima e le sue crisi, il fronte che definiamo ecologico. Certo, è dall’inizio dell’Ottocento – o anche molto prima – che emergono inquinamento, sfruttamento industriale e altre situazioni lesive di un’alleanza tra uomo e natura, garantendo senz’altro una serie di benefici moderni ma ponendo al contempo fiumi di domande (comprese quelle di Mary Shelley col suo Frankenstein): però è con l’età vittoriana che una certa consapevolezza emerge in modo più acuto tra nubi di fuliggine spessa.

Grande pregio del testo che andate a leggere è nella proposta di un ventaglio di contributi, articoli, prove in punta di penna niente affatto noti al grande pubblico e per nulla scontati: a offrir voci che in valori e limiti – limiti che non paia ingeneroso rilevare, considerando quanto nell’ultimo secolo sia cresciuta una sensibilità all’ambiente e la percezione di rischi molto concreti – presentano sul tema un ampio panorama di provocazioni.

Si parte da Industrializzazione e città tentacolari, sul rapporto – paradigmatico nel caso di Londra – con la nuova urbanizzazione. Un fenomeno del resto tanto felicemente evocato in pagine di autori-cardine del periodo in questione: si pensi solo a Dickens (dagli impagabili Sketches by Boz, 1833-36, a mille scene dei suoi grandi romanzi, compreso l’emblematico Tempi difficili, 1854, che pure si ambienta a Coketown, trasfigurazione di Preston presso Manchester), a L’uomo della folla di Poe, 1840, ambientato significativamente in una Londra mitizzata, visionaria e febbrile – con il suo vampiresco Ebreo errante della labirintica modernità urbana, in osmosi/dipendenza dalla Notte etica di massa –, ai bassifondi evocati dai polizieschi di Conan Doyle e dalle incredibili tavole a incisione di Gustave Doré per lo “scandaloso” reportage London: a pilgrimage, 1872. È un fatto che, nel corso dell’Ottocento, Londra sia cresciuta in modo vertiginoso, dal primo quarto del secolo è divenuta la città più grande del pianeta (da oltre 1 milione di abitanti nel 1801 ha conosciuto un’impennata a 5,567 milioni nel 1891), il maggior porto esistente e il cuore pulsante di finanza e commercio internazionale, connesso in vario modo a tutto il resto della Terra; e alla fine dell’età vittoriana rappresenta un intero mondo, il luogo delle contraddizioni della modernità (al punto che proprio lì i movimenti dei lavoratori sono spinti a trovare un importante luogo di confronto). Non è un caso che nel Dracula (1897) il Grande Vampiro intenda trasferirsi nella gigantesca pasticceria di una Greater London stimata di 6,292 milioni di persone; e neppure che per intervenire urbanisticamente sull’infernale Babilonia dei quartieri poveri occorra il clamore mediatico del caso Jack the Ripper, 1888. Per contro, autori flâneur come Machen rilevano l’estrema complessità del panorama umano a Londra: dal narrante de La collina dei sogni (1895-1897, pubbl. 1907) nella sua catabasi urbana, al Dyson di La luce interiore, che vede nella capitale “il più grande soggetto che mente umana possa concepire. […] Vede, a volte mi sento disarmato al pensiero dell’immensità di Londra, della sua complessità. Con ragionevole sforzo si può capire Parigi, ma Londra no, Londra resterà sempre un mistero”.

Ma nelle pagine che andrete a leggere il soggetto non è soltanto la pur emblematica Londra. Parte infatti nientemeno che dal Bosforo di Pierre Loti il primo contributo di questa raccolta, l’articolo The Ugliness of Modern Life – La bruttezza della vita moderna di Ouida (all’anagrafe Maria Louise Ramé, 1839-1908), prolificissima e oggi quasi dimenticata scrittrice inglese che ebbe però la stima di Oscar Wilde, morì a Viareggio e fu sepolta a Bagni di Lucca, dalla sua raccolta Critical Studies, T.F. Unwin 1900: e da quel fronte esotico si avventura in una serie di speculazioni sul rapporto tra modernità & cinica indifferenza alla bellezza. Con le sue riflessioni a volte interessanti e controcorrente, a volte discutibili o (ci pare) sgangherate, una libera battitrice come Ouida è forse emblematica della fatica di un’epoca a focalizzare problemi su un fronte tanto ampio, uscendo da soggettivismi e limiti di strumenti d’analisi: una fatica che, senza concederci alibi, fa meglio comprendere resistenze e ritardi in una percezione collettiva anche molto più recente.

Così un certo passatismo dell’autrice risulta simpatico dove contesta le crudeltà sugli animali, gli orrori dell’inquinamento industriale e gli sconci paesaggistici un po’ in tutto il mondo, le sirene svianti di un commercio cieco e avido e del militarismo imperante, nonché l’eccesso di ordine, “sicurezza” e uniformità (“La polizia è ovunque […] mentre fuori casa i ragazzi e le ragazze non devono cantare o ballare, il cane non deve giocare o abbaiare, la sedia non deve spiccare sul marciapiede”) – anche se poi biasima i verdetti troppo miti dei tribunali. Per contro forzate e datatissime sono altre sue valutazioni, scandalizzate e tonitruanti quanto confusive: come la stroncatura dell’arte moderna in generale, la miope ed elitaria critica al fatto che i bambini siano spinti a disegnare, lo sdegno sulla postura antiestetica sui mezzi di locomozione (a due ruote, soprattutto)… Per non parlare del suo grottesco Medioevo idealizzato alla Walt Disney, della guerra di una volta piena “di colore e di sfarzo”; o dell’imputazione dei frequenti traslochi della “maggior parte delle persone del ceto borghese e della classe operaia” a una deprecabile incapacità di capire il valore di una casa – laddove le cause sembrano ben più concrete e drammatiche, specie per i ceti più bassi. Del resto superficialotto è il suo giudizio sulla Comune di Parigi e in generale sul socialismo – a dimostrare, se mai ve ne fosse bisogno, quanto la cifra dell’antimodernismo resti in sé ideologicamente equivoca.

“Penso che non ci sia dubbio che la bellezza fisica stia degenerando rapida, e la frequenza con cui si vede la bocca scrofolosa nei bambini, anche nei bambini degli aristocratici, è allarmante per il futuro della specie”, il che Ouida imputa – non senza alcune ragioni – all’inquinamento: ma certo le preoccupazioni eugenetiche fanno avvertire non distante il Max Nordau di Entartung, 1892. Del resto, nella “Canaglia che si precipita con un urlo stridulo di risate quando colpisce e getta a terra una donna debole o un bambino piccolo” sembra di ritrovare le brutalità del signor Hyde di Stevenson (1886), lui pure ipoteticamente frutto degli ultimi pericolosi studi scientifici. E il dottor Moreau di Wells è appena un passo in là.

L’autrice torna sul tema in un articolo, The Streets of London La bruttezza di Londra. Un appello per le strade belle (inizialmente su Women’s World  data incerta ante 4 settembre, più avanti sul Western Star 8 dicembre 1888), dove interviene con proposte e censure su temi della vita urbana. Ed è interessante ricordare quanto una narratrice popolare quale Ouida, per quanto anticonformista, possa restituire l’eco di discorsi diffusi all’epoca tra persone molto più convenzionalmente allineate.

In ogni caso a rispondere a Ouida è una voce eccellente, William Morris, con il pezzo Ugly London – Londra la brutta (Pall Mall Gazette 4 settembre 1888): dove cerca di affinare la discussione. Che Londra sia brutta, sia scoraggiante (“C’è, davvero, come dice Ouida, qualcosa di mortificante e scoraggiante nella bruttezza di Londra; altre città brutte possono essere più minacciose e feroci nella loro crudeltà, ma nessuna è così disperatamente malmessa, così irrimediabilmente volgare come Londra”), non ci sono dubbi; e Morris si limita a qualche suggerimento che però – ne è cosciente – resta un palliativo. Ma è importante capire la chiave sociale: la bruttura della Londra Ricca deriva in modo diretto dal furto organizzato e legalizzato ai danni della Londra Povera. E di qui, se vogliamo, l’urgenza dell’utopia della Bellezza coltivata da Morris con il suo progetto Arts and Crafts: dove il recupero di istanze di bellezza proprio dal medioevo – ma istanze reali, non stereotipo di maniera, con cui portare bellezza nelle case non dei soli straricchi –, e il riconoscimento di una dignità artistica di buoni artigiani con lo sviluppo di una peculiare poetica delle arti applicate, muovono nel segno di un tentare pace con l’ambiente in modo creativo e illuminato. Certamente non può bastare, ma resta uno degli esempi più alti prodotti su questo fronte nell’Inghilterra vittoriana.

Dalla constatazione dei guasti della modernità e particolarmente in quella capitale che ne è quasi un simbolo, promana la seconda interessantissima sezione, Urbanizzazione e cambiamenti climatici, che vede in primo piano il fenomeno London Fog. Un fenomeno allarmante, presentato da uno scritto di Thomas Miller, London FogLa nebbia di Londra (Picturesque Sketches of London Past and Present, Office of the National Illustrated Library, 1852) come “una concentrazione di zuppa di piselli gialli, densa quel tanto che basta da farsi attraversare senza rimanere del tutto sommersi o soffocati”, che costringe ad accendere le luci e causa surreali incidenti. L’evocazione dei medesimi, in particolare nei quartieri sul Tamigi, è condotta con piglio d’ironia atroce alla Hogarth, ma l’enfasi non toglie nulla alla gravità del quadro.

Non stupisce che il pezzo seguente sia un vero e proprio racconto distopico, in qualche modo di fantascienza: The Doom of LondonLa tragica sorte di Londra di Robert Barr (The Idler, novembre 1892, poi nella raccolta The Face And The Mask, 1894). Barr (1849-1912) è un novellista scozzese-canadese trapiantato a Londra, autore di storie umoristiche, poliziesche e del sovrannaturale, amico di Stephen Crane e Conan Doyle (di cui però parodia l’arcidetective nelle avventure di Sherlaw Kombs). In questo caso è in scena una vicenda catastrofistica proprio incentrata sul tema della nebbia soffocante, chiamiamola pure smog: un testo che è di estremo interesse paragonare al successivo della raccolta, The Doom of the Great City; Being the Narrative of a Survivor, Written A.D. 1942La Tragica Fine della Grande Città del micologo e narratore William Delisle Hay (ca. 1853-1885: in volume, Newman and Co. 1880). Anche i titoli originali sono simili, citando entrambi il Doom/destino, ma quello di Hay è precedente di dodici anni: il sospetto è che Barr possa conoscerlo ma, con il suo racconto più neutramente catastrofistico, preferisca smarcarsi dai toni ideologici e moralistici del predecessore. Hay è in effetti un personaggio un po’ particolare, mixa nei suoi testi fantascientifici confusi conati socialisteggianti e spiacevoli posizioni da suprematista bianco. Il suo testo qui presentato è stato considerato il primo racconto moderno di apocalisse urbana, sull’onda della grave crisi d’inquinamento del 1873: ma l’autore vi vede una sorta di punizione per la depravazione della “Grande Città”, una Londra-Babilonia dove la disonestà regna nel lavoro, i poveri sono oppressi, una Chiesa ingiusta benedice lo stato delle cose e la depravazione trionfa, in un meretricio dilagante. A castigare tanta corruzione è la nebbia, che inevitabilmente colpisce anche gli innocenti…

La sezione successiva, La natura tra urbano e rurale, riconduce idealmente a un altro degli spunti di Ouida: e un eccellente punto di partenza è il pezzo Town and CountryCittà e campagna di Morris (The Journal of Decorative Art, aprile 1893), che rendendo più dialettica la contrapposizione, ne affronta una rapida disamina storica. Puntualizza così come a un certo punto il discrimine non sia più stato “tra le città e le campagne, ma tra Londra e il resto del paese, tra le città e il resto” – e il discorso torna a Madre Londra, come la chiamerà Michael Moorcock. Sottolineando anche la complessità del quadro:

 

Per ora si comprende che abbiamo tre cose da affrontare: Londra, la brutalità e la sordidezza apparenti che la vita intellettuale in qualche modo compensa; gli snodi commerciali, che non hanno una tale compensazione, e anche in apparenza sono ben più orrendi di Londra; e il paese, che, invece di essere il giusto compagno e aiutante delle città e della Città, è un’appendice fastidiosa, un incidente imbarazzante della vita cittadina, commerciale o intellettuale, che è la vita reale del nostro tempo.

Il risultato di tutto ciò è la solita confusione arrabattata che opprime l’intera vita di questo tempo di strano e rapido cambiamento, se siamo precipitati in un così angoscioso bisogno di organizzazione ragionevole. Anche Londra, di gran lunga migliore delle città commerciali, è volgare in modo meschino nei quartieri ricchi, fetida e squallida in modo indicibile nei quartieri poveri. E il paese – in questa fine di maggio non dirò che non sia bello – bello più o meno dappertutto dove non ci sono molte case moderne all’orizzonte. Ma conosco bene il paese: e anche per un uomo ricco, un uomo benestante perlomeno, il paese si lascia coinvolgere dalla stupidità arrabattata del tempo. Fra tutta la bellezza soverchia di foglie e fiori, tutta la ricchezza di prati, e terreni, e colline, è avaro, oh così avaro!

 

Il vero Ebenezer Scrooge sembra doversi insomma individuare in questo tessuto di rapporti, che vedono sacrificata al soldo ogni istanza di bellezza. Ma Morris non si ferma alla lamentela e ci parla di come vorrebbe riformata la città, anche in vista di un futuro migliore.

Una sorta di diritto di replica è concesso a Ouida con il brano GardensGiardini (Views and Opinions, 1895), a celebrare il gusto del giardino privato, luogo del pensiero e del sentimento, contro i giardini e parchi pubblici: raccomandando di non eccedere in “pulizie” (“Il giardino, come una donna può essere troppo pulito, troppo freddo, troppo tiré à quatre épingles”), l’autrice vede il giardino ideale in quello di Corisande, nel Lothair di Disraeli, politico celebre ma in precedenza dandy e autore di fiction alla moda, e si mette a ragionare sui migliori accostamenti di piante e sulla tradizione inglese dei giardini. Di nuovo si può discutere sulle affermazioni della Nostra ove polemizza contro “tutto il ‘realismo’ delle esistenze dei poveri [che] si giudica in base a squallore, carestia, crimine, ubriachezza e invidia” – in un’apparente incomprensione del fatto che i “poveri” non si scelgano da soli simili inferni,  che quelli costituiscano il frutto di non casuali contingenze di classe e che i romanzieri non inventino nulla. Basti vedere la documentazione fotografica sulle stanze dormitorio dei bassifondi dove la gente dorme seduta sostenuta da una corda: c’è allora poco spazio per pensare agli idilliaci cottage fioriti di rose di gente pur semplice descritta dall’autrice. Lodevole l’insegnamento ai piccoli dell’amore per i fiori, “Non bisognerebbe mai permettere ai bambini di cogliere i fiori, nemmeno nei campi e nelle siepi, soltanto per buttarli via; bisognerebbe insegnare loro grande rispetto per la bellezza floreale che li circonda”; per contro vivaci – e comprensibili – critiche riguardano lo spreco di fiori nelle case dei nobili e nelle chiese. In generale apprezzabile è il senso del colore e la documentazione d’ambiente nelle pagine di Ouida, pur appesantite da brontolii e comunque non troppo illuminanti dal punto di vista dell’analisi sociale.

Di altro livello, per qualità stilistica e intensità lirica sono le pagine che seguono: il piccolo gioiello In the Botanical GardensAi giardini botanici di Katherine Mansfield (1888- 1923: con lo pseudonimo di Julian Mark, è il suo primo racconto pubblicato a 19 anni, 1907); la visione Dame NatureLa Signora Natura della scrittrice e naturalista scozzese Elizabeth Brightwen (1830-1906: da More about Wild Nature, T.F. Unwin 1893); il vividamente pittorico Where The Forest MurmursDove mormora la foresta di Fiona MacLeod (pseudonimo ma vero e proprio “secondo sé” di William Sharp, 1855-1905, autore di notevole interesse spentosi in Italia a Bronte nel Catanese: da Where The Fortest Murmurs. Nature Essays, R. & R. Clark, 1906) coi suoi bozzetti invernali poeticamente documentaristici. Le stagioni come punto d’osservazione emergono con passo insieme letterario e rigorosamente scientifico anche in The Biology of AutumnBiologia dell’autunno del naturalista scozzese Sir John Arthur Thomson (1861-1933: da The Evergreen A Northern Seasonal. The Book of Autumn, T.F. Unwin 1895). Nell’età vittoriana schiere di studiosi gentiluomini – zoologi, botanici, esploratori, entusiasti a vario titolo – mostrano così di affrontare il mondo della natura con sguardo elegantemente elegiaco e insieme puntuale sui dati scientifici, ma senza immaginare le crisi che un secolo dopo vedranno gli assetti da loro celebrati esposti a rischi radicali.

Il frutto dell’interpretazione essenzialmente patriarcale offerta da gran parte di loro – emblematici gli studi di Bram Dijkstra sulle letture artistiche d’epoca sulla Donna, supportate da un impressionante bacino sessista di convinzioni spicciole e pretese verità scientifiche – verrà ridiscusso in tempi più recenti dalla cosiddetta queer ecology, con la denuncia del predominio del maschile su natura e femminile. Cui è dedicata l’ultima sezione: anche qui, il pregio della raccolta è di scelte per nulla banali e scontate.

Si parte dunque con un testo narrativo, il racconto Pan di un’autrice notevolissima, George Egerton (all’anagrafe Mary Chavelita Dunne Bright 1859-1945) tratto dalla raccolta Symphonies, John Lane 1897. La vicenda si ambienta non in Inghilterra, ma nel coevo mondo basco machista e brutale dei Bassi Pirenei: qui il richiamo dell’uomo capra suonato a una gara di ballo avrà conseguenze sessualmente esplosive e tragiche. A far esplodere la situazione non stupisce che una scrittrice come Egerton, associata almeno agli inizi a un certo orizzonte decadente attraverso marcatori emblematici come le illustrazioni di Aubrey Beardsley, convochi in scena quella divinità della natura scatenata – pulsioni comprese – che in tale arco di decenni conosce un allegro ritorno: si pensi solo a Machen (The Great God Pan, 1894), al romanzo di Knut Hamsun (Pan, 1894), a The Blessing of Pan di Lord Dunsany (1927), a The Goat-Foot God di Dion Fortune (1936) e allo stesso Peter Pan di Barrie, per non parlare dell’attenzione offertagli da pittori, filologi come Wilhelm H. Roscher (poi ricordato da James Hillman nel suo Saggio su Pan) e storici delle religioni come Sir James George Frazer. La fisionomia spiazzante ed eversiva di Pan permette richiami alla natura non mansueti o manieristici, e il significato del suo nome – “il tutto” – svela alle sue evocazioni connotati di spiazzante latitudine.

Un secondo racconto, il bellissimo The Music on the HillLa melodia sulla collina (dalla raccolta The Chronicles of Clovis, John Lane 1911), è pure di firma celebre, Hector Hugh Munro noto come Saki (1870-1916), e pure torna a Pan, con il misto di macabro e ironia caro all’autore. In questo caso il devoto al dio pagano è l’uomo, ma la protagonista ha fatto proprio il sistema di un mondo patriarcale. Con risultati di cui dovrà dolersi…

Mentre il terzo, Miss  Ormerod (The Dial, 1924) di Virginia Woolf è ispirato a un personaggio autentico, l’entomologa Eleanor Ormerod (1828-1901): non sposata e a sua volta perfettamente integrata nella società patriarcale dell’epoca – con una scienza saldamente in mano agli uomini – non mostrò mai interesse a criticare tale assetto. Virginia Woolf ne offre un ritratto scintillante, gustosamente ironico e spiritosamente convenzionale. “Sotto il microscopio si percepisce chiaramente che quegli insetti hanno organi, orifizi, feci; e, sottolineo, copulano”: a richiamare a una delle dimensioni di natura più essenziali e in fondo più provocatorie per un certo orizzonte sociale. Ma senz’altro soggetta al ministero di Pan.

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Contro il totalitarismo: perché leggere il pensiero di Luce Fabbri https://www.carmillaonline.com/2023/05/20/contro-il-totalitarismo-perche-leggere-il-pensiero-di-luce-fabbri/ Sat, 20 May 2023 20:00:33 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=77014 di Lorenzo Pezzica

[Con il consenso della casa editrice si riporta di seguito la prefazione scritta da Lorenzo Pezzica al volume Luce Fabbri, Critica dei totalitarismi (elèuthera, 2023). Attivista, docente, saggista e poetessa, Luce Fabbri (1908-2000) si è confrontata con il proprio tempo fedele alla radice socialista dell’anarchismo di Errico Malatesta e del padre Luigi, non mancando di attingere dalle diverse correnti del pensiero critico a lei contemporanee. Nel volume sono raccolti scritti in cui Luce Fabbri si occupa di libertà e rivoluzione, della natura dello Stato contemporaneo e dell’ascesa della tecnoburocrazia. [...]]]> di Lorenzo Pezzica

[Con il consenso della casa editrice si riporta di seguito la prefazione scritta da Lorenzo Pezzica al volume Luce Fabbri, Critica dei totalitarismi (elèuthera, 2023). Attivista, docente, saggista e poetessa, Luce Fabbri (1908-2000) si è confrontata con il proprio tempo fedele alla radice socialista dell’anarchismo di Errico Malatesta e del padre Luigi, non mancando di attingere dalle diverse correnti del pensiero critico a lei contemporanee. Nel volume sono raccolti scritti in cui Luce Fabbri si occupa di libertà e rivoluzione, della natura dello Stato contemporaneo e dell’ascesa della tecnoburocrazia. – ght]

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Ci sono almeno tre motivi per leggere questa breve antologia dedicata all’analisi e riflessione di Luce Fabbri sul potere totalitario. Il primo motivo è che «nasce» anarchica, favorita dallo speciale ambiente familiare in cui cresce, e dunque diventa una testimone particolarmente sensibile e consapevole degli eventi e delle tragedie che attraversano tutto il XX secolo. L’intero suo percorso esistenziale, intellettuale e politico si iscrive all’interno dell’ideale anarchico, cosa che non le impedisce comunque di saldare il suo pensiero a un forte principio di realtà e al contesto sociale e politico di appartenenza. Il secondo motivo è che questo suo essere anarchica «da sempre» è ciò che la rende un personaggio estremamente significativo per la pregnanza con cui ha vissuto e concretizzato la sua weltanschauung libertaria. L’anarchismo le ha fornito uno schema di lettura della realtà. Con un simile orientamento critico ha affrontato le questioni politico-sociali più scottanti a lei contemporanee senza cedere alle seduzioni della semplificazione. Il terzo motivo è che l’anarchismo le appare la migliore garanzia contro l’affermazione del totalitarismo, anzi le appare come l’unico movimento capace di rivendicare pienamente l’importanza dell’autonomia dell’individuo nei confronti dei grandi apparati e quindi di porre in primo piano il valore morale della libertà.

Luce Fabbri, nata nel 1908 a Bologna e scomparsa nel 2000 a Montevideo, è oggi considerata una tra le figure intellettuali più significative dell’anarchismo italiano e internazionale del Novecento1. Nonostante ciò, il suo pensiero, benché accolto su numerose riviste del movimento, per lungo tempo non è stato compreso e dibattuto quanto avrebbe meritato, anche se, per esempio, Pier Carlo Masini, seppur critico nei confronti di alcuni aspetti del suo pensiero2, ne aveva già riconosciuto l’originalità e la profondità tanto da ricordare, molti anni più tardi, la «boccata d’ossigeno» che avevano provocato le sue idee «per il modo problematico con cui erano proposte»3. Masini però resta uno dei pochi, e le idee della Fabbri passano sostanzialmente inosservate nel movimento anarchico italiano, tanto che chi riprende e sviluppa il tema della «tecnoburocrazia» negli anni Sessanta, riscoprendo pensatori anarchici come Louis Mercier Vega o autori come Bruno Rizzi, non si accorge delle lungimiranti pagine scritte dalla Fabbri sullo stesso tema. E poco dibattuta resterà anche la sua riflessione sul totalitarismo4, svolta tra gli anni Trenta e Sessanta, che comunque le permetterà di ripensare al contempo l’essenza stessa dell’anarchismo5.

Nei suoi scritti, infatti, Fabbri elabora una nozione dell’agire libertario visto come espressione diretta della volontà umana. Per descrivere la sua riflessione si può utilizzare il giudizio che il sociologo Alessandro Dal Lago ha espresso a proposito del pensiero di Hannah Arendt: «Una teoria libertaria dell’azione nell’epoca del conformismo sociale»6.

Ancorata alla radice socialista dell’anarchismo di Errico Malatesta e del padre Luigi7, ma al contempo spinta a svilupparlo, arricchirlo e per alcuni aspetti superarlo, Fabbri affronta nel corso della sua esistenza alcuni dei nodi centrali delle vicende storiche che segnano la sua epoca. Ma parallelamente a questa cultura politica sviluppa anche una solida cultura storica e letteraria che le darà una grande apertura mentale verso i problemi del presente e del futuro, permettendole tra l’altro di accedere, nel 1949, all’insegnamento universitario a Montevideo.

Negli anni della Guerra Fredda e del mondo diviso in due blocchi, Luce Fabbri vuole trovare «il luogo attuale dell’anarchismo», ripensandone l’essenza, e ritiene di trovarlo nella naturale confluenza di due linee evolutive: il liberalismo e il socialismo.

Pur saldamente legata alla tradizione socialista dell’anarchismo, Fabbri intende infatti recuperare al pensiero anarchico ciò che chiama «una parentela più remota»: il liberalismo, inteso nel suo valore profondamente etico di difesa dell’uomo e di lotta per la libertà. Il liberalismo così inteso potrà dirsi compiuto, secondo lei, quando avrà eliminato i presupposti del dominio economico: la libera impresa e la proprietà privata. A quel punto, la tradizione liberale, toccando così il suo momento più alto, non potrà che confluire nel socialismo.

Nel proporre queste sue idee, Luce Fabbri non manca di richiamarsi tanto al liberalismo radicale di Piero Gobetti quanto al socialismo liberale di Carlo Rosselli. Ma è soprattutto al pensiero di Camillo Berneri che si richiama più direttamente8.

Un elemento centrale che caratterizza la sua esistenza e il suo pensiero è inoltre rappresentato dalla condizione dell’esilio, da lei vissuto con grande sofferenza, anche se non nella stessa misura di suo padre, come lei stessa ricorderà, molti anni più tardi, nella biografia a lui dedicata9. Nel 1932 pubblica infatti a Montevideo I canti dell’attesa, una raccolta di poesie da cui traspare non solo la nostalgia per il paese natale, ma anche lo sdegno per il fascismo e le sue imprese10.

La sua esistenza si svolge di fatto tra l’Italia, che lascia insieme alla famiglia a vent’anni a causa del fascismo, e l’Uruguay, il suo secondo paese. Dal 1929, anno di arrivo a Montevideo, questa condizione «binaria» diventa centrale nel suo modo di vivere e pensare. Nondimeno, il movimento anarchico italiano resta un punto di riferimento fondamentale per la sua azione di militante e intellettuale anarchica. Già a partire dagli anni Trenta, pur se tra moltissime difficoltà, cercherà di mantenere i contatti con il movimento anarchico italiano, per poi, con la fine del conflitto mondiale, riprenderli in modo più continuativo. E tuttavia nel dopoguerra Luce decide di non tornare nel suo paese natale, a differenza di altri esuli anti-fascisti. In Italia tornerà solo tre volte: nel 1954, nel 1981 e nel 1993.

Fin dal 1944 segue però con entusiasmo i tentativi di riorganizzazione del movimento nella parte liberata dell’Italia attuati da vari militanti, e in particolare da Pio Turroni, Giovanna Berneri e Cesare Zaccaria; tentativi che si concretizzano nel settembre del 1945 con il primo Congresso nazionale di Carrara che dà vita alla Federazione Anarchica Italiana11 e alla fondazione della rivista «Volontà»12.

Luce Fabbri è in particolare entusiasta del nuovo progetto editoriale, al quale subito aderisce. Quanto reputi importante la nascita di «Volontà» emerge chiaramente dalle lettere che scrive a Giovanna Berneri nel 1945. In una lettera del dicembre di quello stesso anno, Luce afferma: «Se ‘Volontà’ si trasforma in una rivista con sufficiente diffusione all’estero, penserei seriamente a sopprimere ‘Studi Sociali’»13.

In effetti, la sua collaborazione con la nuova rivista italiana rappresenta uno dei momenti più importanti del suo percorso esistenziale e della sua riflessione teorica. Gli articoli che pubblica sulla rivista tra il 1946 e il 1960, oltre ad affrontare argomenti legati all’attualità politico-sociale italiana e uruguayana, nonché ai temi della pedagogia libertaria, sono infatti incentrati sul fenomeno del totalitarismo14. Una riflessione che, iniziata fin dagli anni Trenta, giunge nel periodo della sua collaborazione alla rivista a una sua completa formulazione15, che le permetterà di affrontare nei decenni successivi della sua vita l’analisi della realtà storica, sociale e politica dello Stato contemporaneo, sempre attenta a ogni evento o processo che possa costituire un segnale della tendenza totalitaria in atto. E di fatto il suo originale contributo al tema del totalitarismo la inserisce a pieno titolo all’interno di quel dibattito che ha profondamente segnato la cultura del XX secolo16.

Nella sua ricerca intellettuale, Luce Fabbri attinge alle più diverse e stimolanti correnti del pensiero «critico», dimostrando così la sua particolare apertura mentale e culturale. Al fianco del padre, Luce aveva acquisito una buona conoscenza delle problematiche scaturite dal dibattito sulla rivoluzione russa e l’avvento del regime fascista in Italia. Fa dunque proprio e rielabora il pensiero dei classici dell’anarchismo, ma si dimostra sensibile anche alle suggestioni emerse dal «laboratorio parigino» degli anni Trenta17, indipendentemente dall’estrazione politico-culturale di quei pensatori. Tra le sue letture di quegli anni vi è per esempio Emmanuel Mounier, filosofo cattolico del personalismo, ma attinge anche ad altre fonti come le opere di George Orwell, Ernst Cassirer18, James Burnham19 e Milovan Đilas20. Molte delle sue intuizioni sul fenomeno del totalitarismo sono vicine a quelle espresse da Simone Weil21 o anticipano per alcuni aspetti quelle di Hannah Arendt22, mentre le sue osservazioni sulla tecnoburocrazia si possono ritrovare in quelle formulate da Bruno Rizzi23.

Parlare di totalitarismo nell’Italia di quegli anni, comparando fascismo, nazismo e comunismo, significa «esporsi al bando della società intellettuale e, nella sinistra, all’isolamento sanitario»24. Ma Luce Fabbri, come ricorda Masini, «queste cose le disse fin da allora» e «questa discussione dell’immediato dopoguerra fu uno dei primi dialoghi di massimo livello fra l’anarchismo e il pensiero contemporaneo»25.

La sua riflessione appartiene infatti a quella che lo storico Enzo Traverso chiama la «caratteristica paradossale»26 all’interno del dibattito sul totalitarismo, cioè il ruolo del tutto marginale svolto nell’articolazione del dibattito dall’Italia, paese in cui la parola totalitarismo aveva trovato la propria origine27. Nell’Italia postbellica, ormai caduto il fascismo, il tema del totalitarismo resta infatti fuori dalla porta, anche se il termine «totalitarismo» circola comunemente, ma in un’accezione «autarchica»28.

Per avere un’idea del ritardo con il quale questo dibattito è giunto in Italia, basti pensare che il celebre libro di Arendt, Le origini del totalitarismo, viene tradotto in Italia solo nel 1967, sedici anni dopo l’edizione originale29, e lo stesso avviene per il saggio di Jacob Talmon, Le origini della democrazia totalitaria, tradotto anch’esso nel 196730, mentre l’opera di Carl Joachim Friedrich e Zbigniew Brzezinski Totalitarian Dictatorship and Autocracy, del 1956, non è mai stata tradotta in italiano31. Non solo, ma occorre aspettare il 1997 per l’organizzazione, a livello universitario, del primo convegno italiano dedicato al tema del totalitarismo.

Ai dogmatismi e alle certezze manichee di quegli anni Luce Fabbri risponde con un’indagine critica e analitica, insoddisfatta della vulgata corrente e animata da una costante problematicità e da una prospettiva culturale aperta. A suo avviso, il fenomeno totalitario ha le proprie origini storiche nel contesto creato dalla Grande Guerra. Le esigenze connesse alla guerra del 1914 avevano infatti portato a una profonda trasformazione della struttura sociale dei paesi capitalisti. La necessità di rendere omogenei gli sforzi volti a pianificare l’economia in funzione della guerra aveva comportato una notevole espansione delle prerogative dello Stato e una conseguente espansione degli apparati burocratici. Un processo che sostanzialmente ricalcava le dinamiche di accentramento del potere che caratterizzavano i paesi totalitari.

Comparando nazismo e stalinismo, Luce Fabbri riassume in questi termini il «sistema totalitario»:

Esso è l’unificazione dell’oppressione politica e dello sfruttamento economico delle grandi masse umane asservite nelle mani di uno Stato assoluto e fortemente centralizzato, operante attraverso una casta di funzionari economicamente privilegiati e politicamente partecipi – secondo la loro scala gerarchica – delle funzioni cosiddette di direzione, cioè in verità del potere. Tale casta comprende tutta la burocrazia governativa nei suoi diversi settori, compresi i tecnici e gli organizzatori della produzione e della distribuzione, la polizia, l’esercito e con il tempo, senza dubbio, il clero»32.

È il fenomeno tecnoburocratico. Luce Fabbri e Louis Mercier Vega33 sono stati i primi a introdurre nel movimento anarchico di lingua italiana il concetto di tecnoburocrazia e fin dal 1933, quando, a partire dallo studio comparato dello Stato fascista e di quello sovietico, Fabbri individua già l’ascesa della classe tecnoburocratica come uno dei tratti unificanti delle società contemporanee34. Come scrive in quell’anno, il totalitarismo del XX secolo gestisce il passaggio in campo economico dal capitalismo al collettivismo burocratico, come avrebbe detto e scritto nel 1939 Bruno Rizzi35 e poi nel 1941, in altri termini, James Burnham36.

Dopo aver inquadrato il processo tecnoburocratico all’interno del fenomeno totalitario, Luce Fabbri pone però in secondo piano gli aspetti economici del processo totalitario, considerati una delle manifestazioni del rapporto fondamentale tra gli individui e i gruppi sociali, che è essenzialmente un rapporto politico, un rapporto di potere.

È quindi sull’aspetto più genuinamente «politico» e «ideologico» del totalitarismo che Luce decide di concentrare la sua analisi. Per lei, fascismo, nazismo e stalinismo puntano, oltre che a un’espansione ipertrofica della sfera pubblica in economia, al potenziamento esponenziale della violenza dello Stato attraverso la guerra, interna ed esterna, all’irreggimentazione sistematica delle coscienze e all’imbarbarimento dei rapporti sociali, che porta all’annichilimento dell’individuo in nome di ingannevoli e falsi ideali collettivi. In particolare sono tre gli elementi che definiscono il regime totalitario: la neolingua, la visione ufficiale della storia, la militarizzazione delle intelligenze.

Il primo elemento mantiene il potere attraverso la trasformazione profonda e unilaterale del vocabolario, sfigurando e a volte invertendo, senza dichiararlo, i termini dei vecchi e dei nuovi problemi. E a tal proposito Fabbri parla della «semantica artificiale del nazionalsocialismo tedesco» diretta a creare quella neolingua che minaccia «il nostro futuro» e che impedisce ogni pensiero eretico37. Lo Stato totalitario, in altri termini, una volta conquistato il potere lo consolida a «colpi di linguaggio»38 trasformandosi in una vera e propria «logocrazia di massa»39.

Per quanto concerne il secondo elemento, Fabbri evidenzia come i regimi totalitari impongano al loro interno una visione ufficiale della storia contemporanea «e, in casi estremi, anche della passata»40. Il totalitarismo utilizza il suo potere per manipolare le informazioni e distruggere la memoria storica. La realtà viene dunque vagliata, selezionata, costruita, prodotta: un tratto questo che a suo avviso accomuna il nazismo e lo stalinismo.

Infine, il terzo elemento, ovvero la militarizzazione delle intelligenze individuali (e la loro successiva fusione in una massa omogenea), appare a Fabbri come una modalità negativa che costringe le persone a un lavoro di investigazione solitario, privo del beneficio dell’interscambio spirituale e della discussione. Da una parte, quindi, il potere onnipervasivo dell’ideologia totalitaria rende «omogenea» la massa degli individui e, dall’altra, «isola» il pensiero dal rapporto fecondo tra idea e realtà. Nel formulare queste sue idee Luce Fabbri fa esplicito riferimento a Orwell, ponendo direttamente al centro delle sue argomentazioni le tesi di 1984.41 Dalla lettura di questa opera ricava infatti importanti suggestioni a conferma del suo pensiero, quali per esempio la relazione tra linguaggio e capacità critica, la relazione tra potere e strumenti di comunicazione e la relazione tra potere e storia. E tuttavia non si limita, nella sua riflessione, ad analizzare il fenomeno totalitario nel solo significato di nuovo regime, bensì si apre verso una prospettiva ermeneutica che cerca di leggere in ciò che accomuna fascismo, nazismo e stalinismo qualcosa che non riguarda solo l’intensità e la struttura dell’oppressione politica ma anche la sua essenza.

Interrogando le responsabilità del passato, Fabbri fa inoltre emergere la continuità tra totalitarismo e tradizione occidentale, tra logica del potere tout court e logica totalitaria. Rispetto ad Arendt è interessante sottolineare il diverso accento posto sulla continuità o discontinuità del totalitarismo, che non a caso avvicina il giudizio di Luce Fabbri a quello di Simone Weil. Se è possibile individuare elementi comuni nella riflessione sul totalitarismo di Fabbri e Arendt, le due pensatrici si differenziano però nel giudizio sull’originalità e l’unicità del fenomeno. Per Arendt il totalitarismo è sì implicato nella mentalità politica e filosofica moderna, ma non è assolutamente necessitato né iscritto come destino nei suoi geni. Per Fabbri invece il fenomeno totalitario è un esito estremo di quella logica del potere che ha segnato la nostra storia. Insomma, dove per Arendt si tratta di novità, per Fabbri si deve parlare dell’ennesima ripetizione, portata alla sua estrema efferatezza, di una violenza che da sempre abita il potere.

Riconoscere l’onnipotenza del potere totalitario non significa dichiarare impossibile l’azione, soprattutto quando si è anarchici. Scrive Luce Fabbri: «Bisogna sottrarsi all’ossessione dell’inevitabilità della riduzione dell’uomo a robot scientificamente determinato e della società a immensa macchina in cui ognuno di noi sarebbe un ingranaggio minimo, sempre più sprovvisto di volontà»42. Contro le strutture di comando e le pratiche violente del potere è possibile gettare in aria le carte, con il coraggio e la forza di una volontà ritrovata, «una ‘tensione’ adeguata»43. Per lei, quindi, l’anarchismo è l’unica vera antitesi al totalitarismo.

In questo senso la rivoluzione spagnola del 1936 è per Luce Fabbri una preziosa lezione di lotta contro il totalitarismo che dimostra, nella concreta realtà storica, la possibilità dell’alternativa anarchica, la possibilità di una società libera, sperimentale, federativa, capace di rivalorizzare – in seno a un’economia socializzata – la più ampia autonomia degli individui e degli organismi locali.

La macchina del potere sempre più sofisticata e oppressiva che rafforza le gerarchie e i poteri burocratici, anche se vissuta come una ferita dolorosa che «stringe il cuore di angoscia»44, non deve quindi mai tradursi in senso di impotenza. Da un lato lo impedisce la prospettiva anarchica (per lei quella del socialismo anarchico malatestiano), dall’altro l’impegno ad agire in favore della liberazione e dell’emancipazione di donne e uomini. Come scriverà più tardi, «questa è la strada, o non c’è nessuna strada»45.

 

 


  1. Sulla figura di Luce Fabbri vedi almeno Margareth Rago, Tra la storia e la libertà. Luce Fabbri e l’anarchismo contemporaneo, Zero in condotta, Milano, 2008; Gianpiero Landi (a cura di), Luce Fabbri: l’anarchismo oltre la democrazia, Centro Studi Francesco Saverio Merlino, Castel Bolognese, 2020; Margareth Rago, «Luce Fabbri», in Dizionario biografico degli anarchici italiani, Tomo I, BFS, Pisa, 2003, pp. 555-556; Margareth Rago, La libertà secondo Luce Fabbri, «A rivista anarchica», a. 30, n. 267, pp. 34-37; Pietro Adamo, Luce Fabbri, storia di una donna libera, «Libertaria», a. 3, n. 1, pp. 68-72; AA.VV., Una grande lezione di pensiero e volontà, «A rivista anarchica», a. 30, n. 266, p. 28; Emanuela Minuto, «La famiglia Fabbri e gli anni dell’esilio (1927-1935)», in Eloisa Betti, Carlo De Maria (a cura di), Biografie, percorsi e networks nell’Età contemporanea, BraDypUS, Roma, 2018, pp. 95-103; Lorenzo Pezzica, «Luce Fabbri», in Anarchiche. Donne ribelli del Novecento, ShaKe, Milano, 2013, pp. 159-171. 

  2. Luce Fabbri, Obiezioni a una recensione, «Volontà», a. VI, n. 9, 1952, pp. 524-527. 

  3. Pier Carlo Masini, «Introduzione» a Luce Fabbri, Luigi Fabbri. Storia d’un uomo libero, BFS, Pisa, 1996, p. 9. 

  4. Sulla riflessione di Luce Fabbri sul tema del totalitarismo vedi Lorenzo Pezzica, «La collaborazione di Luce Fabbri alla rivista ‘Volontà’ (1946-1960)», in Maurizio Antonioli, Roberto Giulianelli (a cura di), Da Fabriano a Montevideo. Luigi Fabbri: vita e idee di un intellettuale anarchico e antifascista, BFS, Pisa, 2006, pp. 223-234. 

  5. Ripensare l’essenza dell’anarchismo, che è la difesa della libertà, non significa comunque per Fabbri rinunciare ai principi propri del socialismo: «Io sento il mio socialismo come una derivazione della mia avversione al potere e non solo come un’esigenza di giustizia e uguaglianza ‘conciliabili’ con tale avversione» ((Luce Fabbri, Socializzazione e libertà, «A rivista anarchica», a. 29, n. 255, 1999, pp. 34-35). 

  6. Alessandro Dal Lago, La città perduta, «Introduzione» a Hannah Arendt, Vita activa. La condizione umana, Bompiani, Milano, 2004, p. X. 

  7. Luigi Fabbri (1877-1935) è considerato uno dei pensatori più originali dell’anarchismo italiano. Nel 1903 fonda con Pietro Gori la rivista «Il Pensiero» alla quale collaborano i nomi di maggior rilievo dell’anarchismo internazionale. Nel 1921 pubblica Dittatura e rivoluzione, prima opera critica sul bolscevismo, e nel 1922 La controrivoluzione preventiva, una delle analisi più complete sulla nascita del fascismo. Duramente perseguitato dal regime fascista, espatria clandestinamente in Francia nel 1926 e si sposta poi, nel 1929, in Uruguay, dove muore esule a Montevideo nel 1935. Luigi Fabbri, Dittatura e rivoluzione, L’Antistato, Cesena, 1971; Id., La controrivoluzione preventiva: riflessioni sul fascismo, Vallera, Pistoia, 1975. Sulla figura di Luigi Fabbri vedi almeno: Ugo Fedeli, Luigi Fabbri, Gruppo Editoriale Anarchico, Torino, 1948; Nora Lipparoni, Le origini del fascismo nel pensiero di Luigi Fabbri, EPC, Fabriano, 1979; Gaetano Manfredonia, La lutte humaine. Luigi Fabbri, le mouvement anarchiste italien et la lutte contre le fascisme, Editions du Monde libertaire, Paris, 1994; Maurizio Antonioli, Gli anarchici italiani e la Prima Guerra mondiale. Lettere di Luigi Fabbri e di Cesare Agostinelli a Nella Giacomelli (1914-1915), «Rivista storica dell’anarchismo», a. 1, n. 1, 1994; Lorenzo Pezzica, Luigi Fabbri e l’analisi del fascismo, «Rivista storica dell’anarchismo», a. 2, n. 2, 1995; Luce Fabbri, Luigi Fabbri. Storia d’un uomo libero, BFS, Pisa, 1996; Maurizio Antonioli, Gli anarchici italiani e la Prima guerra mondiale. Il Diario di Luigi Fabbri (maggio-settembre 1915), «Rivista storica dell’anarchismo», a. 4, n. 1, 1999; Antonioli, Giulianelli (a cura di), Da Fabriano a Montevideo, cit.; Santi Fedele, Luigi Fabbri. Un libertario tra bolscevismo e fascismo, BFS, Pisa, 2006. 

  8. Cfr. Luce Fabbri, Sotto la minaccia totalitaria, democrazia, liberalismo, socialismo, anarchismo, RL, Napoli, 1955, vedi infra pp. 151-206. 

  9. Fabbri, Luigi Fabbri. Storia d’un uomo libero, cit. 

  10. Luce Fabbri, I canti dell’attesa, Bertani, Montevideo, 1932. 

  11. Cfr. Ugo Fedeli, Congressi e convegni, Edizioni Libreria della FAI, Genova, 1963, pp. 43-68. In verità è proprio dal secondo dopoguerra che l’anarchismo, e in particolare quello italiano, attraversa una crisi profonda che lo porterà per molti anni all’isolamento e a un sostanziale immobilismo politico. Immobilismo certamente dovuto, oltre che al riproporsi dei tradizionali dissidi interni tra organizzatori e anti-organizzatori, alla nuova realtà politico-sociale dominata dalla Guerra Fredda, in cui si assiste a un generale irrigidimento politico nei due schieramenti contrapposti, cioè quello della Democrazia cristiana e quello del Partito comunista, che porta i movimenti non disposti ad accettare la logica dei blocchi, come quello anarchico, a una progressiva riduzione dello spazio vitale, fino alla totale perdita di influenza. Cfr. Giampietro Berti, Il pensiero anarchico dal Settecento al Novecento, Lacaita, Manfredonia-Bari, 1998, pp. 47-48; Adriana Dadà, L’anarchismo in Italia: fra movimento e partito, Teti, Milano, 1984; Armando Borghi, Conferma anarchica, L’Aurora, Forlì, 1949. 

  12. Cfr. Giovanna Berneri, Cesare Zaccaria, Programma di lavoro, supplemento a «Volontà», II, n. 3, 1946. «Volontà» è titolo malatestiano: era infatti il titolo dato da Errico Malatesta al suo giornale pubblicato ad Ancona tra il 1911 e il 1914, ma anche il titolo del giornale pubblicato da Luigi Fabbri tra il 1919 e il 1920; nel 1924 infine Malatesta, con Fabbri, dava vita alla testata «Pensiero e Volontà», che uscirà fino al 1926. In effetti, la rivista nata nel 1946 era stata preceduta da tre brevi esperienze giornalistiche: «La Rivoluzione libertaria», «Risveglio libertario» e «Volontà» (in formato giornale). Oltre a Malatesta, la rivista si richiamava fortemente anche al pensiero di Luigi Fabbri e a quello di Camillo Berneri. Molti erano i collaboratori italiani e stranieri, tra cui Armando Borghi, Ugo Fedeli, Lamberto Borghi, Pier Carlo Masini, Louis Mercier Vega, Gaston Leval, Carlo Doglio, Albert Camus, George Woodcock. A partire dal 1946 «Volontà» uscirà quasi ininterrottamente fino al 1996. Sulla storia della rivista, Indice generale compreso, cfr. Cinquant’anni di Volontà. Mezzo secolo di pensiero libertario, contributi di Nico Berti, Francesco Codello, Pier Carlo Masini, Lorenzo Pezzica, Massimo A. Rossi, Milano, 1996 (https://centrostudilibertari.it/it/cinquantanni-di-volontà). 

  13. La lettera è pubblicata in «Volontà», n. 9, luglio 1955. L’ultimo numero di «Studi Sociali» esce infatti nel maggio del 1946, due mesi prima dell’uscita del primo numero di «Volontà». 

  14. Un’esauriente bibliografia degli scritti di Luce Fabbri è stata pubblicata in Margareth Rago, Per una bibliografia di Luce Fabbri, «Rivista storica dell’anarchismo», a. 7, n. 2, pp. 221-232. La bibliografia è preceduta dal saggio della stessa Rago, Luce Fabbri: una lezione di vita, pp. 5-20. 

  15. Luce Fabbri pubblicherà, a partire dal 1947 e fino al 1957, una serie di opuscoli a compendio della riflessione che aveva sviluppato già negli anni Trenta. Per la distribuzione degli opuscoli in Italia si appoggiava alla redazione di «Volontà» e la stretta collaborazione con la rivista sarà suggellata con la pubblicazione nel 1955, per le edizioni RL, nate al fine di integrare e approfondire le tematiche affrontate da «Volontà», del suo opuscolo più significativo: Sotto la minaccia totalitaria, vedi infra pp. 151-206. Vedi anche Luce Fabbri, La libertà nelle crisi rivoluzionarie, Edizioni Studi Sociali, Montevideo, 1947; Id., L’anti-comunismo, l’anti-imperialismo e la pace, Edizioni Studi Sociali, Montevideo, 1949, vedi infra pp. 81-150; Id., La strada, Edizioni Studi Sociali, Montevideo, 1952; Id., L’anarchismo. Principi di sempre, problemi d’oggi, RL, Genova-Nervi, 1959. 

  16. Sull’argomento vedi Enzo Traverso, Il totalitarismo: storia di un dibattito, Bruno Mondadori, Milano, 2002; Simona Forti, Il totalitarismo, Laterza, Roma-Bari, 2003. Una storia che malauguratamente non include Luce Fabbri. 

  17. Forti, Il totalitarismo, cit., pp. 15-27. 

  18. Ernst Cassirer, Il mito dello Stato, Longanesi, Milano, 1950. 

  19. James Burnham, La rivoluzione dei tecnici, Mondadori, Milano, 1946; nuova edizione italiana: La rivoluzione manageriale, Introduzione di Alfredo Salsano, Bollati Boringhieri, Torino, 1992; Id., I difensori della libertà, Mondadori, Milano, 1947. 

  20. Milovan Đilas, La nuova classe, il Mulino, Bologna, 1957. 

  21. Simone Weil, Incontri libertari, elèuthera, Milano, 2021. 

  22. Hannah Arendt, Le origini del totalitarismo, Edizioni di Comunità, Milano, 1996. Sulla vita e il pensiero di Arendt, cfr. Elisabeth Young-Bruehl, Hannah Arendt 1906-1975. Per amore del mondo, Bollati Boringhieri, Torino, 1990; Julia Kristeva, Hannah Arendt. La vita, le parole, Donzelli, Roma, 2005. 

  23. Bruno Rizzi, La Bureaucratisation du Monde, Les Presses Modernes, Paris, 1939 [trad. it. La burocratizzazione del mondo, Colibrì, Paderno Dugnano, 2002]; Bruno Rizzi, Il collettivismo burocratico, Galeati, Imola, 1967. 

  24. Fabbri, Luigi Fabbri. Storia d’un uomo libero, cit., p. 9. 

  25. Fabbri, Luigi Fabbri. Storia d’un uomo libero, cit., p. 9. 

  26. Traverso, Il totalitarismo, cit., p. XII. 

  27. Dopo avere forgiato il concetto negli anni Venti, la cultura italiana si astenne dal discuterlo nel dopoguerra, fino a un’epoca recente. Percepito prima come un vocabolo irrimediabilmente contaminato dal fascismo, poi come una parola d’ordine anti-comunista durante la Guerra Fredda, il termine sarà a lungo messo al bando e coltivato da pochi spiriti anti-conformisti. 

  28. In quegli anni per esempio Lelio Basso dava alle stampe Due totalitarismi, che erano però – come chiariva il sottotitolo – il fascismo e la Democrazia cristiana. Cfr. Lelio Basso, Due totalitarismi: fascismo e Democrazia cristiana, Garzanti, Milano, 1951. 

  29. Arendt, Le origini del totalitarismo, cit. L’opera venne scritta negli anni immediatamente successivi alla seconda guerra mondiale. Il manoscritto originale venne terminato nell’autunno del 1949 e la prima edizione apparve nel 1951. 

  30. Jacob Talmon, Le origini della democrazia totalitaria, il Mulino, Bologna, 1967. 

  31. Carl Joachim Friedrich, Zbigniew Brzezinski, Totalitarian Dictatorship and Autocracy, Praeger, New York, 1956. 

  32. Fabbri, Sotto la minaccia totalitaria, vedi infra pp. 191-192. 

  33. Il primo articolo pubblicato da Louis Mercier Vega sull’argomento risale al 1941: Charles Ridel [pseud.], Al di là del capitalismo, «L’Adunata dei refrattari», a. XX, nn. 23-26 [New York]. 

  34. Luce Fabbri, Camisas negras, estudio crítico histórico del origen y evolucion del fascismo, sus hechos y sus ideas, Nervio, Buenos Aires, 1934. Articoli sul tema della tecnoburocrazia sarebbero apparsi nel 1937 su «Studi Sociali», alcuni dei quali ripubblicati nel 1957 su «Volontà». Lucia Ferrari [pseud.], Bisogna dirlo, «Studi Sociali», II serie, n. 6, 20 settembre 1937; Luce Fabbri, Bisogna dirlo, «Volontà», n. IX, 1957, vedi infra pp. 29-42. 

  35. Rizzi, Il collettivismo burocratico, cit.; Id., La burocratizzazione del mondo, cit. Rizzi scriverà due soli articoli per «Volontà» nel 1948. La sua collaborazione più importante con la pubblicistica anarchica, tra il 1946 e il 1950, sarà con «Il Libertario», testata della Federazione Anarchica Lombarda. Nonostante ciò, l’ambiente anarchico italiano sarebbe rimasto all’epoca piuttosto impermeabile alle sollecitazioni avanzate da Rizzi: l’atteggiamento predominante rimaneva quello di un freddo distacco per tutto ciò che anche vagamente si definiva marxista. Diverso sarà invece il rapporto con i giovani anarchici milanesi che dall’inizio degli anni Sessanta cominciano a interessarsi del fenomeno tecnoburocratico, dapprima sulla testata «Materialismo e Libertà» (di cui escono solo tre numeri nel 1963) e poi, più ampiamente, sulla testata «A rivista anarchica», fondata dal medesimo gruppo nel 1971, e sulla rivista internazionale «Interrogations», nata nel 1974 a Parigi su iniziativa di Louis Mercier Vega. Il culmine della ricerca sarà raggiunto nel 1978 con l’organizzazione a Venezia del Convegno internazionale di studi su I Nuovi Padroni, cui seguirà la pubblicazione dei relativi Atti (https://centrostudilibertari.it/it/i-nuovi-padroni). 

  36. Burnham, La rivoluzione dei tecnici, cit. «Volontà» dedicherà molto spazio alla critica delle tesi esposte da Burnham, nell’intento non solo di precisare la propria posizione rispetto all’ineluttabilità del processo di burocratizzazione in atto, ma anche per marcare la distanza da alcuni punti delle tesi sostenute dallo studioso americano. 

  37. Fabbri, Sotto la minaccia totalitaria, vedi infra p. 194. 

  38. Czesław Miłosz, La mente prigioniera, Adelphi, Milano, 1981. 

  39. Nel 1954 «Volontà» pubblicherà la recensione del libro di Dwight Macdonald La mente prigioniera, sicuramente letto da Luce Fabbri. Vedi Dwight Macdonald, La mente prigioniera, «Volontà», a. VIII, n. 1, maggio 1954, pp. 22-28. 

  40. Fabbri, Sotto la minaccia totalitaria, vedi infra p. 194. 

  41. George Orwell, 1984, Mondadori, Milano, 1952, nuova edizione Milano, 2004. 

  42. Fabbri, Sotto la minaccia totalitaria, vedi infra p. 201. 

  43. Fabbri, Sotto la minaccia totalitaria, vedi infra p. 201. 

  44. Fabbri, Bisogna dirlo, vedi infra p. 33. 

  45. Luce Fabbri, Socializzazione e libertà, «A rivista anarchica», a. 29, n. 255, 1999, pp. 34-35. 

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