Controinformazione – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sat, 30 Nov 2024 07:35:20 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Solidarietà a Giovanni Iozzoli https://www.carmillaonline.com/2024/05/10/solidarieta-a-giovanni-iozzoli/ Fri, 10 May 2024 18:00:40 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=82543 di Redazione

Il giorno 7 maggio 2024 il Tribunale di Modena ha condannato Giovanni Iozzoli, scrittore, delegato sindacale e redattore di “Carmilla online”, al pagamento di circa 20.000 euro (tra risarcimento e spese legali) a favore dell’azienda Italpizza, colosso dell’export agroalimentare emiliano.

Italpizza si era sentita diffamata da un articolo di Iozzoli, pubblicato nel 2019, nel quale si raccontava della durissima vertenza sindacale che aveva costretto l’azienda, per diversi mesi, a un prolungato braccio di ferro con le sue maestranze. Al centro della vertenza il lavoro povero, precario, gli appalti interni e i contratti inadeguati: cioè l’eterna ricetta della “competitività” all’italiana.

[...]]]>
di Redazione

Il giorno 7 maggio 2024 il Tribunale di Modena ha condannato Giovanni Iozzoli, scrittore, delegato sindacale e redattore di “Carmilla online”, al pagamento di circa 20.000 euro (tra risarcimento e spese legali) a favore dell’azienda Italpizza, colosso dell’export agroalimentare emiliano.

Italpizza si era sentita diffamata da un articolo di Iozzoli, pubblicato nel 2019, nel quale si raccontava della durissima vertenza sindacale che aveva costretto l’azienda, per diversi mesi, a un prolungato braccio di ferro con le sue maestranze. Al centro della vertenza il lavoro povero, precario, gli appalti interni e i contratti inadeguati: cioè l’eterna ricetta della “competitività” all’italiana.

Il racconto di quella lotta, prodotto da Iozzoli, ha portato a una denuncia per diffamazione aggravata da parte di Italpizza; il primo grado di giudizio si è concluso con la pesante condanna emessa ai danni di un cittadino non tutelato da alcun ordine professionale – reo solo di aver osato criticare le politiche occupazionali e le relazioni sindacali, promosse da un gigante industriale.

Questo esito rappresenta l’ennesimo tentativo di soffocare la visibilità del conflitto sociale e l’interesse collettivo, che senza critica e presa di parola risulterebbero fortemente compromessi. Sentenze come queste hanno un solo effetto: inibire il lavoro d’inchiesta, di denuncia pubblica e di produzione culturale, qualora tocchino gli interessi di quei potentati industriali e finanziari che oggi rivendicano mano libera o possibilità di condizionamento – non solo nell’azione economica, ma anche nel governo dei territori, nel controllo dell’opinione pubblica e alla lunga, a questo punto, nel lavoro culturale.

Chiediamo alle forze politiche, sindacali, associative, alle espressioni della società civile, dei movimenti e della cultura, una presa di posizione chiara in difesa della libertà di parola: esprimere solidarietà a Iozzoli, in questo momento, vuol dire difendere la libertà di tutti e di tutte.

Raccontare il conflitto, i bisogni negati e le ragioni del lavoro, è oggi un imperativo civile a cui non ci si può sottrarre.

Chiamiamo a un pronunciamento pubblico a sostegno di Giovanni e del diritto di espressione.

Questo il link per esprimere solidarietà a Giovanni

ATTENZIONE: NON SONO RICHIESTE DONAZIONI
NON SI RACCOLGONO FONDI CON QUESTA PETIZIONE

Tra i primi firmatari:
Partito Rifondazione Comunista
Si Cobas
Potere al Popolo
Collettivo di fabbrica GKN
Modena Volta Pagina
Possibile
Movimento 5 stelle Modena
Daniele Dieci Segretario CGIL Modena
On. Stefania Ascari
Antonello Petrillo, sociologo – Unisob Napoli
Maurizio Braucci – Scrittore
Alberto Prunetti – Scrittore
Domenio Ciruzzi – Avvocato
Sergio Bologna – Saggista
Michele Riondino – Attore – Regista
Mario Santella – Attore – Regista
Valia Santella – Regista – Sceneggiatrice
Ascanio Celestini – Attore – Regista
Lorenzo Teodonio – SaggistaMarcello Anselmo – Saggista
Alessandra Cutolo – Regista
Banda Popolare Emilia Rossa
99 Posse
Osservatorio Repressione
Redazione Monitor
Redazione Jacobin Italia
Redazione Contropiano
Casa Bettola Reggio Emilia
Circolo Arci Civica 15/a Modena
Delegati Rsu di: Bosh, Ferrari, Cnh, Wam, Maserati, Annovi, Otis, Motovario, T-erre, Netscout, Pfb

 

]]>
Fermiamo il genocidio in Palestina! https://www.carmillaonline.com/2023/11/15/fermiamo-il-genocidio-in-palestina/ Wed, 15 Nov 2023 16:00:19 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=79979 [Riceviamo e pubblichiamo il seguente appello per uno sciopero e una mobilitazione nazionale a fianco del popolo palestinese – La redazione]

Dopo 75 anni di occupazione sionista delle terre palestinesi, da un mese è in corso a Gaza un massacro senza precedenti ad opera del governo-macellaio di Netanyahu. Ad oggi più di 11.000 palestinesi sono stati uccisi sotto le bombe dell’esercito israeliano, in prevalenza bambini, donne e anziani,

Raccogliendo l’appello lanciato dai sindacati palestinesi a porre fine ad ogni forma di complicità con lo stato di Israele e a mobilitarsi in tutto il mondo a sostegno del popolo [...]]]> [Riceviamo e pubblichiamo il seguente appello per uno sciopero e una mobilitazione nazionale a fianco del popolo palestinese – La redazione]

Dopo 75 anni di occupazione sionista delle terre palestinesi, da un mese è in corso a Gaza un massacro senza precedenti ad opera del governo-macellaio di Netanyahu. Ad oggi più di 11.000 palestinesi sono stati uccisi sotto le bombe dell’esercito israeliano, in prevalenza bambini, donne e anziani,

Raccogliendo l’appello lanciato dai sindacati palestinesi a porre fine ad ogni forma di complicità con lo stato di Israele e a mobilitarsi in tutto il mondo a sostegno del popolo palestinese; e raccogliendo l’invito pressante dei Giovani palestinesi d’Italia a dare maggiore concretezza alla solidarietà con la resistenza del popolo palestinese; il SI Cobas ha deciso di indire per venerdì 17 novembre una giornata di sciopero nazionale nel settore privato, che si pone in continuità con le iniziative contro la guerra in Ucraina e la guerra in Palestina del 21 ottobre scorso – in particolare con la manifestazione di impronta internazionalista e disfattista tenuta a Ghedi, davanti alla principale base di attacco dell’aeronautica militare italiana.

Questa decisione di sciopero si ricollega alle prime iniziative contro il traffico di armi per Israele in corso a Oakland, in Belgio, in Australia e, da ultimo, a Genova, e soprattutto alle immense dimostrazioni per la liberazione della Palestina in corso in tutto il mondo. L’invito che essa esprime è a sostenere in pieno, senza tentennamenti di sorta, la resistenza dei palestinesi contro il colonialismo razzista e a pretendere l’immediata cessazione della carneficina portata avanti da Israele con la complicità degli Stati Uniti e delle potenze capitalistiche occidentali.

“I lavoratori e i proletari hanno il dovere di mobilitarsi ovunque possibile – si legge in una dichiarazione del SI Cobas – per fermare questa mattanza, bloccando i principali snodi della produzione, dei trasporti e del profitto, in particolare i traffici di armi e di merci dirette ad Israele.
Contro la guerra, l’economia di guerra e i governi della guerra! Contro il colonialismo sionista! Palestina libera!”.

Il giorno successivo allo sciopero, sabato 18 novembre, si terrà a Bologna (con partenza alle ore 15 da piazza XX settembre) un corteo indetto insieme dal SI Cobas e dai Giovani palestinesi d’Italia, dall’Unione democratica arabo-palestinese, dall’Associazione palestinesi in Italia, dal Movimento palestinesi in Italia, che ha già ricevuto molte adesioni.

]]>
I comunisti sono matti ? https://www.carmillaonline.com/2023/10/11/i-comunisti-sono-matti/ Wed, 11 Oct 2023 20:00:16 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=79137 di Sandro Moiso

Massimo Lunardelli, Alessandro Pellegatta, Isidoro Azzario sulla Terra e sulla Luna. Storia del Capostazione rosso che fondò il Partito Comunista d’Italia e che il fascismo rinchiuse in manicomio, Quaderni Rossi V, pagine Marxiste II serie, luglio 2023, pp. 373, 14 euro

E’ un personaggio che potrebbe essere uscito dalle pagine dedicate da Geminello Alvi ai suoi Uomini del ‘900 (Adelphi 1995) oppure agli Eccentrici (Adelphi 2015), tra cui oltre a H.P.Lovecraft, Jim Morrison e Oliver Hardy compare, insieme a molti altri, Amadeo Bordiga, quello delineato dalla ricerca di Alessandro [...]]]> di Sandro Moiso

Massimo Lunardelli, Alessandro Pellegatta, Isidoro Azzario sulla Terra e sulla Luna. Storia del Capostazione rosso che fondò il Partito Comunista d’Italia e che il fascismo rinchiuse in manicomio, Quaderni Rossi V, pagine Marxiste II serie, luglio 2023, pp. 373, 14 euro

E’ un personaggio che potrebbe essere uscito dalle pagine dedicate da Geminello Alvi ai suoi Uomini del ‘900 (Adelphi 1995) oppure agli Eccentrici (Adelphi 2015), tra cui oltre a H.P.Lovecraft, Jim Morrison e Oliver Hardy compare, insieme a molti altri, Amadeo Bordiga, quello delineato dalla ricerca di Alessandro Pellegatta e Massimo Lunardelli pubblicata nelle serie dedicata alla Storia della Sinistra comunista e della dissidenza in Italia di «Pagine Marxiste».

Figure che si muovono tutte tra prometeismo, visionarietà e giochi di equilibrio spericolati tra assurdità e tragedie personali. Un bel catalogo di vite frantumate e disperse, nel corso del XX secolo, da un modo di produzione, da un ambiente socio-culturale e politico e dalle sue mode che definire distruttivo e devastante, tanto per il singolo individuo quanto per i milioni di altri che lo circondano, è ancora eufemistico e dall’implacabile scorrere di eventi tra i più drammatici che la Storia possa annoverare nei suoi annali (dittature, guerre mondiali, uso dell’arma nucleare, asservimento degli ideali rivoluzionari agli interessi del Capitale, tanto ad Ovest quanto ad Est e molto, troppo altro ancora).

Eventi che hanno causato traumi collettivi e singoli, individuali e sociali, largamente conosciuti oppure del tutto sconosciuti, ma che hanno segnato donne, uomini e generazioni in profondità. Come avviene appunto per la vita del “ferroviere rosso” Isidoro Azzario, di cui i due ricercatori militanti, Pellegatta e Lunardelli, ricostruiscono le drammatiche vicende, a metà strada tra le prime storie di Georges Méliès, il tramonto del duo cinematografico composto da Stan Laurel e Oliver Hardy descritto nel romanzo Triste, solitario y final di Osvaldo Soriano e la tragedia del proletariato mondiale schiacciato e sconfitto dall’azione di fascismo e stalinismo nel corso degli anni Trenta.

Isidoro Azzario, nato a Pinerolo il 20 maggio del 1884, figlio di un simpatizzante socialista da cui apprese, secondo le sue stesse parole «i primi rudimenti del socialismo», attraverserà i primi, drammatici cinquant’anni del XX secolo vivendo in prima persona molti degli eventi che li avevano caratterizzati. Non solo qui in Italia, ma anche all’estero. In Sud America, dove fu inviato come rappresentante dei Ferrovieri rossi, e in Russia, dove fu delegato del Pcd’I al IV Congresso dell’Internazionale Comunista e dell’esecutivo allargato della stessa.

Tra i fondatori del Partito comunista d’Italia al congresso di Livorno del 1921, Azzario era stato assunto in ferrovia nel 1904, portando con sé sul lavoro non soltanto la preparazione tecnica acquisita con la frequentazione delle scuole tecniche in provincia di Torino, ma anche le qualità oratorie dimostrate nei suoi improvvisati discorsi contro il colonialismo italiano e a favore di Gaetano Bresci che avevano stupito e scandalizzato i suoi insegnanti mentre spronava i suoi giovanissimi compagni di scuola negli anni di Crispi, Bava Beccaris e ancora in quelli successivi.

Chiamato da Bordiga nella commissione sulla tattica che avrebbe dovuto occuparsi del programma di lotta da applicare tra il proletariato italiano, avrebbe poi interpretato “al meglio” quello stravolgimento del corpo del partito seguito al convegno clandestino alla Capanna Mara del maggio 1924 e successivamente, in quanto ex-sinistro, venne scelto durante il congresso di Lione del 1926 per portare l’affondo più duro contro la direzione della Sinistra, con tanto di autocritica.

In America Latina, in seguito a un riconoscimento o a una delazione, fu arrestato a Cali e rispedito in Italia e, probabilmente, durante il viaggio di ritorno in nave fu a lungo torturato e seviziato dai fascisti, fin quasi a fargli perder la ragione, anche se questo non fu sufficiente a piegarlo del tutto. Successivamente, come era già successo dopo il primo licenziamento per motivi politici subito ancor prima del 1921, Azzario fu reintegrato nei ranghi delle ferrovie e nel secondo dopoguerra avrebbe svolto ancor per pochi mesi la funzione di Capostazione in quel di Luino. Ma tutto questo viene ricostruito a posteriori nel testo qui recensito, poiché la narrazione prende avvio da Mercoledì 26 novembre 1958, quando:

all’ospedale Luini -Confalonieri di Luino, viene ricoverato nel reparto Medicina un anziano signore: alto, visibilmente denutrito, il viso cianotico, lo sguardo perso; spicca sul mento un lungo e curato pizzo bianco. Le sue condizioni appaiono subito serie: aritmia, difficoltà di respirazione, scarso orientamento nel tempo e nello spazio. Al personale sanitario conferma di chiamarsi Isidoro Azzario […] Nella cartella clinica i medici aggiungono che le condizioni psichiche del paziente non consentono una corretta raccolta dei dati anamnestici: disturbo bipolare, precisano1.

Azzario è in pensione da 11 anni dopo aver fatto il Capostazione sulla sponda lombarda del lago Maggiore, dove era giunto come sfollato da Milano, durante la guerra, insieme alla figlia e al genero che di quella zona era originario. La moglie era morta nel 1937 e Isidoro è accompagnato dal dolore di non aver potuto nemmeno partecipare al suo funerale a causa di un ottuso funzionario fascista che gli aveva impedito di lasciare l’isola di Ponza, ove era confinato, per il tempo necessario per partecipare alle esequie.

Anche se a Luino e Germignaga, dove risiedeva, molti lo conoscevano, quando viene ricoverato in stato confusionale e denutrito, l’ex-ferroviere rosso vive da solo, o quasi, da diversi anni dopo che la figlia era morta nel 1948 e il genero nel 1957. Da anni. però, aveva ripreso a frequentare la sezione locale del PCI in cui testardamente e ostinatamente aveva ripreso a professare la critica del partito stalinizzato e del fasullo socialismo reale tipica della Sinistra comunista e di Bordiga, cui tornerà ad essere associato dalla direzione locale del partito. Direzione di cui faceva parte Gianni Rodari che in quegli anni sarebbe stato uno dei giudici più fermi e intransigenti di ogni forma di dissidenza interna, soprattutto se anche lontanamente riconducibile alle posizioni della Sinistra.

Ma il motivo per cui tutti ricordano Azzario, in quegli anni, non è tanto l’intransigenza politica nei confronti del Partito togliattiano e dello Stato sorto dalla Resistenza e delle sue alleanze internazionali, quanto piuttosto per i voli pindarici riguardanti la posizione dell’uomo nello spazio, le reali dimensioni della Luna e la sua reale distanza dalla Terra; la curvatura dello spazio che permette altresì che il satellite terrestre non sia null’altro che il riflesso della stessa, insieme all’attenzione per i primi voli spaziali (in particolare per il lancio della prima sonda lunare sovietica, Lunik, lanciata il 2 gennaio 1959, ma che non entrò nell’orbita della Luna per un errore di circa seimila chilometri) e la televisione che egli riteneva superata dal fatto che presto gli uomini avrebbero potuto telepaticamente ricevere una propria “televisione mentale” senza l’uso di elettrodomestici o altri marchingegni tecnologici. Tutte riflessioni che egli sottoponeva agli infermieri e ai pazienti dell’ospedale, ma che in precedenza aveva fatto circolare a voce e a stampa, in opuscoli stampati insieme al genero e poi distribuiti con lui a Milano. Uno avvolto in un mantello nero di sapore ottocentesco e l’altro in un saio verde.

Una storia di disagio psichico che però era già iniziata dopo la disavventura sudamericana del 1927 e le torture subite dai fascisti. Così che, dopo esser stato all’epoca consigliere comunale a Cuneo, membro di spicco della Camera del Lavoro locale, redattore di giornali comunisti e militanti quali «il Sindacato Rosso», schedato dalle prefetture come elemento estremamente pericoloso e definito da Gramsci come oratore formidabile, freddo, preciso e impeccabile, a Regina Coeli, dove era stato rinchiuso in attesa del processo, era stato riconosciuto a stento dai suoi compagni di partito e di carcere.

Bollato dalle perizie psichiatriche come individuo affetto da paranoia espansiva e delirio cronico progressivo, avrebbe iniziato il suo calvario tra i manicomi e, dopo di questi, quello del confino a Ponza e alle isole Tremiti. Durante il quale elaborò complesse teorie astronomiche, scrisse di Bimanità e Trimanità e si dichiarò figlio illegittimi di Nietzsche, di cui in gioventù aveva letto gli scritti insieme a quelli di Karl Marx.

Il testo di Pellegatta e Lunardelli, che a questo punto si lascia che sia il lettore ad esplorare fino in fondo, si avventura dunque in un territorio oscuro, sospeso tra dramma e paradosso, tra tragedia e sempre involontaria comicità, che, però, non costituisce l’unico caso nella storia del movimento operaio italiano. E nemmeno solo del movimento operaio, soprattutto nel guardare allo spazio come luogo di fuga e liberazione. Per la mente e, forse, anche per il corpo.

Basterebbe, allontanandoci per un momento dal contesto della lotta di classe, pensare a uno dei jazzisti afro-americani più innovativi e visionari: Sun Ra. Nato come Herman Poole Bloun a Birmingham in Alabama nel 1914, dotato di notevoli doto pianistiche e gusto musicale fin da giovane, a seguito dell’imprigionamento per renitenza alla leva e dei maltrattamenti subiti nel 1942-43 a causa della sua obiezione alla guerra e al servizio militare, dopo essere stato esaminato dagli psichiatri del campo dove avrebbe dovuto prestare servizio civile, venne dichiarato “personalità psicopatica” anche se altamente “erudita ed intelligente”, e quindi congedato a tempo indeterminato.
Dopo di che assunse il nome d’arte, e non solo, che ne avrebbe collegato opera musicale, pensiero e immagine pubblica allo spazio (in particolare a Saturno) e all’antico Egitto faraonico, di cui si reputava discendente e, in qualche modo, erede delle conoscenze esoteriche.

Una divagazione, quest’ultima, apparentemente fuori luogo, ma che ci rinvia alla necessità umana di sognare e di cui il comunismo, “demone” come già lo definì il giovane Marx, scienza o programma che sia, spesso ha rappresentato soprattutto un grande e liberatorio esempio, sia sul piano collettivo che sul piano individuale. Sogni di cui, come già profetizzava Foscolo nelle Ultime lettere di Jacopo Ortis, l’essere umano ha bisogno come dell’aria per vivere e la cui repressione parziale o totale può portare alla morte, se non fisica almeno psichica.

Un vecchio compagno bordighista era solito ripetere che i comunisti, per resistere in condizioni sociali, politiche e culturali controrivoluzionarie decisamente avverse, oltre ad avere una pelle da rinoceronte dovevano essere per forza dei drop out. Effettivamente l’autore della presente recensione di drop out nell’ambiente comunista ne ha conosciuti davvero tanti. Si intenda bene, però, qui non si parla degli internati nei manicomi staliniani e sovietici per reprimere la dissidenza e nemmeno dei partigiani rinchiusi in manicomio dopo il secondo dopoguerra mentre il guardasigilli Togliatti apriva le porte delle carceri ai fascisti per farli uscire (e magari, in molti casi, per entrare nei ranghi del PCI e dell’amministrazione statale)2.

Se ne vogliono qui ricordare soltanto alcuni, spesso riconducibili all’area cosiddetta bordighista, come ad esempio quello che, all’epoca cinquantenne, tra il 1976 e il 1977 a Torino, bazzicava gli ambienti del canagliume giovanile “rivoluzionario” legato alle precedenti esperienze di Lotta Continua, Potere Operaio e Lotta Comunista, proponendo loro opuscoli, testi e giornali provenienti dall’area della Sinistra comunista. Spiegando, però, a tutti coloro che lo ascoltavano che non sarebbe stato necessario agire fino a quando i morti accumulati per le strade non avessero raggiunto il davanzale della sua finestra. Finestra che era di fatto un abbaino di una soffittta posta al quarto o quinto piano di un edificio umbertino del quartiere San Paolo. Per non dare adito a dubbi di qualsiasi genere va qui chiarito che Zombie di Romero sarebbe uscito soltanto nel 1978.

Oppure un giovane compagno che, ancor ventenne agli inizi degli anni Ottanta, si rifugiò in un mondo tutto suo, da cui non sarebbe mai più uscito, in cui la Terza guerra mondiale era già iniziata e le bombe atomiche avevano cominciato a piovere su un’umanità spenta e incredula. O, ancora, un vecchio compagno di una nota azienda di Ivrea in cui i comunisti di sinistra che componevano l’intero consiglio di fabbrica erano stati espulsi dal sindacato, per mano di Fausto Bertinotti, quando si erano rifiutati, insieme a tutti gli altri operai, di solidalizzare col Governo e i servi del capitale, non aderendo allo sciopero dichiarato dopo il rapimento o il ritrovamento del cadavere di Aldo Moro nel 1978. Tale compagno dopo essersi ritirato in pensione manifestò sempre più i sintomi di un forte bipolarismo che spesso lo rendeva inviso ad amici, ex-compagni e famigliari.

Sono solo alcune delle storie che, per quanto piccole e apparentemente insignificanti, non andrebbero prese sottogamba e nemmeno ridotte a semplici curiosità aneddotiche, ma come testimonianza di sofferenze e drammi umani seguiti alla sconfitta (momentanea o sempiterna non tocca qui stabilirlo) del sogno più grande che il capitalismo, fin dalla scoperta delle sue irrisolvibili contraddizioni di classe, ha contribuito a produrre nella mente e nella speranza di chi dal basso gli si è contrapposto senza infingardaggini e senza compromessi.

Almeno per questo Isidoro Azzario e tutti gli altri sperduti compagni che in tanti modi diversi hanno seguito il suo percorso, meritano la riconoscenza di chi li ha conosciuti o di chi ne sente parlare soltanto ora per la prima volta.
Questa è la memoria che val la pena di preservare, molto più di quella delle rimembranze istituzionali e mummificate degli infiniti giorni e delle infinite iniziative ufficiali dedicate alla conservazione di una memoria a senso unico. Per questo Alessandro Pellegatta e Massimo Lunardelli hanno fatto benissimo a ricordarcelo attraverso il loro lavoro di autentica, non blasonata e tanto meno patinata “storia dal basso”3. Storia di militanti che, come nel caso di Azzario, troppo spesso sono stati volontariamente rimossi dai gestori dell’ordine della memoria e dai loro partiti, anche quando, questi ultimi, per lungo tempo si son dichiarati “comunisti”.


  1. M. Lunardelli, A. Pellegatta, Isidoro Azzario sulla Terra e sulla Luna. Storia del Capostazione rosso che fondò il Partito Comunista d’Italia e che il fascismo rinchiuse in manicomio, Quaderni Rossi V, pagine Marxiste II serie, luglio 2023, p. 11  

  2. In proposito si vedano: A. Peregalli, M. Mingardo, Togliatti Guardasigilli 1945-1946, Colibrì, Milano 1998 e M. Franzinelli, N. Graziano, Un’odissea partigiana. Dalla Resistenza al manicomio, Feltrinelli, Milano 2015  

  3. Alessandro Pellegatta, oltre ad avere scritto già un altro testo su una figura dimenticata e contraddittoria dell’anarchismo, Infinita tristezza. Vita e morte di uno scalpellino anarchico (pagine Marxiste), ha anche curato, sempre per le stesse edizioni, due volumi sull’azione dei rivoluzionari in provincia di Varese e all’isola d’Elba nell’immediato secondo dopoguerra ed è tra i curatori del Dizionario biografico del movimento operaio, reperibile qui  

]]>
From Palestine: Our Past, Our Future – Una mostra di arte e architettura palestinese a Venezia https://www.carmillaonline.com/2023/09/27/from-palestine-our-past-our-future-una-mostra-di-arte-e-architettura-palestinese-a-venezia/ Wed, 27 Sep 2023 20:22:19 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=79063 di Pina Fioretti – Fotografie di Federico Vespignani

Il Palestine Museum US, fondato nel 2018 negli Stati Uniti dal palestinese Faisal Saleh, ha inaugurato lo scorso maggio a Venezia la mostra sulla Nakba intitolata From Palestine: Our Past, Our Future nell’ambito della VI edizione di Time Space Existence, a cura dell’European Cultural Centre.

Focus temporale della mostra è il 1948. Quest’anno infatti i palestinesi commemorano il 75esimo anniversario della Nakba, la tragedia conseguente alla creazione dello stato di Israele, che ha determinato l’occupazione della terra palestinese e quasi ottocentomila profughi (l’80% della [...]]]> di Pina Fioretti – Fotografie di Federico Vespignani

Il Palestine Museum US, fondato nel 2018 negli Stati Uniti dal palestinese Faisal Saleh, ha inaugurato lo scorso maggio a Venezia la mostra sulla Nakba intitolata From Palestine: Our Past, Our Future nell’ambito della VI edizione di Time Space Existence, a cura dell’European Cultural Centre.

Focus temporale della mostra è il 1948. Quest’anno infatti i palestinesi commemorano il 75esimo anniversario della Nakba, la tragedia conseguente alla creazione dello stato di Israele, che ha determinato l’occupazione della terra palestinese e quasi ottocentomila profughi (l’80% della popolazione), ad oggi privati del diritto al ritorno, così come i loro discendenti.

Con i suoi 150 metri quadri è la più grande esposizione di arte e architettura palestinese sulla Nakba mai realizzata in Occidente. Diciannove tra artisti e architetti palestinesi animano l’esposizione con le loro opere che si presentano in una varietà di forme: da opere artistiche convenzionali su tela, a rendering 3D, cartografia, fotografia, stampa, tatreez (ricamo arabo e palestinese), progetti di architettura digitale e altro ancora.

Con questa esposizione Saleh ha dato un notevole contribuito a contro-informare sulla questione palestinese, ed in particolare a fare luce sul periodo della Nakba, che parte dal dicembre 1947 e si protrae fino al gennaio 1949, più di un anno durante il quale le forze sioniste lanciarono in Palestina una campagna militare precedentemente pianificata per spopolare e distruggere città e villaggi palestinesi. Quando il 15 maggio 1948 fu proclamato lo stato di Israele, duecento villaggi erano già stati spopolati. Alla fine del 1948, i villaggi sfollati erano diventati cinquecento, e molti di essi furono interamente distrutti per impedire il ritorno dei loro abitanti. In 36 villaggi palestinesi le truppe paramilitari ebraiche compirono efferati massacri.

Nell’attuale clima politico internazionale gli intellettuali, gli artisti e gli attivisti palestinesi si ritrovano sempre più messi a tacere. La verità su ciò che accade in Palestina e sulla Nakba ancora in corso viene censurata a volte anche con violenza. E non c’è da stupirsi, considerando che la politica dei governanti israeliani del passato e di quelli del presente come Ben Gvir, Netanyahu o Smotrich intende annettere ad Israele la totalità dei territori occupati, e che da tempo il risultato di questa politica è un regime di apartheid.

Alla luce di questa situazione, l’allestimento della mostra “From Palestine: Our Past, Our Future” appare veramente audace perché in Italia, come in altri paesi occidentali, non esiste alcun sostegno istituzionale alla causa dei palestinesi, e non è certo garantita una corretta informazione sulla questione palestinese. A questa audacia corrisponde il gradimento e la sorpresa dei moltissimi visitatori.

La sala dell’esposizione si divide in due aree: nella prima ci si trova immersi nella ricostruzione degli eventi storici attraverso una grande carta della Palestina del 1948 e ricostruzioni digitali di ambienti precedenti al 1948; nella seconda area si trovano opere dedicate ai profughi, ai palestinesi in diaspora ai quali viene negato il diritto al ritorno. Questa parte della mostra è dedicata ai rifugiati e ai loro discendenti e mostra al mondo quanto è forte il legame tra i palestinesi che vivono un esilio forzato da generazioni e la loro terra.

Il curatore della mostra Faisal Saleh ricorda che è in atto il tentativo di cancellare la Palestina dalla carta geografica e dalla storia: “Riferendosi ai palestinesi come ‘arabi’, Israele insiste sul fatto che ‘non ci sono palestinesi’ e non c’è mai stata una ‘Palestina’. Purtroppo, questa distorsione della storia in larga misura continua ad essere sponsorizzata dallo stato, ispirandosi a una dichiarazione del primo ministro israeliano in carica nel 1969, Golda Meir, che erroneamente sentenziò: – Non esiste nulla che si possa definire palestinese -.

Utilizzando mappe, rendering, fotografie, tele e installazioni artistiche, questo progetto offre informazioni su città e villaggi palestinesi perduti e reinventa un futuro in cui i discendenti della popolazione originaria ritornano all’architettura ridisegnata, a comunità urbane pianificate, restituendo speranza. Artisti e architetti palestinesi mostrano la resilienza e la determinazione del loro popolo dipingendo le speranze di tornare in una Palestina libera dal razzismo e dall’apartheid. La loro esistenza e le loro eredità artistiche servono a sfatare i miti usati per giustificare la creazione di Israele: una terra senza popolo per un popolo senza terra, trasformare i deserti in fiore, e il vecchio morirà e il giovane dimenticherà (Ben-Gurion). Come questi artisti e architetti hanno dimostrato, i giovani non hanno dimenticato e le loro creazioni sono in gran parte le manifestazioni di ricordi e di storie dei loro antenati palestinesi”.

L’obiettivo del Palestine Museum US è proprio quello di rafforzare, garantire e diffondere il patrimonio storico e culturale della Palestina. Gli artisti che arricchiscono le sue sale sono palestinesi di generazioni diverse, provenienti sia dalla Palestina sia da tutto il mondo, a ribadire la continuità di un unico popolo fuori e dentro la Palestina, nonostante la politica di segregazione, divisione e occupazione israeliana.

Tra i giovani architetti presenti alla mostra, merita una menzione speciale il lavoro della giovane Nisreen Zahda, nata a Hebron (El Khalil), Palestina occupata. Ha studiato architettura all’Università di Birzeit e ha conseguito il dottorato in pianificazione urbana presso l’Università di Chiba in Giappone. Nel 2020 ha avviato il progetto VRJ Palestine (Virtual Return Journey to Palestine Before Nakba) per la ricostruzione virtuale dei villaggi palestinesi distrutti. Quattro sono le sue opere esposte a Palazzo Mora: la “Nakba Timeline Map”, una mappa digitale che descrive cronologicamente giorno per giorno la sistematica operazione di spopolamento, pulizia etnica e distruzione di città e villaggi durante la Nakba; tre rendering inclusi nell’opera “A Virtual Return Journey to destroyed villages of Tantura, Hittin and Zir’in”, che presenta la ricostruzione di tre villaggi distrutti. Zahda ha ricostruito virtualmente i tre villaggi, ridando vita a luoghi distrutti e cancellati grazie a un lavoro di ricerca fotografica e di archivio. Nelle sue ricostruzioni riprende vita il villaggio dei pescatori di Zir’in e quello storico di Hittin, dove nel 1187 Saladino sconfisse i crociati. Infine l’artista rende omaggio alle vittime del massacro avvenuto nel villaggio di Tantura, un massacro che lo stato israeliano continua a negare nonostante le prove inconfutabili descritte di recente nel documentario “Tantura” del regista israeliano Alon Schwartz
.
In questa prima area della mostra è esposta una carta a pavimento della Palestina del 1948, di circa 7 per 2,5 mt, che richiama immediatamente l’attenzione del visitatore. Si tratta di un’opera cartografica, la mappa di Salman Abu Sitta. Nato in Palestina nel 1937, Abu Sitta ha conseguito il dottorato in Ingegneria Civile all’Università di Londra. Ha dedicato la sua vita e i suoi studi a ridisegnare la Palestina storica e la sua geografia. Le sue ricerche, condotte anche negli archivi coloniali, hanno confermato il tentativo di cancellare la Palestina prima ad opera dell’impero britannico e successivamente attraverso il progetto sionista. I lavori e le pubblicazioni di Abu Sitta dimostrano la fattibilità del diritto al ritorno dei profughi nei luoghi da cui furono cacciati. Ha fondato a Londra la Palestine Land Society, un’istituzione indipendente che si occupa di raccogliere e documentare informazioni sulla terra e il popolo della Palestina e collabora attivamente con le università palestinesi. Proprio ai neo architetti palestinesi è rivolto un concorso annuale che premia i migliori progetti di ricostruzione virtuale dei villaggi distrutti da Israele nel 1948.

Il curatore Faisal Saleh ha scelto quattro progetti premiati negli ultimi due anni e li ha inclusi nella mostra. Si tratta dei villaggi di Qula, Saffuriyya, Suba e Suhmata che sono stati sviluppati da studenti di varie università, comprese quella di Birzeit e la Gaza University. Nei loro progetti i villaggi ci appaiono come potrebbero essere oggi, con elementi di architettura passata e moderne strutture.

Nella seconda area, l’esposizione si concentra sui rifugiati e i loro discendenti. Molti degli artisti e architetti sono discendenti di profughi palestinesi. In questa zona troviamo la gigantesca opera dell’artista palestinese John Halakah Stripped of their Identity and Driven from Their Land, una stampa su tela di 6,5 x 2 mt: sagome di adulti e bambini, dai volti indefiniti, che si muovono verso l’ignoto. Nel costruire le sagome, Halakah ha utilizzato due timbri che riportano le scritte “forgotten” e “survivors”.

Come sopravvissuti dimenticati sono i profughi che vivono a Gaza e ai quali l’artista palestinese Steve Sabella, che vive in Germania, ha dedicato la sua opera La Grande Marcia del Ritorno assemblando centinaia di foto scattate durante la marcia del 2018. Di fronte a queste opere, campeggia l’acrilico su tela di Samia Halaby, Venetian Red, dai colori accesi che richiamano la resistenza e la resilienza dell’animo umano davanti alle tragedie. Nella disposizione di queste opere c’è il passato e il presente del popolo palestinese, determinato a lottare per i propri diritti.

La mostra ospita anche raccolte fotografiche di vari autori che hanno in comune lo sguardo sull’infanzia dei profughi. Per la prima volta viene esposta una collezione di Jorgen Grinde, fotografo delle Nazioni Unite che fu uno dei primi a documentare la nascita dei campi dell’UNWRA. Nelle sue foto si coglie lo smarrimento dei bambini che si ritrovarono lontano dalle loro case subito dopo il 1948. Le foto di Margaret Olin ci portano nel campo di Dheisheh, vicino Betlemme, tra i murales realizzati per commemorare i martiri palestinesi.

Jacqueline Béjani, è un’artista eclettica che realizza opere in video, in ceramica, dipinge su tela e su altri materiali. Espone un’opera che ha dedicato a sua madre, composta da cinque pannelli con inserti ricamati dalle donne dei palestinesi dei campi profughi e dipinti con i colori che ricordano l’ambiente in cui è cresciuta sua madre, vicino ad Haifa.

Lungi dal voler proporre un tour virtuale della mostra, mi sono soffermata su alcune delle opere che ben esprimono l’obiettivo del curatore, degli architetti e degli artisti palestinesi. “From Palestine: Our Past, Our Future” sfida la narrazione israeliana, decolonalizza lo sguardo attraverso l’arte e l’architettura palestinese, mostra la verità sulla Nakba e lascia immaginare la Palestina del futuro.

Nel marzo 2011 la Knesset ha approvato la “Nakba Law” che criminalizza di fatto il diritto alla memoria del popolo palestinese. Se si considera che per i governanti israeliani parlare della distruzione, delle uccisioni, delle deportazioni e dei massacri perpetrati dalle forze paramilitari e militari del nascente stato di Israele equivale a fare propaganda contro Israele, si potrà agevolmente comprendere quanto coraggiosa è questa mostra, e quanto merita il successo che sta avendo testimoniato dai moltissimi visitatori di tutto il mondo.

La mostra è visitabile tutti i giorni (tranne il martedì) fino al 26 novembre 2023 presso Palazzo Mora a Venezia.
L’ingresso è gratuito.
Il catalogo della mostra è reperibile online qui

]]>
É la lotta che crea l’organizzazione. Il giornale “La classe”, alle origini dell’altro movimento operaio / 8 https://www.carmillaonline.com/2023/09/22/e-la-lotta-che-crea-lorganizzazione-il-giornale-la-classe-alle-origini-dellaltro-movimento-operaio-8/ Fri, 22 Sep 2023 20:00:56 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=78490 di Emilio Quadrelli

Da Valdagno a Italpizza, per un nuovo giornale operaio

Dalle ceneri di “La classe” nascono come si è detto Lotta Continua e Potere Operaio che saranno i soli gruppi capaci di dare corpo e testa all’autonomia operaia. Le due ipotesi politiche e organizzative sono sicuramente diverse mantenendo tuttavia una certa affinità tra loro tanto che solo pochi anni dopo, quando Potere Operaio si scioglierà e la svolta neo-istituzionale di Lotta Continua darà vita alla diaspora delle principali sezioni operaie, gran parte dei soggetti che avevano coabitato all’interno de “La [...]]]> di Emilio Quadrelli

Da Valdagno a Italpizza, per un nuovo giornale operaio

Dalle ceneri di “La classe” nascono come si è detto Lotta Continua e Potere Operaio che saranno i soli gruppi capaci di dare corpo e testa all’autonomia operaia. Le due ipotesi politiche e organizzative sono sicuramente diverse mantenendo tuttavia una certa affinità tra loro tanto che solo pochi anni dopo, quando Potere Operaio si scioglierà e la svolta neo-istituzionale di Lotta Continua darà vita alla diaspora delle principali sezioni operaie, gran parte dei soggetti che avevano coabitato all’interno de “La classe” si ritroveranno dentro le ipotesi che fanno da sfondo alla costituzione del soggetto politico dell’autonomia operaia.

Nell’esperienza di «Linea di condotta» si ritrovano pezzi de “La classe” confluiti in Potere Operaio nel momento in cui il giornale chiude i battenti, insieme a gran parte della diaspora operaia di Lotta Continua che non poche “affinità elettive” mostrava di avere con l’esperienza de “La classe”, invece una parte di Potere Operaio darà vita, attraverso il giornale «Rosso», a un modello di autonomia operaia che si lasciava alle spalle la centralità della fabbrica focalizzando l’attenzione su quel soggetto, l’operaio sociale, che secondo l’area teorico–politica di «Rosso» era diventato il cuore della nuova composizione di classe. In questa area finirono per confluire, anche se in misura minore rispetto a coloro che si posizionarono dentro «Linea di condotta» prima e «Senza tregua» poi, non pochi militanti di Lotta Continua che alla spicciolata abbandonavano l’organizzazione la quale aveva assunto tratti sempre più neoriformisti e neoistituzionali1.

Indipendentemente da tutto, ciò che appare evidente è come “La classe” abbia tenuto a battesimo gran parte della storia degli anni settanta di questo paese e questo sembra essere un motivo più che sufficiente a giustificare il senso di questo lavoro così come, per altro verso, sulla base delle argomentazioni portate appare del tutto forzata per non dire fuorviante la contrapposizione tra classe e ceto politico–intellettuale. Uno sguardo minimamente obiettivo ci restituisce, al contrario, una sostanziale sinergia tra classe e intellettuali il che è ben distante, come non poche narrazioni del presente tendono a fare, dall’assolutizzare il ruolo di questi nelle vicende e nella storia dell’autonomia infine, sulla base di quanto esposto, pare sensato sostenere il peso che una ritraduzione di Lenin ha comportato nell’elaborazione teorica e analitica del movimento dell’autonomia operaia e come proprio intorno a detta ritraduzione si siano costruiti i principali passaggi politici dell’autonomia operaia.

Giunti a questo punto facciamo un salto nel presente. Sicuramente, oggi, il panorama delle lotte non è dei più rosei, ma non è neppure vero che le lotte operaie e proletarie siano assenti. In un settore strategico come quello della logistica, solo per fare un esempio non proprio irrilevante, in questi anni abbiamo visto lo sviluppo di lotte di notevole intensità in grado di ribaltare, almeno in parte, condizioni lavorative prossime al lavoro coatto. Abbiamo assistito all’affermarsi di un potere operaio di non modeste dimensioni attraverso la pratica costante del blocco dei cancelli e la rimessa in atto del picchetto operaio. Per altri versi, a macchia di leopardo, lotte operaie autonome si verificano con una certa continuità dentro fabbriche, officine e cantieri mentre nuove figure operaie come quelle dei riders e degli operatori della sicurezza più noti come buttafuori, pur in situazioni di estrema difficoltà, iniziano a lottare. Da parte loro i braccianti agricoli hanno dato vita, nonostante condizioni di vita e di lavoro durissime, a lotte ed embrioni di organizzazione operaia non proprio indifferenti. Dentro le prigioni e nei campi di concentramento un proletariato in condizioni di marginalizzazione ed esclusione estrema ha continuato a lottare e resistere infine, ma certamente non per ultimo, si è assistito come nel caso delle lotte di Italpizza2 a una nuova Valdagno3 a opera di operaie immigrate. Proprio su questo ultimo aspetto è opportuno soffermarsi poiché può essere assunto come un vero e proprio paradigma del presente.

Chiedersi il perché una lotta come quella di Italpizza, che pure ha interessato un colosso della gastronomia e un numero cospicuo di operaie, sia rimasta sostanzialmente confinata in sé stessa è un modo per affrontare alcuni snodi centrali del presente. Il fatto che in questa lotta un ruolo centrale lo abbiano svolte donne immigrate, ruolo sostanzialmente ignorato, lascia, almeno in apparenza, ancor più stupefatti poiché è innegabile che, da tempo, uno dei movimenti con maggiore capacità di mobilitazione sia proprio quello femminista. Eppure intorno alla lotta di Italpizza si è costruito ben poco e non è neppure troppo lontano dal vero sostenere che la notizia di quella lotta sia rimasta ignota ai più. Colpa delle femministe? Asserirlo sarebbe un abbaglio colossale e significherebbe non cogliere il cuore della questione che merita ben altra spiegazione; del resto ciò che vale per le donne di Italpizza vale per le donne impiegate in condizioni di sfruttamento estremo nell’agricoltura. Anche in questo caso si tratta prevalentemente di donne immigrate le quali, in non pochi casi, ai livelli di sfruttamento estremo devono associare molestie sessuali se non veri e propri stupri ma, nonostante ciò, anche su questo tende a calare un sostanziale velo di silenzio. Non diversamente che su Italpizza anche qui assistiamo al silenzio del movimento femminista e alla sua assenza di intervento ma è colpa del femminismo in quanto tale oppure, il femminismo, al pari di gran parte degli ambiti del movimento antagonista, tace perché la dimensione del lavoro operaio gli è estraneo? Quello che vale per il movimento femminista non è forse moneta corrente per gran parte degli altri ambiti del presunto antagonismo?

Non abbiamo visto, per esempio, di fronte a braccianti uccisi dalla fatica, l’assunzione della condizione dei lavoratori agricoli come ambito di intervento militante, se si escludono alcune iniziative del sindacalismo di base, di una qualche consistenza da parte di alcun settore di movimento e coevi ceti politici–intellettuali eppure, in agricoltura, siamo di fronte a un dominio che vede chiamate in causa direttamente le grandi multinazionali agroalimentari e non una qualche nicchia residuale e arcaica del capitalismo. Nel settore agroalimentare si concretizza il punto più alto del comando, si dipana il modello per antonomasia del dominio, non il mondo di ieri ma la storia del presente4. A fronte di tutto ciò si potrebbero aggiungere una serie infinita di fatti più o meno analoghi come, tanto per dire, la condizione di lavoro neoschiavile in cui versano i rider o gli invisibili della ristorazione. Insomma la non attenzione del movimento femminista nei confronti delle operaie di Italpizza ha ben poco a che fare con il movimento femminista in sé ma rientra in una non visione delle cose che sembra accomunare i più.

Per dirla in parole semplici e chiare, il lavoro operaio è stato espunto da ogni agenda politica e l’interesse nei suoi confronti di fatto è nullo anche se, a uno sguardo solo un poco più attento, non è difficile osservare come la lotta operaia e proletaria sia tutto tranne che inesistente. Insomma, la sconfitta operaia non c’è così come dimostrano la quantità di denunce, fogli di via, cariche della polizia, impiego di vigilantes di pochi scrupoli, sino ad arrivare agli omicidi avvenuti in occasione di un qualche sciopero, sono fatti che hanno riempito le cronache operaie di questi anni ma di queste cronache, questo è il punto, vi è ben scarsa traccia5. Scioperi, picchetti, blocchi stradali e via dicendo non trovano alcuna risonanza dentro i ceti politici–intellettuali, il che fa sì che le cose rimangano prive di parole. Indubbiamente i fatti esistono e hanno anche la testa dura ma fatti privi di un linguaggio e di una narrazione finiscono con il rimanere semplici cose.

Facciamo un esempio: abbiamo detto che la lotta di Italpizza presenta assonanze non distanti dai fatti di Valdagno ma che a differenza di questi hanno lasciato un po’ il tempo che avevano trovato. Perché Valdagno sì e Italpizza, no? Che cosa differenzia i due momenti? La risposta la possiamo facilmente trovare confrontando gli ordini discorsivi che fanno da sfondo ai due fatti. Nel primo caso abbiamo, da parte della quasi totalità del ceto politico intellettuale e militante una attenzione costante sul mondo operaio e le sue lotte, poiché la centralità operaia è l’ordine discorsivo che egemonizza per intero il dibattito politico, teorico e culturale. Sulla scia di ciò, allora, un fatto come quello di Valdagno assume velocemente i tratti di un paradigma: ecco le donne operaie in atto e questo inizia a essere ripetuto, da nord a sud, dentro tutte le realtà operaie, ma non solo. Il paradigma Valdagno attraversa la scuola, l’università, i quartieri. Quel fatto viene amplificato all’inverosimile tanto che, con quella realtà, tutti saranno obbligati a misurarsi. Le parole non si sono inventate nulla, non si sono sostituire alle cose hanno però permesso alle cose di raccontarsi.

Quello che vale per Valdagno vale un po’ per ogni contesto di lotta più o meno radicale, le parole ne consentono la immediata socializzazione. Con ogni probabilità senza la presenza di un ceto politico–intellettuale in grado di farsi carico di ciò ben difficilmente, non solo i fatti di Valdagno, ma la stessa centralità operaia avrebbe potuto diventare l’elemento intorno al quale tutte le agende politiche finirono con il doversi misurare. Oggi, invece, neppure gli omicidi riescono a trovare le parole. In questi anni non pochi operai sono caduti nel corso di scioperi e picchetti, ma le loro morti sono cadute nel silenzio e la stessa cosa vale per la quantità impressionante di morti sul lavoro, morti che, come non poche inchieste ufficiali confermano, hanno ben poco dell’incidente casuale ma sono il frutto maturo di una organizzazione del lavoro tutta declinata alla massima estrazione di profitto a scapito della protezione della vita operaia. A conti fatti non sono le cose a mancare, sono le parole a essere assenti, ma questo è esattamente il frutto di un interesse delle parole verso altri ambiti i quali hanno finito con l’occupare ed egemonizzare l’agenda politica e culturale dei vari ceti politici e intellettuali.

Mentre le retoriche dominanti nei mondi militanti oscillano tra la narrazione di tutta l’area post operaista e della nuova sinistra, che hanno decretato la fine del lavoro operaio e la morte della classe operaia o quella reducista, tutte le aree vetero-comuniste capaci solo di vivere del e nel ricordo della mitica classe operaia delle grosse concentrazioni di questi e che, mentre ne loda e incensa i fasti, riesce solo, mentre si piange addosso, ad andare alla ricerca del tempo perduto, le lotte operaie continuano a esistere, però, purtroppo, nel più totale isolamento. Con isolamento, nel contesto, si intende la dimensione politica e culturale in cui queste si danno e l’obiettiva incapacità di imporre la centralità operaia come elemento cardine dell’agenda politica. Esattamente qui sembra delinearsi la principale differenza con l’epoca presa in considerazione da questa trattazione della quale, con ogni probabilità, “La classe” ne ha rappresentato uno degli aspetti più interessanti e significativi.

Nelle osservazioni precedenti si è molto insistito sul rapporto classe operaia/ceto politico–intellettuale mostrando come detta relazione rimanga sostanzialmente indispensabile per la messa in atto di un ordine discorsivo in grado di esercitare egemonia e direzione politica. “Senza teoria rivoluzionaria, niente movimento rivoluzionario.”, con ciò si vuole ribadire che il Che fare? mantiene inalterata tutta la sua freschezza e continua a essere l’unico orizzonte possibile e realistico intorno al quale rideterminare il partito dell’insurrezione nel presente ma, una volta detto ciò, occorre comprendere come questo passaggio sia possibile.

Intanto dobbiamo prendere atto di come, sicuramente in questo paese e in buona parte del mondo occidentale, il novecento sia del tutto finito. Quel tipo di organizzazione del lavoro che presupponeva sempre più massicce concentrazioni operaie è andato in archivio tanto che, osservatori a dir poco superficiali, sulla scia di ciò hanno decretato la fine del lavoro operaio. In realtà ciò che è accaduto veramente è il cambiamento di pelle del lavoro operaio e della sua condizione. Una condizione che nella giungla delle disparità contrattuali ha trovato la sua forma fenomenica maggiormente significativa. A fronte di ciò il proliferare, ormai come condizione normale, del lavoro irregolare per quote non secondarie di operai o, per altro verso, l’obbligo di diventare imprenditori di sé stessi attraverso la massificazione delle partite IVA è una condizione operaia e proletaria sempre più maggioritaria. Il novecento è stato archiviato e non pochi tratti della cosiddetta post modernità, per quanto riguarda la condizione operaia, hanno non poche assonanze con la condizione subalterna ottocentesca e questo è il dato dal quale occorre partire.

Come nell’Ottocento, per altro verso, classe operaia e proletariato sono politicamente esclusi, non bisogna infatti dimenticare che l’inclusione politica delle masse inizia a delinearsi nel corso della Prima guerra mondiale e occorrerà attendere la Costituzione di Weimar6 perché, sul piano giuridico formale, tale inclusione diventi legittima.

Oggi possiamo dire che il Trattato di Weimar è stato stralciato insieme a tutta quella costruzione che Keynes e lo stato–piano avevano messo in forma dopo il crack del ’297. Ciò che in realtà è successo è stata la ricollocazione dei subalterni nell’ambito della marginalità ed esclusione sociale e conseguente privazione della loro legittimazione storico–politica tanto che, per molti versi, la loro condizione si approssima a quell’essere massa senza volto propria dei colonizzati. Occorre riconoscere che nei confronti di queste masse non vi è alcuna empatia da parte dei ceti politici–intellettuali. In altre parole sembra veramente impensabile che, all’orizzonte, si possa paventare una operazione in qualche modo simile ai Quaderni rossi e a tutto ciò che li ha seguiti, se classe operaia e proletariato romperanno l’isolamento, questa volta, potranno contare solo su sé stessi e direttamente dal suo interno si dovrà formare un ceto politico–intellettuale, almeno per tutta una fase.

Se la centralità operaia riconquisterà il cuore dell’agenda politica lo potrà fare solo partendo da sé stessa ma, una volta preso atto di ciò, l’ipotesi di un giornale operaio, un “La classe” del presente, è utile o no, è fattibile o meno, assume una valenza strategica o è un’ipotesi del tutto peregrina? Un luogo deputato anche alla teoria della classe operaia rimane o meno un aspetto strategico della lotta operaia? Un luogo dove provare a far vivere l’ordine discorsivo della centralità e direzione operaia rimane o no un aspetto ineludibile per la costituzione dell’organizzazione operaia? Gli operai hanno o no bisogno di elaborazione teorico–politica o possono farne tranquillamente a meno? Dobbiamo tentare una nuova ritraduzione di Lenin o possiamo considerare il pensiero strategico leniniano del tutto inutile nel presente? Dobbiamo imparare a essere anche ceto politico–intellettuale o rimanere quelli dei picchetti? Dobbiamo essere in grado, contando solo sulle nostre forze, di riattivare la triade marxiana prassi/teoria/prassi o limitarci a una sorta di prassi in permanenza tanto eroica e volenterosa ma sicuramente poco capace di caricarsi sulle spalle tutto il peso dei passaggi politici che la lotta operaia si porta appresso? Dobbiamo essere in grado di agire e funzionare anche come supplenza politica nei confronti della classe o inibirci per intero la dimensione del politico? Dobbiamo tentare una battaglia per riconquistare l’egemonia politica o accontentarci di vivere tra le marginalità del presente? Queste le domande e le sfide che dobbiamo provare ad affrontare oggi.

Per rispondere cominciamo con il dire, intanto, che il giornale è uno strumento di organizzazione, non certamente l’organizzazione operaia ma sicuramente un passaggio importante, perché mette in collegamento le lotte operaie, ponendo in primo piano i punti di vista di queste. Dal momento che sviluppa dibattito tra gli operai, costruisce una serie di tasselli non secondari dell’organizzazione e dell’insieme di problematiche che questa indubbiamente si porta appresso. Dentro la classe questa funzione diventa strategica, perché, infatti, bisogna tener presente che, in non pochi casi, le numerose lotte esistenti non comunicano tra loro, così come è del tutto impossibile trovare un luogo comune dove esplicitare il punto di vista operaio e per la classe questo è un limite che contribuisce non poco, a renderla monca.

Non è difficile da immaginare che un giornale operaio andrebbe a ricoprire un ruolo essenziale dentro la classe; pensiamo all’impatto che potrebbero avere delle semplici cronache operaie tra gli operai in lotta, pensiamo alle pagine fitte di corrispondenze operaie de “La classe” negli scenari di lotta attuali. Forse che nel ’69 il coordinamento e la socializzazione delle lotte era un qualcosa che si raccoglieva sugli alberi? Forse che la classe operaia viveva una condizione di minor isolamento di oggi? Gli operai della fabbrica X conoscevano ciò che accadeva nella fabbrica Y per volontà divina e ancora gli operai di Torino cosa sapevano di quelli di Porto Torres se non ci fosse stata l’organizzazione di una narrazione. Certo, le notizie di notevole spessore non potevano essere eluse, Avola e Battipaglia non potevano essere ignorate dalla stessa informazione di regime, ma non è questo il punto, ciò che rimaneva costantemente celato era il livello di lotta e conflittualità che attraversava le fabbriche, gli obiettivi che gli operai perseguivano, le forme di lotta adottate. Il giornale, quindi, è in prima istanza uno strumento del dibattito operaio che consente sia di fissare i punti delle varie situazioni, sia di individuare collettivamente i passaggi necessari per il loro prosieguo. Va anche detto che il giornale, oltre che funzionare come elemento di organizzazione della classe, rimane uno strumento, non secondario, in grado di rompere la sensazione di isolamento e accerchiamento in cui, in non pochi casi, la classe ritiene di trovarsi. Percezione non così fantasiosa come chiunque abbia un minimo di familiarità con le lotte, può testimoniare.

Pensiamo, ad esempio, ai conflitti nel settore della logistica: i magazzini sono dislocati in autentici territori del nulla dove per chilometri si dipanano attività produttive che non hanno alcuna comunicazione l’una con l’altra. Il magazzino X sciopera e picchetta i cancelli, ma intorno a questo nessuno si accorge di niente. Se, come in non pochi casi avviene, si arriva allo scontro con i guardiani o alle cariche della polizia, tutto rimane circoscritto a quel contesto e può accadere che, il giorno seguente, si ripeta uno scenario simile a un paio di chilometri di distanza, anche questo in maniera del tutto isolata. L’assenza di comunicazione produce isolamento e inibisce non poco l’attività di agitazione e propaganda. Andare davanti a una fabbrica o un magazzino con un giornale operaio non è proprio come andarci a mani vuote e questo è un aspetto importante della questione.

Accanto a questo ve ne è un secondo, non meno rilevante e anzi, per alcuni versi, forse più decisivo: la funzione che il giornale può e deve assolvere dentro le aree politiche antagoniste, rivoluzionarie e comuniste, in altre parole il giornale è uno strumento essenziale per la conduzione della battaglia politica al fine di portare sul terreno della centralità operaia un ceto politico–intellettuale in grado di entrare in relazione dialettica con le lotte operaie, assumerle come centrali dell’agenda politica del presente, imporre la questione operaia come asse portante del dibattito di tutto il movimento antagonista. Compito titanico? Forse. Ciò non toglie che è una partita che occorre tentare. Se ci guardiamo intorno possiamo facilmente osservare come, ad esempio, nei mondi studenteschi e intellettuali vi sia un dibattito politico e culturale sui più svariati temi tranne che sulla classe operaia e le sue lotte. Questo è certamente il frutto di tutta una serie di retoriche che hanno preso campo negli ultimi decenni ma, occorre riconoscerlo, è anche e soprattutto il frutto di una assenza. Come si fa a parlare di classe operaia, di lotte operaie se queste non sono in grado di produrre uno straccio di narrazione? Su quali basi diventa possibile provare a forzare una situazione se per le mani non si ha nulla di teoricamente consistente? Pensiamo alla quantità non proprio irrisoria di giovani che si avvicinano, con intenti radicali e rivoluzionari, alla politica. Che occasione hanno di conoscere il mondo operaio se questo, sul piano organizzativo e comunicativo, si avvicina di molto al modello carbonaro?

È ovvio che, in uno scenario simile, queste migliaia di possibili militanti verranno cooptati dagli unici ordini discorsivi che hanno visibilità. Occorre sia dare visibilità alle lotte operaie ma non solo bisogna far sì che, intorno a queste lotte, si focalizzi l’attenzione e l’azione di tutto ciò che si considera e autorappresenta come ambito antagonista e conflittuale e questo è possibile solo se la centralità delle lotte operaie ritorna a essere il punto di riferimento del punto di rottura del rapporto sociale capitalista. Senza questo passaggio le lotte operaie corrono il concreto rischio di una endemicità priva di qualunque prospettiva e, nostro malgrado, torneremo a non essere troppo diversi da quell’operaismo che aveva bellamente eluso il rapporto delle lotte con il momento di rottura ignorando così la dimensione propria della politica. Questa l’ottica nella quale dovrebbe collocarsi l’ipotesi di un nuovo giornale, da “La classe” a “La classe”, per una nuova stagione del potere operaio.

(8Fine)


  1. L’esperienza di «Linea di condotta» è riportata per intero in, E., Quadrelli, Autonomia operaia, cit. Sull’esperienza di Rosso si veda: T. De Lorenzis, V. Guizzardi, M. Mita, Avete pagato caro non avete pagato tutto. Antologia della rivista Rosso (1973–1979), Derive Approdi, Roma 1979.  

  2. Al proposito si veda, «Il Manifesto», 120 operai di Italpizza a processo, 13/9/2020.  

  3. Il 19 aprile 1968 gli operai, ma soprattutto le operaie della Marzotto entrarono autonomamente in lotta contro il padrone Marzotto il quale gestiva la fabbrica apertamente patriarcale e paternalista. Tra le prime cose che le operaie fecero fu distruggere la statua del padre–padrone. Nonostante i duecento arresti e i violenti scontri con le forze dell’ordine la lotta continuò in maniera sempre più dura e determinata. Le donne furono la testa del movimento, dall’inizio alla fine. L’evento, in un batter d’occhio, diventò il simbolo della nuova stagione delle donne operaie e della loro radicalità. Sugli eventi di Valdagno si veda, L. Guiotto, La fabbrica totale. Paternalismo e città sociali in Italia, Feltrinelli, Milano 1979.  

  4. Una buona documentazione di ciò è reperibile sul sito di “Campagne in lotta”, campagneinlotta.org.  

  5. Una rara eccezione è data dal testo scritto dal Si.Cobas, Carne da macello, Red Star Press, Roma 2016.  

  6. Su questo passaggio si veda il fondamentale lavoro di S. Mezzadra, La costituzione del sociale. Il pensiero politico e giuridico di Hugo Preuss, Il Mulino, Bologna 1999.  

  7. In particolare, John, M. Keynes, La fine del laissez–faire e altri scritti, Bollati Boringhieri, Torino 1991.  

]]>
É la lotta che crea l’organizzazione. Il giornale “La classe”, alle origini dell’altro movimento operaio / 7 https://www.carmillaonline.com/2023/09/17/e-la-lotta-che-crea-lorganizzazione-il-giornale-la-classe-alle-origini-dellaltro-movimento-operaio-7/ Sun, 17 Sep 2023 20:00:46 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=78432 di Emilio Quadrelli

Nichelino come Watts, Mirafiori come Detroit

Qui si apre una parentesi veramente interessante e di una straordinaria freschezza in quanto, negli articoli de “La classe” sul proletariato in pelle scura o su ciò che verrà chiamato operaio multinazionale, si ritrovano temi e argomentazioni che sembrano essere il frutto di analisi del presente. L’attenzione nei confronti del proletariato nero statunitense, degli operai meticci britannici, nord africani presenti in Francia o turchi in Germania non è secondaria e, sulla scia di ciò, l’individuazione di tratti spiccatamente neocoloniali all’interno del punto più [...]]]> di Emilio Quadrelli

Nichelino come Watts, Mirafiori come Detroit

Qui si apre una parentesi veramente interessante e di una straordinaria freschezza in quanto, negli articoli de “La classe” sul proletariato in pelle scura o su ciò che verrà chiamato operaio multinazionale, si ritrovano temi e argomentazioni che sembrano essere il frutto di analisi del presente. L’attenzione nei confronti del proletariato nero statunitense, degli operai meticci britannici, nord africani presenti in Francia o turchi in Germania non è secondaria e, sulla scia di ciò, l’individuazione di tratti spiccatamente neocoloniali all’interno del punto più alto del ciclo di accumulazione capitalista. Con ciò si pone una pietra tombale all’edulcorata visione gradualista e riformista la quale, nello sviluppo delle forze produttive capitaliste, intravvede in prima istanza un principio di civilizzazione per rimettere al centro quel lato cattivo della storia sul quale non poco si era soffermato Marx nella sua “Miseria della filosofia”. Del resto questo proletariato in pelle scura mostra non poche affinità con il proletariato locale che è andato a sedimentare la nuova composizione di classe, a ben vedere gli operai che vanno a posizionarsi intorno alla catena di montaggio sono soprattutto operai meridionali ossia prodotti diretti della colonia interna italiana 1.

Esattamente qui, contro tutte le retoriche risorgimentali care al movimento operaio ufficiale, si delinea un discorso storico–politico che non fa sconti sul tratto coloniale che sta alla base dell’unificazione italiana e che non poche ripercussioni finisce con l’avere sul presente. Molto realisticamente la monarchia sabauda è colta nella sua realtà ossia quella di una tra le monarchie più reazionarie in vena di conquiste e annessioni e non è secondario rilevare come, proprio da ambiti interni a “La classe”, prenderà forma una contro narrazione anche sul mito garibaldino il cui tratto conquistatore e coloniale sarà irrimediabilmente marchiato a fuoco riportando alla luce il massacro di Bronte2. Per altro verso sempre da ambiti interni o affini a “La classe” prenderà forma una rivisitazione storica sul brigantaggio meridionale come forma di resistenza al dominio coloniale della monarchia sabauda3.

La lettura che “La classe” dà del nuovo operaio deportato nelle metropoli industriali del nord è una lettura sostanzialmente coloniale, da qui la facile affinità con tutti quegli spezzoni e segmenti di classe operaia i quali, pur con storie diverse, respirano la medesima aria di famiglia. In ciò vi è una drastica e radicale rottura con tutta la narrazione socialdemocratica e riformista sullo sviluppo del capitalismo e sulle modalità dei suoi cicli di accumulazione4. Nella narrazione classica del movimento operaio ufficiale sullo sviluppo del capitalismo il colonialismo non è mai stato osservato come tratto essenziale dell’accumulazione. Le colonie sono sempre state considerate una appendice dello sviluppo capitalistico, sicuramente importanti per quanto concerne l’accaparramento di materie prime essenziali ma del tutto prive di interesse per quanto riguarda l’estrazione di plusvalore. Le colonie sono state considerate importanti per i materiali grezzi presenti ma non per come il capitalismo metteva a profitto il corpo dell’indigeno anzi, sotto questo aspetto, il colonialismo è spesso stato osservato come un doloroso ma necessario passaggio poiché, proprio grazie al colonialismo, i popoli colonizzati avrebbero potuto accedere ai fasti della modernità. In sostanza si è finito per ignorare bellamente l’importanza che il colonialismo e il coevo modello coloniale hanno avuto per l’accumulazione capitalista.

“La classe” non solo si emancipa da queste pastoie, ma indica una lettura, che solo molti anni dopo diventerà moneta corrente, non poco innovativa a proposito dello sviluppo capitalista. L’attenzione che il giornale riversa verso il proletariato in pelle scura, le sue lotte e le sue forme organizzative ne sono una non secondaria esemplificazione. Prima di chiudere su questo aspetto pare importante rilevare come, proprio a partire da ciò, per “La classe” l’unità operaia è, in prima istanza, unità di quei settori operai i quali poco o nulla hanno da guadagnare nel rapporto con il capitalismo. Si evidenzia, cioè, come “La classe” non sia attratta dal mostro sacro dell’unità (indistinta) della classe ma focalizzi interesse e attenzione su determinati comparti operai. In Italia, proprio in virtù della colonia interna rappresentata dal Meridione, la spaccatura dentro la classe operaia non avrà tratti macroscopici ma, se volgiamo lo sguardo verso un paese come gli USA, è facile comprendere come questa contrapposizione dentro la classe assuma contorni di ben altra natura. Negli Stati Uniti la classe operaia bianca di ceppo anglosassone ha sempre giocato un ruolo avverso nei confronti sia dei neri, sia del proletariato immigrato identificandosi quasi integralmente con le politiche imperialiste del governo, di ciò l’appoggio alla guerra contro il Vietnam ne ha rappresentato qualcosa di più che un semplice esempio.

Veniamo ora a un altro tema che caratterizza il giornale: gli studenti e il rapporto con il movimento studentesco. Agli studenti il giornale dedica un certo spazio compiendo con ciò una non secondaria rottura con la tradizione operaista. Per l’operaismo che abbiamo definito classico e/o tradizionale gli studenti non rappresentavano alcun interesse. Considerati genericamente piccola borghesia potevano riscuotere un qualche interesse se, come singoli, decidevano di approdare alla militanza operaista, ma gli studenti in quanto tali erano considerati del tutto estranei e inutili alla lotta operaia. Ciò accade, ovviamente, prima del ’68 dopo di che, nulla sarà come prima.

Non lo sarà perché si modifica radicalmente l’analisi sulla composizione di classe della scuola e in particolare sulla figura del tecnico il quale, come più volte “La classe” riporta, è artefice nella fabbrica di lotte non secondarie, anche perché, nelle punte avanzate del capitalismo, ciò è soprattutto vero per quanto riguarda le grosse fabbriche del milanese dove la ristrutturazione capitalista poggia esattamente su una dilatazione e massificazione del tecnico il quale, dentro questo passaggio, perde velocemente il suo ruolo di comparto privilegiato per farsi classe operaia a tutto tondo. La scuola, attraverso l’inaugurazione della scuola di massa5, ha cambiato volto e si è adeguata alle istanze e alle esigenze del neocapitalismo.

La proletarizzazione del corpo studentesco è un dato di fatto che non può essere ignorato e su ciò “La classe” si spende non poco. Il legame operai-studenti ha ormai perso quel tratto ideologico in cui tendevano a rinchiuderlo tanto il riformismo quanto le varie anime dell’ortodossia comunista e che riduceva questi ultimi simili a una sorta di boy scout, proni a farsi missionari davanti alle fabbriche. Con ciò veniva anche meno quella funzione sociale che riformisti e ortodossi vari avevano prefigurato per gli studenti dentro i quartieri poiché, per “La classe”, questi non sono un supporto ideologico esterno agli operai ma parte dello stesso fronte di lotta. La loro proletarizzazione li rende del tutto interni o almeno affini alla lotta operaia benché nessuno si sogni di mettere in discussione la centralità e la direzione operaia. C’è un altro aspetto sul quale, però, vale la pena di soffermarsi: ossia le contaminazioni che il mondo operaio subisce dal e attraverso il mondo studentesco.

Abbiamo detto, parlando del maoismo, di quanto l’indicazione dello sparare sul quartier generale abbia fatto presa su questa tipologia operaia e di come l’antiautoritarismo sia un tratto indelebile della lotta operaia ma abbiamo anche detto come questa classe operaia si caratterizzi per il rifiuto del lavoro e per il volere tutto. È una battaglia di potere e di libertà che caratterizza questo soggetto operaio il quale ha nelle corde non il mito soviettista dell’operaio assunto a simulacro, ma semmai la sua negazione, sulla scia di Marx è la classe, non per sé ma contro di sé. Poteva una classe operaia simile rimanere immune dalle suggestioni libertarie del ’68 delle quali il movimento studentesco era stato l’alfiere? Poteva questa classe operaia tutta protesa a liberare il tempo dal lavoro per vivere, non venire in qualche modo attratta dagli stili di vita che il ’68 aveva inaugurato? Questa classe operaia ha rotto con la tradizione comunista a trecentosessanta gradi e non diversamente dagli studenti è alla ricerca di qualcosa d’altro.

Liberare il tempo dal lavoro significa sperimentare possibili rotture con l’alienazione della condizione operaia, rompere con gli schemi esistenziali entro i quali il rapporto sociale capitalista ha confinato gli operai. Si tratta, allora, di coniugare la lotta in fabbrica con l’avventura della vita; da lì, quindi, anche uno strappo generazionale con la famiglia e gli orizzonti quanto mai ristretti che le fanno da sfondo. Questo sarà ancora più vero per le donne, quelle operaie in particolare, le quali dentro quella stagione possono porre in atto una duplice liberazione: la lotta contro la schiavitù del lavoro salariato, ma anche la lotta contro il loro ruolo sociale. Per le donne, ancora più che per gli operai maschi, liberare il tempo dal lavoro significa rompere tutte le gabbie in cui non solo il lavoro salariato e il comando le ha imprigionate ma fare i conti con il patriarcato e tutte le sue derive. Per le donne la lotta significa iniziare a riappropriarsi di sé stesse, a esistere come soggetto autonomo, a parlare in prima persona a non essere più appendici di qualcosa, tutti temi, questi, che erano stati propri del ’68 che trovano non pochi consensi tra le donne in fabbrica6.

Sulle donne “La classe”, in realtà, si mostra ben poco attenta e se sulla razza e il colonialismo anticipa temi la cui attualità oggi è a dir poco dirompente, sul genere si mostra ben poco innovativa anche se non del tutto ignara e questo, a conti fatti, è forse il vero e proprio rimprovero che le può essere fatto. Con ciò chiudiamo la parentesi sull’astratto per tornare a calarci nella concretezza delle lotte e del dibattito che intorno a queste si va sviluppando. Arriviamo così a Corso Traiano e all’epilogo de “La classe” provando, al contempo, a gettare un corposo sguardo sul presente.

Il 3 luglio 19697 segna un passaggio decisivo per il movimento dell’autonomia operaia, quella che è stata chiamata la battaglia di Torino anticipa ciò che, di lì a poco, diventerà la normalità del conflitto operaio e studentesco e dà obiettivamente il la, alla anomalia italiana degli anni settanta. Corso Traiano è una svolta dalla quale non è possibile tornare indietro, una accelerazione che finirà con lo scompaginare la stessa “La classe” a riprova di come non si possano separare le questioni organizzative da quelle politiche e come le strutture formali possano vivere ed esistere solo se in grado di stare sul filo del tempo del partito storico. Corso Traiano conferma, ancora una volta, come la dialettica marxiana prassi/teoria/prassi sia la sola e unica stella polare alla quale affidarsi e come, fuori da ciò, vi sia solo sclerotizzazione burocratica, in altre parole corso Traiano mostra come Lenin avesse ancora una volta ragione. I fatti sono abbastanza noti, pertanto ci si limiterà a riportarli in maniera estremamente sintetica.

Il 3 luglio il sindacato ha indetto uno sciopero e una manifestazione contro il caro affitti e la questione abitativa mentre, da parte sua, “La classe” ha indetto una manifestazione per il pomeriggio indicando la porta 2 di Mirafiori come luogo del concentramento. Si tratta di una decisione che ha suscitato non poche perplessità anche all’interno dell’assemblea operai–studenti poiché, non pochi, considerano l’iniziativa prona all’avventurismo con possibili ricadute nefaste per il livello repressivo che sicuramente comporterà, con la conseguenza di un vero e proprio azzeramento di tutto il lavoro politico svolto dall’assemblea e dal giornale negli ultimi mesi. Una parte dell’assemblea obietta che un conto è la forza che si è in grado di esercitare dentro la e le fabbriche, ma ben altra cosa è riversare questa forza fuori dalla fabbrica; lì la partita cessa di essere focalizzata sul padrone e si sposta immediatamente sullo stato, lì il terreno in parte consolidato della violenza operaia in fabbrica va a misurarsi su un terreno in gran parte sconosciuto, il che potrebbe comportare una disfatta con conseguente annichilimento di tutto quel tessuto di avanguardie di fabbriche che un lavoro certosino aveva costruito nei mesi precedenti.

Si tratta di dubbi più che legittimi e sensati ma che, per altro verso, mostrano come, anche inconsciamente, in non pochi casi la struttura organizzata tenda a privilegiare la conservazione di sé stessa piuttosto che arrischiare l’incognita del salto politico. Se pensiamo, infatti, a come, in un contesto ben più drammatico, a ridosso dell’insurrezione sovietica, Lenin si trovò contro una buona fetta del partito bolscevico, diventa abbastanza evidente come la decisione sia sempre un momento drammatico, ben poco lineare e come, in aggiunta, sia sempre un grano di azzardo quello che finisce con l’accompagnarla. Siamo al momento dell’audacia, dell’audacia e ancora dell’audacia, il che, per forza di cose, non può fare affidamento su troppe certezze. Alla fine, soprattutto per la spinta proveniente dalla componente operaia che evidentemente aveva maggiormente il polso degli umori interni alle fabbriche, la decisione per la manifestazione autonoma è presa, davanti alla porta 2 di Mirafiori si deciderà il destino delle lotte operaie.

Il corteo non riuscirà mai a partire perché immediatamente caricato da polizia e carabinieri, ma la sorpresa arriva esattamente in quel momento poiché dopo un attimo di sbandamento il corteo si ricompatta e inizia a reagire, mentre pressoché in contemporanea, dal Lingotto e da altre fabbriche, approdano altri cortei operai verso la porta 2 di Mirafiori e stessa cosa fanno gli studenti. In brevissimo tempo gli scontri si allargano a macchia d’olio finendo con il coinvolgere non pochi quartieri operai tanto che la battaglia di Torino si protrarrà sino a notte inoltrata e troverà nel quartiere operaio di Nichelino il suo epicentro. Polizia e carabinieri sono in rotta, la classe operaia ha vinto, questo ridefinisce per intero i rapporti di forza tra le classi in città ma non solo, poiché quanto accade alla Fiat è qualcosa che ha ripercussioni immediate sui rapporti di forza generali finendo con il porre in crisi gli stessi assetti governativi. Tutto ciò obbliga anche a un ragionamento ex novo per quanto riguarda il terreno dell’organizzazione politica e la messa in campo di adeguate strutture militari in grado di farsi carico del livello di scontro che spontaneamente la lotta operaia ha posto all’ordine del giorno e, come la dinamica stessa della battaglia di Torino ha evidenziato, si pone il problema, non più rimandabile, del rapporto tra lotta di fabbrica e lotta dentro la metropoli. Una quantità di questioni che investono direttamente tutta l’esperienza portata avanti da “La classe”, una accelerazione che va ben oltre gli orizzonti che, prima di corso Traiano, questa aveva ipotizzato.

Ben prima di corso Traiano “La classe” si era attivata per cercare di far compiere un salto all’organizzazione autonoma operaia e per fine luglio aveva convocato a Torino un convegno dei comitati e delle avanguardie operaie, una operazione che aveva il duplice scopo di iniziare a tirare le somme di ciò che si era andato sedimentando in termini di lotte, esperienze, progettualità e dibattito dentro la sempre più diffusa area dell’autonomia operaia e, a partire da ciò, delineare i necessari passaggi politici organizzativi in grado di aggredire e affrontare le nuove scadenze a partire da quella decisiva dei contratti dell’imminente autunno. “La classe”, quindi, è pienamente cosciente che la sua funzione, almeno in quella forma, è giunta al termine e che occorre andare oltre quella pur fondamentale esperienza, in tutto questo, comunque, immagina di attivare questo passaggio in continuità con quanto posto a regime sino a quel momento, il convegno dovrebbe mirare esattamente a ciò ovvero chiudere l’esperienza de “La classe” e dalle sue ceneri far sorgere un soggetto politico capace di farsi carico complessivamente dell’organizzazione operaia. Le cose, però, andranno diversamente.

Le due anime che avevano convissuto dentro il giornale, adesso più di prima, acutizzano le loro differenze e in ciò la battaglia di Torino ha sicuramente giocato un ruolo non secondario. Come si è detto non vi era stata unanimità dentro al giornale sull’indire una manifestazione autonoma, una diversità che rimandava, per lo più, alle due posizioni presenti nel giornale. L’ala prettamente operaista, che di lì a poco darà vita a Potere Operaio, aveva mostrato le maggiori perplessità sulla manifestazione mentre l’ala che si costituirà in Lotta Continua era stata quella che maggiormente aveva spinto perché la manifestazione si facesse. In ciò emergono e in maniera neppure troppo sottile le differenze sul modello di organizzazione che le due componenti de “La classe” hanno a mente. Per i futuri militanti di Potere Operaio l’organizzazione è organizzazione di quadri operai con funzione di avanguardia e direzione delle lotte e, in piena coerenza con ciò, il problema dell’organizzazione operaia è strutturarsi in maniera tale da prendere la testa del movimento inoltre, per questi militanti, la centralità della fabbrica rimane pressoché assoluta, è lì, senza farsi distogliere da alcuna sirena di lotta metropolitana che va concentrato e focalizzato tutto il lavoro delle avanguardie operaie. In questo senso, pur con tutte le tare del caso, coloro che daranno vita a Potere Operaio si mostrano in più di un tratto, interni alla tradizione comunista.

Molto diversa l’impostazione che fa da sfondo ai militanti che daranno vita a Lotta Continua. Anche per loro il nodo dell’organizzazione è centrale ma tendono ad affrontarlo in maniera assai diversa dai primi. Per chi andrà a formare Lotta Continua, è la lotta e le sue forme che costruiscono l’organizzazione e proprio per questo l’organizzazione non deve porsi il problema di prendere la testa del movimento ma deve, invece, essere la testa del movimento. Due ipotesi che rimandano a idee e concezioni abbastanza diverse sul senso che assume l’autonomia operaia. Ciò che diventerà Lotta Continua avrà un ampio seguito operaio e alla FIAT potrà vantare a lungo una egemonia incontrastata, cosa che obiettivamente non si può dire di coloro che perseguono l’ipotesi di Potere Operaio nonostante l’area che si coagula intorno a Lotta Continua non sia per nulla fabbrichista ma, al contrario, fautrice di una socializzazione della lotta operaia nella la metropoli il che diventerà quanto mai esplicito poco tempo dopo, quando lancerà il programma “Prendiamoci la città”8.

Questa area non rinuncerà certo alla centralità operaia, anzi, e questo era già evidente all’interno dell’esperienza de “La classe”, ma allarga il suo raggio d’azione verso la complessità delle figure proletarie che animano la metropoli. Era stata quella a rompere con gli schemi rigidi del vecchio operaismo, in parte presenti anche nel nuovo, in merito agli studenti e al ruolo giocato da questi nei nuovi scenari del neocapitalismo; non per caso proprio questa area politica fu in grado di farsi egemone soprattutto tra gli studenti medi dei tecnici e dei professionali e in più, sempre quest’area, iniziò a lavorare, frutto di un non secondario radicamento all’interno dei quartieri operai e proletari, con il proletariato extra legale e prigioniero del resto, ancor prima che lo scontro in fabbrica si radicalizzi e vada in scena la battaglia di Torino, l’11 aprile proprio Torino aveva visto la battaglia delle Nuove, quando i detenuti si erano ribellati e avevano distrutto la prigione. Ben difficilmente, a partire da queste non secondarie differenze, le due ipotesi possono convivere e pensare, per di più, di compiere insieme quel salto qualitativo politico–organizzativo che corso Traiano ha reso quanto mai urgente.

Il Convegno, di fatto, non approda a nulla. Le due principali anime che stavano dentro a “La classe” tendono a polarizzare le loro differenze ma, con ogni probabilità, non si tratta solo e semplicemente di questo, bensì del fatto che tutto quello che “La classe” poteva dare, aveva dato e questo non è stato certo poco. Corso Traiano non era stato, come gli avvenimenti dell’autunno saranno lì a dimostrare, un fulmine al ciel sereno e neppure un falò tanto intenso quanto effimero, ma il corposo incipit di una nuova e durissima stagione di lotta. L’offensiva operaia non lascia spazi a interpretazioni di altro tipo, è il salto alla guerra. Dentro tale scenario “La classe” non poteva più svolgere il ruolo che, con non poco merito, aveva svolto nei pochi mesi della sua attività, un passaggio politico si mostrava tanto urgente quanto necessario e, con ogni probabilità e proprio in virtù di ciò, più che la nascita di una organizzazione monolitica a dover sbocciare erano cento fiori. Siamo di fronte a un passaggio sicuramente complessivo ma anche complesso, passaggio che ben difficilmente può essere perimetrato in un unico contenitore. Le due aree de “La classe” rimandano a questioni reali e per nulla effimere, l’aver ipotizzato e tentato strade affini ma diverse sembra essere stato qualcosa di obbligato e imposto da una situazione materialisticamente determinatasi, più che il frutto di cattivi ideologismi.

( 7continua)


  1. Cfr. A., Serafini, L’operaio multinazionale in Europa, Feltrinelli, Milano 1974.  

  2. Su questa vicenda si veda, P. Iaccio, Bronte. Cronaca di un massacro che i libri di scuola non hanno raccontato. Un film di Florestano Mancini, Liguori, Napoli 2002.  

  3. Tra l’immensa pubblicistica inerente a questo fenomeno si può vedere, F. Molfese, Storia del brigantaggio dopo l’Unità, Feltrinelli, Milano 1966. 

  4. Su questo aspetto si veda l’ottimo testo di S. Mezzadra, La condizione postcoloniale. Storia e politica nel presente globale, Ombre Corte, Verona 2008.  

  5. Cfr. G. Decollanz, Storia della scuola e delle istituzioni educative. Dalla Legge Casati alla riforma Moratti, Edizioni Laterza, Roma–Bari 2005.  

  6. Su questa tematica si veda in particolare: E. Bellé, L’altra rivoluzione. Dal sessantotto al femminismo, Rosemberg & Sellier, Torino 2021.  

  7. D. Giachetti, Il giorno più lungo. La rivolta di corso Traiano (Torino 3 luglio 1969), Edizioni BFS, Pisa 1997.  

  8. Al proposito si veda, «Lotta continua», Prendiamoci la città. II Convegno nazionale, Bologna 24 luglio, Anno III, N. 12, Milano 1971.  

]]>
É la lotta che crea l’organizzazione. Il giornale “La classe”, alle origini dell’altro movimento operaio / 6 https://www.carmillaonline.com/2023/09/03/e-la-lotta-che-crea-lorganizzazione-il-giornale-la-classe-alle-origini-dellaltro-movimento-operaio-6/ Sun, 03 Sep 2023 20:00:41 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=78426 di Emilio Quadrelli

Potere operaio e programma comunista

Abbiamo visto come la centralità operaia abbia ben poco di oggettivo e tanto meno di scontato. Certamente nella loro evoluzione le lotte operaie assumeranno forme tali da imporsi all’attenzione di tutti, difficile, infatti, ignorare l’autunno caldo quando milioni di operai entreranno in lotta ma ciò che nel contesto a noi interessa è osservare tutto ciò che accade prima. Ciò che diventa importante, soprattutto se vogliamo recuperare quella storia nel presente, è come l’ordine discorsivo intorno alla centralità operaia si sviluppa. In questo senso un [...]]]> di Emilio Quadrelli

Potere operaio e programma comunista

Abbiamo visto come la centralità operaia abbia ben poco di oggettivo e tanto meno di scontato. Certamente nella loro evoluzione le lotte operaie assumeranno forme tali da imporsi all’attenzione di tutti, difficile, infatti, ignorare l’autunno caldo quando milioni di operai entreranno in lotta ma ciò che nel contesto a noi interessa è osservare tutto ciò che accade prima. Ciò che diventa importante, soprattutto se vogliamo recuperare quella storia nel presente, è come l’ordine discorsivo intorno alla centralità operaia si sviluppa. In questo senso un giornale come “La classe” può assumere un valore paradigmatico. Due sembrano essere gli aspetti centrali: l’attenzione continua per tutte le lotte e le insubordinazioni operaie che si sviluppano e la ricerca costante del punto di vista operaio.

Questo corpo militante, una parte del quale si è formato all’interno delle varie esperienze operaiste degli anni precedenti mentre un altro è maturato nel ’68, che dà vita a “La classe” lavora costantemente per mettere in contatto le lotte, anche di modesta proporzione, che si sviluppano nella classe operaia. Qui riemerge in maniera non dogmatica quell’uso del giornale come elemento essenziale finalizzato alla messa in forma di quel partito dell’insurrezione che aveva fatto da sfondo al leniniano “Che fare?”.

Ma cosa significa mettere in contatto le lotte? Certo, banalmente, far sapere che esistono, ma non è solo questo il punto. Il dialogo e la conoscenza tra gruppi di lotta significa socializzare delle esperienze, unificare dei comportamenti, rompere l’isolamento a cui, di fatto, la vita operaia rinchiusa nella fabbrica–prigione è costretta. Significa che gli operai possono iniziare a riconoscersi come corpo sociale collettivo e percepirsi concretamente come classe ma non solo. Un giornale che focalizzi l’attenzione sul punto di vista operaio, e quindi assume le parole operaie come punti cardinali per la propria azione, non si limita a fare della cronaca o dell’informazione, ma assolve a un duplice obiettivo: da una parte è veicolo d’organizzazione e dall’altro fa sì che la lotta operaia assuma un ruolo centrale sulla scena politica. Ma questo è possibile solo se la centralità operaia è depurata tanto da un qualunque sostrato ideologico quanto da ogni sorta di mitologema. La centralità operaia può essere fattivamente tale se, in primo piano, è posta la concretezza operaia del suo qui e ora. Ciò che verrà definito protagonismo operaio sarà esattamente l’essere di questa concretezza che, dentro esperienze come “La classe”, iniziò a elaborare una propria sintassi e un linguaggio appropriato.

Solo chi della classe operaia ha una conoscenza del tutto astratta e, come diretta conseguenza, profondamente mitologica, ignora le condizioni materiali della vita operaia. Solo chi è estraneo al lavoro operaio può esaltarlo mentre, chi dentro a quel lavoro è costantemente imprigionato, non può fare altro che odiarlo. Gli operai se ne fottono della classe operaia in astratto ma, molto più realisticamente e sensatamente, non vogliono più essere operai. Ma il comunismo non era forse la soppressione del lavoro salariato? Allora si tratta, a partire da ciò, di leggere i comportamenti che spontaneamente pongono in crisi la macchina del comando. Il giornale diventa, in pieno stile leniniano, un organizzatore collettivo, un momento tanto di sintesi quanto di elaborazione e, con ciò, uno strumento d’organizzazione. Il giornale diventa lo strumento che costruisce la linea politica operaia perché è da dentro la classe e solo dentro di lei che può darsi linea politica e organizzazione. Non si dà linea politica, non si dà linea operaia precipitandosi davanti ai cancelli delle fabbriche con le direttive di un qualche improvvisato Comitato Centrale, ma si dà linea politica e linea operaia solo dentro la pratica dell’inchiesta e delle lotte.

Per altro verso questo lavoro è costantemente attento al punto di vista operaio perché è proprio questo a fornire l’ossatura del partito dell’insurrezione. Scorrendo anche solo di sfuggita i numeri de “La classe” è facile notare la quantità di materiali empirici di cui il giornale è ricco. Si tratta di resoconti operai, interventi in fabbrica, interventi in assemblea, interviste insomma tutto ciò che dentro la classe si muove e questo produce almeno tre risultati: da un lato rompe qualunque possibilità di isolamento della classe operaia e delle sue lotte, le quali, grazie alla risonanza che il giornale offre loro, si socializzano con una certa facilità, gli operai comprendono che quanto accade in una determinata officina non è un fatto isolato, ma quanto accade ha dinamiche e motivazioni del tutto simili a qualcosa in atto a qualche chilometro di distanza, o anche a centinaia di chilometri.

La classe operaia, così, comprende di non essere un insieme di individui casualmente piombati in una particolare situazione, ma di essere parte di un tutto che condivide la medesima condizione e sta condividendo le stesse esperienze. Attraverso la circolarità delle lotte non vi è solo la socializzazione di queste ma lo scambio delle esperienze. Da ogni contesa si può apprendere un modus operandi e la sua eventuale generalizzazione. Infine, ma certamente non per ultimo, queste esperienze diventano oggetto di discussione per tutti i militanti che si pongono sul terreno della conflittualità operaia. La classe operaia, quella vera e non la sua icona propria delle varie ortodossie comuniste, diventa il costante punto di riferimento di tutto il dibattito politico del movimento. Va detto chiaramente: senza tutto questo impegno le lotte operaie ben difficilmente sarebbero state in grado di avere quel ruolo centrale che tutta la società italiana gli ha riconosciuto e “La classe” rappresenta un passaggio essenziale di tutto questo, così come, ed è quanto si proverà ad argomentare nelle pagine seguenti, avrà l’indubbio merito di portare nel dibattito operaio l’insieme di tensioni politiche, culturali ed esistenziali che il ’68 aveva fatto albeggiare. In questo modo la lotta concreta dell’officina può coniugarsi con le astrazioni che agitano il mondo emancipando la fabbrica dai suoi angusti perimetri e la classe operaia dal suo isolamento.

Mao e il maoismo sono sicuramente una di queste astrazioni. L’interesse de “La classe” per la Cina e per la Rivoluzione culturale che la sta attraversando non è cosa secondaria. Prima di parlare del maoismo che trova un certo spazio nel giornale necessita una premessa al fine di emancipare sin da subito “La classe” da quell’insieme di gruppi e gruppuscoli, per non dire della quantità di neopartiti comunisti marxisti–leninisti, formatisi sulla scia del maoismo i quali se meritano una nota storica, questa è una nota tutta perimetrata nell’ambito del folclore e del ridicolo. Il Mao che sta dentro “La classe” è un eretico, forse ancor più di Lenin e comunque un Mao che non ha nulla di quell’esotico e/o terzomondismo che caratterizza le diverse organizzazioni maoiste.

In prima istanza il Mao che interessa a “La classe” è quello che si contrappone radicalmente al socialimperialismo sovietico. Qui l’interesse è duplice: da una parte significa identificare sul piano internazionale un polo innovativo finalizzato allo sviluppo del movimento rivoluzionario internazionale, anche dentro le metropoli imperialiste e focalizza lo sguardo proprio su ciò che accade nelle metropoli imperialiste. Mentre il socialimperialismo è artefice non secondario del mantenimento dello status quo post bellico, la Cina maoista è fondamentalmente propensa a far saltare il banco della spartizione del mondo in precise e delimitate sfere di influenza allo stesso tempo, così come il socialimperialismo è tutto dentro i Palazzi, la Cina si mostra come un valente interlocutore della o delle Strade quindi, il rapporto con il maoismo, può essere giocato tutto contro il riformismo il quale si identifica appieno nel blocco socialimperialista e delle relazioni politiche ufficiali delle quali ha fatto il suo solo orizzonte.

Ciò era stato quanto mai evidente nel corso del ’68 quando, proprio Mao e la rivoluzione cinese, erano diventati uno dei punti di riferimento centrali di quel movimento che aveva sconvolto gli equilibri di tutti i sistemi politici1. Mao e il maoismo sono l’elemento di rottura internazionale che affascina gran parte della gioventù rivoluzionaria e in ciò un ruolo non secondario lo gioca il fattivo appoggio che la rivoluzione cinese sta offrendo al popolo vietnamita in guerra con l’imperialismo americano ma anche il rapporto che il maoismo costruisce con realtà come le Black Panther e i vari movimenti di resistenza sviluppatisi dentro le metropoli imperialiste. Mao, in un mondo che sembra immutabile, è il vento dell’est che ritorna a dire: “Bisogna sognare!” e lo fa ponendo nuovamente al centro del suo agire quella marxiana violenza, ostetrica della storia, messa al bando dal movimento operaio ufficiale.

Sulla scia di ciò “La classe” trova nel maoismo uno strumento di battaglia politica contro il riformismo e con ciò Mao è portato, così come è stato fatto con Lenin, dentro la fabbrica tanto che si potrebbe dire da Lenin in Inghilterra a Mao a Mirafiori. Di ciò si ha una corposa dimostrazione attraverso le scritte, già ricordate, fatte dagli operai legati a “La classe” in fabbrica: “Agnelli l’Indocina ce l’ha in officina!” è esattamente questo il maoismo privo di fronzoli e folclore immesso nella metropoli imperialista. È il Mao stratega militare2 che viene ripreso e modellato dentro la fabbrica prima e, almeno per la componente che darà vita a Lotta Continua, nella metropoli poi, così come il principio della guerra di lunga durata diventa il punto di riferimento costante di tutto ciò che ruota nella e intorno a “La classe”.

Questo apre su un altro tema centrale, tanto della teoria politica maoista quanto, come si è provato ad argomentare in precedenza, negli orizzonti de “La classe”, ovvero la questione della violenza. Mentre il riformismo, attraverso l’assunzione della guerra di posizione come solo e unico orizzonte politico, ha espunto la questione politico–militare, Mao, con il suo: “Il potere politico nasce dalla canna del fucile”, aveva riportato, e lo aveva fatto come leader di una delle più grandi potenze del mondo, la questione della violenza al centro dell’agenda politica dei movimenti comunisti e lo aveva fatto declinandola interamente sulle masse. Non la guerra degli apparati cara al socialimperialismo, ma la guerra di popolo, la guerra delle masse e la sua organizzazione. Abbiamo detto che il principio maoista della guerra di lunga durata3 è assunto per intero da “La classe” il che comporta tutta una serie di ricadute che, dalla teoria maoista, possono ricevere non secondarie indicazioni. Lo studio degli “Scritti militari” di Mao diventano un passaggio centrale per tutta una generazione di avanguardie operaie e militanti comunisti che, proprio su questo terreno, si erano mostrati completamente vergini.

Attraverso gli scritti militari di Mao è possibile cogliere la questione dell’edificazione del dualismo di potere che, secondo i militanti de “La classe”, sarà la caratteristica del processo rivoluzionario dentro le metropoli imperialiste. Ciò che la lotta di fabbrica ha fatto albeggiare è un conflitto che non si risolverà in una battaglia ma che per forza di cose si protrarrà nel tempo, un conflitto che, pur con tutte le tare del caso, assumerà contorni simili alla guerra rivoluzionaria in Cina ossia una guerra fatta di avanzate e ritirate, di zone liberate e instaurazione del potere rosso, ma anche di ripiegamenti repentini sotto l’incalzare della contro offensiva padronale e statuale.

Qui vi è un salto politico radicale rispetto all’operaismo che ha preceduto questa nuova stagione della lotta operaia. Il vecchio operaismo non era stato certamente parsimonioso nel decretare il potere operaio ma era un potere che, a conti fatti, non trovava mai una qualche forma. Nel vecchio operaismo il potere operaio non trovava mai un momento di cristallizzazione politico–organizzativa ma si dava soltanto come elemento di una conflittualità permanente capace di definire rapporti di forza e di potere continuamente in trasformazione senza che, il potere operaio, trovasse degli istituti politici stabili in grado di esercitarsi sino in fondo. Per il vecchio operaismo il potere operaio è ciò che sta nella sua potenza, una potenza che non ha necessità e bisogno di trovare una sua concretezza stabilmente organizzata. Da questa impasse “La classe” si emancipa sin da subito e l’incontro con il maoismo, in ciò, gioca un ruolo per nulla secondario. Vale la pena di sottolineare, infatti, come proprio nell’assunzione del maoismo come possibile referente teorico–politico la questione dello stato venga assunta per intero e, con ciò, la rottura con tutte le ambiguità proprie dell’operaismo delle origini si consumi appieno. Anche se solo abbozzata la necessità di offrire uno sbocco organizzativo politico–militare alla lotta operaia è ormai un bisogno reale. Da qui non si torna indietro e gli anni immediatamente a ridosso di questa stagione daranno, di tutto ciò, più che una conferma. Mentre i gruppi e partitini maoisti si caratterizzeranno per la loro dimensione da operetta finendo con l’esaurirsi in un mare di ridicolo, il maoismo che fuoriesce da “La classe” sarà all’origine delle più significative pratiche rivoluzionarie dei primi anni settanta.

Un ulteriore aspetto che lega “La classe” al maoismo è l’inchiesta. Anche in questo caso l’immediata vena polemica con il riformismo è tanto evidente quanto immediata. La famosa asserzione di Mao: “Solo chi fa inchiesta ha diritto parola”4, suona come miele alle orecchie de “La classe” che proprio sulla centralità dell’inchiesta operaia aveva declinato la sua linea di condotta. Mentre per il riformismo a contare sono solo gli equilibri politici e il punto di vista delle masse è del tutto inessenziale tanto che, per lo più, si mostra del tutto incapace di leggere e comprendere le trasformazioni intervenute all’interno della composizione di classe, mentre Mao pone al centro dell’attività del partito il lavoro di inchiesta e quindi la soggettività delle masse al centro dell’iniziativa di partito.

In ciò non vi è solo un aspetto metodologico ma il completo recupero della dialettica marxiana. Lo stile di lavoro basato sull’inchiesta recupera interamente la triade marxiana prassi/teoria/prassi e, con questa, rimette in sella tutte le argomentazioni di Lenin intorno a Hegel presenti nei “Quaderni filosofici”5, ma con ciò, e non è cosa di poco conto, vi è la completa presa di distanza dalla svolta impressa al marxismo dal Diamat6 e il recupero integrale del rapporto dialettico tra classe e partito. Ma questa lettura di Mao che cosa è se non il pieno recupero di quella attualità della rivoluzione che il ’68 aveva fatto albeggiare in occidente? Anche su ciò almeno due tratti del maoismo si mostrano particolarmente affini a ciò che “La classe” ha appreso dalle lotte operaie le quali con il ’68 hanno non poco a che fare.

Il secondo aspetto del maoismo che cattura l’attenzione de “La classe” è quel fenomeno in atto in Cina, fortemente voluto da Mao, che ha preso il nome di Rivoluzione culturale la quale non poche aspettative ha creato dentro tutto quel mondo comunista che ha rotto con il movimento operaio ufficiale. Sparare sul quartier generale è l’incipit attraverso il quale la Rivoluzione culturale si è presentata. Questo, in prima istanza, significa ridare la parola alle masse ponendo tra parentesi fino ad azzerarlo il potere che una casta di burocrati di partito sta esercitando, ma questo significa anche cogliere nella fase attuale della rivoluzione cinese quell’antiautoritarismo così presente nelle istanze più radicali del ’68 e che adesso rivive, e per di più in maniera amplificata, dentro le lotte operaie. Se c’è qualcosa che padroni e riformisti lamentano è proprio la messa in mora dell’autorità da parte degli operai. La non governamentalità della fabbrica trova origine proprio nel rifiuto del principio di autorità e la rivoluzione culturale sembra sintetizzare proprio questo. Dando l’indicazione di sparare sul quartier generale Mao rimette al centro l’azione dal basso, il potere delle masse e la necessità di esautorare ogni forma di autorità burocratica ma, in questo, c’è anche molto di più. In ciò vi è il completo recupero dell’insegnamento leniniano per il quale la legittimità del partito è tale solo se espressione e sintesi della soggettività di classe, solo come passaggio intermedio della dialettica marxiana prassi/teoria/prassi. A fronte di un potere burocratico che azzera i poli della prassi per assolutizzare la sintesi teorica (che si incarna nell’apparato) Mao rimette in campo Lenin. Se necessario, se il partito diventa un corpo burocratico estraneo alle masse, il partito va azzerato e l’organizzazione ricostruita ex novo a partire da quelle che sono le istanze delle masse, bisogna, cioè, sparare sul quartier generale, ma non è forse questa la linea di condotta proprio de “La classe”? Molto sinteticamente questo il maoismo con il quale “La classe” si contamina. Ma non è solo Mao l’orizzonte astratto che occupa le pagine del giornale poiché a farsi prepotentemente strada è il rapporto razza/classe e le coeve forme di colonialismo interno che fanno da sfondo al ciclo di accumulazione capitalista.

( 6continua)


  1. Tra l’immensa pubblicistica si può vedere, P. Ortoleva, I movimenti del sessantotto in Europa e in America, Editori Riuniti, Roma 1988.  

  2. Al proposito si veda, Mao Tse Tung, Scritti militari, Edizioni Oriente, Milano 1966.  

  3. Cfr. Mao Tse Tung, Scritti militari, cit.  

  4. Mao Tse Tung, Chi non fa inchiesta non ha diritto di parola, in Id. Opere volume 3, Edizioni Rapporti Sociali, Milano 1991.  

  5. V. I. Lenin, Quaderni filosofici, P. Greco, Milano 2021.  

  6. Con Diamat si intende la rivisitazione teorica compiuta da Stalin nei confronti del materialismo storico, una rivisitazione dove veniva del tutto espunta la dialettica e, ancor più, ogni possibile legame di Marx con Hegel. Il Diamat si ascrive così a pieno titolo in quel materialismo rozzo e meccanicista il quale, non per caso, finì con lo sposarsi velocemente con il positivismo e lo scientismo. J. Stalin, Materialismo dialettico e materialismo storico, in Id. Questioni del leninismo, Edizioni in lingue estere, Mosca 1948.  

]]>
É la lotta che crea l’organizzazione. Il giornale “La classe”, alle origini dell’altro movimento operaio / 5 https://www.carmillaonline.com/2023/08/27/e-la-lotta-che-crea-lorganizzazione-il-giornale-la-classe-alle-origini-dellaltro-movimento-operaio-5/ Sun, 27 Aug 2023 20:00:23 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=77123 di Emilio Quadrelli

It’s Only Rock ‘n’ Roll

Se osserviamo ciò che accade tra la fine degli anni cinquanta e primi sessanta diventa abbastanza facile notare come la società italiana sia di fronte a una trasformazione socio–economica quanto mai radicale che inizia a lasciarsi alle spalle tutto ciò che, in qualche modo, può considerarsi come eredità della guerra e di ciò che l’ha preceduta. Una rottura non tanto politica, nel senso che le retoriche che avevano fatto da sfondo all’insieme di quella vicenda continuano a essere saldamente in sella, ma nella [...]]]> di Emilio Quadrelli

It’s Only Rock ‘n’ Roll

Se osserviamo ciò che accade tra la fine degli anni cinquanta e primi sessanta diventa abbastanza facile notare come la società italiana sia di fronte a una trasformazione socio–economica quanto mai radicale che inizia a lasciarsi alle spalle tutto ciò che, in qualche modo, può considerarsi come eredità della guerra e di ciò che l’ha preceduta. Una rottura non tanto politica, nel senso che le retoriche che avevano fatto da sfondo all’insieme di quella vicenda continuano a essere saldamente in sella, ma nella materialità della formazione economica e sociale. Sono gli anni in cui il modello fordista inizia a farsi egemone anche in Italia, con tutto ciò che questo comporta, in primis il radicale mutamento della composizione di classe. Sono anni in cui la vecchia classe operaia professionale e autoctona viene scalzata da una nuova figura: l’operaio dequalificato della catena, un operaio che non ha alle spalle alcuna tradizione industriale e sovente neppure cittadina poiché viene reclutato o dalle campagne e in maggioranza dal sud Italia. In seconda battuta un’altra figura operaia nuova entra massicciamente nella produzione: la donna proletaria. In maniera abbastanza repentina l’intera, o gran parte, della composizione di classe conosce una configurazione ex novo.

Si tratta di una classe operaia senza o quasi memoria che in non pochi casi si troverà in conflitto, ancora prima che con i padroni, con la vecchia composizione di classe e che, per altro verso, è del tutto estranea a quella “ideologia della sconfitta” propria della vecchia classe operaia che la restaurazione capitalista ha annichilito. Il nord industriale inizia a popolarsi di terroni e/o campagnoli del tutto estranei ai tempi, ai ritmi e agli stili di vita della città–fabbrica che la maggior parte di loro tende a percepire né più e né meno come una prigione1. Una classe operaia depoliticizzata e non sindacalizzata nei confronti della quale il padrone sembra in grado di esercitare un dominio non dissimile da quello che il fattore è in grado di nutrire nei confronti del proprio bestiame. E come bestie i nuovi operai sono trattati e considerati. Sono anni in cui il padrone libera facilmente la fabbrica della vecchia guardia comunista e riesce a confinare l’organizzazione sindacale entro numeri testimoniali2. Perché il boom economico possa continuare a crescere occorre una classe operaia totalmente succube e pronta a reggere, senza fiatare, i necessari ritmi produttivi.

Il mutamento della base produttiva si porta appresso, per altro verso, anche una trasformazione complessiva della società. Sono gli anni in cui si impone il mito americano che avrà però due volti: da una parte sicuramente il tratto reazionario e perbenista del sogno americano, del quale le immagini della famiglia americana, bianca, razzista, patriottica, patriarcale e sessista, rappresenta la sintesi per antonomasia, dall’altra, però, si porta appresso anche tutta l’inquietudine, l’insofferenza, la rabbia e il nichilismo di cui l’altra America è gravida3.

Questo mito si impossessa velocemente della gioventù operaia e impone una drastica trasformazione degli stili di vita, delle culture subalterne e della socialità operaia; si traduce in una ricerca di libertà e di rottura verso tutti i modelli normativi: Bluson noir e Teddy boys diventano immaginari che catturano velocemente la gioventù operaia, gioventù che inizia a essere sempre più fuori controllo in quanto equamente distante e avversa sia alle retoriche della società ufficiale perbenista e clericale, sia al mito soviettista tutto incentrato su un sol dell’avvenire del quale non si intravedono mai i contorni. Ciò che esploderà nel ’68, lasciando attoniti pressoché tutti i mondi politici, ha i suoi prodromi proprio nel mutamento materiale che attraversa l’intera formazione economica e sociale. La borghesia non lo capirà, ma non lo comprenderà neppure il movimento operaio ufficiale il quale, già da tempo, aveva perso contatto con quanto andava ribollendo nella classe. Il cosiddetto boom economico e il consumismo di massa accelerano, se possibile, le contraddizioni della società capitalista. L’alienazione della merce è anche il gemito degli oppressi. Di fronte alla ricchezza e all’opulenza che la società mostra, la giovane classe operaia non vuole rimanerne esclusa. Più soldi, meno lavoro significa aumento del tempo libero, significa impossessarsi, qui e ora, di una quota di ricchezza.

La battaglia salariale, allora, diventa battaglia di potere, diventa battaglia contro la fabbrica–prigione, diventa una battaglia di libertà, diventa forma non più eludibile degli embrioni del potere operaio. Mentre il movimento operaio ufficiale e le varie anime della ortodossia comunista vedono in queste lotte solamente un economicismo privo di coscienza politica, l’autonomia operaia coglie il tratto immediatamente politico che, invece, si staglia in queste lotte. Più soldi e meno lavoro, rifiuto del lavoro, sabotaggio della produzione hanno ben poco di economicista, ma si mostrano immediatamente come scontro di potere, come terreno tutto politico, ciò che per il movimento operaio ufficiale e i suoi critici ortodossi è sintomo di arretratezza e mancanza di coscienza politica per l’autonomia operaia il giudizio è esattamente l’opposto: quei comportamenti, quella disaffezione al lavoro e alla disciplina di fabbrica, quel percepire la gabbia produttiva al pari della prigione, quel ribellarsi in modo non convenzionale ai tempi della fabbrica e ai ritmi della città–fabbrica, insomma quella soggettività, non incarnano l’arretratezza di una classe operaia priva di storia politica ma, al contrario, sintetizzano al meglio il più alto punto di vista politico operaio. Se la base strutturale di una società si è radicalmente trasformata, anche la cornice politica non può che esserne sovvertita, non si possono cercare nel presente le retoriche politiche del passato ma occorre cogliere, attraverso una puntigliosa inchiesta, la dimensione politica messa in campo da una nuova soggettività.

Ciò che spontaneamente interi comparti di classe pongono, attraverso la prassi, all’ordine del giorno è il negarsi come forza lavoro salariata ovvero l’abolizione della condizione proletaria la quale sintetizza al meglio lo stato di alienazione proprio del rapporto sociale capitalista. Ma in ciò non vi è forse per intero tutto Marx? Questa pratica non è forse molto più avanti e radicale di quanto andato in scena nel mitico biennio rosso con l’occupazione delle fabbriche e l’infelice obiettivo del controllo operaio? La nuova composizione di classe non sta forse facendo interamente sua la marxiana Critica al programma di Gotha4, che aveva velocemente posto tra parentesi tutta la retorica produttivista del movimento operaio ufficiale? La lotta operaia è immediatamente lotta per il potere, lotta contro il rapporto sociale capitalistico e quindi il padrone dovrà velocemente rendersi conto che con questa classe operaia non si può trattare ma sconfiggerla o esserne annientati.

Non c’è più tempo per l’attesa dell’avvenire e il sole deve iniziare a splendere sin da subito. Esattamente qui inizia a prendere forma quel “Vogliamo tutto”5, non poi così distante da quel Vogliamo il mondo e lo vogliamo ora urlato dai Doors6, che scandalizzerà padroni, partiti e sindacati. Tutto ciò, però, andava compreso e concettualizzato. Doveva esistere un ordine discorsivo che imponesse politicamente le lotte operaie e la loro centralità al centro del dibattito. Doveva esistere una teoria politica in grado di non imprigionare le lotte dentro la rivolta ma indirizzarle verso la rivoluzione.

È una rivolta o una rivoluzione? Questa la domanda che le classi dominanti si pongono ogni qual volta un’insorgenza di massa bussa alle loro porte. Ci dobbiamo attendere una serie di jacquerie o qualcosa di più? La storia delle classi subalterne è una serie infinita di jacquerie che per farsi spettro rivoluzionario, insieme ai fucili, devono avere, come ben aveva compreso Schmitt a proposito di Lenin, una solida arma teorica7.

La teoria rivoluzionaria non è un insieme di salmi, come pensano gli ortodossi, ma la permanente rielaborazione eretica di un’ipotesi politica in grado di leggere i comportamenti e le tendenze delle masse. La teoria non si inventa nulla ma raccoglie e sintetizza quanto posto all’ordine del giorno, anche solo come tendenza, dalla lotta di massa. Senza di ciò la teoria rivoluzionaria è solo il balocco di intellettuali più o meno spensierati.

Agli inizi degli anni sessanta la tendenza di quote sempre più ampie di classe operaia si fa quanto mai evidente ed è lì che, nel bene e nel male, prende forma una teoria politica che si farà egemone per circa un ventennio. Tutto parte sicuramente dalle masse e dalle loro lotte, sono le masse che producono la frattura di piazza Statuto, solo per ricordare il fatto di maggior spessore dell’epoca, ma se queste pratiche non avessero trovato un cuore politico–intellettuale ben difficilmente sarebbero state in grado di far sì che l’idra della rivoluzione diventasse la costante degli anni sessanta e settanta di questo paese. In tale ottica, allora, non bisogna compiere, seppur di segno opposto, l’errore che in molti fanno oggi quando circoscrivono a questa o quella rivista, a questo o quel testo, a tal intellettuale piuttosto che a un altro, le vicende dell’autonomia operaia. Se è vero che non sono state le riviste a fare l’autonomia operaia, dobbiamo anche chiederci cosa sarebbe stata questa senza il loro contributo teorico e analitico e come si sarebbe sviluppata senza il contributo di tutta una quota di militanti che assunsero le lotte operaie come centro della propria esistenza.

Tutti concordano sul fatto che la centralità operaia sia stata l’elemento politico egemone nel corso degli anni sessanta e settanta. Questa egemonia non è nata dal cielo e non è neppure il frutto spontaneo delle lotte. Perché un ordine discorsivo diventi egemone e dominante occorre che una produzione teorica lo ponga al centro dell’attenzione, che un ceto politico lavori costantemente alla sua messa in forma e che imponga la centralità operaia come il discorso intorno al quale si focalizza tutto il dibattito politico. Occorre, cioè, che quanto la prassi della classe sta ponendo all’ordine del giorno trovi una sistematizzazione teorica, politica e non solo, bisogna che la forza di questo discorso sia tale da divenire il discorso intorno al quale tutto il resto finisce in secondo piano.

Questo, a conti fatti, il grande merito che va riconosciuto a quella pattuglia di intellettuali che hanno fatto sì che le lotte operaie e la soggettività della classe divenisse l’elemento centrale dell’agenda politica del paese. In questo senso, allora, senza estremizzare il discorso dobbiamo ricondurre la relazione ceto politico–intellettuale/classe operaia all’interno della obbligata e necessaria dialettica prassi–teoria. Se, obiettivamente, oggi ci troviamo di fronte a una narrazione tossica della storia dell’autonomia operaia, più che abiurare il ruolo svolto da un ceto politico–intellettuale dobbiamo prendere le distanze da quelle pletore di epigoni che sono i veri e propri artefici di una mistificazione storica. Con tale asserzione si spera di aver chiarito ulteriormente il senso di questo lavoro il quale, sin da subito, ha cercato di non farsi imbrigliare in logiche da stadio. Ciò che segue prova a rafforzare quanto appena asserito mostrando come solo dentro la dialettica prassi–teoria la potenza spontanea del potere operaio possa farsi programma comunista. Torniamo quindi alla classe, alla sua soggettività e a ciò che intorno a questo si struttura come discorso teorico–politico.

Di quanto irto di ostacoli fosse il piano del capitale e quanto non così malleabile si presentasse il nuovo soggetto operaio, la piazza Statuto del ’62 ne forniva una più che eloquente esemplificazione anche se avvisaglie non secondarie di che cosa ribollisse entro la classe si erano viste, e in maniera non proprio irrilevante, nel giugno genovese del ’60 e nei moti nazionali che da qui avevano preso il la. Genova ’60 e Torino ’62 rappresentano sicuramente due pietre miliari della storia di ciò che è stato l’altro movimento operaio, due momenti che, però, non vanno confusi e che, non per caso, daranno vita a narrazioni e recezioni diverse. Il giugno/luglio genovese sono entrati di diritto nella storia italiana anche se, con un qualche grano di verità, erano ancora dentro a quell’insieme di retoriche che avevano fatto da sfondo alla Resistenza. Quegli eventi, pur con ovvie sfumature diverse, sono diventati un patrimonio di tutto il fronte antifascista. Genova rappresenta, al contempo, il tramonto della vecchia composizione di classe e l’alba di quella nuova dove, però, sarà il vecchio ad assumerne la narrazione centrale. Genova è l’antifascismo militante e radicale sullo sfondo del quale si staglia il mitologema della Resistenza tradita, per farla breve Secchia contro Togliatti8. Una narrazione che si protrarrà fino ai primi anni settanta, che risulterà ben poco interessata alle trasformazioni della composizione di classe e che, nei confronti di questa, avrà un rapporto del tutto ideologico. La nuova composizione di classe, all’interno degli eventi genovesi, non solo fu presente ed ebbe un ruolo centrale, ma non riuscì, purtroppo a trovare un linguaggio politico proprio. A Genova ci fu sicuramente una voce autonoma ma non un linguaggio.

L’eredità di Genova rimase confinata dentro la retorica dell’antifascismo militante e radicale senza alcun accento, se non in maniera molto annacquata, all’anticapitalismo. Ancora oggi gli eredi del movimento operaio ufficiale si sentono in dovere di santificare quelle giornate cosa che, per altro verso, li accomuna alle aree più radicali le quali rimproverano ai primi non tanto di non essere anticapitalisti, ma degli antifascisti troppo morbidi. Dichiaratamente diverso lo scenario relativo a piazza Statuto, qui la posta in gioco è diametralmente opposta: a entrare in ballo è direttamente la lotta contro l’organizzazione capitalistica del lavoro, il ruolo dei sindacati e il comando di fabbrica, una critica che inevitabilmente non può che portare a uno scontro immediato con lo stato e il riformismo. Da lì prende forma qualcosa di più di una semplice suggestione. Difficile, infatti, non riscontrare che è proprio dentro la materialità dei fatti che piazza Statuto porta in grembo, prende le mosse quello: “Stato e padrone fate attenzione, nasce il partito dell’insurrezione!” che sino alla fine degli anni settanta ha dato vita, forma e sostanza alla anomalia italiana.

L’irrompere di queste lotte è un fatto non discutibile e l’autonomia degli operai qualcosa che non può essere posta minimamente in discussione. Ciò che viene da chiedersi è: queste lotte avrebbero avuto la medesima incidenza se non avessero trovato qualcosa di più di una semplice sponda all’interno di quel ceto politico fatto prevalentemente di intellettuali militanti che iniziò a rapportarsi e a assumere quelle lotte come cuore del politico? Senza un ordine discorsivo pregresso, incentrato sulla centralità operaia, la potenza di quelle lotte avrebbe potuto darsi con la stessa forza? Qui non si tratta di prostrarsi alla gerarchia intellettuali/operai ma di rilevare come in quel contesto un ceto politico e intellettuale sia stato in grado di rileggere il Che fare?, dentro ciò che la materialità dello scontro imponeva, di più. Per molti versi si può anche sostenere che agli inizi degli anni sessanta assistiamo a un insieme di operazioni le quali, con tutte le tare del caso, hanno non poco in comune con Lo sviluppo del capitalismo in Russia9, lavoro attraverso il quale Lenin saluta il mondo di ieri e traghetta l’avanguardia operaia e comunista dentro la contemporaneità. Una esagerazione? Non proprio.

Oggi tutti concordano nell’indicare gli anni sessanta come un momento di cambiamento radicale della struttura economica, sociale e culturale del sistema–Italia. In poche parole ciò che si profila è una vera e propria frattura storica tanto che, senza alcuna forzatura, è sensato asserire che nulla sarà più come prima. Questa rottura, per il movimento operaio, le classi subalterne e il movimento comunista implica una cesura con l’insieme dei modelli teorici, politici e organizzativi che l’hanno preceduto. Esattamente lì, anche in Italia, muore di morte naturale tutto ciò che in qualche modo è riconducibile al terzo internazionalismo. Non vi sarà, nonostante i numerosi tentativi, alcuna restaurazione del marxismo ortodosso, alcun ritorno alle origini della Terza internazionale, ma una continua innovazione teorica, politica e organizzativa figlia di quanto le trasformazioni materiali stavano imponendo. Nulla, però, si dà come prodotto spontaneo, dove spontaneo significa semplice trasformazione evoluzionista. Certo le rotture sono frutto di processi materiali, sono sicuramente oggettive ma devono essere comprese, concettualizzate e appropriarsi di un linguaggio. In questo senso, allora, il raffronto con Lo sviluppo del capitalismo in Russia diventa meno illogico e forzato di quanto in prima battuta potesse apparire.

Lenin, di fronte alle trasformazioni che hanno investito alla radice la Russia concentra l’attenzione su come queste abbiano modificato le classi, come tutto un mondo se ne stia andando e coglie la tendenza che non potrà che farsi egemone. La Russia ha intrapreso la via dello sviluppo capitalistico questo sta sovvertendo tutti gli ambiti sociali, la formazione della classe operaia industriale insieme alla proletarizzazione delle masse contadine sono il qui e ora della Russia. Dalle lotte, dalle tensioni, dalla soggettività di queste nuove figure dipende il destino della rivoluzione in Russia.

Vi è molto di sociologico nell’operazione compiuta da Lenin, un sociologico che può vantare, all’interno della teoria marxiana, alcuni non secondari pregressi: sicuramente il noto La situazione della classe operaia in Inghilterra10, ma anche le parti relative alla formazione della classe operaia presenti soprattutto nel libro primo de Il capitale. Di fronte alle trasformazioni che stanno segnando un’epoca, Lenin non si limita a cogliere il punto di vista oggettivo del capitale ma, una volta stabilite le coordinate materiali, focalizza lo sguardo e l’interesse sulla soggettività di classe. Sarà proprio questo a distinguerlo e a renderlo incompatibile con il marxismo legale. Mentre questo si limita a osservare e a scrivere la storia come movimento del capitale ignorando del tutto la soggettività delle masse, Lenin rovescia esattamente l’ordine del discorso. Ciò che va colto dentro la trasformazione, e oltre la trasformazione, sono i comportamenti delle masse, ciò che va compreso e posto all’ordine del giorno non è il solo tumultuoso sviluppo delle forze produttive, ma l’insieme delle contraddizioni che detto sviluppo comporta. Mentre il marxismo legale considera lo sviluppo delle forze produttive la sola cosa essenziale, Lenin sposta l’attenzione sulle forme che le lotte assumeranno dentro lo sviluppo delle forze produttive e su come queste non potranno che mandare in archivio la pur gloriosa storia del vecchio movimento rivoluzionario incarnato dalle varie anime del populismo. Le lotte, quindi, non lo sviluppo delle forze produttive, la storia della soggettività operaie e subalterna e non la storia oggettiva dello sviluppo capitalistico questo il cuore della teoria politica leniniana. Di tutto ciò, nella ricezione che si avrà di Lenin in occidente con la sola eccezione di qualche eretico, resterà ben poca traccia tanto che, tutto l’oggettivismo proprio della Seconda internazionale, cacciato dalla porta rientrerà dalle accoglienti finestre che il movimento operaio ufficiale non si farà remore a spalancargli. Con ciò il movimento operaio ufficiale prenderà sempre più sembianze simili al marxismo legale che al bolscevismo.

Paradigmatico, a tal proposito, sarà il modo in cui questo marxismo, sotto tutte le sue vesti, liquiderà in maniera tranchant, come osservato in precedenza, il populismo e il rapporto di Lenin e dei bolscevichi con questo mentre enfatizzerà sino all’inverosimile le vicende relative alla fase del marxismo legale. Ma ritorniamo a quanto stavamo dicendo. Abbiamo tirato a mezzo Lenin, Lo sviluppo del capitalismo in Russia e il Che fare?, perché agli inizi degli anni sessanta non pochi indicatori ci conducono lì. In prima battuta si tratta di rileggere o ancor meglio ritradurre il Che fare? all’interno del nuovo scenario. Si tratta di comprendere cosa sia il partito dell’insurrezione o, per altro verso e con più precisione, quale deve essere la forma e la relazione tra partito storico e partito formale. Il partito storico è la soggettività di classe, il partito formale è la forma politica all’interno della quale la soggettività si incarna. Questa relazione non può essere che il frutto di uno scenario storicamente determinato e non il frutto di singole volontà. Questo, e solo questo, è il determinismo leniniano e questo determinismo obbliga il partito formale a una costante mutazione. Non è certo un caso, quindi, che la questione dell’organizzazione animi costantemente le pagine del giornale “La classe” e lo fa non certo per un’ansia organizzativista, ma perché ciò che va sciolto, di fronte all’incalzare delle lotte, è la strutturazione del partito formale. Qui si tratta di ritradurre Lenin per intero, di comprendere complessivamente il punto di vista operaio e di fornirgli solide gambe sulle quali marciare. Detto ciò entriamo nel vivo della questione.

(5continua)


  1. Una delle migliori descrizioni di ciò rimane il lavoro di F. Alasia, D. Montaldi, Milano, Corea. Inchiesta sugli immigrati negli anni del miracolo, Donzelli, Roma 2010.  

  2. Su questo il bel lavoro di A. Accornero, Fiat confino, Edizioni Avanti, Milano 1959.  

  3. Cfr. A. Portelli, Il testo e la voce. Oralità, letteratura e democrazia in America, Manifesto libri, Roma 1992.  

  4. K. Marx, Critica al programma di Gotha, Editori Riuniti, Roma 2021.  

  5. N. Balestrini, Vogliamo tutto!, Feltrinelli, Milano 1971.  

  6. Doors, When the music’s over (ottobre 1967- involontaria celebrazione di una rivoluzione di cinquant’anni prima).  

  7. C. Schmitt, Teoria del partigiano, cit.  

  8. Cfr. P. Secchia, La resistenza accusa 1945–1973, Mazzotta, Milano 1973.  

  9. V. I. Lenin, Lo sviluppo del capitalismo in Russia, Editori Riuniti, Roma 1972.  

  10. F. Engels, La situazione della classe operaia in Inghilterra, Feltrinelli, Milano 2021.  

]]>
E’ la lotta che crea l’organizzazione. Il giornale “La classe”, alle origini dell’altro movimento operaio / 4 https://www.carmillaonline.com/2023/08/23/e-la-lotta-che-crea-lorganizzazione-il-giornale-la-classe-alle-origini-dellaltro-movimento-operaio-4/ Wed, 23 Aug 2023 20:00:06 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=77121 di Emilio Quadrelli

Agnelli l’Indocina ce l’ha in officina

Tutto ciò darà adito a una versione di sinistra dell’antifascismo, ossia quella della Resistenza tradita, e alla coltivazione di ipotesi neoresistenziali. Vi è tutta una tendenza, quella che possiamo chiamare la linea Secchia, che continuerà a pensare a una continuazione della Resistenza e, sulla scia di ciò, a ritenere indispensabile il mantenimento di una struttura militare operativa. Le esperienze guerrigliere della XXII ottobre genovese e dei gruppi Gap–Feltrinelli andranno esattamente in quella direzione, ma senza entrare nel merito di queste una cosa appare [...]]]> di Emilio Quadrelli

Agnelli l’Indocina ce l’ha in officina

Tutto ciò darà adito a una versione di sinistra dell’antifascismo, ossia quella della Resistenza tradita, e alla coltivazione di ipotesi neoresistenziali. Vi è tutta una tendenza, quella che possiamo chiamare la linea Secchia, che continuerà a pensare a una continuazione della Resistenza e, sulla scia di ciò, a ritenere indispensabile il mantenimento di una struttura militare operativa. Le esperienze guerrigliere della XXII ottobre genovese e dei gruppi Gap–Feltrinelli andranno esattamente in quella direzione, ma senza entrare nel merito di queste una cosa appare evidente, la loro ipotesi è ben distante da una lettura dei processi materiali che hanno accompagnato e stanno caratterizzando la storia del capitalismo in Italia. Per carità non si vuole con questo certamente misconoscere quanto i fascisti, in quel contesto, siano una componente anche importante del sistema politico italiano e come il loro uso in funzione antioperaia da parte della borghesia qualcosa di non secondario, altra cosa, però, è identificare il fascismo come la tendenza egemone e strategica della borghesia. Aspetto che, invece, tutti coloro che si muovono sull’immaginario della Resistenza tradita considerano come cuore del progetto borghese.

Le aree e le formazioni neoresistenziali non eludono la questione militare ma il loro modo ha ben poco a che vedere con la questione della forza che le lotte operaie stanno imponendo, tanto che di quelle ipotesi si perderà traccia in maniera molto veloce. Le ipotesi neo-resistenziali non colgono, e neppure possono farlo a causa del loro tradizionalismo comunista, il riformismo come cuore del piano del capitale, non possono vedere, cioè, la socialdemocrazia come forza materiale tutta interna alle linee del capitale. Per le aree neo-resistenziali, partito e sindacato non sono strutture tutte interne al dominio ma Compagni che sbagliano e che non colgono il progetto di fondo della borghesia che rimane in odor di fascismo1 e pur sempre nella logica della svolta autoritaria.

Significativamente, non diversamente che dal partito e dal sindacato, questi gruppi non colgono il tratto imperialista del capitalismo italiano, ma lo considerano semplice appendice del dominio statunitense. In tale ottica l’Italia sarebbe poco più che una colonia e il suo sistema produttivo del tutto estraneo alle dinamiche di ciò che sarà chiamato neocapitalismo. Coerentemente con ciò, e in piena continuità con il nemico revisionista, del tutta inessenziale diventa l’analisi della composizione di classe e della sua soggettività poiché, la classe che questi hanno a mente, è una classe senza tempo e senza spazio, niente più che un totem da venerare ed evocare come altri conciliabili evocano santi e madonne. Tutto ciò ha ben poco a che vedere con il mondo reale e la sua materialità che prepotentemente fuoriesce dalle fabbriche.

La nuova classe operaia è un’altra cosa e la sua guerra si declina su crinali di tutt’altro tipo. Il cuore dello scontro è la fabbrica, gli embrioni della forza operaia sono i cortei interni, la caccia ai capi, i picchetti duri, l’attacco al comando. Ciò che le lotte operaie pongono all’ordine del giorno è tanto la difesa, quanto l’estensione di un potere operaio all’interno di un paese a capitalismo avanzato, aspetto che, a conti fatti, si mostra come una novità assoluta nel panorama del conflitto di classe o meglio, di come sia più utile e importante guardare e imparare da ciò che hanno prodotto altre istanze dell’altro movimento operaio, come quello americano per esempio, piuttosto che andare a spulciare tra gli annali delle rivoluzioni del passato: Lenin doveva essere ritradotto nel presente della fabbrica capitalista, non usato come un breviario.

Quando, di lì a poco, gli operai Fiat scriveranno dentro la fabbrica: Agnelli l’Indocina ce l’ha in officina!, daranno esattamente l’idea di come le lotte operaie non siano attratte dalle rivoluzioni degli altri, di come l’internazionalismo proletario abbia ben poco a che fare con un generico solidarismo, ma sia il qui e ora del programma operaio. Proprio a ridosso del Vietnam, dentro i cortei operai inizia ad aleggiare lo slogan: Il Vietnam vince perché spara!, con ciò si prendono le distanze da qualunque forma sia di legalitarismo e coevo antifascismo, sia dal terzomondismo per affermare che il problema all’ordine del giorno è l’armamento operaio dentro le metropoli imperialiste e che la questione della forza è la porta stretta entro la quale il movimento è obbligato a passare, ma lo deve fare avendo a mente la storia del presente e la realtà concreta entro cui si muove, non volgendo lo sguardo al passato o a realtà incommensurabilmente distanti da quella della metropoli imperialista; per questo motivo lo sguardo verso le lotte del proletariato americano e alla sua storia diventa un passaggio pressoché obbligato.

Per molti versi, infatti, molte delle esperienze operaie maturate nel corso delle lotte avranno non poche assonanze con quelle degli operai USA e in particolare con quelli neri e gli immigrati, tanto che testi come Dynamite2 o Sciopero3 assumeranno ben presto una contemporaneità quasi impensabile. Va da sé che, in tale contesto, la forza operaia è obbligata a inventare dal nulla i suoi organismi e le sue pratiche. Occorre, pertanto, stabilire una linea di condotta in grado di reggere il livello di scontro che le lotte hanno imposto e che, per altro verso, stato e padroni si sono attrezzati per ribaltare la situazione. Avanti compagni, è la guerra civile!, questo il passaggio che prima sussurrato, e poi urlato, esce fuori dai cortei e dai picchetti operai, ma la guerra non si improvvisa, infatti occorre imparare a farla.

“La classe” non andrà oltre l’assunzione del problema e alla costituzione solamente embrionale di alcune prime forme di strutture militanti, il servizio d’ordine, i nuclei operai di fabbrica, i primi vagiti di ronde e squadre operaie in grado di organizzare e centralizzare i primi nuclei di quegli operai comunisti che, negli anni immediatamente successivi, saranno l’avanguardia di massa dell’altro movimento operaio4. Ma, al di là di ciò che possono apparire limiti, quello che va posto maggiormente in evidenza è la battaglia politica che “La classe”, proprio sulla questione della attualità della rivoluzione e la coeva necessità di porre l’organizzazione della forza come aspetto non più rimandabile per la classe operaia, conduce senza mezze misure. Anche in questo caso vi è per intero Lenin e una attualizzazione e ritraduzione del Che fare?.

Apparentemente, simile asserzione potrebbe darsi come una estrema forzatura di Lenin e del suo testo principe, solitamente, infatti, il Che fare? è stato letto come il testo dove Lenin mette e impone la camicia di forza alla spontaneità operaia riducendo la classe a mera appendice di partito, ma non solo: il Che fare?, tanto a destra quanto a sinistra, è stato percepito come assolutizzazione del ceto politico agli umori e desideri del quale l’intero movimento degli operai dovrebbe uniformarsi mettendo, con ciò, costantemente in sordina il fatto che a permeare lo scritto, dalla prima all’ultima pagina, è il nodo centrale dell’insurrezione e, in piena polemica con i fautori della generica spontaneità operaia, Lenin mette al centro del suo interesse le spinte spontanee di massa verso l’insurrezione, perché è poco interessato, anzi non lo è per nulla, al punto di vista dell’operaio medio. Non è intorno alla prassi dell’operaio medio che è possibile cogliere la tendenza, questa, al contrario, va osservata, rafforzata e organizzata nelle punte avanzate della spontaneità operaia e proletaria. Sono i comportamenti di rottura che il partito deve cogliere perché è esattamente lì che si delineano i processi storici. Sono questi comportamenti che definiscono il possibile imporsi di una maggioranza politica che, sul piano concreto, altro non significa se non l’imporsi di una egemonia politica che è ben altra cosa rispetto a un dato banalmente quantitativo.

Lenin sa benissimo che nella storia a essere determinante e decisiva è sempre un’avanguardia di massa, la quale solo in un secondo momento, potrà aspirare a farsi anche maggioranza numerica ma che, per tutta una fase, dovrà camminare da sola accontentandosi della neutralità del resto della classe e della popolazione. Proprio perché i livelli di coscienza e antagonismo non possono pensarsi mai uniformi e omogenei occorre puntare su quella frazione di classe che, nella sua prassi, prefigura in potenza l’insurrezione. Ogni politica che si maschera dietro la conquista dell’intera classe, ogni politica che si nasconde dietro a una indistinta unità, altro non è che una diversa forma di opportunismo.

La polemica di Lenin contro la sudditanza verso la spontaneità è una polemica contro questo tipo di spontaneità e contro la inevitabile prassi politica di accodarsi ai punti più bassi della pratica operaia e proletaria. Fin da subito, seppur detto in altro modo, in lui non solo non vi è venerazione, ma aperto dissenso polemico verso il mostro sacro dell’unità di classe che sarà la bandiera di tutte le derive socialdemocratiche e opportuniste. Del resto, ciò che andrà in scena a ridosso del fatidico agosto 1914, non lascerà dubbi di sorta. La frazione operaia comunista, grazie a Lenin, assumerà una veste internazionale in aperta rottura con la socialdemocrazia e ciò che pochi anni prima poteva apparire una disputa al limite dell’eccentrico tra gli arretrati russi, si mostra la sola linea di condotta possibile rivelando tutto il realismo della politica rivoluzionaria ed è esattamente su questa scia che “La classe” ritraduce Lenin nel presente.

Ciò che diventa centrale è l’assunzione del punto di vista di una avanguardia di massa la quale sta dando il la alla cornice complessiva dello scontro di classe. A fronte di ciò, la pur breve esistenza de “La classe” può esser ritenuta la migliore esemplificazione di quanto andato in scena sul finire degli anni sessanta perché si può, con buona certezza, considerare il primo organo di stampa a dominanza operaia. Con ciò non si vuole certo ignorare l’importanza e il peso che un ceto politico–intellettuale, che raccoglieva parte delle più significative riflessioni del primo operaismo tanto da riproporle integralmente in alcuni numeri del giornale oltre a elaborarne di nuove, ha svolto in questa esperienza, bensì evidenziare come, proprio dentro le pagine del giornale, il protagonismo operaio risultasse determinante.

“La classe” ha l’indubbio merito, che incarna una vera e propria linea di condotta, cioè il far sì che gli operai, il loro punto di vista, le loro lotte e le loro discussioni occupino nel giornale un posto non secondario. Ciò è il frutto di due fattori, da una parte, aspetto sul quale tutti concordano, la necessità di colmare nella prassi quella distanza tra ceto politico–intellettuale e avanguardie operaie che le riviste storiche dell’operaismo avevano sostanzialmente mantenuto. A conti fatti le riviste operaie rimanevano riviste sugli operai e la necessità di porre fine a questo vizio, proprio del ceto politico–intellettuale, era una cosa che tutti ritenevano non più eludibile. Dall’altra un modo completamente nuovo di concepire il ruolo dell’avanguardia e della sua funzione e su questo i punti di vista non convergono, tanto che, alla fine, le vie si separeranno.

Da un lato, per coloro che daranno vita all’esperienza di Potere Operaio, reiterando un modello quanto mai classico, il problema è, e rimane, prendere la testa del movimento mentre, per coloro che di lì a poco daranno forma a Lotta Continua, non si tratta di prendere la testa del movimento ma di essere, invece, la testa del movimento. Questa differenza, anche se non stridente, non è difficile da notare proprio nel modo in cui vengono confezionati gli stessi numeri del giornale. A parte gli editoriali, che mostrano una certa omogeneità, sul giornale compaiano testi e articoli di natura maggiormente analitica e teorica a fronte di materiali declinati soprattutto sulle lotte, sul punto di vista operaio, sull’inchiesta.

L’anima che darà vita a Lotta Continua è sicuramente quella che dedica a questi aspetti i maggiori sforzi. Su questo aspetto occorre soffermarsi. Con ogni probabilità chi andrà a leggersi i numeri de “La classe” sarà tentato a non andare oltre una semplice scorsa di queste parti per concentrarsi sulla corposità e la complessità di quelle analitiche e teoriche. La cosa è facilmente comprensibile poiché, per dirla con realismo, leggere per intero i resoconti delle assemblee di fabbrica, gli interventi operai dentro i vari coordinamenti cittadini o nazionali, così come le interviste alle avanguardie di fabbrica, oggi è una cosa di poco interesse, mentre i saggi teorici hanno indubbiamente un respiro e una profondità che li emancipa dalla particolarità del contesto storico in cui hanno visto la luce. Del resto leggiamo i testi di Marx nel 2023 come se fossero stati scritti domani, però, ciò che va evidenziato, è la recezione che i materiali più grezzi hanno in quel preciso momento. Dobbiamo, cioè, rovesciare la prospettiva con la quale noi oggi ipoteticamente prendiamo tra le mani i numeri de “La classe” e immaginarci il come gli operai li recepiscano.

Con ogni probabilità il tipo di lettura è esattamente rovesciata poiché i testi teorici finiranno per essere oggetto di una breve scorsa, mentre la parte prettamente operaia verrà letta, discussa e commentata con non poco interesse e partecipazione. Avere tra le mani un giornale che, anche come semplice cronaca, riporta le varie iniziative operaie nei territori, i coordinamenti operai di questa e quella regione, la voce di altri operai impegnati in questa o quella battaglia di fabbrica diventa uno strumento di socializzazione e organizzazione non proprio secondario, un giornale in cui le lotte operaie sono continuamente poste in primo piano e fa sì che quel senso di isolamento a cui i perimetri della fabbrica conducono cada in frantumi.

Gli operai Fiat scoprono Porto Marghera e questi a loro volta scoprono Porto Torres ma anche i braccianti del sud, i tecnici della Pirelli e, certamente non per ultimo, ciò che si agita nelle scuole e nelle università. Dobbiamo immaginare l’effetto che ha il resoconto della partecipazione degli operai Breda dentro una assemblea degli studenti in Statale, tra gli operai Fiat. Certo, oggi, questo si mostra tanto datato quanto definitivamente archiviato in un qualche faldone della storia, ma non è questo il punto. Ciò che è, invece, importante evidenziare è lo stile di lavoro che questo modo di costruire il giornale incarna. Questo è ciò che, per molti versi, lo può rendere attuale.

Con attualità non si intende certamente la meccanica reiterazione di ciò che è stato piuttosto l’assunzione di un metodo come possibile linea di condotta del presente. Tuttavia, prima di entrare nel merito del metodo, occorre prendere in considerazione qualcosa di più complesso e dai tratti maggiormente generali. Dobbiamo, cioè, misurarci con gli ordini discorsivi che hanno fatto da sfondo alle stagioni del protagonismo operaio. Senza di ciò diventa difficile comprendere non tanto la lotta operaia ma la centralità che questa ha assunto per la politica e, con ciò, evidenziare quanto il peso della teoria politica, e la sua capacità di esercitare egemonia politica, che poco o nulla ha a che vedere con l’egemonia culturale, abbia svolto un ruolo decisivo nel sostanziare l’anomalia italiana.

Bisogna riconoscere cioè che quanto andato in scena anni dopo con il 7 aprile conteneva un qualche grano di verità5. Non si tratta certo di offrire una postuma legittimità a Calogero e al suo teorema o, ancor peggio, trovare una qualche giustificazione al fare questurino del PCI e del sindacato, ma riconoscere il peso che la teoria riveste dentro il processo rivoluzionario. Senza teoria rivoluzionaria, niente movimento rivoluzionario questo il solo e unico vero senso dell’affermazione. Si tratta di riconoscere, cioè, come l’elaborazione teorica sia del tutto interna alla linea di condotta del partito dell’insurrezione anche se, tale elaborazione, è comunque e sempre frutto di una prassi posta in atto dalle masse. La triade marxiana: prassi, teoria, prassi, vive e può vivere solo e unicamente a partire dalla soggettività di classe che deve, per non disperdersi, necessariamente riversarsi in una soggettività politica la quale, a sua volta, assolve al suo compito se la riconsegna elaborata alla soggettività di classe. In questo modo la teoria diventa un’arma per la soggettività di classe, classe che è sempre punto di partenza e punto di arrivo, mentre la soggettività politica è sempre l’anello di congiunzione tra i due poli della prassi. Questa relazione non è mai lineare e priva di tensioni. Le vicende dell’operaismo e del giornale “La classe” ne sono ampiamente testimoni.

Questo il motivo per cui si è richiamato alla mente il 7 aprile. Il castello accusatorio era sicuramente falso e fantasioso e gli imputati del tutto estranei, e in alcuni casi anche avversi, a quanto configuratosi come guerriglia comunista, ma indubbiamente parte del lavorio teorico da loro sviluppato anni prima aveva contribuito a rendere esplicito e a dare consistenza politica a ciò che la lotta operaia e proletaria aveva, in maniera del tutto autonoma, posto all’ordine del giorno.

Il ceto politico, gli intellettuali, i militanti rivoluzionari non si erano inventate le lotte così come non si erano inventata la pratica del potere operaio, ma avevano fatto sì che quelle lotte non rimanessero isolate, prive di prospettiva politica e valenza storica, in altre parole avevano contribuito non poco a dare forma a un involucro politico in grado di sintetizzare ciò che la soggettività operaia stava ponendo all’ordine del giorno, attraverso la prassi. Allora, a partire da ciò, più che prendere partito per gli intellettuali o per la classe, avendo a mente le contrapposizioni che sulle vicende dell’operaismo sono sorte, sembrerebbe sensato cogliere come solo questa relazione, sicuramente mai semplice, sia stata tanto essenziale quanto determinante nel rendere possibile l’anomalia italiana consentendo, tra l’altro, di attualizzare il dibattito intorno a Lenin e alla linea di condotta leniniana ma non solo.

Ciò che non possiamo eludere è il fatto che le cose non possono prescindere dalle parole e che, necessariamente, i passaggi storici richiedono un linguaggio che ne ratifichino l’esistenza e che questo linguaggio è sempre appannaggio di un ceto politico–intellettuale. Il nostro paese, sotto questo aspetto, ne rappresenta un vero e proprio paradigma, è sufficiente pensare alle trasformazioni a trecentosessanta gradi che hanno fatto da sfondo agli anni del cosiddetto boom economico dove, insieme alla struttura produttiva, si è delineato sul piano del costume e degli stili di vita un autentico salto epocale. Un passaggio che stava ovviamente dentro la materialità delle cose ma che solo un linguaggio ha reso esplicito. Le lotte operaie che prendono forma in detto contesto sono delle cose nuove e ciò è indubbio ma è altrettanto vero che la carica sovversiva di queste cose ha potuto darsi appieno proprio grazie al linguaggio che le ha narrate. Tutto ciò, in fondo, non è una novità ma il prosaico riconoscimento di come non si possa prescindere dalla relazione classe/ceto politico–intellettuale cosa che, del resto, il leniniano Che fare?, aveva posto nero su bianco in maniera quanto mai netta.

(4continua)


  1. Al proposito si veda, P. Piano, La banda 22 ottobre. Agli albori della lotta armata, Derive Approdi, Roma 2008. Mentre, per quanto concerne l’esperienza Gap–Feltrinelli si può vedere, N. Balestrini, L’editore, Bompiani, Milano 1989.  

  2. L., Adamic, Dynamite. Storia della violenza di classe in America, Bepress, Lecce 2010.  

  3. J., Brecher, Sciopero! Storia delle rivolte di massa nell’America dell’ultimo secolo, Derive Approdi, Roma 2002.  

  4. Cfr. E., Quadrelli, Autonomia operaia. Scienza della politica e arte della guerra, Edizioni Interno 4, Rimini 2019.  

  5. Sul 7 aprile si veda, tra i molti, G., Bocca, Il caso 7 aprile. Toni Negri e la grande inquisizione, Feltrinelli, Milano 1980.  

]]>
E’ la lotta che crea l’organizzazione. Il giornale “La classe”, alle origini dell’altro movimento operaio / 3 https://www.carmillaonline.com/2023/08/13/e-la-lotta-che-crea-lorganizzazione-il-giornale-la-classe-alle-origini-dellaltro-movimento-operaio-3/ Sun, 13 Aug 2023 20:00:47 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=77119 di Emilio Quadrelli

“Scienza operaia” e “piano del capitale”

Lenin identificò, senza mezze misure, il riformismo come forza del tutto interna al capitale e, pertanto, come forma politica completamente ascrivibile all’ambito della inimicizia. Questo cardine della teoria leniniana anima per intero le pagine de “La classe” anzi, per molti versi, il giornale sviluppa e porta sino alle sue logiche conseguenze la teoria leniniana. La battaglia contro il riformismo e gli istituti del movimento operaio ufficiale non solo albeggiano pressoché in ogni articolo del giornale, ma il riformismo è osservato non tanto come linea politica che annacqua le lotte e le [...]]]> di Emilio Quadrelli

“Scienza operaia” e “piano del capitale”

Lenin identificò, senza mezze misure, il riformismo come forza del tutto interna al capitale e, pertanto, come forma politica completamente ascrivibile all’ambito della inimicizia. Questo cardine della teoria leniniana anima per intero le pagine de “La classe” anzi, per molti versi, il giornale sviluppa e porta sino alle sue logiche conseguenze la teoria leniniana. La battaglia contro il riformismo e gli istituti del movimento operaio ufficiale non solo albeggiano pressoché in ogni articolo del giornale, ma il riformismo è osservato non tanto come linea politica che annacqua le lotte e le fa regredire ma come linea politica tutta interna al piano del capitale . Esattamente in questo passaggio si situa gran parte della ricchezza prima teorica e analitica e poi organizzativa del giornale. Il riformismo è osservato e identificato come progetto e strategia tutta interna al capitale, come suo centrale modello di sviluppo e principale governo della forza lavoro.

Se Lenin aveva identificato il riformismo come la borghesia dentro il movimento operaio, l’operaismo de “La classe” identifica il riformismo come parte costitutiva e costituente del piano del capitale , tutto questo sulla scia di quanto messo a punto nel lavorio teorico delle esperienze precedenti ma, soprattutto, grazie anche alle esperienze poste in atto dalle lotte operaie in aperta rottura con partito e sindacato. Qualche anno dopo, avendo a mente il ruolo del PCI e del sindacato nelle vicende degli anni settanta, tutto ciò potrà sembrare come la scoperta dell’acqua calda ma, negli anni sessanta, questo è un passaggio teorico di grandissima portata poiché, per la prima volta, ascrive il riformismo alla strategia materiale del capitale1. Mentre i gruppi critici, ma ortodossi, pongono l’accento sul revisionismo del movimento operaio ufficiale, “La classe” e tutte le aree teoriche e politiche a questa contigua focalizzano l’attenzione proprio sul riformismo; per gli ortodossi, infatti, la colpa del movimento operaio ufficiale è quella di aver abbandonato la dottrina e aver introdotto una nuova liturgia poco attenta al verbo presente nei testi sacri. A partire da questi presupposti, pertanto, il riformismo diventerebbe solo la conseguenza fenomenologica di una revisione ideologica e non una pratica del tutto interna al piano del capitale. In ciò che “La classe” elabora vi è, invece, un decisivo passaggio qualitativo dentro la ritraduzione di Lenin. Una ritraduzione che va sicuramente oltre Lenin poiché sviluppa un’analisi del riformismo a partire dai processi materiali interni al ciclo di accumulazione capitalista. Il merito enorme de “La classe”, e dell’operaismo in generale, o almeno di questo operaismo, è quello di aver letto il riformismo dentro la fabbrica e averlo osservato come motore principale del processo produttivo e del suo sviluppo.

“La classe” va oltre Lenin perché il capitale è andato oltre la forma fenomenica conosciuta da Lenin il quale, per forza di cose, non poteva certo fare i conti con l’epopea dello stato–piano2 e di tutto ciò che questo ha comportato. La critica di Lenin al riformismo è una critica tutta politica nel senso che a incarnare il riformismo sono quegli strati, la cosiddetta aristocrazia operaia, che dentro il sistema capitalista hanno trovato una sistemazione sostanzialmente confortevole poiché possono usufruire di una quota del surplus di profitto che il proprio imperialismo rastrella in giro per il mondo. In questo senso il riformismo può essere considerato come una tattica del capitale non una strategia ovvero una alleanza tra classi che condividono alcuni interessi in comune e, soprattutto, hanno il medesimo nemico: lo spettro comunista. In questa alleanza, tuttavia, i ruoli rimangono ben distinti.
Diverso, invece, il ruolo che il riformismo inizia a ricoprire nel nuovo ciclo di accumulazione: qui il riformismo si fa strategia del capitale poiché sua preoccupazione essenziale è il governo della forza lavoro e la totale compatibilità di questa con il ciclo produttivo. Con ciò il sindacato e gli istituti del movimento operaio diventano, da mediatori della forza lavoro, gestori e controllori di questa, ma non solo: gli istituti del movimento operaio ufficiale diventano parte integrante del piano. Se l’aristocrazia operaia di Lenin era quella forza deputata, di fronte all’attacco operaio, a puntellare il sistema capitalista, oggi questa, che più sensatamente inizierà a essere individuata come destra operaia, è chiamata a gestire il piano dell’accumulazione e lo scontro con questa, per tanto non potrà che essere una battaglia all’ultimo sangue perché in palio vi è la sopravvivenza o meno del capitalismo e non per caso, le lotte operaie, troveranno davanti a sé, ancora prima che padroni e polizia, gli istituti del movimento operaio ufficiale.

Quando, negli anni settanta, il riformismo svolgerà appieno il ruolo di nuova polizia, non farà altro che completare, entrando a pieno titolo negli apparati della statualità, quel percorso iniziato negli anni sessanta che lo vedeva tutto interno alla materialità del piano del capitale. Questo passaggio è centrale nell’elaborazione de “La classe” e non si tratta certo di cosa di poco conto ma, per molti versi, si tratta di una vera e propria rivoluzione copernicana. È vero Lenin, sin dalla pubblicazione del Che fare? aveva individuato nell’economicismo la politica borghese dentro la classe operaia ma in ciò che viene messo a registro adesso vi è qualcosa di diverso. Qui non si tratta più di leggere una politica borghese che viene portata dentro la classe per limitarne prima e annichilire poi le sue prospettive politiche rivoluzionarie ma di una lettura, tutta materialistica, delle trasformazioni intervenute dentro al capitale. La critica de “La classe” agli istituti del movimento operaio ufficiale ha ben poco di “ideologico” e/o di “politico” ma affonda le sue radici dentro i processi materiali del capitalismo. Parafrasando Marx si può dire che è una critica che non nasce nel cielo delle idee bensì dentro gli inferi della fabbrica. Ma questo cosa significa? Perché ciò rappresenta sia una svolta che manda in frantumi tutto il politicismo proprio del PCI e dei suoi critici e, per altro verso, riporta Lenin dentro la classe operaia? Perché in questo passaggio riaffiora prepotentemente l’attualità della rivoluzione? Non sono certo domande di poco conto alle quali occorre cercare di offrire qualche risposta.

Intanto, per prima cosa, significa riprendere tra le mani la teoria marxiana in quanto critica dell’economia politica. Il punto di partenza della teoria marxiana, il suo cantiere elaborativo è l’inferno di Manchester, non il mondo celestiale della politica ma il sordido rumore delle macchine capitaliste. Quell’inferno, che sembra essere circoscritto alla sola Manchester, segnerà tutto il mondo a seguire. Ciò che Marx osserva, attorniato dallo scetticismo dei più, è il processo materiale che in quel luogo si sta evolvendo e che darà il la al mercato mondiale. Questo è il punto più alto dello sviluppo e questo segnerà, piegandolo a sé, i destini del mondo. Ma Marx non si limita a ciò poiché, insieme all’economia politica, cosa che lo accomunerebbe ai tanti economisti dell’epoca, focalizza lo sguardo sul soggetto deputato a rivestire i panni della critica alla economia politica.

Contro la scienza degli economisti Marx mette a punto la scienza operaia. Questa è la scienza delle lotte ed è una cultura che affonda le sue radici dentro la costituzione materiale che il ciclo dell’accumulazione impone. Il giornale “La classe” si colloca esattamente dentro questa scia dove non gli equilibri di governo, non le schermaglie parlamentari e tanto meno le percentuali elettorali e le rappresentanze effimere che stabiliscono, hanno importanza ma le lotte, la quantità e la qualità di forza che queste sono in grado esercitare. Centrale è il punto di vista operaio e non un punto di vista dal sapore sociologico come piace registrare ai cani da guardia della borghesia, ma il punto di vista politico degli operai, quello, cioè, che si manifesta solo dentro le lotte autonome e qui, allora, vi è per intero la ritraduzione di Lenin da parte de “La classe”. Sulle lotte, di fabbrica e di strada, Lenin aveva costruito il partito dell’insurrezione, sulle lotte di fabbrica del presente e il loro riversarsi nei quartieri proletari va costruita l’organizzazione operaia. Ma non si pone, allora, nuovamente l’attualità della rivoluzione e non occorre forse comprendere in che modo questa attualità si presenta? Questo è ciò che sta al centro e al cuore dell’esperienza de “La classe”.

Certo questo non è la scoperta di qualche intellettuale, non è la teoria messa a punto da un ceto politico particolarmente arguto bensì la sintesi concettuale di ciò che una prassi di massa ha ormai evidenziato. Le avanguardie, il ceto politico–intellettuale non si inventano nulla ma decodificano, sostanziano e rielaborano ciò che la lotta di massa ha già, e non più solo come tendenza, posto in atto. La crisi del PCI e del sindacato in fabbrica non è altro che l’espressione fenomenica della lotta operaia. Ai rappresentanti del lavoro salariato gli operai contrappongono il rifiuto del lavoro salariato. Questo fa saltare il banco del riformismo. “La classe” si limita a registrare prima e a rilanciare poi, attraverso una attenta elaborazione teorica, ciò che dalle masse è stato conquistato. È sicuramente un Lenin inaspettato e anomalo quello che prende forma dalle pagine di questo giornale, ma è anche l’unico Lenin possibile: è di nuovo l’attualità della rivoluzione, la riscoperta e la riappropriazione del tempo della rivoluzione contro i ritmi e i tempi del capitale.

Il tempo operaio è il tempo non declinato sulla produzione ma sulla lotta; è il tempo della soggettività di classe contrapposto al tempo oggettivista della produzione. Il sabotaggio si contrappone ai ritmi produttivi, lo sciopero a gatto selvaggio è il modo migliore per ottenere il massimo dalla lotta con il minimo sforzo e bloccare la produzione impiegando, volta per volta, modesti plotoni operai; una rivisitazione, a conti fatti, della guerra del deserto all’interno della macchina capitalista3.

Lo sciopero improvviso di un solo comparto della fabbrica, che blocca, però, per intero il ciclo di assemblaggio della merce, equivale a quelle mille punture di insetto attraverso le quali un piccolo esercito guerrigliero è in grado di piegare e far implodere anche il più poderoso degli eserciti statuali. Allo stesso tempo l’agguato ai capi, lo spazzare via i reparti con improvvisati cortei mascherati e illegali è un modo per liberare e appropriarsi di pezzi di territorio dentro la fabbrica negando a spie, ruffiani e crumiri un qualunque diritto di cittadinanza. Questa è la guerra che ormai si va delineando dentro la fabbrica e che sancisce l’esistenza di un dualismo di potere.

Dualismo di potere, appunto, non lotta sindacale ancorché particolarmente aspra, scontro tutto politico non economico o economicista come, con fare saccente, lo definiscono le varie anime della ortodossia comunista allineandosi in tutto e per tutto al PCI. Gli operai non liberano la fabbrica, non si impossessano della produzione ma, sabotando il lavoro, si riappropriano del tempo, ma liberare il tempo dalla produzione non era stata una delle principali indicazioni di Marx sin dal periodo dei Manoscritti?4. Questo il perimetro della guerra che si va delineano tra classe operaia e comando capitalista, non il mito neo-resistenziale tutto declinato nell’immaginario del passato, ma la guerra dentro il presente incarnato dalla fabbrica fordista ed è esattamente qui che Lenin va ritradotto e attualizzato. Ma il riappropriarsi della teoria leniniana non si limita a ciò. Torniamo quindi a Lenin, a osservarne le peculiarità e la sua nuova traduzione che le lotte operaie impongono.

Al centro della sua teoria politica vi è la relazione indissolubile tra politica e guerra5, tanto che non è certo un caso che Clausewitz sia uno degli autori da lui maggiormente studiati, la cui conseguenza pratica immediata è la relazione indissolubile tra legalità e illegalità. Due aspetti che non possono che essere costantemente complementari. Mentre per la socialdemocrazia occidentale legalità e illegalità rimandano a momenti e a contesti del tutto incommensurabili per Lenin, che comprende sino in fondo come la guerra sia compresa nella politica, legalità e illegalità sono due aspetti sempre attuali e presenti. Centrale nel conflitto di classe è comunque e sempre la questione della forza.

Ma la forza, aspetto centrale della modernità, è diventata monopolio dello stato6. Solo lo stato è legittimato a detenerla e usarla ma lo stato è quella macchina burocratica e militare deputata a esercitare e garantire una dominazione di classe, la forza, quindi, non può che essere appannaggio della borghesia mentre la forza operaia non può che darsi come forza illegittima ed esprimersi solo attraverso l’illegalità. Dentro lo stato borghese la classe operaia deve essere forzatamente disarmata, ma una classe disarmata non può esercitare alcuna forza, non occorre il rasoio di Occam per comprenderlo.

Su ciò Lenin è estremamente chiaro e, in piena coerenza, considera l’armamento operaio aspetto permanente dell’organizzazione rivoluzionaria. Non si tratta di una particolare propensione di Lenin per il militarismo, ma dello scontato riconoscimento che così come non vi è movimento rivoluzionario senza teoria rivoluzionaria, non vi è organizzazione operaia senza forza operaia.
Per Lenin, e non per caso abbiamo ricordato il debito da lui contratto con Clausewitz, il militare è sempre compreso nel politico, ne è aspetto costitutivo e costituente il quale non subentra al posto del politico e non ne è neppure l’aspetto anomalo e indesiderato bensì un suo tratto ineludibile, ma se ciò è vero, e lo è, ne vanno tratte le ovvie conseguenze.

In un contesto in cui la forza è sottoposta a regime di monopolio o si rinuncia al conflitto o ci si adopera per edificare la propria forza. Certo la forza non può che essere costantemente posta sotto il controllo del politico e modellarsi alle fasi del conflitto, ma deve esistere sempre, essere sempre presente e, per le obiettive caratteristiche che incarna, godere anche di un certo grado di autonomia. La presenza di un apparato militare è una costante della teoria politica leniniana che solo la deriva socialdemocratica e riformista a cui è approdato il movimento operaio ufficiale in occidente ha posto prima tra parentesi e poi in archivio.

Il dibattito sulla forza entra prepotentemente nel dibattito de “La classe” e con ciò l’esperienza di questo giornale compie un salto politico non secondario rispetto a tutto ciò che è venuto prima. Lo compie perché al centro della sua iniziativa, a differenza di gran parte di quanto l’ha preceduto, costante è la questione dell’organizzazione complessiva degli operai in funzione dello scontro con lo stato. Certo, col senno di poi, si potranno anche fare mille obiezioni ai tentativi messi in atto da “La classe”, ma ciò che dobbiamo tenere costantemente a mente è il periodo in cui questi tentativi si danno e il vuoto politico in cui questa sperimentazione si dà. Dobbiamo infatti avere ben a mente che questa generazione di operai e comunisti alle spalle non ha alcuna esperienza tranne il mito resistenziale mutuato velocemente in democraticismo e parlamentarismo opportunista e imbelle. La stessa radicalità operaia manifestatasi nel ’607 e nel ’628 si è trovata di fronte il muro del partito e del sindacato che l’hanno tacciata di estremismo, teppismo e persino fascismo. Dietro di sé questa generazione operaia e comunista non ha alcuna tradizione dalla quale attingere. Ma ritorniamo a occuparci della questione della forza.

Le lotte operaie stanno ponendo, ogni giorno che passa, all’attenzione dei comunisti la questione della forza e “La classe” ha indubbiamente il merito di non eludere il problema ma di affrontarlo di petto. Lo fa, occorre riconoscerlo, anche con una certa ingenuità, ma questo più che essere il frutto di limiti e incapacità è la triste testimonianza di come tutta una generazione di operai e comunisti si sia trovata, e non certo per colpa propria, del tutto impreparata ad affrontare passaggi centrali del conflitto di classe. Proprio questi limiti testimoniano l’infausto ruolo giocato per anni dal movimento operaio ufficiale che si era speso non poco per imporre che la questione della forza dovesse essere considerata ormai del tutto estranea alle esigenze della classe operaia soprattutto come strumento offensivo. È vero l’uso della forza non è ipotesi del tutto estranea al movimento operaio ufficiale, ma lo è nella sua accezione difensiva tutta ripiegata in chiave antifascista e anti golpista. Qui si aprono una serie di questioni che meritano di essere trattate senza fretta.

Intanto, anche seguendo il filo del discorso dei riformisti, viene da chiedersi come sia concretamente possibile fare ricorso alla forza se questa forza non esiste. In che modo, cioè, la classe operaia potrebbe, in caso di golpe fascista o svolta apertamente autoritaria, armarsi e combattere se alle sue spalle non vi è alcun apparato militare minimamente attivo e preparato, ma non solo. O gli operai nascono, per patrimonio genetico, militarmente già formati, oppure asserire che di fronte alla minaccia fascista e golpista si combatterà è solo una boutade o, aspetto tipico dell’opportunismo, passare repentinamente dal legalitarismo all’avventurismo tout court con tutte le ricadute del caso.

Immaginiamo, anche solo per un momento, che di fronte a un golpe vengano distribuite le armi agli operai ora, ammesso e non concesso che queste armi da qualche parte esistano, pensiamo a un qualunque operaio che all’improvviso si ritrovi tra le mani un mitra, cosa ne fa? Immaginiamolo alle prese con il tiro a raffica, è pensabile che sia in grado di farlo con un minimo di dimestichezza? Non occorre dare una risposta. Una simile ipotesi non può che condurre al massacro cosa che, del resto, è proprio dell’opportunismo che precipita velocemente nell’avventurismo.

Qui occorre rilevare la reiterazione di un vizio originario del movimento operaio e comunista italiano e più in generale occidentale, un vizio che possiamo tranquillamente far risalire, per quanto concerne l’Italia, almeno al biennio rosso prima e alla vittoria del fascismo dopo. Di fronte all’offensiva operaia seguita alla guerra e alla tendenza insurrezionale che questa si portava dietro, nessuna delle forze politiche della sinistra, all’epoca ancora legate al PSI e che successivamente daranno vita al PCd’I, si pose minimamente sul terreno della guerra civile e, invece di organizzare l’attacco alla macchina statuale, non riuscirono ad andare oltre la gestione della fabbrica capitalista9.

Nel momento in cui si era reso necessario passare dalle armi della critica alla critica con le armi nessuno si mostrò minimamente preparato e tanto meno intenzionato a farlo. La questione militare, che per Lenin era sempre stata aspetto ineludibile dell’agire di partito, era del tutto estranea anche tra coloro che si professavano interni al marxismo rivoluzionario. Non diversamente da quelli tedeschi, i rivoluzionari italiani si mostravano quanto mai distanti da Lenin poiché la guerra, andando al sodo, continuava a essere considerata come momento anomalo della politica e non suo aspetto costituente, un errore concettuale tipico di tutto il socialismo europeo. Su questi presupposti è ovvio che nessuno si mostrasse non solo pronto alla battaglia, ma che non fosse neppure in grado di raccogliere le tensioni insurrezionali provenienti dalla lotta operaia. Se c’è un momento in cui il distacco della presunta avanguardia dalle masse assume tratti al limite del grottesco è esattamente questo. Se possibile le cose andarono ancora peggio di fronte all’incalzare del fascismo.

Non si può certo dire, come tutte le esperienze degli Arditi del popolo10 sono lì a testimoniare, che non vi fu resistenza di massa al fascismo, ma fu una resistenza che non trovò alcuna sponda politica e del resto, come ricorda nelle sue memorie Bruno Fortichiari11, responsabile del settore militare del PCd’I, l’arsenale del partito nel 1922 contava tre revolver, mentre il suo apparato militare era formato da qualche gruppo di giovanotti che si cimentava in scampagnate tra le montagne.

Tutto ciò a palese dimostrazione di come, indipendentemente dalle dichiarazioni di principio, nel nostro paese i tratti del partito dell’insurrezione difficilmente riuscivano a andare oltre i perimetri della carta stampata e delle frasi fatte, insomma tutto chiacchiere e stemma di partito. Questo lo scenario di fondo al quale, però, si aggiungono anche altri elementi i quali, se possibile, peggiorano ancor più la situazione e finiscono con il fare tabula rasa intorno a qualunque ipotesi insurrezionale. Se, nella tradizione del movimento operaio ufficiale, il ricorso alla forza era stato un enunciato al quale non era mai stato data concretezza, l’assunzione della guerra di posizione come sola e unica cornice politica possibile in un paese a capitalismo avanzato12, pone una pietra tombale sul marxiano passaggio dalle armi della critica alla critica con le armi. Assumere la dimensione della guerra di posizione non significa solo mettere da parte la rivoluzione, ma riconoscere per intero la democrazia borghese e parlamentare come cornice politica della classe operaia e, sulla scia di ciò, per il movimento operaio ufficiale, il ricorso alla forza diventa legittimo solo di fronte a un atto illegittimo della borghesia. La forza, il che ha qualcosa di paradossale, può e deve essere utilizzata solo per ripristinare la legalità borghese nel caso questa, o alcune sue frange, si adoperassero per sopprimerla. La forza è legittima solo in funzione antifascista.

(3 – continua)


  1. Al proposito si veda, G., Trotta, F., Milana, a cura di, L’operaismo degli anni sessanta. Da Quaderni rossi a Classe operaia, Derive Approdi, Roma 2008.  

  2. Cfr. A., Negri, Crisi dello stato piano, organizzazione, comunismo, in Id. I libri del rogo, cit.  

  3. Il riferimento è alla tattica guerrigliera utilizzata dai guerriglieri arabi contro l’esercito ottomano nel corso della prima guerra mondiale, Th. E., Lawrence, Rivolta nel deserto, Il Saggiatore, Milano 2010.  

  4. K., Marx, Manoscritti economico–filosofici del 1844, Einaudi, Torino 1968.  

  5. V. I., Lenin, Note al libro di Von Clausewitz: sulla guerra e la condotta della guerra, Edizioni del Maquis, Milano 1970.  

  6. M., Weber, La politica come professione, Mondadori, Milano 2006.  

  7. Sulla retorica predominante sui fatti di Genova è quanto mai significativo il testo di A., Paloscia, Al tempo di Tambroni. Genova 1960. La Costituzione salvata dai ragazzi in maglietta a strisce, Mursia, Milano 2010. Per una narrazione decisamente controcorrente e incentrata sul portato che la nuova composizione di classe ha avuto in quegli eventi si veda, A., Dal Lago, E., Quadrelli, La città e le ombre. Crimini, criminali, cittadini, Feltrinelli, Milano 2003.  

  8. Sui fatti di piazza Statuto si vedano, C., Bolognini, Quelli di piazza Statuto, Agenzia X, Milano 2019; D., Lanzardo, La rivolta di piazza Statuto. Torino luglio 1962, Feltrinelli, Milano 1979.  

  9. Su ciò si veda, in particolare, P., Spriano, L’Ordine nuovo e i Consigli di fabbrica. Con una scelta di testi dell’Ordine nuovo (1919–1920), Einaudi, Torino 1971.  

  10. La pubblicistica sugli Arditi del popolo è immensa, tra questa uno dei testi maggiormente esauriente è sicuramente il lavoro di E., Francescangeli, Arditi del popolo. Argo Secondari e la prima organizzazione antifascista (1917–1922), Odradek, Roma 2000.  

  11. Al proposito si veda, AA. VV. Bruno Fortichiari. In memoria di uno dei fondatori del PCd’I, Edizioni Lotta comunista, Milano 2020.  

  12. A., Gramsci, Note su Machiavelli, sulla politica e sullo Stato moderno, Editori Riuniti, Roma 1991.  

]]>