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Ellen H. – Una storia d’amore 

ELLEN You cannot love.

ORLOK I cannot. Yet, I cannot be sated without you.

L’impressionante successo di cassetta del Nosferatu di Robert Eggers, 2024, è testimoniato dalla serie diluviale di recensioni, commenti e pareri a firma praticamente di chiunque (non solo i recensori e commentatori usuali, non solo gli esperti di cinema e/o di horror) fioriti sul web e nei social: in sé un benvenuto sintomo di vitalità, anche considerando che nel mucchio si trovano spesso riflessioni d’interesse. Quanto alle critiche, al di là di chi sbarella (qualcuno c’è sempre, come chi [...]]]> di Franco Pezzini

Ellen H. – Una storia d’amore 

ELLEN
You cannot love.

ORLOK
I cannot. Yet, I cannot be sated without you.

L’impressionante successo di cassetta del Nosferatu di Robert Eggers, 2024, è testimoniato dalla serie diluviale di recensioni, commenti e pareri a firma praticamente di chiunque (non solo i recensori e commentatori usuali, non solo gli esperti di cinema e/o di horror) fioriti sul web e nei social: in sé un benvenuto sintomo di vitalità, anche considerando che nel mucchio si trovano spesso riflessioni d’interesse. Quanto alle critiche, al di là di chi sbarella (qualcuno c’è sempre, come chi per esempio attacca a muzzo il capolavoro di Herzog) esse pure in genere fotografano aspetti interessanti e meritevoli almeno di riflessione.

Il problema maggiore può emergere a fronte del continuo ritorno – in sé sensato e anzi inevitabile – della comparazione con i precedenti omonimi di Murnau e di Herzog e con il Dracula di Coppola (ma vorrei citare anche Shadow of the Vampire di E. Elias Merhige, 2000, film trattato spesso malissimo dalla critica). Sensato e inevitabile, perché si tratta di riferimenti lucidamente considerati da Eggers. Il problema sta però nel comparare senza distinguo un eccellente prodotto di genere (di un elegante specialista dell’horror) come questo, con opere d’arte – due nate con l’occhio al mainstream, la terza come scampagnata d’occasione (per molti critici il Dracula non fa parte della produzione “seria” di Coppola) – di registi che nel resto della produzione si sono occupati di tutt’altro. E i cui nomi tanto eminenti hanno attratto sulle loro letture vampiresche monumenta di riflessioni critiche sofisticate, una lunghissima storia interpretativa e una pluridecennale mitopoiesi nell’ambito dell’immaginario collettivo. Chiaro che il paragone resti inevitabilmente sbilanciato, e la sensazione di tedio lamentata da alcuni spettatori anche eccellenti al film di Eggers fa i conti con la scommessa, rischiosa in partenza ma legata a istanze personalissime (e dunque da difendersi), di riprendere una trama più o meno arcinota.

Il tentativo di parlare del film consisterà a questo punto nel cercare di evitare per quanto possibile il già detto, e provare (sulla base delle letture a monte ricche e varie di Eggers) a individuare altri percorsi: non alternativi, beninteso, ma di arricchimento del quadro d’analisi.

L’anno della storia è il 1838: un anno liminare, prescelto già da Murnau ed Herzog, che guarda insieme al primo ottocento delle visioni tedesche di Hoffmann (1776-1822) e di Caspar David Friedrich (1774-1840) ma già idealmente all’età vittoriana (è quello di incoronazione della regina Vittoria). Fin dall’inizio ci rendiamo conto che la povera Ellen (Lily-Rose Depp) è un elemento di alterità e disturbo nella Wisburg (Wisborg in Murnau) città degli affari: i suoi incubi, gli tsunami sciamanici della sua interiorità, il suo bisogno di cura – forse più che di cure –, emergeranno come potenziale ostacolo alla carriera del giovane marito Thomas Hutter (Nicholas Hoult) e come elemento perturbante a casa degli amici Harding. Ellen è troppo sensibile e spezzata per la borsa d’interessi di una città commerciale che punta alla roba, alla reificazione economicistica e all’efficacia sociale (persino più che il profilo del faustiano Knock di Simon McBurney, emblematico è qui quello di Friedrich Harding, amico di Thomas interpretato da Aaron Taylor-Johnson): una città che sembra richiamare la Corinto descritta da John Keats in Lamia (1819, pubbl. 1820), altro dramma vampiresco di inquietudini femminili e violenze interpretative. Impacchettare Ellen con tutte le brutalità di certe cure ottocentesche all’isteria è insomma una risposta che va oltre le soluzioni della medicina d’epoca, guarda all’urgenza di contenere la scomodità dell’outsider e insomma di “risolvere” pragmaticamente un problema. Al punto che la morte di Ellen verrà accolta sì con strazio ma insieme con rassegnazione persino dall’innamorato giovane marito: non è lui ad aver “ceduto” la compagna al Conte, come lei a un tratto gli rinfaccia – la firma di Thomas sull’atto in una lingua che non comprende è frutto di un inganno del vampiro – ma il giovane appare travolto dagli incubi di Ellen, che nessuno riesce a supportare/sopportare.

I nomi dicono qualcosa: se in Herzog l’eroina verrà chiamata Lucy (la vittima del romanzo, per l’inversione già nota a teatro con la versione teatrale Balderston e poi nel Dracula 1931 e seguiti, che vede in pratica invertire i ruoli di Mina e Lucy) la conservazione del nome Ellen di Murnau – tranne che nella versione della pellicola che le cambia nome in Nina – richiama il nome dell’eroina mitica che pone in pericolo l’intera città commerciale Wisburg/Troia per amore. Del resto in Eggers la venuta del mostro è causata non tanto da Thomas con il tema del fatale ritratto di lei, ma dalla stessa Ellen in grazia di un antico patto con un’entità umbratile del proprio profondo.

 

Come to me. Come to me: A guardian angel, a spirit of comfort – spirit of any celestial sphere – anything – hear my call.

 

In questa versione, persino più che nelle altre, il patto/contratto mostra tutta la sua diffusiva fatalità. Ciò in fondo spinge tutti i personaggi ad accettare con un relativo sollievo il sacrificio di Hellen: non solo Hutter e il medico Wilhelm Sievers (un bravissimo Ralph Ineson) ma persino il paracelsiano professor Albin Eberhart Von Franz (Willem Dafoe, già non-morto in Shadow of the Vampire) che pure ripudia i trattamenti coercitivi della medicina della città e con la ragazza solidarizza – non foss’altro per il fatto di essere un altro outsider. Come commenta, ascoltando le intenzioni di lei,

 

In heathen times you might have been a great priestess of Isis. Yet, in this
strange and modern world your purpose is of greater worth.

 

In un’epoca antica sarebbe stata una magnifica sacerdotessa di Iside, la dea che rimette insieme i pezzi dell’assassinato Osiride. A sua volta Ellen dovrà fare i conti con i pezzi di un altro frequentatore d’oltretomba dal corpo devastato, il putrescente Orlok…

Nei commenti web si è enfatizzata la dimensione erotica e sessuale nel film, molto più esplicita che in Murnau ed Herzog, come se il sesso fosse una chiave banalizzante o un tributo modaiolo: ma il tema va correttamente impostato. Per Ellen, Orlok non è soltanto un erogatore di sesso vivace, una risposta fallica freudiana: fin dall’inizio la ragazza troppo sola ha evocato qualcuno (come Laura in Le Fanu fa con Carmilla) che rispondesse al suo bisogno d’amore e di identità sessuale, al suo desiderio molto più intenso, selvaggio ed estatico di quanto il perbenino Hutter, privo di ombre ma forse anche di passione, riesca da solo a garantire. Non a caso, in un momento in cui presenta stigmi di possessione, Ellen gli rinfaccia “Non potresti mai soddisfarmi come ha fatto lui”.

È questo che Orlok ha fiutato, una specie di grido interiore di chi non vuole reprimere o nascondere i propri desideri sessuali di definizione identitaria e legati a bisogni profondi, nonostante le istanze di vergogna e di punizione di un certo contesto sociale: Eggers ha bene in mente la critica letteraria anni Ottanta sulle eroine create da autori maschi vittoriani che vengono punite e uccise per questo, ma insieme – possiamo oggi aggiungere – arrivano nella loro oscurità a comprendere profondità sconosciute. Perché quel che Ellen cerca non è banalmente sesso, ma amore realizzante, esistenzialmente ricco e pieno fino a scuotere il corpo: peccato che a fronte di Thomas che offre solo tenerezza – e lei dovrà estorcergli una performance di maggiore vivacità, per essere anche solo vagamente competitivo con quelle dell’incursore sovrannaturale – il vampiro, che si definisce “un appetito. Nulla di più” mostrerà voracità sessuale e pretese manipolatorie da incel nei confronti di Ellen (“incantatrice […] Tu sei la mia afflizione”) ma ovviamente non l’amore di cui ha bisogno lei. Che deciderà in proprio del suo corpo, fuori dal controllo di marito e medico curante (e con la solidarietà dell’illuminato Von Franz): si lascerà violare da Orlok e ne morirà, con qualche soddisfazione fisica e riuscendo a salvare la città – sia pure senza aver ottenuto ciò che nel profondo cercava, cioè semplicemente amore. Insomma una storia d’eros frustrato, senza neppure la tragedia romantica di Mina che nel film di Coppola è almeno vedova cosciente di un amore speciale da un’altra vita. A Ellen neanche ciò è concesso, e qui sta forse la sua vera tragedia – e il fallimento di una società virile di affari & predazione.

D’altronde quello che Eggers presenta non è il vampiro della letteratura romantica a cui Coppola guarda, ma è molto più simile ai suoi fratelli folklorici (che per inciso, come qui, mordono il petto e mirano al respiro-vita): una figura sfuggente, che apre da un lato all’incubus violentatore, dall’altro al demone possessore. Per dire, come le isteriche di Charcot e della Salpêtrière, ma anche come le possedute di secoli d’esorcismi, eccola inarcare il corpo, roteare gli occhi all’indietro, contorcersi e assumere pose impossibili… e non perché infettata da un fantomatico morbo vampiresco, ma per la reazione esplosiva tra un bisogno personale profondo e uno stalking feroce che tenta, preme e ossessiona. Il regista racconta di essersi voluto smarcare dai tropi filmici sul tema, cercando nelle fonti e meravigliandosi di trovare vampiri che “Non stanno nemmeno bevendo sangue, stanno solo strangolando le persone, o soffocando le persone, o fottendole a morte” (Antonia Blyth, Nosferatu: Writer-Director Robert Eggers, Lily-Rose Depp, Nicholas Hoult & Cast Reveal Their Vampire Dream, “Deadline”, 2 dicembre 2024).

 

I do not believe. I know. I have seen things in this world that would have made Isaac Newton crawl back into his mother’s womb. We have not become so much enlightened as we have been blinded by the gaseous light of science. I have wrestled with the Devil as Jacob wrestled the angel in Peniel and I tell you, if we are to tame darkness,we must first face that it exists. Meine Herren, we are here encountering the un-dead plague carrier… the Vampyr… Nosferatu!

 

Non siamo qui nelle dotte speculazioni del professor Van Helsing di Stoker, che coordina, riordina e armonizza intere biblioteche di creature vampiresche di ogni tempo e luogo in un canone sul vampiro poi ulteriormente irrigidito dalle produzioni pop: e il dotto Von Franz, più simile in questo al ben più inefficace Bulwer di Murnau, deve ammettere di sapere ben poco sulla creatura piombata in città. Una creatura che flirta con le oscurità dell’inconscio, dove i confini valgono quel che valgono: ed Ellen ha lanciato una chiamata in quell’abisso senza sapere cosa ne sarebbe emerso.

Certo, il volto di Orlok non è quello da Urlo di Munch delle prima versione (1893 – l’anno in cui potrebbe ambientarsi il Dracula di Stoker), e richiama piuttosto Vlad III l’Impalatore; mentre accantonata la polverosa redingote stile Biedermeier impostagli da Murnau, il vampiro appare qui vestito dalla costumista Linda Muir con richiami all’abbigliamento dell’esercito transilvano 1560-1650. Interessante è poi la dimensione linguistica del film, dove il conte parla una forma ricostruita della lingua dacia, in mezzo a conterranei che si esprimono (in modo corretto, e senza sbavature americane) in rumeno e romanì. Ma la definizione della creatura resta a lungo sfuggente, e solo nel raggelante finale il corpo cereo prende definizione.

Il vampiro si collega comunque qui alla tradizione dei Solomonari, gli stregoni cavalcadraghi della Solomonărie o Şolomanţă, la “scuola di Salomone” in Transilvania germanizzata da Stoker in Scolomanza (Scholomance): come viene sintetizzato dalle monache che soccorrono Thomas fuggito dal castello,

 

A black enchanter he [Orlok] was in life. Şolomanari. The Devil preserved his soul that his corpse may walk again in blaspheme.

 

E anche il suo castello conosce le sbavature e le incertezze dei sogni.

Qualcosa merita di dire sul professore svizzero Albin Eberhart Von Franz, metafisico e studioso dell’occulto: dove il primo nome richiama Albin Grau (1884-1971), produttore, scenografo e progettista di produzione del film di Murnau, nonché occultista e membro della Fraternitas Saturni, mentre il cognome richiama quello della brillante psicoterapeuta Marie-Louise von Franz (1915-1998), allieva di Jung studiosa di strutture archetipiche del mito, della fiaba e di testi alchemici. In merito trovo su FB un commento interessante di una spettatrice intelligente, Apollonie Sabatier, che pur avendo amato molto questo film ravvisa un limite. Con il suo permesso, riproduco uno stralcio della sua riflessione (scritta ovviamente con il linguaggio dei social, non era un saggio – si può condividere o meno nello specifico, ma resta una provocazione acuta su cui meditare).

 

A distanza di due settimane ho identificato con soggettiva certezza ciò che non mi è piaciuto del Nosferatu di Eggers. La cosa che ho sempre adorato del genere horror e del racconto gotico è la presenza di simboli capaci di parlare di cose scomode per la mente umana. […] Non a caso il personaggio di Von Franz (cognome di una delle più grandi allieve e collaboratrici di Jung), a mio parere, è palesemente Jung. Lo psicoanalista che svela i significati. Il film riprende letteralmente sue citazioni, come: “Io non credo, io so”. Il ruolo del personaggio è quello di spiegare agli spaventati borghesi cosa sia il male e la passione, come interpretarli e sconfiggerli. Da fan di Jung avrei potuto esserne felice. Invece il personaggio mi ha convinto poco. Mi è sembrato che il suo ruolo fosse quello di rendere noto un simbolo il cui potere catartico richiede proprio che sia lo spettatore a scoprire la dinamica dentro il suo inconscio. Questa è per me materia da saggista, non da narratore. Mi sento sempre idiota quando uno sceneggiatore mi spiega le cose, e a me non piace essere trattata da idiota. Tra una figata e l’altra in questo film mi sono spesso ritrovata a pensare: “ma perché me lo dici?”.

Eggers, lascia che il perbenista borghese dentro di noi venga divorato dal vampiro della Transilvania, non toglierci da quella ambiguità che dovremmo risolverci da soli.

 

Qualcosa che beninteso non inficia la valutazione su un’alta qualità della prova – del resto sottolineata da Sabatier nel prosieguo della riflessione – e sulla forza anche visiva e l’estrema godibilità del film. Con buona pace di critici troppo severi, un’opera di questo tipo evidenzia tutta la ricchezza e le fertili potenzialità del retelling – un narrare vampiro che ci accompagna in fondo fin dai racconti nelle grotte della preistoria.

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La terra promessa di Sion non è per i Giusti https://www.carmillaonline.com/2025/01/29/la-terra-di-sion-non-e-per-i-giusti/ Wed, 29 Jan 2025 21:00:32 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=86567 di Sandro Moiso

“Mi addormentai così, oppresso dal cupo destino che sembrava incombere su di noi. Pensavo a Brigham Young, che nella mia fantasia di bambino aveva assunto le dimensioni di un gigantesco essere malvagio, un diavolo vero e proprio, con tanto di corna e di coda.” (Jack London, Il vagabondo delle stelle – 1915)

I grandi spazi dell’ Ovest americano hanno sempre rappresentato, ancor prima che località geografiche davvero esistenti e concretamente materiali, un luogo dell’immaginario in cui storia e geografia si confondono spesso con la mitologia. Un gigantesco palcoscenico adatto ad ospitare sia la rappresentazione della “grandezza” [...]]]> di Sandro Moiso

“Mi addormentai così, oppresso dal cupo destino che sembrava incombere su di noi. Pensavo a Brigham Young, che nella mia fantasia di bambino aveva assunto le dimensioni di un gigantesco essere malvagio, un diavolo vero e proprio, con tanto di corna e di coda.” (Jack London, Il vagabondo delle stelle – 1915)

I grandi spazi dell’ Ovest americano hanno sempre rappresentato, ancor prima che località geografiche davvero esistenti e concretamente materiali, un luogo dell’immaginario in cui storia e geografia si confondono spesso con la mitologia. Un gigantesco palcoscenico adatto ad ospitare sia la rappresentazione della “grandezza” e la “vitalità” di una nazione bianca, protestante e “libera” quanto quella della sua anima più oscura e il suo volto più feroce, in cui è quasi sempre la morte a trionfare sulla vita. Come nei romanzi di Cormac McCarthy e Larry McMurtry.

Si potrebbero citare decine o, meglio, centinaia di romanzi, film, narrazioni di ogni ordine e grado e una miriade di fumetti usciti fin dall’inizio del XX secolo per dimostrare sia l’una che l’altra ipotesi. A partire da The Great Train Robbery (La grande rapina al treno), un film del 1903, scritto, prodotto e diretto da Edwin S. Porter e considerato una pietra miliare nella storia del cinema in quanto fu il primo ad utilizza una serie di tecniche innovative, come il montaggio incrociato, in cui due scene venivano mostrate in svolgimento simultaneo anche se ambientate in luoghi diversi, e frequenti movimenti della cinepresa e che costituì sia il primo film americano d’azione, di fatto il primo western della storia del cinema, che uno di quelli più popolari fino all’uscita di Nascita di una nazione (The Birth of a Nation) diretto da David W. Griffith.

Quello di Griffith fu immesso nel circuito cinematografico nel 1915 e anche il primo film muto dotato di una completa colonna sonora, ottenendo uno dei maggiori incassi della storia del cinema fino ad allora, ma che, nonostante la perizia della sua realizzazione, fin dalla sua uscita, fu sempre aspramente contestato per i contenuti razzisti verso la popolazione afroamericana, il sostegno al Ku Klux Klan e la sua misoginia.

Da una parte, quindi, il cinema dei banditi del West, pur puniti dalla legge, ma sempre rappresentati come uomini liberi e selvaggi, mentre dall’altra il film fondativo dell’immaginario cinematografico di una nazione dai contorni razzisti e patriarcali. Due narrazioni, due trame apparentemente distanti, ma appartenenti al medesimo luogo mitopoietico di cui si parlava all’inizio.

Poco dopo si sarebbero uniti al genere, oltre a quelli ispirati dalle storie di sceriffi e fuorilegge o dal lavoro dei cow-boys con le mandrie, i film che avrebbero avuto al loro centro lo scontro tra pionieri e nativi americani, questi ultimi rappresentati per molti decenni come i cattivi da combattere ed eliminare. Tesi fortemente presente e virulenta in particolare negli anni della Guerra Fredda, quando la somiglianza tra “uomini rossi” e “rossi” comunisti e, possibilmente, sovietici non aveva certo bisogno di essere sottolineata poiché la sollecitazione era davvero scoperta.

Però, già sul finire degli anni Cinquanta e all’inizio del decennio successivo, due film di John Ford, Sentieri selvaggi (The searchers, 1956) e Il grande sentiero (Cheyenne Autumn, 1964), oltre che Cavalcarono insieme (Two Rode Together, 1961), sempre dello stesso Ford, e Gli inesorabili (The Unforgiven, 1960) di John Huston iniziarono a ribaltare, almeno parzialmente, lo sguardo sul rapporto tra bianchi e nativi e, fatto non secondario, sulla possibilità di convivenza e accettazione nella comunità o nelle famiglie bianche di chi nella tradizione nativa fosse cresciuto, anche se bianco.

Ma, com’è d’uopo per ogni produzione artistica degna di rispetto, sarebbero stati gli anni successivi, infiammati dalle lotte per i diritti civili oppure contro la guerra in Vietnam o, ancora più semplicemente dalla lotta di classe in pieno sviluppo sia negli Stati Uniti che nel resto del mondo, a rimuovere gli ultimi ostacoli alla politicizzazione e radicalizzazione di un genere che aveva costituito uno dei pilasti della settima arte e di Hollywood.

Così alla cinematografia anarchica e ribelle, oltre che ultra-violenta, di Sam Peckimpah con Il mucchio selvaggio (The Wild Bunch, 1969) e Pat Garrett e Billy the Kid (1973), si sarebbero aggiunti i western di Sergio Leone, con tutto il seguito di spaghetti western spesso radicali e inneggianti alla rivoluzione oppure alla lotta contro i potenti trust bancari e ferroviari, e quelli ancora incentrati sullo sterminio dei nativi americani che la “conquista del West” aveva portato con sé.

Furono infatti film come C’era una volta il West (1968) e Giù la testa (1971) dello stesso Leone oppure Quien sabe? (1966) di Damiano Damiani, solo per citarne alcuni, a portare la Rivoluzione fin dentro il genere western, mentre Soldato blu (Soldier Blue, 1970) di Ralph Nelson, Il piccolo grande uomo (Little Big Man, 1970) di Arthur Penn, Ucciderò Willie Kid (Tell Them Willie Boy Is Here, 1969) di Abraham Polonsky e, soprattutto, lo splendido Ulzana’s Raid (Nessuna pietà per Ulzana, 1972) di Robert Aldrich avrebbero contribuito ad una radicale revisione storica del dramma delle tribù dei nativi sterminate e della prolungata persecuzione nei confronti degli stessi.

D’altra parte quelli erano gli anni del Rinascimento indiano, del Red Power e della rivolta di Wounded Knee degli Oglala Lakota, durante i quali, comunque, molti attivisti nativi furono ancora uccisi o imprigionati1.

Tutto questo, però, per giungere a parlare di American Primeval, che chi scrive non ha timore di definire come una delle migliori serie televisive mai realizzate, scritta da Mark L. Smith e diretta da Peter Berg per la piattaforma statunitense Netflix. Una miniserie western (sei puntate) che aggiunge un drammatico riferimento all’attualità pur partendo dalle basi e dalle svolte avvenute nel genere e fin qui anticipate e riassunte.

Ambientata, con estrema precisione storica, nello Utah del 1857, la serie rinvia visualmente alla ricostruzione e all’attenzione per i particolari della vita degli indiani e dei mountain men che già aveva contraddistinto l’opera fino ad ora più famosa di Mark L. Smith come sceneggiatore: Revenant – Redivivo di Alejandro González Iñárritu, del 2015 e interpretato da Leonard Di Caprio. Opera cinematografica che ebbe, però, il difetto di tradire nella sostanza il romanzo dallo stesso titolo di Michael Punke (2002), edito in Italia da Einaudi nel 2014.

Anche questa, se si vuole, è una storia di sopravvivenza in un ambiente estremamente ostile sotto tutti i punti di vista, ma invece di essere basata sulle vicende individuali di un unico personaggio principale, il cacciatore di pellicce Hugh Glass, questa “America primordiale” si trasforma in un’autentica tragedia collettiva che vede coinvolti uomini, donne, bambini, soldati, nativi americani di varie tribù tra loro ostili, uomini delle montagne, coloni e profeti religiosi di una terra promessa soltanto per i fedeli “bianchi”.

Ma, ancor prima di passare all’analisi dei vari aspetti di una serie assolutamente innovativa dal punto di vista assunto per narrare le vicende, vanno qui sottolineate sia la plumbea e magnifica fotografia di Jacque Jouffret, già cameraman per il film Into the wild diretto da Sean Penn nel 2007, di cui ritornano le atmosfere fredde e selvagge legate ad una Natura molro più grande dell’uomo, e l’interpretazione, molto ben calibrata sui personaggi, degli interpreti principali.

Taylor Kitsch è un solitario mountain man, Isaac Reed, cresciuto in una tribù di Shoshone dopo essere stato rapito da bambino, e perseguitato dal ricordo della morte della moglie, appartenente a quella stessa tribù, e del figlio per mano di cacciatori di scalpi bianchi. Mentre Betty Gilpin veste i panni di Sara Holloway-Rowell, in fuga per portare suo figlio Devin dal padre, dopo essere stata accusata per l’omicidio e la rapina del suo ricco e violento marito, e per questo motivo inseguita da una spietata posse di cacciatori di taglie.

Kim Coates interpreta invece Brigham Young, il primo governatore autonominatosi del Territorio dello Utah e il secondo presidente della Chiesa dei Santi degli Ultimi Giorni, dopo la morte del suo fondatore Joseph Smith2.
Shea Whigham riesce invece a dare corpo e volto a Jim Bridger, il fondatore e leader della stazione commerciale di Fort Bridger intorno a cui ruotano i principali interessi di espansione territoriale e politica dei mormoni di Young. Entrambi, Brigham (1801-1877) e Bridger (1804-1881), realmente esistiti.

Saura Lightfoot-Leon una giovane donna mormone, Abish Pratt, moglie più per dovere che per amore o convinzione di Jacob, un credente nella Chiesa dei Santi degli Ultimi Giorni, da cui sarà separata violentemente nel corso di un massacro compiuto da Mormoni e da mercenari della tribù Paiute, ai danni di una carovana di coloni diretta in California, interamente, o quasi, sterminata a Mountain Meadows. Ma che troverà tra gli Shoshone, dopo l’iniziale rifiuto, il proprio destino di donna coraggiosa e ribelle al patriarcato bianco.
Infine, altrimenti l’elenco risulterebbe troppo lungo, Derek Hinkey, nei panni di Piuma Rossa, un guerriero Shoshone, capo del Clan del Lupo, che disprezza e combatte con orgoglio e determinazione gli americani bianchi per la loro aggressione contro il suo popolo e la sua terra.

Nel corso delle sei puntate tutte le contraddizioni e gli orrori che stanno alla base della formazione di un paese che si vorrebbe “grande e felice”, vengono violentemente e spietatamente al pettine. Non c’è carità, non c’è pietà, non c’è altruismo nelle vicende narrate. Per ognuno la prima cosa è sopravvivere, a costo di tradire gli amici oppure i soldati che si comandano, mentre la miseria non è motore di altro che non sia la brutalità o l’efferatezza dei crimini che ne derivano.

Sullo sfondo rimane tangibile la presenza di una guerra civile, una guerra di tutti contro tutti come viene spiegato fin dalla prima puntata, iniziata ben prima delle tradizionali date fornite ancora oggi dai libri di storia e continuata, pressoché ininterrotta, fino ai nostri giorni3. La stessa tenuta dei soldati a cavallo dell’epoca sembra, oggi, già contenere in sé la futura divisione tra Sud e Nord degli Stati Uniti, tra Confederazione e Unione: divisa blu e mantella grigio-azzurra. Così come la disputa tra due ben distinti presidenti: quello dei mormoni e quello ufficialmente in carica.

Ognuno va ad ovest inseguendo un sogno, per cercare fortuna, non importa se a danno di chiunque altro, non importa se “bianco” o “rosso”, ma soprattutto rosso. Il sogno va realizzato. Che si tratti di una città che dovrebbe sorgere sulla pista per l’Oregon a partire da un miserabile posto di scambio per pellicce, merci, rye whiskey, puttane e cacciatori di taglie oppure del Regno dei Santi degli Ultimi Giorni, la terra di Sion voluta dal Signore per i suoi fedeli e i suoi, feroci, profeti.

Ed è proprio il tema dell’occupazione mormone dello Utah a parlare allo spettatore di realtà ben più vicine, come quella della guerra in Palestina e del genocidio perpetrato a Gaza in nome del sionismo più sanguinario. Le premesse sono le stesse: un popolo perseguitato a lungo per la propria fede religiosa ritiene “sacro” e intangibile il diritto di fondare un proprio Stato. Retto da leggi religiose e governato da uomini spietati nella difesa del popolo di Dio, sia che si tratti della religione ebraica che di quella ispirata all’insegnamento di Joseph Smith.

Così, la terra di Sion dovrà essere fondata e difesa ad ogni costo, senza pietà per chiunque non ne accetti i precetti o i comandamenti. Il denaro scorre silenziosamente sotto le vaghe promesse del Regno e, come nel caso di Jim Bridger, può contribuire alla risoluzione di fittizie occasioni di contrasto, create soltanto per alzare il valore della posta in gioco. Soltanto Jack London, in uno dei sogni narrati nel Vagabondo delle stelle4, era stato così spietato e lucido nei confronti degli appartenenti ad una chiesa, quella mormone appunto, che della propria fede avrebbero fatto motivo di esclusione e dominio territoriale nei secoli a venire. Cosa prolungatasi fino ad oggi proprio nello Utah.

E’ giusto ricordare London poiché le vicende di American Primeval prendono spunto proprio dal massacro di Mountain Meadows narrato nelle pagine di Il vagabondo delle stelle che come ricorda, nella nota a cura del traduttore Stefano Manferlotti, l’edizione Adelphi:

L’episodio ricostruito da London è rigorosamente storico. Nel maggio del 1857 una carovana di pionieri che comprendeva centoquarantadue persone lasciò l’Arkansas diretta in California. Giunti nella località di Mountain Meadows, vennero attaccati da un folto gruppo formato da milizie mormoni e indiani. Dopo una prima scaramuccia i mormoni, allora in rotta con il governo del presidente James Buchanan, convinsero i pionieri ad arrendersi, promettendo loro salva la vita. Li sterminarono tutti, risparmiando solo i bambini più piccoli. Dovettero trascorrere vent’anni prima che i fatti fossero ricostruiti con una precisione sufficiente a mandare davanti al plotone di esecuzione John Dee Lee, il capo religioso mormone al quale London fa riferimento5.

Gli unici ad uscire dalle vicende nobili e integri nel loro orgoglio, anche se destinati al massacro, saranno proprio gli Shoshone con la loro sciamana e matriarca Winter Bird, la madre di Piuma Rossa e madre adottiva di Reed. Consci di appartenere ad un mondo ben più vasto di quello ricostruito dall’immaginario dell’avidità bianca e dei suoi precetti religiosi. Un mondo per cui vale la pena di morire in sua difesa e non per appropriarsene, di cui soltanto il capitano Edmund Dellinger, l’ufficiale comandante il distaccamento di cavalleria destinato ad essere distrutto dalla violenza dei mormoni, prenderà pienamente coscienza nelle sue ultime riflessioni notturne.

Un mondo, quello dei nativi, in cui le donne combattono come gli uomini, ferocemente, per la difesa della terra e della tribù e che condurrà anche la giovane Abish ad appartenergli e difenderlo. Fino alla morte.
Un discorso complessivo, quello della serie, in cui la difesa dell’ambiente e la ricostruzione del ruolo della donna in società strutturalmente lontane da quella patriarcale bianca, ben si accompagnano alla critica del colonialismo e del suo prodotto peggiore, quello di carattere messianico che, all’epoca come oggi, non può far altro che alimentare le peggiori violenze e i più oscuri impulsi nelle società che ancora in esso si riconoscono. Accettandone crimini e abusi in nome di un preteso diritto alla difesa di chi è stato perseguitato, in nome di una giustizia superiore che, certamente, per i Giusti non può essere tale.

Ancora una volta quindi, come avrebbe detto Elio Vittorini: «L’America non è più America, non più un mondo nuovo: è tutta la Terra.» Mai come in questo caso.

***

Questo intervento è dedicato, per ragioni che si sperano evidenti, a Leonard Peltier, militante per i diritti dei nativi americani uscito dal carcere il 20 gennaio 2025, dopo quasi cinquant’anni di detenzione per essere stato condannato a due ergastoli per gli incidenti alla riserva indiana di Pine Ridge dove due agenti speciali dell’FBI, Ronald A. Williams e Jack R. Coler, morirono nel 1975 nel corso di una sparatoria.


  1. Si vedano in proposito: A. Mattioli, Tempi di rivolta. Una storia delle lotte indiane negli Stati Uniti, Giulio Einaudi editore, Torino 2024; J. Brand, L’FBI contro l’American Indian Movement. Vita e morte di Anna Mae Aquash, Xenia Edizioni, Milano 1997 oltre ai fondamentali J. V. Deloria, Custer è morto per i vostri peccati. Manifesto indiano, Jaca Book , Milano 1994 (ed. in lingua originale 1969) e S. Steiner, Uomo bianco scomparirai, Jaca Book, Milano 1978.  

  2. Joseph Smith Jr. (1805 – 1844), primo presidente della Chiesa dei santi degli ultimi giorni e predicatore del Libro di Mormon, che fu lui stesso a pubblicare il 26 marzo del 1830 e considerato dai membri della Chiesa da lui stesso fondata un libro rivelato. Il cui titolo deriva da Mormon, un profeta che, secondo il testo stesso, avrebbe compendiato la storia del suo popolo incidendola su tavole d’oro.  

  3. Si veda in proposito: S. Moiso, E il folle mondo viene avanti rotolando. Immagini della Guerra Civile nel sogno americano, in S. Moiso (a cura di), Guerra civile globale. Fratture sociali del Terzo Millennio, Il Galeone Editore, Roma 2021, pp. 287- 329 e, ancora, S. Moiso, Paul Auster e i fantasmi della guerra civile americana 2.0 (qui).  

  4. J. London, Il vagabondo delle stelle, Adelphi, Milano 2005, pp. 131-185.  

  5. J. London, op. cit., p. 185.  

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Film che avrei voluto non finissero mai https://www.carmillaonline.com/2025/01/27/film-che-avrei-voluto-non-finissero-mai/ Mon, 27 Jan 2025 06:00:24 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=86517 di Roberta Cospito

Ci sono film che avrei voluto non finissero mai, almeno tre.

In un ordine non sentimentale perché non sarei in grado di esprimere una preferenza, ma in ordine cronologico, si tratta di Caro Diario (1993) di Nanni Moretti. e nello specifico il primo episodio intitolato In Vespa, poi È stata la mano di Dio di Paolo Sorrentino (2021) e infine Perfect days di Wim Wenders (2023).

Nanni Moretti, all’epoca uno splendido quarantenne, in sella alla sua amata Vespa 125 blu ci porta in giro per una Roma semideserta in una giornata d’estate e, attraversando i quartieri romani – dalla Garbatella a Spinaceto, [...]]]> di Roberta Cospito

Ci sono film che avrei voluto non finissero mai, almeno tre.

In un ordine non sentimentale perché non sarei in grado di esprimere una preferenza, ma in ordine cronologico, si tratta di Caro Diario (1993) di Nanni Moretti. e nello specifico il primo episodio intitolato In Vespa, poi È stata la mano di Dio di Paolo Sorrentino (2021) e infine Perfect days di Wim Wenders (2023).

Nanni Moretti, all’epoca uno splendido quarantenne, in sella alla sua amata Vespa 125 blu ci porta in giro per una Roma semideserta in una giornata d’estate e, attraversando i quartieri romani – dalla Garbatella a Spinaceto, concludendo a Ostia, nei pressi del luogo in cui fu ucciso Pier Paolo Pasolini –, ci offre una serie di riflessioni che hanno il tono delle confidenze di un vecchio amico.

Questo episodio è conosciuto anche per il sorprendente cameo dell’attrice Jennifer Beals – nota principalmente per il ruolo di Alexandra “Alex” Owens nel film Flashdance, di cui Moretti tesse le lodi – mentre passeggia lungo le mura di Via di Porta Ardeatina; ricordo con affetto il film anche per un’altra sorprendente quanto divertente apparizione, quella del regista Carlo Mazzacurati che viene rappresentato nei panni di un critico cinematografico in preda a feroci rimorsi per aver scritto recensioni incomprensibili per alcuni film destinati a un pubblico “elitario” e altre lusinghiere per film che, in realtà, risulteranno lungometraggi di basso livello.

L’atmosfera che crea il regista col suo girovagare in sella alla Vespa, dichiarando ai pochi romani che incontra di essere impegnato in sopralluoghi per un suo futuro film, è di una quieta serenità e ci (di)mostra che avere tempo a disposizione serve anche per portare a spasso non solo il corpo, ma pure la mente potendo, così, meglio ragionare sui più disparati argomenti: quello che eravamo e quello che siamo diventati; i luoghi comuni nascosti nel linguaggio quotidiano; le scelte di vita fatte anche perché dettate dalla moda; l’inevitabile conclusione di trovarsi in accordo sempre e comunque, per pensiero e opere, con una minoranza di persone; la confortante bellezza della musica e della danza; la deriva del pensiero politico di alcuni esponenti della sinistra.

Paolo Sorrentino, all’epoca uno splendido cinquantenne, invece, mi ha incantato con le immagini della Napoli della sua gioventù, in cui un ragazzo – Fabietto, un probabile suo alter ego – cerca di confrontarsi con il vuoto lasciato dalla morte dei genitori e con la triste circostanza di non essere riuscito a vederne i corpi, cosa che rende ancora più difficile e doloroso il dire addio a chi ti ha messo al mondo.

Anche in questo film c’è, seppure solo nei minuti iniziali, una Vespa blu su cui – senza casco e oltre la portata di legge –, in un breve giro per Napoli, Fabietto si sposta con entrambi i genitori, ignari del poco tempo che avranno ancora a disposizione per stare insieme; l’immagine è di assoluta spensieratezza e gioia.

L’imperativo “non ti disunire” – l’essere coerenti con se stessi, immagino – che il regista Antonio Capuano (interpretato da Ciro Capano) urla più volte al protagonista, il dovere di raccontare qualcosa quando si mette in scena un film ma in generale quando ci si rivolge a qualcuno richiedendone l’attenzione, l’idea che ci si può ribellare a una realtà scadente creando qualcosa di bello e alternativo e il conservare memoria dei propri progetti anche se non andati in porto, mi sembrano interessanti spunti di riflessione cui porta la visione di questo film.

Ritengo molto suggestivo il titolo È stata la mano di Dio il cui riferimento calcistico colloca il racconto in un preciso momento della storia di Napoli e della vita di Fabietto; nel calcio indica la rete segnata di mano da Diego Armando Maradona nei quarti di finale del Mondiale del 1986, investendo il giocatore di un’aura di divinità che verrà accresciuta dal fatto che la presenza del “Pibe de oro” nella squadra partenopea, salverà la vita al “giovane Sorrentino” che deciderà di rimanere a casa a guardare la partita invece che condividere la sorte dei genitori che moriranno in un grave incidente domestico, nella loro casa di montagna. Questo film è una lettera d’amore del regista non solo ai suoi genitori, ma anche a Napoli e a Maradona.

E poi Perfect Days in cui Wim Wenders, uno splendido ottantenne, racconta la storia di Hirayama, un uomo tranquillo che, nella Tokio contemporanea, si guadagna da vivere pulendo i bagni pubblici e trascorre il suo tempo libero scattando fotografie agli alberi (con una macchina analogica), ascoltando musicassette e leggendo libri.

Questo film, con una colonna sonora indimenticabile – oltre al motivo di Lou Reed che dà il titolo al film, s’ascoltano brani di Patti Smith, The Animals e tanti altri –, mi ha ricordato come anche il lavoro più umile può essere svolto con grande dignità; come possa dare pace l’accettarsi per come si è; come sia gratificante il muoversi nella nostra quotidianità con gentilezza, amore e rispetto; come sia possibile prendere le distanze dal nostro passato senza provare rancore nei confronti di chi ci ha ferito o come sia più facile concentrarsi sugli altri quando si sono eliminate dalla propria vita le cose (e le persone) superflue. Insomma, Wim Wenders pare dirmi che un altro mondo (in questo mondo) è possibile o per lo meno un altro modo di vivere, e che godere appieno di quello che ci può regalare ogni singola giornata è alla nostra portata.

Non so identificare con certezza il motivo per cui avrei voluto che questi film non finissero mai, ma la sensazione è proprio stata questa, il desiderio che continuassero ancora: forse perché sono film lenti e sinceri che sono riusciti a farmi riflettere sul senso della vita e su quanto vissuto sinora.

O per aver raccontato per immagini città con una particolare loro storia e “grande bellezza”: Roma, Napoli e Tokio.

O forse perché sono storie di personaggi che, nonostante la loro semplicità, riescono a raccontare grandi storie. Ritengo ognuno di noi abbia questa possibilità: vivere semplicemente così d’avere grandi storie da raccontare.

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Il poeta dell’infinito https://www.carmillaonline.com/2025/01/18/il-poeta-dellinfinito/ Sat, 18 Jan 2025 21:03:23 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=86554 di Mauro Baldrati

“La prima parte del film è atroce. Il giovane Giacomo è prigioniero, ostaggio in una casa-sarcofago costruita in un paese-cimitero. La casa è popolata da spettri, o forse da demoni. Il ragazzo, taciturno, stravolto, è sempre chino sui tomi della enorme biblioteca del padre Monaldo, insieme al fratello e all’amata sorella Paolina. Fuori dalla finestra una vita sembra esistere, una vita popolare fatta di carretti, di cavalli, di grida. Una vita estranea, nel silenzio funebre della casa. Si è fatto un gran parlare, nelle recensioni, di Monaldo come di un padre “severo” ma che ama suo figlio, lo [...]]]> di Mauro Baldrati

“La prima parte del film è atroce. Il giovane Giacomo è prigioniero, ostaggio in una casa-sarcofago costruita in un paese-cimitero. La casa è popolata da spettri, o forse da demoni. Il ragazzo, taciturno, stravolto, è sempre chino sui tomi della enorme biblioteca del padre Monaldo, insieme al fratello e all’amata sorella Paolina. Fuori dalla finestra una vita sembra esistere, una vita popolare fatta di carretti, di cavalli, di grida. Una vita estranea, nel silenzio funebre della casa. Si è fatto un gran parlare, nelle recensioni, di Monaldo come di un padre “severo” ma che ama suo figlio, lo protegge. Insomma, tanto per non farsi mancare un po’ di buonismo all’italiana, una sorta di recupero della figura paterna. In realtà Monaldo è ben rappresentato per quello che è: un lugubre reazionario bigotto, che protegge e stima suo figlio solo se accetterà di trasformarsi in uno dei tetri abati letterati nerovestiti, cultori di una letteratura morta scritta da autori decrepiti (da loro stessi uccisi e mummificati). Lo ama e lo amerà solo se deciderà di rispettare la chiesa, la tradizione, la visione conservatrice antiliberale. E la madre è persino peggio: una mummia nera, “neversmiling”, punitiva, anaffettiva, minacciosa.

In questo contesto il giovane Giacomo non è un ribelle. E neanche un rivoluzionario. Si avvita nel suo destino, nella sua solitudine. Probabilmente sviluppa, o affretta, la propria malattia. Se vuole uscire dal sarcofago, lo fa chiedendo. Lo fa supplicando. Implora il padre, e il trucido, bigottissimo zio di lasciarlo andare. Di concedergli la libertà. E avrà in cambio un rifiuto, mentre il coperchio del sarcofago sembra richiudersi, con una sinistra evocazione di E Johnny prese il fucile, di Dalton Trumbo.”

Quanto sopra è la sezione iniziale della mia recensione (apparsa qui su Carmilla il 1 novembre 2014,) del precedente film su Leopardi, Il giovane favoloso. E’ sempre un poco imbarazzante autocitarsi, ma il passo è perfetto anche per la prima parte del nuovo Leopardi il poeta dell’infinito, andato in onda in due parti su Rai 1 il 7 e l’8 gennaio, visibile su Rai Play. Infatti è inevitabile un confronto, quanto meno un riferimento all’opera precedente. Non proprio un confronto di qualità, perché il film di Martone interpretato da Elio Germano resta inarrivabile, ma per le due diverse versioni, le scelte dei personaggi e degli episodi riferiti alla vita sofferta del più grande poeta italiano. In questo senso il Leopardi di Sergio Rubini è più fiction, si concede più licenze narrative e approfondimenti – facilitato anche dalla durata doppia della pellicola. Intano riempie il salto temporale tra la vita da sepolto vivo nella mostruosa biblioteca di famiglia, e l’arrivo a Firenze dove vivrà la fase di apocalittica infelicità per l’amore non corrisposto per la contessa Fanny. Una infelicità che noi persone più o meno “normali” non possiamo immaginare, perché è fuori dalla nostra portata di terrestri: la caduta in un buco nero di antimateria in grado di disintegrare ogni razionalità materiale. Ma è anche una straordinaria forza motrice per la creazione, come un rigenerarsi della vita da una carogna putrefatta. Ecco che Giacomo Leopardi appartiene a quella schiera di artisti che sono stati costretti a vivere il loro strazio, il loro fallimento per donare al mondo opere immortali: Van Gogh, Baudelaire, Pavese, Proust, Kafka, solo per citare i maggiori.

Rubini, attraverso il giovane interprete Leonardo Maltese, cerca di seguire il suo personaggio nelle varie fasi della vita, operando alcuni “aggiustamenti”: elimina le deformità dal corpo del Leopardi reale, ne fa un ragazzo sì esile e malaticcio, ma che talvolta vediamo correre all’aperto coi capelli al vento, e lo trasforma in un vero ribelle. Ancora ragazzino opera una frattura strutturale con la famiglia, si strappa di dosso l’abito nero da pretino che gli è stato destinato e quando è pronto lascia finalmente la prigione di Recanati (ma finisce per tornarci, esausto, senza soldi, e qui come non pensare al Rimbaud che si rifugia a Charleville). Passa da Bologna, dove vivrà la fase 1 dello strazio amoroso impossibile con la contessa Malvezzi, un episodio scavalcato da entrambi i film, fino alla discesa agli inferi dell’innamoramento platonico per la contessa Fanny. Si può dire che questo sia il nucleo di tutto il film, il nocciolo duro del binomio infelicità/creazione. Leopardi vive un breve periodo felice a Firenze con la contessa e il nuovo – e forse unico – amico Ranieri, personaggio reale a sua volta stiracchiato per esigenze narrative, trasformato in un aitante playboy che passa da una dama all’altra. Leopardi è sereno, è allegro perché è inconsapevole: non sa che l’oggetto del suo amore, che lo riempie di attenzioni e lo venera come grande poeta e filosofo, è innamorata di Ranieri. La scoperta della verità gli esploderà in faccia e lo abbatterà come un alberello raso al suolo da un uragano. Avvelenato, divorato dal dolore e dalla frustrazione subirà una straordinaria variante, operata dall’astuto regista: forse per vivere con la fantasia il suo amore negato, si trasformerà in un nuovo Cyrano, scrivendo lettere poetiche a Fanny firmandosi Antonio Ranieri.

Questo episodio centrale del film, l’amore impossibile idealizzato che contribuisce a concimare il dolore mortifero che genera l’energia della creazione, è esemplare. Leopardi è votato totalmente alla sua disperazione amorosa, non vede che Fanny, non può concepire nessun’altra all’infuori di Fanny. Non sappiamo se la scelta del regista e degli sceneggiatori (tra i quali lo stesso Rubini) sia studiata a tavolino, ma il personaggio Leopardi, se solo lo volesse, potrebbe avere la sua dote di amore reale carnale. Infatti la figlia di un editore che, tra le trappole della censura austriaca, pubblicherà le sue opere, è innamorata di lui, sarebbe pronta a seguirlo. Ma lui non la vede, non è interessato; è risucchiato dal suo Infinito, un vortice dal quale non può, oppure non vuole liberarsi. Forse lui è Poesia, come Kafka che non può sposarsi perché è Letteratura?

Le svolte fiction, piccole e grandi, puntano anche a un’interfaccia politica. Leopardi è un materialista, per certi aspetti un eversivo. A Firenze entra in contatto con la comunità di patrioti liberali che ruotano intorno al Gabinetto Scientifico Letterario di Giovan Pietro Vieusseux che lo accolgono con tutti gli onori e cercano in ogni modo farne un testimonial per la causa. Rubini si diverte a prenderli in giro, a mostrarceli come dei trinariciuti un po’ tonti, specialmente Niccolò Tommaseo, un trombone saccente che detesta, perché lo invidia, Leopardi. Ma lui non ci sta, è un artista individualista che non crede, forse perché ne conosce la vera natura, alle beghe politiche umane. Appartiene a un’altra specie, forse dei santi, forse delle anime perdute. Con la sua voce flebile e sommessa (a tratti persino eccessivamente bassa, per cui bisogna alzare il volume della tv) stronca educatamente i loro entusiasmi patriottici.

Oppure la presenza misteriosa di un infiltrato che informa la polizia politica austriaca dei fatti e misfatti politici-letterari dei patrioti, provocando sequestri e addirittura arresti: la scoperta in una variante spy story della sua identità farà restare tutti basiti, personaggi e spettatori del film.

Verso il finale, in una Napoli annientata dal colera, arriva a destinazione il breve viaggio della cometa Leopardi. Negli ultimi istanti vorrà portare con sé, sul cuore, una delle lettere d’amore che Fanny gli ha scritto credendolo Antonio. Non è spoyler, è scritto da più parti. Un piccolo, forse unico, lampo patetico, che tuttavia si nota appena, come un granello di polvere nel Maestrale.

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D’istruzione pubblica. Il film sul neoliberismo scolastico https://www.carmillaonline.com/2025/01/07/distruzione-pubblica-il-film-sul-neoliberismo-scolastico/ Mon, 06 Jan 2025 23:01:21 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=86293 di Luca Cangianti

La scuola neoliberista sta creando un nuovo tipo di essere umano, e non è una buona notizia. Questa potrebbe essere la sintesi di D’istruzione pubblica, il film documentario di Federico Greco e Mirko Melchiorre che, terminate le riprese, è adesso in fase di produzione.

Quando sarà possibile vedere il film in sala?

Melchiorre. Se tutto andrà bene nella primavera di quest’anno. Adesso, come per i nostri film precedenti, stiamo raccogliendo fondi, anche mediante crowdfunding. È una scelta politica che ci permette di essere completamente indipendenti.

Perché avete scelto la scuola come tema di questo nuovo lavoro?

Melchiorre. Per [...]]]> di Luca Cangianti

La scuola neoliberista sta creando un nuovo tipo di essere umano, e non è una buona notizia. Questa potrebbe essere la sintesi di D’istruzione pubblica, il film documentario di Federico Greco e Mirko Melchiorre che, terminate le riprese, è adesso in fase di produzione.

Quando sarà possibile vedere il film in sala?

Melchiorre. Se tutto andrà bene nella primavera di quest’anno. Adesso, come per i nostri film precedenti, stiamo raccogliendo fondi, anche mediante crowdfunding. È una scelta politica che ci permette di essere completamente indipendenti.

Perché avete scelto la scuola come tema di questo nuovo lavoro?

Melchiorre. Per completare la nostra trilogia sugli effetti devastanti del neoliberismo. Abbiamo iniziato nel 2017 con Piigs sull’austerità, nel 2022 con C’era una volta in Italia abbiamo poi affrontato la catastrofica situazione della sanità, e ora ci focalizziamo su un altro pezzo di stato sociale sottoposto a bombardamento.

Cinema ed economia non è un binomio intuitivo. Voi però vi siete caratterizzati proprio in questo modo.

Melchiorre. Ma certo! Senza economia non si capisce nulla.
Greco. Se non ti occupi di economia, essa si occuperà comunque di te. Per noi l’austerità è un problema, per il capitale una soluzione. La presunta scarsità economica permette allo stato di allocare risorse secondo i suoi interessi di classe superando facilmente le rivendicazioni popolari. L’austerità è un’arma affilata per contrastare il conflitto sociale, uno strumento formidabile per il ricatto salariale.

Anche in questo film usate una struttura narrativa a doppio binario: da una parte la storia fatta di persone comuni, e dall’altro un’inchiesta ad ampio respiro nella quale intervistate gli esperti del settore. Qual è l’obiettivo di questa scelta?

Greco. Rendere caldi, cinematografici, argomenti complessi, ma decisivi per la vita quotidiana della larga maggioranza della popolazione. Nel caso di D’istruzione pubblica al livello micro seguiamo la vita di Lorenzo Varaldo. Questo dirigente scolastico torinese si scontra con gli effetti delle varie riforme scolastiche seguite a quella Berlinguer del 1999 che inaugura l’autonomia scolastica. In sintesi, il compito dei dirigenti scolastici – che Varaldo rigetta – ormai non è più quello di aiutare gli insegnanti a svolgere il loro lavoro nel miglior modo, ma gestire montagne di burocrazia e trovare i soldi per mandare avanti la scuola, che invece dovrebbe essere un servizio pubblico garantito dall’articolo 3 della Costituzione.

Ma che c’è di strano che in una società capitalistica la scuola sia gestita capitalisticamente?

Greco. Niente! La scuola italiana è stata sempre una scuola borghese, nonostante alcune aperture democratiche fatte negli anni sessanta e settanta. Tuttavia con la Riforma Berlinguer assistiamo a un cambio di passo metodologico. La conoscenza viene ridotta a competenza: oggi la scuola deve insegnare «cose utili» piegando gli studenti alle dinamiche del mercato. Ma attenzione: questo non significa utilizzare solo un nuovo metodo di insegnamento, bensì fabbricare un essere umano nuovo, deprivato di capacità critica, di possibilità di ascensione sociale, e quindi di cittadinanza.

Lorenzo Varaldo, il protagonista di D’istruzione pubblica

Una riforma che funzionalizza la scuola al capitalismo contemporaneo è stata fatta dalla sinistra. Perché?

Greco. Come ci ha spiegato bene Massimo Bontempelli, la sinistra storica portava con sé due istanze: una modernizzatrice e l’altra emancipatrice. Con la nascita del neoliberismo (la periodizzazione può essere fissata nel 1979, nel 1989 o nel 1992 a seconda dei vari contesti tematici o geografici) la sinistra abbandona la seconda istanza. Tutto ciò che è nuovo è buono, ma il nuovo è proprio il neoliberismo, cioè il capitalismo non regolamentato. L’autonomia scolastica infatti altro non è che una sorta di autonomia differenziata applicata alla scuola. È l’aziendalizzazione dell’istruzione che trasforma i presidi in dirigenti scolastici, così come nella sanità ha trasformato le Usl (Unità sanitarie locali) in Asl (Aziende sanitarie locali). In questo modo quel po’ di otium che c’era nella scuola italiana si è trasformato in mero negotium. Ricordo infatti che la parola latina schŏla deriva dalla greca scholé, che in origine significava (come otium per i latini) tempo libero, piacevole uso delle proprie disposizioni intellettuali, indipendentemente da ogni bisogno o scopo pratico o profittevole. Negotium, cioè attività, occupazione, affare, era invece la negazione della scuola (nec otium).
Melchiorre. Insomma, per usare una metafora sportiva, la dialettica tra sinistra e destra politica con l’emergere del neoliberismo è che la sinistra alza la palla e la destra schiaccia.

Il vostro cinema mi sembra una piattaforma al servizio delle lotte sociali. Oltre a uscire nelle sale e a rimanerci a lungo, i vostri film vengono proiettati in centri sociali, associazioni culturali, sedi sindacali, e servono a introdurre dibattiti, a far riflettere insieme centinaia di persone.

Greco. Il nostro obiettivo è mettere insieme giornalismo e cinema per offrire ai movimenti strumenti di lotta. Le narrazioni hanno un sostrato mitico e aiutano a smuovere le coscienze. Il cinema inoltre è una riunione fisica di persone che rimanda a un’idea di comunità imprescindibile per chi voglia lottare contro l’ingiustizia e la disuguaglianza.
Melchiorre. Oltre a ciò noi ci auguriamo che i nostri film ispirino anche altri film-maker per generare un grande e inarrestabile onda d’immaginario d’opposizione.

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New horror. L’orrore messo in scena dalle registe https://www.carmillaonline.com/2025/01/05/new-horror-lorrore-messo-in-scena-dalle-registe/ Sun, 05 Jan 2025 21:00:44 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=85651 di Gioacchino Toni

Nuovo cinema horror (Mimesis, 2024) di Emanuele Di Nicola indaga lo stato dell’horror del nuovo millennio al fine di individuare cosa spaventi oggi e come ciò venga dato a vedere nei film. Dopo una prima parte dedicata all’analisi di singole opere, l’autore traccia alcune tendenze generali del genere occupandosi delle paure legate all’universo internet, della produzione italiana, dei film realizzati da donne, delle produzioni seriali e dell’insistito ricorso a sequel, prequel e requel.

Dopo esserci soffermati sulla panoramica proposta dall’autore sul Male nella/della Rete messo in scena dal cinema horror del nuovo millennio, vale la [...]]]> di Gioacchino Toni

Nuovo cinema horror (Mimesis, 2024) di Emanuele Di Nicola indaga lo stato dell’horror del nuovo millennio al fine di individuare cosa spaventi oggi e come ciò venga dato a vedere nei film. Dopo una prima parte dedicata all’analisi di singole opere, l’autore traccia alcune tendenze generali del genere occupandosi delle paure legate all’universo internet, della produzione italiana, dei film realizzati da donne, delle produzioni seriali e dell’insistito ricorso a sequel, prequel e requel.

Dopo esserci soffermati sulla panoramica proposta dall’autore sul Male nella/della Rete messo in scena dal cinema horror del nuovo millennio, vale la pena fare ancora riferimento a quanto scrive Di Nicola nel volume a proposito di alcuni film horror realizzati da registe nei primi decenni del nuovo millennio a partire da Titane (2021) di Julia Ducournau, film vincitore della Palma d’oro al Festival di Cannes su cui  si sofferma maggiormente l’autore.

Il film racconta la metamorfosi di una bambina, Alexia (Agathe Rousselle), che, a causa di un incidente stradale, si ritrova a dover convivere con una placca di titanio nel cranio e che, a partire da quel momento, inizia a sviluppare una morbosa attrazione per le automobili che la porta, ormai cresciuta, a fondersi sempre più con l’artificio meccanico. La metamorfosi procede per gradi: dal contatto con l’automobile cercato sin dall’uscita dall’ospedale ove le è stata impiantata la placca metallica, alle sensuali performance che compie come ballerina esibendo il suo corpo tra le lamiere di qualche auto fiammeggiante a sua volta esposta, sino all’accoppiamento sessuale vero e proprio con un’autovettura da cui uscirà ingravidata.

Se, come sostiene Di Nicola, la fusione con la macchina sembra condurre la protagonista a reagire con determinazione nei confronti di una realtà che la circonda e da cui si sente soffocata, tanto da cercare una disperata forma di riscatto attraverso una serie di efferati omicidi – in tal senso sarebbe da leggere il ricorso al brano musicale Nessuno mi può giudicare (1966) di Caterina Caselli – nella macchinizzaizone della protagonista è però possibile scorgere anche, come scrive Paolo Lago (Corpi, macchine, spettacolo da “Titane” a “Blade Runner”, 2021), la triste deriva che conduce la ragazza al farsi essa stessa macchina e merce.

Nell’analizzare Titane, riprendendo le riflessioni di Jean Baudrillard (La Société de consommation, 1970), Lago propone una lettura del film a partire dalla celebre sequenza dell’atto sessuale tra la donna e l’automobile che indica come «il fantasma irrappresentabile all’interno della società dei consumi. Esso è soltanto l’altra faccia dell’esibizione spettacolare che tanti sguardi maschili osservavano senza alcuna inibizione. Julia Ducournau è andata al di là dell’irrappresentabile mettendo di fronte ai nostri occhi le immagini di questo fantasma» Ed ancora: «nel momento dell’atto erotico con l’automobile, è come se la ragazza venisse da essa violentata […]. L’automobile assume valenze indubbiamente ‘maschili’ e i fari luminosi che, nel buio, sono puntati contro Alexia (come il ‘cliente’ di una prostituta che, dalla sua auto, vuole guardare la sua merce), sembrano un’appendice dello sguardo ossessivo lanciatole dai fan nei momenti della sua esibizione».

L’accoppiamento, secondo Lago, apparirebbe dunque come «la rappresentazione della violenza insita nelle dinamiche spettacolari che espongono il suo corpo di fronte agli sguardi pornografici dei fan».

Costretta alla fuga, Alexia decide di assumere l’identità di un bambino da tempo scomparso che si ripresenta, ormai adulto, al cospetto del padre, Vincent (Vincent Lindon), un non più giovane vigile del fuoco che tenta pateticamente di mantenere in forma artificialmente un corpo ormai inesorabilmente invecchiato. Pur consapevole di non trovarsi di fronte al proprio figlio, Vincent accetta comunque che Alexia si passi per il suo bambino ormai cresciuto mentre quest’ultima si convince di guardare all’uomo come se si trattasse del padre. Insomma, come scrive Di Nicola, «un uomo cercava un figlio e una ragazza cercava un padre, così si sono trovati» (p. 70).

Si tratta dell’incontro di due individui costretti a fare i conti con un’identità problematica; una ragazza ibridata con il metallo ed un uomo non più giovane che non accettando il proprio corpo naturale interviene su di esso per dargli sembianze iper-muscolose. Di Nicola suggerisce di guardare a Titane come ad un film che problematizza la questione identitaria e di genere.

Tornando invece alla lettura proposta da Lago, contrariamente all’idea di cyborg di Donna Haraway, il corpo di Alexia lungi dal divenire il tramite di una nuova e inedita sovversione di tipo sociale e politico: dopo l’innesto della placca metallica nel cranio, una volta divenuta adulta, la protagonista esibisce il corpo come se si trattasse di una merce in vetrina tra le altre, come le automobili. Alexia sembrerebbe agire da prigioniera dei processi di mercificazione e spettacolarizzazione. I sincopati movimenti meccanici del corpo «perduto nella coazione a ripetere i gesti spettacolari ed erotici unicamente finalizzati ad una sua ricezione pornografica e ossessiva», trasformano il corpo di Alexia in una macchina, in una marionetta della società dei consumi in balia di febbrili sguardi maschili che non fanno distinzione tra la bellezza di una donna e quella di un’automobile. «La ragazza si trasforma in macchina, in automa, in androide costretto a muoversi secondo le regole istituite dalla società dello spettacolo». Insomma, secondo questa lettura, anche le uccisioni della ragazza sembrano rispondere più a una meccanica e insensibile coazione a ripetere ben più che non ad un desiderio di riscatto.

«La ‘macchinizzazione’ del corpo», secondo Lago, la si ritrova per certi versi anche nella trasformazione di Alexia nel figlio scomparso di Vincent, che rappresenta «una ulteriore violenza quasi irrappresentabile inflitta ad un corpo», al pari delle ferite e delle escrescenze meccaniche che pian piano colonizzano il corpo della protagonista imponendogli degradazione e solitudine. «Lungi dall’assumere connotazioni sovversive e liberatorie, il suo percorso di ribellione sorto dalla dimensione spettacolare dei saloni di automobili imprigionerà sempre di più il suo corpo e la sua esistenza fino – fuor di metafora – a una meccanizzazione totale».

Tornando a Di Nicola, questi si dice convinto che l’associazione del film della Ducournau a Crash (1996) di David Cronenberg, frequentemente fatta dalla critica, sia in realtà debole; mentre nel film del canadese sono presenti le sue tipiche ossessioni per l’ibridazione del corpo, la “nuova carne” e l’ambiguità sessuale, nell’opera della regista francese si insiste piuttosto sul problema dell’identità di genere e sulla costruzione del rapporto artificiale genitore-figlio. Titane, scrive lo studioso,

si fa portatore di un orrore del corpo, dal corpo e per il corpo molto lontano da quello degli anni Ottanta, intinto di tracce profondamente contemporanee. La storia è molto diversa, così i suoi significati, parte da un’unica premessa simile – l’attrazione per la macchina – che però è un trompe-l’oeil, visto che Titane raggiunge un approdo radicalmente differente, che culmina nel momento del parto (p. 71).

Per quanto labile posa essere il legame tra le due opere, resta il fatto che anche il film della Ducournau ha un finale cronenberghiano visto che termina con un parto che conduce ad una nuova identità derivata dalla frantumazione delle precedenti e che comporta la morte della protagonista. Questa immagine conturbante, sostiene Di Nicola, racchiude tutto il valore di genere del film: la libertà di essere se stessi, di mutare e ricreare una famiglia, può concederla solo l’horror» (p. 73).

Nella sua mappatura dell’horror girato da donne, Di Nicola si sofferma su alcuni film realizzati dall’australiana Jennifer Kent, dalla britannica, naturalizzata statunitense, di origini iraniane Ana Lily Amirpour e dalla statunitense di origini giapponesi Karyn Kusama.

Nel suo The Babadook (2014) Jennifer Kent rinnova il topos del mostro che si nasconde in casa proponendo una messa in scena che rende difficile discernere tra realtà ed immaginazione della protagonista.

Ad Ana Lily Amirpour si devono diversi film: A Girl Walks Home Alone at Night (2014), opera in bianco e nero in lingua persiana che racconta di una vampira che assale gli uomini nelle strade di una immaginaria città iraniana nascosta da un chador che sembra voler collegare «l’ultra-centenaria tradizione vampiresca alla realtà iraniana di oggi» (p. 105); The Bad Batch (2016), film di ambientazione texana post-apocalittica che vede personaggi in preda alla ferocia intenti ad eliminarsi a vicenda per sopravvivere; Mona Lisa and the Blood Moon (2021), opera incentrata sui poteri soprannaturali di una giovane coreana fuggita da un istituto alle prese con la violenza dilagante statunitense; The Outside, episodio della serie televisiva The Cabinet of Curiosities (2022) creata da Guillermo Del Toro, in cui l’orrore deriva dall’uso di una crema di bellezza.

Dopo essersi fatta conoscere con Jennifer’s Body (2009), Karyn Kusama ha saputo introdurre efficacemente elementi horror nell’angosciante thriller psicologico The Invitation (2015), film costruito attorno a una riunione che si tiene sulle colline di Los Angeles a cui prendono parte ex coniugi separatisi dopo la morte del figlio insieme ai rispettivi nuovi partner ed altri vecchi conoscenti. In un crescendo di angoscia ed inquietudine, dalle conversazioni tra i partecipanti si viene a sapere di un folle programma di uccisione di massa ordito da una setta come rimedio alla sofferenza dilagante tra l’umanità.

Altre realizzazioni femminili in ambito horror segnalate dall’autore sono: There’s Something Wrong with the Children (2023) di Roxanne Benjamin; Fresh (2022) di Mimi Cave; Clock (2023) di Alexis Jacknow; Appendage (2023) di Anna Zlokovic.

Frammenti di registe dell’orrore, che naturalmente trattano i temi a loro più vicini, come il maschilismo intrinseco nella società, metaforizzato dagli uomini che mangiano le donne, ma anche il ruolo della donna ancora costretta ad avere figli per realizzarsi, o più in generale le pressioni e i cattivi pensieri, che con una trovata abbastanza geniale si materializzano in un mostro (p. 108).

A margine della rassegna di film realizzati da donne, nel volume viene citato anche L’uomo invisibile (The Invisibile Man, 2020) di Leigh Whannell che, pur essendo realizzato da un uomo, propone un’interessante rilettura in chiave femminile del romanzo di H.G. Wells a cui si sono ispirati diversi film.

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New horror. Il Male nella/della Rete https://www.carmillaonline.com/2024/12/25/new-horror-la-paura-nellepoca-del-web-il-male-nella-della-rete/ Wed, 25 Dec 2024 21:00:48 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=85602 di Gioacchino Toni

Emanuele Di Nicola, Nuovo cinema horror, Mimesis, Milano-Udine, 2024, pp. 180, € 18,00

Nuovo cinema horror di Emanuele Di Nicola analizza alcuni dei principali film del new horror – It Follows (2024) di David Robert Mitchell, The Witch (The VVitch: A New-England Folktale, 2015) di Robert Eggers, Hereditary. Le radici del male (Hereditary, 2018) e Midsommar. Il villaggio dei dannati (Midsommar, 2019) di Ari Aster, Scappa. Get Out (Get Out, 2017) e Noi (Us, 2019) di Jordan Peele, Raw. Una cruda verità (Raw, 2016) e Titane (2021) di Julia Ducournau – per poi soffermarsi sulle tendenze generali che [...]]]> di Gioacchino Toni

Emanuele Di Nicola, Nuovo cinema horror, Mimesis, Milano-Udine, 2024, pp. 180, € 18,00

Nuovo cinema horror di Emanuele Di Nicola analizza alcuni dei principali film del new horror – It Follows (2024) di David Robert Mitchell, The Witch (The VVitch: A New-England Folktale, 2015) di Robert Eggers, Hereditary. Le radici del male (Hereditary, 2018) e Midsommar. Il villaggio dei dannati (Midsommar, 2019) di Ari Aster, Scappa. Get Out (Get Out, 2017) e Noi (Us, 2019) di Jordan Peele, Raw. Una cruda verità (Raw, 2016) e Titane (2021) di Julia Ducournau – per poi soffermarsi sulle tendenze generali che caratterizzano il genere nel nuovo millennio guardando in particolare agli horror incentrati sul web, ai film realizzati da donne, ai meccanismi sequel, prequel e requel che contraddistinguono le produzioni più recenti, alle produzioni italiane tra snuff movies, contagi, mostri e vampiri, alla modalità seriale ed al Covid horror.

«Ogni tragedia epocale si porta dietro la sua elaborazione cine-narrativa. Ogni grande paura produce un nuovo cinema dell’orrore» (p. 157). Il Novecento è stato attraversato dalle paure generate dai due conflitti mondiali e dalla Guerra Fredda, dall’incubo dell’atomica sganciata in Giappone e di un suo possibile nuovo utilizzo, dal timore, soprattutto dopo l’Undici Settembre 2001, di attacchi terroristici portati nel cuore dell’Occidente, dai disastri ecologici e climatici, dallo spettro dell’Aids o di nuove e sconosciute malattie, fino al Covid. Se di tutte queste paure si sono occupate la letteratura ed il cinema, di certo non poteva mancare una loro elaborazione e messa in scena da parte del genere che più di ogni altro si occupa di paura: l’horror.

Con il proposito di tornare successivamente su alcune delle tendenze trattate dall’autore, in questo scritto ci si soffermerà sulle paure legate all’universo internet messe in scena dal cinema horror del nuovo millennio. Di Nicola indica Ringu (1998) di Hideo Nakata come il film che, con la sua “videocassetta assassina”, suggella la fine dell’epopea analogica a cui, in apertura di nuovo millennio, non mancano di riferirsi diversi film che prospettano lo sprigionarsi della paura da qualche vecchio nastro rintracciato dopo tanto tempo: una sorta di presenza inquietante contenuta in una tecnologia divenuta talmente rapidamente obsoleta da farsi, nel giro di qualche decennio, archeologia da cui, da un momento all’altro, può manifestarsi in tutta la sua potenza il maligno che la abita.

Alla serie di film focalizzati sulle vecchie videocassette analogiche introdotta da Ringu e dalla versione statunitense The Ring (2002) di Gore Verbinski succedono gli screenlife (o screenview) movies incentrati sull’universo del web, che prendono il via con Collingswood Story (2002) di Michael Costanza, in cui si prospetta la presenza di forze maligne nella rete; un universo abitato non solo da “criminali tradizionali” che sfruttano questo nuovo spazio ma anche da vere e proprie «entità ultraterrene, che vivono nei meandri della rete e risultano più inquietanti proprio perché invisibili, non individuabili, non tangibili, fluttuanti nelle schermate tra un sito e l’altro. Queste forze configurano una sorta di “rete maledetta”, uno spazio intangibile che si dimostra oscuro e ostile, pronto a colpire i protagonisti» (p. 90).

Se film come Paura.com (Fear Dot Com, 2002) di William Malone, Feed (2005) di Brett Leonard o lo stesso Smiley (2012) di Michael J. Gallagher, per quanto quest’ultimo sia un’opera a cavallo tra thriller ed horror, sono incentrati sul maniaco o serial killer che sfrutta il web per adescare le sue vittime, diverse opere danno spazio al fenomeno della condivisione via social di qualche efferatezza non mancando di sottolineare come il sadismo di qualche folle assassino trovi terreno fertile nel voyeurismo diffuso dei nostri giorni amplificato – e indotto – a dismisura dal web. Non a caso, ricorda Di Nicola, i social network hanno un ruolo importante nella serie Scream di Matt Bettinelli-Olpin e Tyler Gillet post Wes Craven, ed in Thanksgiving (2023) di Eli Roth.

Diverse sono le opere incentrate sull’universo più perverso e atroce che si immagina nascondersi nel cosiddetto dark web tra snuff movies e red rooms; tra queste Di Nicola ricorda Unfriended (2014) di Levan Gabriadze e, soprattutto, Unfriended: Dark Web (2018) di Stephen Susco che, oltre riprendere l’idea delle camere delle torture che abiterebbero il web più oscuro, introduce il topos dello spietato sistema di voto in grado di stabilire la vita o la morte delle vittime che si ritrova in diversi film e serie televisive.

Alcune produzioni horror degli ultimi decenni hanno ripreso attualizzandoli e spesso tecnologizzandoli il found footge e il mockumentary, il ricorso ad immagini che si vogliono di repertorio ed il formato del falso documentario; si pensi a The Blair Witch Project (1999) di Daniel Myrick e Eduardo Sánchez e, venendo agli internet horror, a Rec. La paura in diretta (Rec, 2007) di Jaume Balagueró e Paco Plaza. «Insomma, l’orrore nella rete, che sia screenlife o meno, riesce a trarre una proposta tutto sommato originale e al passo coi tempi riconoscendo e metabolizzando esperienze del passato, variando sulle forme del genere e presentandole in veste inedita per fare paura parlando degli orrori di oggi» (p. 93).

L’autore sottolinea come con il tempo l’horror che scaturisce dal web divenga più complesso e stratificato, come dimostrano The Den (2013) di Zacharie Donohue, Friend Request (2016) di Simon Verhoeven, Followed (2018) di Antoine Le, Host. Chiamata mortale (Host, 2020) di Rob Savage – in cui lo screenlife si intreccia con il lockdown della pandemia di Covid – e Deadstream (2022) di Joseph e Vanessa Winter.

Alle stanze di tortura si rifà Les Chambres Rouges (Red Rooms, 2023) di Pascal Plante che, per quanto sia un thriller drammatico più che un horror, contribuisce a diffondere una paura su cui insisteranno diversi film di questo genere. Il film francese, scrive Di Nicola, «attraverso la sua sinistra leggenda lancia un tema che riguarda noi tutti e fa davvero paura: la smania di guardare, la tendenza a vedere il più possibile nel nostro mondo iper-connesso, che ormai non si ferma più davanti a nulla, neanche ad una bambina che viene fatta a pezzi per appagare i nostri occhi» (p. 95).

Se red rooms e snuff movies tendono a rifarsi più a leggende metropolitane che non a fatti reali e comprovati, le sfide tra adolescenti portate ad esiti estremi ripresi da diversi film horror recenti richiamano invece direttamente la realtà. La sfida Blue Whale Challenge tra ragazzini, comportante la prova finale del suicidio, che in Russia ha coinvolto un alto numero di giovani e giovanissimi, è stata ripresa da #Blue_Whale (2021) di Anna Zaytseva, «film privo di elementi soprannaturali ma ugualmente terrificante, forse proprio perché ancorato alla verità delle cose e in grado di scoperchiare un’altra china fatale, particolarmente spietata perché prospera sulla debolezza psicologica degli adolescenti in fase di sviluppo» (p. 95).

Cam (2018) di Daniel Goldhaber è un horror incentrato sulle vicissitudini di una camgilr che richiama l’esperienza vissuta in prima persona dalla sceneggiatrice Isa Mazzei nell’universo del sesso online raccontata nel memoir Camgirl (Rare Bird Books, 2019). Il film, tecnicamente non proprio uno screenlife movie, si concentra sull’inquietante e conturbate generarsi in rete di un doppio della protagonista da cui questa non riesce più a liberarsi/differenziarsi. Anche in questo caso, al di là della vicenda riguardante il mondo delle camgirl, il film tocca una problematica importante e reale della vita quotidiana nell’epoca in cui questa si è espansa sulla rete attraverso «una variazione spiazzante sul tema del doppio che si appropria della nostra vita come un predatore fino a portarci alla rovina» (p. 100).

Di Nicola sottolinea un altro aspetto importante posto dal film di Goldhaber: l’idea, presente in filigrana anche in diversi altri film del genere, sin dal pionieristico The Collingswood Story di Costanza in apertura del nuovo millennio, che nella rete abiti qualcosa di diabolico che sfugge alle possibilità razionali di comprensione e risoluzione: «c’è qualcosa di male nella rete, una forza che può replicare la tua essenza, trascinarti nel gorgo e condurti alla perdizione» (p. 101).

Che si pensi al paranormale o ad «un algoritmo impazzito magari gestito da un oscuro burattinaio», scrive Di Nicola, la «percezione della paura si sposta solo dall’esistenza della “cosa”, nascosta non tra i ghiacci ma nelle maglie invisibili del web, verso l’orrore dell’algoritmo, anticipando il timore e la paura che l’intelligenza artificiale è in grado di incutere» (p. 101). Che si tratti di paranormale o di deriva tecnologica, il risultato conduce ad una nuova ed inquietante forma di orrore incentrata sul web in cui si vive una parte sempre più importante della quotidianità e che concorre alla costruzione dell’identità.

Trattando delle paure che hanno contraddistinto il periodo più recente, il nuovo cinema horror non poteva esimersi dall’affrontare il Covid. Se il sottogenere orrorifico pandemico ha lunga tradizione, ad anticipare il Covid degli anni Duemila è stato Contagion (2011) di Steven Soderbergh, dunque un film non appartenente al genere horror. Lo stesso regista introduce invece direttamente il Covid nel suo Kimi – Qualcuno in ascolto (Kimi, 2022), film, anche in questo caso non di genere horror, in cui la scoperta di una cospirazione da parte di una giovane informatica è ambientata durante il lockdown imposto dalle autorità a seguito della pandemia.

Ad introdurre il Covid nel genere horror è invece il mediometraggio indipendente britannico Host – Chiamata mortale (Host, 2020) di Rob Savage che, in formato screenlife, sullo sfondo di uno schermo a mosaico, racconta di una seduta spiritica in streaming di un gruppo di giovani alle prese con uno spirito maligno che abita l’universo del web. Anche The Harbinger (2022) di Andy Mitton collega l’horror al Covid.

Qui, di nuovo in presa diretta e con un’impostazione di finzione tradizionale, senza desktop né computer, il virus diviene letteralmente un fantasma, un incubo da cui non ci si può svegliare, un novello Freddy Krueger dei tempi moderni. Ed è il primo horror che rende il Covid un elemento di genere, lo ri-forma nel senso che ne cambia forma – peraltro eterea – e lo rende un mostro visibile e verificabile, almeno nella psiche dei personaggi. Insomma qui il Covid è un umore, una sensazione dell’orrore (pp. 162-163)

Lo stesso Savage trona sul Covid con Dashcam (2021) intrecciando in questo caso la figura dell’influencer con il lockdown pandemico ed il classico inseguimento tra la nebbia della campagna inglese. Da Taiwan vine invece The Sadness (2022), opera d’esordio di Rob Jabbaz, in cui il desiderio di ritorno alla normalità, dopo un anno di pandemia, rivela un’evoluzione del virus che conduce alla follia dei cittadini «seminando tristezza e pulsione di uccidere» (p. 163).

Altri film horror in cui compare la pandemia citati da Di Nicola sono: Songbird (2020) di Adam Mason, Lethal Virus (2021) di Daniel H. Torrado, Virus 32 (2022) di Gustavo Hernández e Sick (2022) di John Hyams, che, secondo l’autore, può essere considerato, almeno al momento, l’horror definitivo sul Covid. Il questo ultimo caso, il regista «non si limita a usare la pandemia come sfondo, a raccontare una storia nel tempo del virus, ma tematizza il virus stesso, lo ingloba dentro il flusso, ossia prende le stimmate del Covid e le rende elementi compiuti di genere» (p. 165).

Sick può essere letto «come metafora del Covid: ci sono tre persone chiuse in casa, un pericolo esterno prova ad entrare, loro tentano di resistere attraversano spray e tamponi, ma quando una particella infettiva sembra sconfitta ne arriva subito un’altra, perché il male può sempre colpire» (p. 165). Più di altri il film di Hyams può, secondo Di Nicola, inaugurare un nuovo tipo di horror incentrato sulla questione pandemica.

Cogliendo alcune delle paure contemporanee più diffuse, il legame che diversi film hanno istituito tra le mostruosità online e i pericoli offline, contagio compreso, potrebbe rivelarsi una delle strade su cui insisterà maggiormente l’horror del futuro.

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La testimone – Shahed https://www.carmillaonline.com/2024/12/24/la-testimone-shahed/ Tue, 24 Dec 2024 06:00:06 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=85841 di Roberta Cospito

La testimone – Shahed era stato visto in anteprima il 5 settembre 2024, all’interno della sezione Orizzonti Extra dell’81ª Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia, poi distribuito a novembre nelle sale, quando la celebrazione la Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne (il 25 novembre) ha visto il proliferare di iniziative di sensibilizzazione. In Italia, le vittime di femminicidio hanno superato il centinaio l’anno; in pratica, una donna muore – tipicamente per mano di un familiare – ogni settantadue ore.

La testimone – Shahed, film iraniano vincitore del Premio degli Spettatori nella sezione Orizzonti Extra all’81esima edizione del Mostra del cinema di Venezia, è [...]]]> di Roberta Cospito

La testimone – Shahed era stato visto in anteprima il 5 settembre 2024, all’interno della sezione Orizzonti Extra dell’81ª Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia, poi distribuito a novembre nelle sale, quando la celebrazione la Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne (il 25 novembre) ha visto il proliferare di iniziative di sensibilizzazione. In Italia, le vittime di femminicidio hanno superato il centinaio l’anno; in pratica, una donna muore – tipicamente per mano di un familiare – ogni settantadue ore.

La testimone – Shahed, film iraniano vincitore del Premio degli Spettatori nella sezione Orizzonti Extra all’81esima edizione del Mostra del cinema di Venezia, è un’opera del 2024 diretta da Nader Sayevar e co-sceneggiata dallo stesso regista insieme a Jafar Panahi, anch’egli regista e autore di lungometraggi come Taxi Teheran (2015), più volte arrestato e imprigionato in Iran per reati d’opinione, e curatore del montaggio di questa pellicola.

La storia ruota attorno a tre donne di tre diverse generazioni: Tarlan, un’insegnante in pensione con un passato da sindacalista e attivista; sua figlia adottiva Zara, che gestisce una scuola di danza, sposata con Solat un uomo d’affari i cui legami col governo hanno innalzato lo status della famiglia da “normale” ad altoborghese; Ghazal, la figlia adolescente di Zara, anch’essa appassionata di danza.

Quando Zara scompare, Tarlan ha buoni motivi per sospettare che a ucciderla sia stato proprio Solat, ma la polizia si rifiuta di indagare seriamente, minimizzando la sua testimonianza.

Fortunatamente, questo film ha trovato spazio nei circuiti internazionali confermando che le voci critiche esistono, anche se faticano a farsi sentire: La testimone – Shahed denuncia la sistematica discriminazione delle donne in Iran e la corruzione di un sistema che si inchina ai potenti mentre obbliga le donne a una vita da fantasmi, costrette e velate da leggi inique e spesso eliminate anche fisicamente, oltre che moralmente.

Le donne coraggiose danno fastidio, non solo al potere e agli uomini, ma anche alle stesse donne che non riescono a scrollarsi di dosso una sudditanza religiosa, una cultura patriarcale che le vede destinate alla cieca obbedienza all’uomo e al loro Dio: Zara, oltre a essere sistematicamente picchiata dal marito che trova offensivo e dannoso per la propria carriera lo stile di vita della moglie, che non solo va a ballare ma che lo fa senza indossare l’ḥijāb, viene criticata da una passante che la vede al volante senza il velo – una donna dev’essere seducente per il marito non per gli altri uomini – e la minaccia addirittura di denuncia, nel caso l’incontrasse nuovamente in quella condizione.

Il danzare senza velo a celare i capelli, è praticamente diventata una forma contemporanea di protesta non violenta molto diffusa sui social media, ma pericolosa; come spiegato nei titoli di coda del film, molte donne che hanno danzato a capo scoperto sono state uccise: difficile dimenticare la storia di Mahsa Amini, la ragazza assassinata in Iran nel 2022 dalle forze dell’ordine morale islamico, perché non indossava correttamente il velo.

La ribellione è possibile, ma ha un caro prezzo: Tarlan, che decide di testimoniare contro l’uomo che ha sposato la figlia adottiva e che, con tutta evidenza, è il colpevole del femminicidio, viene minacciata non solo dalle forze dell’ordine ma anche dal figlio maschio, che non riesce a capire come si possa rischiare di perdere tutto – lavoro, soldi, rispettabilità, diventando una persona “infetta” da tenere alla larga – per un ideale di giustizia. È invece commovente la solidarietà delle colleghe della madre di Zara che, pur subendo anche loro ripercussioni negative per il comportamento della donna, le dimostrano solidarietà, anche prestandole dei soldi e condividendo apertamente la battaglia.

Il film è ispirato a “Donna, vita, libertà”, un movimento nato il 16 settembre 2022, il primo guidato da donne in un paese islamico, che sfida le norme tradizionali, religiose, discriminatorie e autoritarie. Lo slogan “Donna, vita, libertà” (Jin, Jîyan, Azadî) apparteneva inizialmente al movimento di liberazione curda, ma si è diffuso nel mondo e in Iran venne usato la prima volta durante le proteste per la morte di Mahsa Amini, nel settembre 2022 e in molte m anifestazioni successive.

Il regista dice d’esser stato influenzato sia da quanto visto sui social media sia da quanto vissuto in prima persona, ma di sentirsi in colpa per non essersi esposto, non avendo mai partecipato alle proteste di piazza; da qui la decisione di realizzare un “piccolo” film che riflettesse almeno in parte quel senso di colpa e raccontasse una realtà di ribellione e protesta.

Presto, sugli schermi arriverà un altro film sull’Iran – Leggere Lolita a Teheran diretto dall’israeliano Eran Riklis – che, ripercorrendo fedelmente l’impostazione autobiografica dell’omonimo interessante soggetto letterario della scrittrice Azar Nafisi, si ambienta nei decenni successivi alla rivoluzione di Khomeini del 1979 che trasformò il paese in Repubblica islamica.

Durante la visione de La testimone – Shahed, mi è spesso venuto in mente il libro della Nafisi, specie davanti alle immagini delle donne intente a danzare – “Prima ancora di redigere una nuova costituzione o eleggere un nuovo parlamento, il regime aveva annullato la normativa corrente sull’età minima per il matrimonio. Aveva messo al bando il balletto e la danza, imponendo alle compagnie di optare per la recitazione o il canto. In seguito alle donne era stato proibito anche di cantare, perché la voce femminile veniva equiparata ai capelli: entrambi erano in grado di suscitare il desiderio sessuale, e andavano quindi tenuti nascosti” – sia di fronte a quest’ossessione del velo da dover indossare: “Con la solita calma lui tentava di spiegarmi che cosa significasse l’Islam in politica, e io reagivo con sdegno, perché era proprio l’Islam come entità politica che rifiutavo. Una volta gli raccontai di mia nonna, la musulmana più devota che avessi mai conosciuto, persino più di lui. Be’, la nonna scansava la politica come la peste. Si lamentava perché il velo, che per lei era un simbolo del suo sacro rapporto con Dio, era diventato uno strumento di potere, trasformando le donne che lo portavano in simboli politici”.

Le immagini finali del film sottolineano come la particolare caratteristica della nuova generazione iraniana sia che vuol vincere col perdono e la bellezza, e suggeriscono anche come non si debba mai più cercare vendetta perchè è il perdono l’unica via di salvezza, l’unico modo per porre fine alla violenza che ci circonda. Perdonare, tra l’altro non significa arrendersi ma continuare a lottare.

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Processi di ibridazione. David Cronenberg: Interviews https://www.carmillaonline.com/2024/12/19/processi-di-ibridazione-david-cronenberg-interviews/ Thu, 19 Dec 2024 21:00:58 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=85700 di Gioacchino Toni

David Cronenberg, Una storia di violenza, a cura di David Schwartz, traduzione di Pietro Del Vecchio, Wudz Edizioni, Arezzo-Milano, 2024, pp. 428, € 21,00

Sul finire del 2024, la giovane casa editrice Wudz, nel cui ancora ridotto catalogo non mancano proposte interessanti, ha dato alle stampe, con la traduzione di Pietro Del Vecchio, l’edizione italiana del volume David Cronenberg: Interviews (The University Press of Mississippi, 2021): una corposa raccolta, curata da David Schwartz, di interviste e conversazioni con giornalisti e studiosi rilasciate tra il 1983 e il 2015 in cui il regista canadese passa in rassegna la sua [...]]]> di Gioacchino Toni

David Cronenberg, Una storia di violenza, a cura di David Schwartz, traduzione di Pietro Del Vecchio, Wudz Edizioni, Arezzo-Milano, 2024, pp. 428, € 21,00

Sul finire del 2024, la giovane casa editrice Wudz, nel cui ancora ridotto catalogo non mancano proposte interessanti, ha dato alle stampe, con la traduzione di Pietro Del Vecchio, l’edizione italiana del volume David Cronenberg: Interviews (The University Press of Mississippi, 2021): una corposa raccolta, curata da David Schwartz, di interviste e conversazioni con giornalisti e studiosi rilasciate tra il 1983 e il 2015 in cui il regista canadese passa in rassegna la sua produzione ed i pensieri, le inquietudini ed i desideri che l’attraversano.

Fortunatamente all’aneddotica circa l’infanzia e l’adolescenza di Cronenberg viene riservato uno spazio limitato nelle quindici conversazioni contenute nel volume; nelle quattrocento pagine di colloqui il regista si concentra sui film realizzati fino al 2015, sul suo rapporto con la macchina da presa, sul confronto con la letteratura da cui, in diversi casi, ha derivato le sue opere cinematografiche e, soprattutto, sui processi di ibridazione biologici, meccanici e mediatici che investono l’identità ed i confini del corpo e della mente degli individui.

Vittime ed a volte cause al tempo stesso dei processi di ibridazione e degli effetti devastanti che ne derivano, i personaggi sottoposti alla mutazione nei film del regista vengono catapultati in universi oscuri estranei alle leggi che governano la realtà conosciuta. La disintegrazione dell’identità, vero e proprio filo conduttore della poetica cronenberghiana, in un mondo in continua trasformazione, viene spesso fatta derivare dalla mutazione del corpo.

Cronenberg pare cercare nella malattia, negli incidenti spesso derivati dal rapporto con la scienza e le tecnologie, nella corporeizzazione degli incubi e delle tecnologie stesse, i segni di una mutazione che si presenta anche come via di fuga da una realtà vissuta come insufficiente più ancora che opprimente.

Le ibridazioni e le mutazioni a cui si sottopongono, o sono sottoposti, di volta in volta i personaggi cronenberghiani, oscillano continuamente tra coraggiosa e necessaria, quanto pretenziosa, maldestra e inefficace, ricerca di estensione della propria identità psico-fisica ed assoggettamento a nuove forme di oppressione e dipendenza. Subite o cercate come vie di fuga, le mutazioni  si rivelano insostenibili e non è infrequente che sul finale dei film i personaggi cronenberghiani palesino una vera e propria aspirazione alla morte come estrema forma di risoluzione dell’incapacità di governare le nuove identità in cui si vengono a trovare.

Nella lunga conversazione tenutasi con William Beard e Piers Handling a Toronto nel 1983, Cronenberg si sofferma sulla contrapposizione che istituisce nei suoi primi film – soprattutto in Stereo (1969), Crimes of the Future (1970), Shivers. Il demone sotto la pelle (Shivers, 1975), Rabid. Sete di sangue (Rabid, 1977), Brood. La covata malefica (The Brood, 1979) e Scanners (1981) – tra la sensazione di ordine suggerito dalle asettiche geometrie dei complessi architettonici abitati dai personaggi e le angosce e le inquietudini che essi covano nel profondo.

Nel corso dell’incontro, tenutosi presso The Academy of Canadian Cinema di Toronto, il regista si sofferma, inoltre, su come in Crimes of the Future di inizio anni Settanta, ricorrendo ad una situazione distopica che vede la scomparsa delle donne, abbia voluto indagare come gli uomini «vengano a patti con la parte femminile della loro sensibilità», su come in Shivers, al pari di Rabid e Brood, abbia tentato di «mostrare ciò che non poteva essere mostrato, di dire ciò che non poteva essere detto» mettendo in scena come il caos interiore dei personaggi nasca in ambito privato, individuale, salvo poi espandersi all’esterno dei singoli individui generando, inevitabilmente, una conflittualità più estesa.

Nella conversazione con Beard e Handling, Cronenberg affronta anche Videodrome (1983) evidenziando come il reale sempre più tenda a coincidere con la percezione che si ha di esso, palesando così il suo debito nei confronti di Ballard, e come l’individuo sembri ormai aver perso il controllo della tecnologia e dei media.

Trattando di Videodrome, non poteva che emergere la questione della “nuova carne” a cui, secondo il regista, non si dovrebbe guardare riducendola a perversa macchinazione del potere, bensì come invito a prendere atto di quanto il corpo umano sia nei fatti mutato rispetto a come lo si continua ad immaginare. «Siamo fisicamente diversi dai nostri antenati, in parte a causa di ciò che introduciamo nel nostro corpo e in parte per cose come gli occhiali, la chirurgia e via dicendo». Ecco perché, secondo il regista, per ragionare sull’identità occorre innanzitutto fare i conti con il corpo.

Nel corso dell’intervista rilasciata nel 1989 a George Hickenlooper per la rivista “Cinéaste”, dopo aver spiegato come l’interesse per le energie e le angosce primordiali lo abbia inevitabilmente condotto a scegliere l’horror per la capacità del genere di «rimuovere tutto il materiale estraneo e andare dritto al nocciolo», Cronenberg torna sulla questione dell’identità che attraversa tutti i suoi film. «In cosa consiste un’identità? La personalità è in qualche modo immutabile? Esiste una forma assoluta del sé dall’inizio alla fine della vita di una persona? È un dato mentale o fisico? Se il nostro fisico cambia radicalmente e di conseguenza ci trasformiamo anche da un punto di vista mentale, siamo comunque la stessa persona? Abbiamo la sensazione di esserlo, ma è solo un’illusione?». È da tali interrogativi che deriva un film come Inseparabili (Dead Ringers, 1988).

Se nella conversazione del 1991 con Gary Indiana per la rivista “The Village Voice” il regista si sofferma su Il pasto nudo (Naked Lunch, 1991), argomentando il complesso rapporto con l’opera di Burroughs, nell’incontro tenuto l’anno successivo con David Breskin, poi entrato a far parte del volume curato da quest’ultimo Inner Views: Filmmakers in Conversation (Faber & Faber, 1992), dopo essere stato pubblicato in versione ridotta su “Rolling Stone”, Cronenberg sottolinea come la sua intenzione fosse quella di «mettere in discussione il libro, piuttosto che tentare di rappresentarlo».

Conversando con Breskin il regista si sofferma anche sulle critiche ricevute da critici di sinistra che lo hanno  accusato di conservatorismo in quanto le trasformazioni dell’esistente nei suoi film conducono ad esiti negativi, argomentando che a suo avviso ciò che rende sovversive le sue opere è il loro suggerire altre realtà rispetto a quelle normalmente accettate, il presentare questi altri stati della mente come altrettanto reali.

Nel corso della conversazione il regista spiega anche come abbia voluto andare oltre i canoni degli “horror situazionali” tradizionali, incentrati magari su «l’uomo nel seminterrato con il coltello», preferendovi qualcosa di più complesso e torna sul fatto che molte sue opere terminano sostanzialmente con i protagonisti che desiderano porre fine alla loro esistenza in quanto «unico modo per dare un significato alla nostra morte. Perché altrimenti è completamente arbitraria. È dovuta a un piccolo malfunzionamento del corpo o a un incidente», insomma nell’aspirazione al suicidio dei protagonisti è ravvisabile un ultimo, per quanto disperato, tentativo di riconquistare il controllo su sé stessi. «In tutti i miei film c’è una qualche discussione, subliminale o diretta, sul libero arbitrio e sulla predestinazione. Che si tratti di predestinazione religiosa o genetica non ha molta importanza. È che la sensazione del libero arbitrio è così palpabile e tangibile, eppure le prove contro la sua reale esistenza sono piuttosto convincenti».

Carrie Rickey, che nell’incontro del 1993 con il regista per la rivista “Philadelphia Inquirer” definisce efficacemente le sue opere come «film di guerra in cui il territorio conteso è costituito dal corpo umano», ricostruisce insieme al regista la logica con cui è stato realizzato il film M. Butterfly (1993) riprendendo la pièce di David Henry Hwang ispirata a quello che è passato alla storia come affaire Boursicot, un caso in cui una relazione sentimentale si è trasformato in una questione di politica internazionale che ha fatto clamore a metà degli anni Ottanta. Per quanto M. Butterfly tenda ad essere considerato un film anomalo rispetto agli altri realizzati da Cronenberg, il regista dichiara che in realtà, almeno dal punto di vista tematico, è coerente con le altre sue opere in quanto anche in questo sono presenti quelli che indica come i suoi “tre grandi” interessi. «Ci sono dentro, uno, la mia teoria sul fatto che la sessualità è un’invenzione umana; due, delle persone che inventano la propria realtà, un chiaro atto di volontà immaginativa; e tre, delle persone che scrivono l’opera della loro vita».

A come il regista abbia derivato la sua personale trasposizione cinematografica del romanzo di Ballard nel film Crash (1996) è invece dedicata buona parte della conversazione tenuta nel 1997 con Gavin Smith, per la rivista “Film Comment”. «Quando ho iniziato a leggere Crash», dichiara il regista nel corso dell’incontro, «pensavo a Ballard come a uno scrittore di fantascienza e il libro possiede una sorta di tono fantascientifico. Queste persone sono diverse da noi. Forse noi siamo i loro antenati. L’elemento fantascientifico del libro, che è così difficile da definire, è proprio questo: la psicologia e forse anche la fisiologia, in qualche modo sottile, non sono ciò che consideriamo normale, e possono essere viste come il punto verso cui ci stiamo dirigendo».

A proposito delle reazioni scomposte che hanno accompagnato l’uscita del film, commenta Cronenberg: «Credo che in Crash tutti siano dei fuorilegge. Credo che quello che disturba molte persone sia ciò che succede quando un’intera società diventa fuorilegge». Tranne Veloci di mestiere (Fast Company, 1979), fino a La mosca (The Fly, 1986) tutti i film di Cronenberg, scrive Smith, «si basano essenzialmente su un vaso di Pandora alla cui rottura la ricerca scientifica e le nuove tecnologie minacciano allo stesso tempo l’ordine sociale e l’integrità fisica e psicologica dei suoi personaggi. Da Inseparabili in poi, però, si trasformano in narrazioni ermetiche e spaesate in cui i personaggi scendono all’interno della propria psiche, innescando fratture e deviazioni che rappresentano pure proiezioni della mente».

L’intervista del 1999 di Richard Porton per la rivista “Cinéaste” in occasione dell’uscita di eXistenZ (1999), permette al regista di chiarire la sua posizione nei confronti della scienza e della tecnologia. «Non sono mai stato pessimista nei confronti della tecnologia, è una percezione sbagliata. Probabilmente intercetto le paure del pubblico, ma credo di guardare la situazione in modo abbastanza distaccato, cioè neutrale. Voglio dire: facciamo cose estreme, ma siamo costretti a farle. Creare tecnologia fa parte dell’essenza dell’umanità, è uno dei principali atti creativi. Non ci siamo mai accontentati del mondo così com’è, lo abbiamo manipolato fin dall’inizio. La maggior parte della tecnologia può essere vista come un’estensione del corpo umano, in un modo o nell’altro: nel film lo mostro nel vero senso della parola attraverso i riferimenti alle bioporte. Penso che in questa tecnologia ci siano aspetti positivi ed eccitanti quanto pericolosi e negativi. È un punto di vista molto imparziale su tutta la nostra tecnologia: è qualcosa con cui abbiamo a che fare ogni giorno».

Con eXistenZ, il cui tema principale, come sostiene il regista, riguarda la creazione della realtà, Cronenberg sostiene di aver voluto mostrare come l’essere umano abbia preso il controllo della sua evoluzione naturale. «Non ci evolviamo più secondo le vecchie modalità darwiniane. Altre specie possono farlo, ma noi no. Ci siamo impadroniti del controllo della nostra evoluzione. Nessuno dei vecchi meccanismi che portavano alla sopravvivenza del più adatto è ancora in grado di funzionare. Ne abbiamo solo una vaga consapevolezza, anche se al riguardo si è scritto abbastanza. In termini di evoluzione fisica della specie, tutto è cambiato negli ultimi duecento anni, dopo la Rivoluzione industriale».

Nell’intervista rilasciata a Porton, il regista torna sui motivi per cui i suoi film sono essenzialmente incentrati sul corpo. «Per me, il dato più importante dell’esistenza umana è il corpo e più ci allontaniamo dal corpo umano, meno le cose diventano reali e dobbiamo inventarle. Forse il corpo è l’unico dato dell’esistenza umana a cui possiamo aggrapparci. Eppure il cinema sembra ignorarlo, anche se forse non è così nell’arte in generale. Pensi ad artisti performativi e a pittori insoliti e interessanti come Francis Bacon. Ma nel cinema, in un certo senso, sembra esserci ancora una sorta di fuga dal corpo».

Nel 2003, nell’ambito dei Museum of the Moving Image Pinewood Dialogues, David Schwartz invita Cronenberg a parlare del film Spider (2002), trasposizione cinematografica del romanzo di Patrick McGrath incentrato su un individuo schizofrenico la cui tenue presa sulla realtà è minacciata dai ricordi frammentati di un trauma infantile, mentre A History of Violence (2005) è al centro tanto dell’intervista rilasciata dal regista a Dennis Lim per la rivista “The Village Voice”, che della conversazione tenuta nel 2006 con Nicolas Rapold per “Stop Smiling”, in cui il giornalista sostiene che a risultare inquietanti nei film del canadese «non sono le teste che esplodono o il sesso dopo un incidente stradale oppure ancora il videoregistratore infilato nello stomaco di James Woods. No, il terrore ci coglie quando ci rendiamo conto che queste cose riguardano tutti noi… il modo in cui i nostri corpi determinano le nostre identità e viceversa».

La promessa dell’assassino (Eastern Promises, 2007) è al centro dell’incontro con l’autore nell’ambito dei Museum of the Moving Image Pinewood Dialogues del 2007 organizzato da David Schwartz alla presenza di Steven Knight, l’autore del romanzo da cui il film è stato tratto. In tale occasione Cronenberg approfondisce alcuni dei temi chiave dell’opera, tra cui la rinascita e la reinvenzione.

Nel 2011 la critica cinematografica Amy Taubin, per “Film Comment”, conversa invece con il regista soprattutto a proposito di A Dangerous Method (2001), film in cui Cronenberg, concentrandosi sulla figura di Sabina Spielrein, racconta del serrato confronto tra Jung e Freud agli albori della psicoanalisi. Parlando di quest’ultimo, Cronenberg sostiene che parte del suo genio «risiedeva nel fatto di insistere sull’idea che il corpo umano non fosse separato dalla psiche, che le cose che accadono al corpo si manifestano nella mente e viceversa. Quindi la sua “terapia basata sul dialogo” non consiste soltanto nel parlare. Si rivolge anche al corpo, perché la parola è corpo. È una cosa che Freud aveva capito e che noi usiamo nel film».

L’anno successivo Taubin dialoga nuovamente con il canadese, in questo caso a proposito di Cosmopolis (2012), derivato dall’omonimo romanzo del 2003 di Don DeLillo, sottolineando come questo film, al pari di Videodrome, sia «un film sullo spirito del tempo in cui una nuova tecnologia fa nascere una “nuova carne”»; nel caso di Cosmopolis, scrive Taubin, si tratta di un mondo di cybercapitali che ci conduce nella cyberpsiche di un giovane miliardario trafficante di valute che, in preda alla noia e ad una marcata pulsione di morte, all’interno della sua limousine attraversa una Manhattan paralizzata, come lui, «mentre il suo impero finanziario crolla, forse trascinando con sé l’economia mondiale».

A concludere il volume sono il confronto per il blog inglese “4th Estate” tra la scrittrice Candice McCarty-Williams e Cronenberg circa la sua prova narrativa Divorati (Consumed, 2014) a ridosso dell’uscita in libreria – romanzo edito in Italia da Bompiani con la traduzione Carlo Prosperi –, in cui il canadese pone l’accento su come la scrittura per un romanzo risulti per lui estremamente più intima rispetto alla stesura di una sceneggiatura per un film, e l’intervista rilasciata nel 2015 a Graham Fuller per “Film Comment” incentrata sul film Maps to the Stars (2014) in cui, dietro ad una evidente critica nei confronti di Hollywood, il regista non manca di inserire un’inquietante storia di fantasmi.

Concludendo, il merito di David Schwartz è sicuramente quello di aver saputo raccogliere in questo corposo volume interviste e conversazioni contenendo l’aneddotica sull’autore e le semplici curiosità relative ai film ed alle mostruosità messe in scena in favore di considerazioni e riflessioni del regista canadese sulla sua opera e sul suo immaginario. Una storia di violenza può dirsi un libro rivolto tanto al fandom quanto agli  studiosi dell’opera cronenberghiana.

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Citadel Diana, Inganno, Lisa Poët e una Mindfull story https://www.carmillaonline.com/2024/11/30/citadel-diana-inganno-lisa-poet-e-una-mindfull-story/ Sat, 30 Nov 2024 21:30:13 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=85638 di Mauro Baldrati

Citadel Diana

L’aggettivo che sale spontaneamente dalle immagini di questa serie in sei episodi, è carina. E moderna, secondo i canoni del miglior mainstream patinato, che vuole un mix di avventura, sesso, sceneggiatura ordinata, ottima fotografia, bravi e attraenti attori; da un lato offre esagerazioni negli effetti speciali, nell’intrigo, dall’altro parsimonia nelle dinamiche sociali, nelle implicazioni psicologiche dei personaggi. Forse è per questo che è stata definita un grande successo internazionale? Di sicuro è avvincente, corre sicura di sé sul giusto ritmo narrativo, con frequenti accelerazioni e colpi di scena, svelte suggestioni da video gioco, una regia fiera [...]]]> di Mauro Baldrati

Citadel Diana

L’aggettivo che sale spontaneamente dalle immagini di questa serie in sei episodi, è carina. E moderna, secondo i canoni del miglior mainstream patinato, che vuole un mix di avventura, sesso, sceneggiatura ordinata, ottima fotografia, bravi e attraenti attori; da un lato offre esagerazioni negli effetti speciali, nell’intrigo, dall’altro parsimonia nelle dinamiche sociali, nelle implicazioni psicologiche dei personaggi. Forse è per questo che è stata definita un grande successo internazionale? Di sicuro è avvincente, corre sicura di sé sul giusto ritmo narrativo, con frequenti accelerazioni e colpi di scena, svelte suggestioni da video gioco, una regia fiera e al contempo rilassata che non teme la sfida. E’ ambientata in un 2030 lacerato da una guerra tra due super agenzie che dispongono di risorse inimmaginabili (e necessariamente inverosimili): Citadel, nella quale milita la protagonista, Diana, che ha come obiettivo combattere il male, e Manticore, che punta invece al controllo totale delle persone. In ballo c’è un’arma potentissima il cui progetto è disaggregato in file diversi. La lotta senza quartiere tra gli agenti riguarda il suo possesso, attraverso la fusione dei diversi componenti. Dunque il prodotto è di qualità, diciamo pure “eccellenza del made in Italy”, ma il fulcro dinamico e ipnotico è lei, la giovane attrice Matilda De Angelis, col suo fascino magnetico e il suo personaggio fatto di bellezza, fragilità e tenacia. Diana-Matilda corre, indaga, si lancia in straordinari combattimenti di arti marziali, attraversa territori oscuri di violenza, tradimenti, intrighi diabolici, continuando a restare viva e salda nella sua missione, che porta avanti a costo della vita. Senza di lei la serie resterebbe un lungometraggio ben fatto, ma privo della forza interna generata dalla sua eroina, dalla sua determinazione incorruttibile e dai frequenti primissimi piani che sprigionano un fascino di mistero e pericolose promesse. Citadel è lei. Il finale è propedeutico a una nuova stagione.(Su Prime)

Inganno

Un’altra serie in sei episodi che ha al centro un personaggio femminile forte e affascinante. L’argomento non è originalissimo, una storia d’amore tra una donna sessantenne e un fustacchiotto trentacinquenne, con tutti gli annessi. Forse l’antesignano per eccellenza è il leggendario Harold e Maude, che i critici non citano mai, forse perché è una stella luminosa che brilla nella lontana costellazione hippy anni Sessanta (anche se il film è uscito nel 1971). Qui la differenza di età è più estrema, Harold aveva diciotto anni e Maude settantanove. Inoltre il personaggio in difficoltà con la famiglia era Harold, che voleva sposarla a tutti i costi. In Inganno invece a subire le pressioni dei famigliari, soprattutto del figlio, è Gabriella, che gestisce un hotel di lusso sulla costa di Amalfi. L’uomo di cui è innamorata, Elia, interpretato da quel Giacomo Gianniotti che abbiamo visto nei panni dell’ultimo Diabolik, è accusato di essere un truffatore che punta ai soldi. La storia procede molto ben diretta dal regista Pappi Corsicato, viaggiando nel flusso di un’atmosfera ambigua e in una colonna sonora di stampo thriller, che crea una certa tensione. Intanto noi spettatori continuiamo a chiederci: “Ma Elia è davvero un truffatore?” Gabriella è interpretata da Monica Guerritore, un’attrice esperta e sicura di sé, che rende bene il suo personaggio di donna libera e indipendente disposta a combattere per essere la protagonista della propria vita. E come tale si mette in gioco con coraggio nelle scene di nudo, infischiandosene della legge non scritta per cui la donna mostrata senza veli deve essere per forza giovane e conforme alla morfologia dominante della bellezza femminile. Per tornare a Harold e Maude, a quei tempi c’era più coraggio. Il suo finale non è certo happy hending, ma triste e malinconico; Inganno invece, dopo un sotto finale interessante, crolla miseramente in un epilogo così stucchevole da rischiare di rovinare crudelmente la forza narrativa e la classe che l’hanno preceduto. Ma proprio per le ore piacevoli che ci hanno donato la storia e i personaggi, con un po’ di buona volontà, riusciamo a perdonarlo. (Netflix)

La legge di Lidia Poët

Torna Matilda Angelis in questa serie in due stagioni di sei episodi ciascuna (pare che questo stia diventando il dimensionamento tipo della serialità), antecedente di un anno rispetto a Citadel Diana. Qui non siamo nel futuro ma nel passato. C’è l’Ottocento, tutto, ottimamente rappresentato nelle scenografie, nei costumi, negli eventi (qualcuno ha criticato l’uso di colt in alcune scene ma dove sta scritto che alla fine dell’Ottocento non potevano circolare pistole americane a Torino?). Lidia Poët – un personaggio realmente esistito – è una giovane avvocata che non può essere iscritta nell’Ordine perché donna. I severi uomini barbuti e baffuti, ebbri di prosopopea e pregiudizi, continuano a ripeterglielo. Ma Lidia non si rassegna. Combatte ininterrottamente contro la chiusura arcaica e patriarcale, mentre indaga su vari episodi criminosi. Talvolta è osteggiata dal fratello (interpretato da un vecchio amico dell’attrice, Pier Luigi Pasino, musicista e cantante punk, come la stessa De Angelis), che la invita più volte a desistere, ma finisce sempre per appoggiarla, tra proteste e brontolamenti vari. Arriva addirittura a sostituirsi a lui in un’indagine, mandandolo su tutte le furie. Proprio il rapporto col fratello, fatto di tensioni e di aspetti comici, insieme alla rappresentazione dei vecchi tromboni imbalsamati che detengono il potere, costituisce il nucleo portante della stagione, sul quale si innestano le indagini di Lidia, supportate dalla sua competenza e dal suo prodigioso intuito. La seconda stagione perde un po’ della tensione politica. Continua la battaglia per i diritti delle donne, mentre il plot scivola verso una narrativa più classica da giallo. Entrano in scena personaggi storici, come il vecchio Primo Ministro Agostino Depretis, o lo scienziato Lombroso, del quale la protagonista è stata allieva (e ora contestatrice), con la sua fisiognomica criminale. Non mancano eventi e personaggi con sfaccettature più intriganti, compresa una certa tensione affettiva e addirittura erotica della protagonista verso due uomini: un giornalista socialista interpretato dal pronipote del famoso Eduardo Scarpetta, e il Procuratore del Regno, un austero giovanotto calato in pieno nel proprio dovere, ma disposto a derogare dall’applicazione spietata della legge in nome di una legge più giusta, senza escludere il suo amore segreto e non dichiarato verso la Poët. (Prime)

Inspira, espira, uccidi

Questa serie tedesca procede sul segmento di una interessante connessione: la Mindfulness, una pratica antistress di derivazione buddista che si basa soprattutto sul motto qui ed ora. Il protagonista è un avvocaticchio che lavora per uno studio – senza esserne socio, per cui è considerato di serie B e riceve ogni giorno le battute sprezzanti della segretaria strega – che non si limita a seguire dei grandi criminali, ma ne ricicla pure i soldi. Un giorno viene convocato da uno dei pesi massimi del crimine, Dragan Sergowicz, che è stato filmato da un autobus di ragazzini mentre massacra a sprangate un nemico che sta pure bruciando vivo. E qui entriamo nella seconda connessione: il crimine più efferato è rappresentato con un’ottica comica-paradossale che se da un lato sembra alleggerire la componente horror, dall’altro la enfatizza esaltandone la folle crudeltà. Ora Bjorn si trova in un maledetto pasticcio. Dragan pretende che lo tolga da guai, cosa impossibile visto che il video è diventato virale. Ma vaglielo spiegare a quel pazzo assassino. Allora Bjorn, che ha seguito da scettico un corso di Mindfullness, come ultima risorsa prova a metterne in pratica gli insegnamenti. Qui e ora significa ripulire la mente dai pensieri tossici, paura, previsioni negative, per concentrarsi su ciò che si sta facendo in quel preciso momento. Il metodo guida è la respirazione. La mente si concentra sul flusso d’aria che entra ed esce attraverso il naso, passa per i polmoni, viaggia nel sangue. Con questa pratica, che attiva nei momenti critici rivolgendosi ironicamente allo spettatore per spiegare, mentre intorno a lui la scena colma di violenza si ferma, riesce a risolvere le situazioni più estreme. Per esempio lasciar cuocere per giorni il suo nemico mortale nel baule di un’auto in pieno sole. Poi lo squarta con una motosega da Non aprite quella porta. Infine mette i pezzi in un tritatutto che spara la poltiglia sanguinolenta come dessert per i pesci di un lago. Bjorn è stralunato, nauseato, vomita, ma s’ha da fare per restare vivo, quindi metti da parte gli accessori, respira e concentrati sul qui e ora. Mingherlino, apparentemente sempliciotto, braccato da un enorme killer pronto ad assassinargli la figlioletta, diventa un micidiale mix di Walter White e Saul, geniale, preciso e letale. Insipra, espira, uccidi è attualmente una delle serie più atroci e divertenti che viaggiano sul web. (Netflix)

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