Cinema & tv – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Tue, 15 Apr 2025 03:58:49 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 The Shrouds (2024). Il corpo, oltre l’ultimo respiro https://www.carmillaonline.com/2025/04/13/the-shrouds-2024-il-corpo-oltre-lultimo-respiro/ Sun, 13 Apr 2025 20:00:45 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=87864 di Paolo Lago e Gioacchino Toni

Per quanto Crimes of the Future (2022) di David Cronenberg, nel mettere in scena il desiderio degli esseri umani di ritrovare un barlume di vita nella ricerca del dolore in un corpo ormai anestetizzato nel suo lento ma inesorabile processo di artificializzazione, avesse tutte le caratteristiche per risultare l’episodio finale di una lunga carriera incentrata sui processi di mutazione del corpo e con esso dell’identità dei personaggi, evidentemente non si era ancora giunti ai titoli di coda ed al momento di riaccendere le luci in sala. A distanza di un paio di anni dal film [...]]]> di Paolo Lago e Gioacchino Toni

Per quanto Crimes of the Future (2022) di David Cronenberg, nel mettere in scena il desiderio degli esseri umani di ritrovare un barlume di vita nella ricerca del dolore in un corpo ormai anestetizzato nel suo lento ma inesorabile processo di artificializzazione, avesse tutte le caratteristiche per risultare l’episodio finale di una lunga carriera incentrata sui processi di mutazione del corpo e con esso dell’identità dei personaggi, evidentemente non si era ancora giunti ai titoli di coda ed al momento di riaccendere le luci in sala. A distanza di un paio di anni dal film il regista canadese ha aggiunto alla sua produzione un ulteriore episodio, portando la macchina da presa sin dentro la tomba, in quell’ultimo prolungamento di presenza del corpo ancora soggetto alla trasformazione nel suo lento e inesorabile processo di dissoluzione finale. Il desiderio di dare a vedere gli splendori e le mostruosità delle mutazioni del corpo umano in vita si è spinto alla sua ultima metamorfosi, prima della definitiva scomparsa.

Pensato inizialmente come opera seriale televisiva, The Shrouds (2024) si è trasformato in un film, presentato in anteprima al 77º Festival di Cannes nel 2024. Questa ultima produzione cronenberghiana ruota attorno alla figura di Karsh (Vincent Cassel), produttore di video industriali, che, dilaniato dalla perdita della moglie Becca (Diane Kruger), decide di costruire una futuristica necropoli dotata di una tecnologia, denominata Grave Tech, in grado di mostrare in tempo reale la decomposizione dei cadaveri avvolti all’interno di avveniristici sudari.

Nel momento in cui tale innovativa tecnologia si appresta ad essere lanciata sul mercato internazionale e dunque, potenzialmente, a divenire una modalità di sepoltura diffusa almeno tra chi può permettersi i costi, alcune di queste avveniristiche sepolture vengono profanate. Tentando di individuare i responsabili del gesto e di comprenderne le motivazioni, il protagonista si trova a fare i conti con una serie di ipotesi che contemplano non meglio definiti gruppi ecologisti antitecnologici, hacker al soldo dello spionaggio di potenze straniere e segrete sperimentazioni mediche, oltre che gelosie e risvolti passionali inconfessati di amanti ed ex coniugi che toccano i protagonisti del film, inducendo Karsh a riflettere sulla sua attività imprenditoriale e sul senso del prolungare il rapporto con il corpo dell’amata per via scopica.

Se tradizionalmente i sudari (shrouds), a cui ricorrono diversi riti funebri, intendono celare il volto dei defunti, nel film, nella loro variante tecnologica, questi manifestano, al contrario, l’intenzione di rivelare, insieme al volto ed al resto della salma di chi ha perso la vita, la “morte al lavoro”, nel suo atto di trasformare e consumare quel che ancora resta dell’essere umano dopo l’ultimo respiro, il corpo.

L’avveniristica tecnologia capace di prolungare il contatto visivo con il corpo intende soddisfare la necessità di mantenere il legame con il corpo di una persona cara, nell’incapacità di pensarla, anche nel ricordo, oltre ad esso. Per il protagonista del film, il corpo della moglie defunta resta l’unico, straziante, ancoraggio possibile all’amata; le immagini che mostrano in diretta il suo processo di deterioramento divengono, dunque, un ultimo disperato tentativo di prolungarne la presenza corporea.

Come ribadito tante volte dal cinema cronenberghiano e dallo stesso autore, il corpo resta la vera essenza dell’essere umano, la sua identità1. Un corpo destinato a trasformarsi in continuazione in vita come, per qualche tempo, dopo il sopraggiungere della morte, prima che di questo scompaia ogni traccia.

Karsh realizza una necropoli dalle forme minimaliste composta da una serie ordinata di lapidi dotate di monitor attraverso cui, ricorrendo ad una app, è possibile osservare i defunti a cui si è legati. Le sofisticate immagini tridimensionali dei corpi, a differenza di quanto accade nella tradizione che dalle antiche maschere mortuarie conduce alle fotografie post mortem, non mirano alla mummificazione degli effigiati, bensì a soddisfare un voyeurismo necrofilo, un desiderio scopico da consumare in tempo reale al fine di prolungare il rapporto, per quanto esclusivamente visivo, con i corpi dei defunti.

Non sfugge come il desiderio di mantenere il legame con la moglie venuta a mancare si converta in business, a riprova di come anche la morte ed il lutto non tardino ad essere piegati al profitto, né sfugge l’impulso a portare alle estreme conseguenze la pratica di vetrinizzazione ossessiva e continuativa a cui si è votato l’individuo contemporaneo2, in assenza della quale sembra non riuscire più a percepire ed a manifestare al mondo la propria presenza, il proprio esserci e con esso il proprio essere3. Emblematica, in tal senso, la conversazione, al loro primo incontro in un ristornate, tra il protagonista e Myrna Slotnik (Jennifer Dale), in cui i due ironizzano sull’impossibilità che si possano ancora dare “incontri al buio”, stante la possibilità tecnologica di sapere e, soprattutto, vedere tutto della persona con cui ci si incontra per la prima volta.

Come altri film cronenberghiani, The Shrouds mette in scena l’impossibile unità tra entità distinte e la tematica del doppio4 che si palesa non solo nelle due sorelle Becca e Terry, pressoché identiche, interpretate dalla medesima attrice e replicate persino nella grafica di Hunny, l’assistente AI installata sullo smartphone del protagonista, ma anche nel ricorrere, nel ruolo di quest’ultimo, ad un attore, Cassel, duplicante le fattezze del regista stesso.

Se nel film si possono cogliere richiami a celebri doppi femminili hitchcockiani, o a personaggi che si duplicano su più piani visivo/narrativi in film precedenti dello stesso canadese, a rafforzare l’effetto moltiplicatore provvedono i tanti schermi dei dispositivi tecnologici presenti, nonché i momenti di intimità con la moglie che si replicano nelle apparizioni oniriche di Karsh, mentre le menomazioni e le cicatrici di Becca ricompaiono, agli occhi dell’uomo, sul corpo di SooMin Szabo (Sandrine Holt), l’amante che, costretta a cercare il contatto tattile con la realtà e con gli individui, a causa del suo stato di cecità, suggerisce un’alternativa alla dipendenza scopica del protagonista.

Il futuro distopico e ipertecnologico narrato dal film, un futuro assai vicino e simile alla nostra epoca, in cui l’Intelligenza Artificiale ed i più diversi dispositivi digitali fanno parte della sfera più intima degli individui, è ossessionato dalle tombe e dalla morte come negli interstizi più arcani ed arcaici della modernità. Sembra che non ci sia nessuna differenza fra un’epoca digitalizzata e ipermoderna e gli inizi del XVIII secolo in cui si diffuse una vera e propria “epidemia vampirica” soprattutto nell’Europa dell’est5. Se i viaggiatori occidentali, all’epoca, erano ‘contagiati’ dalle credenze e dalle superstizioni delle sperdute lande orientali dell’Europa, laddove si riesumavano i morti e si mutilavano per paura che potessero riemergere dal sepolcro per nuocere ai vivi, in pieno occidente ipertecnologico si costruiscono tombe per poter osservare il processo di decomposizione dei cadaveri.

Quello messo in scena da Cronenberg è un mondo ossessionato dalla morte, che guarda con terrore a ciò che sta sottoterra e desidera tenere sotto controllo i processi di cui sono investiti i corpi nelle tombe: un mondo molto simile a quello degli inizi del Settecento, quando si temevano i vampiri e si riesumavano i morti. Le magiche superstizioni si sono velate di tecnologia ma restano ugualmente crudeli e barbare. L’orrore della modernità si è trasformato in tecnologia. Le paure notturne, il terrore degli incubi, quegli esseri che apparivano nella notte e si posavano sui corpi addormentati gravando su di essi riemergono sotto forma di ossessioni e depressioni legate a un passato irrisolto.

Se le fake news sui vampiri, negli anni Trenta del Settecento, hanno posto le basi per le attuali teorie del complotto6, sembra che queste ultime vadano di pari passo con il miglioramento delle tecnologie. L’aumento della tecnologia e delle innovazioni scientifiche corrisponde all’aumento di un sostrato magico7 lungamente represso che riemerge dalle profondità dei cimiteri. L’uomo digitalizzato, circondato di AI e di smart car che si guidano da sole, di ritrovati tecnologici all’avanguardia, è superstizioso e intriso di arcana magia non meno di un contadino della Slesia del Settecento8. Non a caso, il geniale informatico creatore di AI, Maury (Guy Pearce), è fermamente convinto di essere vittima di una serie di complotti.

Come per altre opere dell’autore, anche da The Shrouds è inutile pretendere maggiore verosimiglianza e definizione negli intrecci complottisti che vengono tratteggiati sommariamente soltanto per fare da sfondo alle questioni che interessano il regista, d’altra parte anche il mondo reale contemporaneo non è particolarmente incline alla plausibilità delle sue spiegazioni, basti pensare, ad esempio, alla narrazione riguardante le carneficine belliche in corso da parte di politici, media principali e narratori ‘alternativi’ da social inclini a limitarsi a ribaltare le versioni ufficiali.

Non è nemmeno impensabile che la smania voyeuristico-esibizionista contemporanea possa spingersi fino a seguire la decomposizione dei corpi oltre la morte, se si pensa che nella realtà vetrinizzata dei nostri giorni c’è persino chi, mosso da un incontenibile desiderio di esibizionismo sui social, non ha esitato a sottoporre al rischio di estinzione un’intera comunità indigena isolata dal resto del mondo al solo scopo di ottenere qualche visualizzazione in più9.

Anche in The Shrouds, come avviene in diverse altre opere cronenberghiane, viene posta una certa attenzione sull’atto del cibarsi da parte dei personaggi. La bocca rappresenta uno dei possibili viatici di accesso all’affascinante mondo interno ai corpi, a quella bellezza celata dall’epidermide a cui hanno fatto esplicito riferimento tanto Dead Ringers (1988), quanto Crimes of the Future (2022). Non a caso, dopo i titoli iniziali avvolti in un suggestivo pulviscolo luminoso ectoplasmatico dal lentissimo andamento spiraliforme, il film si apre su una bocca spalancata da un onirico urlo che si trasforma rapidamente nella cruda ‘realtà’ della cavità orale del protagonista sottoposto alle cure di un dentista, il dottor Jerry Hofstra (Eric Weinthal), che gli rivela come nel marcire della sua dentatura sia possibile vedere uno sorta di somatizzazione della decomposizione della donna amata osservata grazie ai tecnologici sudari.

L’urlo con cui si apre il film può ricordare quello lanciato da Lucy, sempre nei momenti iniziali della storia, in Nosferatu, il principe della notte (Nosferatu: Phantom der Nacht, 1979) di Werner Herzog. Qui, dopo una carrellata dalle connotazioni oniriche che riprende in primo piano diverse inquietanti mummie, vediamo la giovane svegliarsi di soprassalto e urlare, come se le immagini mostruose iniziali rappresentassero una prosecuzione ectoplasmatica del vampiro che sta per sferrare il suo attacco. Anche nel film di Cronenberg vediamo delle immagini che mostrano il corpo di Becca all’interno della tomba, un corpo evanescente che sembra uno spettro, una entità incorporea che non possiede assolutamente la fisicità della putrefazione cui lo stesso corpo è sottoposto.

Probabilmente, l’urlo viene lanciato proprio perché quel corpo si è trasformato in una escrescenza vampiresca, in una “mummia del pensiero”, un “automa spirituale” per utilizzare due espressioni usate da Gilles Deleuze riguardo agli esseri sonnambulici di Vampyr. Der Traum des Allan Grey (1932) di Carl Theodor Dreyer10. Come Nosferatu e come la vampira del film di Dreyer, Becca è un “automa spirituale” che riemerge non solo dalla tomba ma anche dal greve passato del protagonista. È un corpo non solo fisico ma anche spirituale perché emerge dalla coscienza ferita del personaggio; è un fantasma, è un corpo-pensiero divenuto spettro e vampiro. Becca assume connotazioni evanescenti e vampiresche anche nelle sue visite notturne a Karsh, al quale si mostra nuda e ricoperta di cicatrici, con un seno e un braccio amputati. Come in Crimes of the future (2022), le ferite e le alterazioni dei corpi sono anche ferite e alterazioni mentali e psicologiche: Becca-vampira è un corpo divenuto pensiero, emerso dalla terra putrescente ma anche dalle malate plaghe della mente del protagonista. È fatta più di pensiero che di carne.

Una delle prime sequenze del film mostra Karsh intrattenersi a pranzo con una donna, Myrna Slotnik (Jennifer Dale), presentatagli dal comune dentista, in un ristorante collocato nel complesso cimiteriale da lui realizzato. In un’elegante sala arredata con gusto minimalista giapponese alle cui pareti sono esposti alcuni esemplari degli inquietanti sudari tecnologici richiamanti antichi costumi orientali, Karsh consuma con fare controllato il suo pasto a minuti bocconi e piccoli sorsi di vino mentre inizia a confidare alla donna quanto ha realizzato per soddisfare il legame viscerale che continua ad intrattenere con la moglie scomparsa, in particolare con il suo corpo.

Che si tratti dei gesti del dentista sulla cavità orale dell’uomo, dei bocconi di cibo e dei sorsi di vino che valicano la bocca, viatico che conduce all’interno del corpo, o dell’osservazione del cadavere in decomposizione della moglie, attraverso orifizi, ferite e lacerazioni Cronenberg continua a condurre con le sue immagini oltre l’epidermide esplorando l’aspetto più corporeo dell’esistenza umana nella sua magnificenza e repellenza, nella sua potenza e vulnerabilità. The Shrouds ribadisce una volta ancora come il corpo resti per Cronenberg l’unico dato dell’esistenza umana a cui è possibile aggrapparsi, almeno finché ne resta traccia.

Il complesso cimiteriale e il ristorante di Karsh sono caratterizzati da linee geometriche e fredde, incastonate in un’architettura dai tratti razionalistici dai richiami orientali, come del resto la stessa abitazione avveniristica del personaggio. Non si può non pensare allora all’istituto di ricerca di Stereo (1969), al centro dermatologico House of Skin di Crimes of the Future (1970), al complesso residenziale delle Starliner Towers di Shivers (1975), alla clinica del dottor Keloid di Rabid (1977) ed al tetragono blocco granitico in cui ha sede la ConSec di Scanners (1981), tutti edifici isolati e caratterizzati da innovative architetture geometriche di stampo razionalista.

Nello spazio ipertecnologico, laddove la stessa tecnologia celebra i suoi fasti erigendosi a ornamento e sollazzo estetico per le frange più ricche della società, molto probabilmente, si cela l’orrore più terribile. Il perturbamento e l’orrore si nascondono negli angoli più razionali e tecnologici, dove i ricchi e i benpensanti, nei loro abiti eleganti, conversano amabilmente davanti a elaborate e costose portate.

Ancora una volta Cronenberg ci mostra come il mostro se ne stia rintanato negli spazi più impensati, nelle vite più regolate e scandite da razionali orpelli tecnologici e digitali. Se in Videodrome (1983) il mostro nascosto nell’intimità degli spazi domestici era rappresentato dallo schermo televisivo, terribile ed inquietante manipolatore degli individui, dei loro corpi e delle loro menti, The Shrouds mette in scena la pervasività dell’intelligenza artificiale che si insinua negli interstizi più privati dell’abitazione del protagonista. Hunny non è altro che una rivisitazione attuale e distopica dello schermo televisivo di Videodrome.

La stessa Tesla guidata da Karsh, lungi dall’apparire come un’icona pubblicitaria utilizzata subdolamente dal regista (niente di più lontano, crediamo, dagli intenti di Cronenberg per quanto notoriamente appassionato di automobili e motociclette), appare come un’auto mostruosa e ‘malvagia’, una versione attualizzata della demonica Crhistine di Christine la macchina infernale (Christine, 1983) di John Carpenter. Mentre il personaggio è alla guida, appare sì in primo piano il volante dell’auto con il marchio di fabbrica ma esso sembra alludere alla mostruosità insita in quello stesso marchio.

Se una volta era il diavolo in persona a guidare le automobili che andavano da sole, come la già citata Christine o la macchina nera dell’omonimo film (The Car, 1977) di Elliot Silverstein, adesso guidatrice fantasma è la tecnologia rappresentata per sineddoche dalle multinazionali automobilistiche, come Tesla appunto, in mano ad Elon Musk, braccio destro di Donald Trump e, come il neopresidente degli Stati Uniti, in prima fila fra le schiere dei negazionisti climatici.

Nel momento in cui Karsh appare ‘prigioniero’ della sua auto, condotto da Maury contro la sua volontà, la macchina da presa inquadra il volante mentre in sottofondo ascoltiamo delle sonorità inquietanti e dalle connotazioni ‘mostruose’, come se l’essere umano alla guida sia in realtà un impotente burattino in mano alla tecnologia che lo sta imprigionando e comandando. L’auto assume connotazioni inquietanti come la vecchia auto guidata da Vaughan in Crash (1996), personaggio mostruoso e quasi novella creatura frankensteiniana. In tale film, l’auto, guidata da quest’ultimo, sembrava quasi una entità infernale che si muoveva da sola.

Non possono che tornare alla mente anche le ‘demoniche’ Tesla di un recente film come Il mondo dietro di te (Leave the World behind, 2023) di Sam Esmail, in cui una schiera di Tesla impazzite a guida automatica rischia di travolgere e uccidere la famiglia protagonista mentre sta fuggendo dalla misteriosa villa in cui si era recata per una breve vacanza.

Se la “nuova carne” era il prodotto più mostruoso di film come Videodrome e Crimes of the Future (2022), adesso, in The Shrouds, la carne sembra essersi ormai decomposta insieme ad ogni residuo di umanità, mentre resta la ‘nuova tecnologia’ che ormai ha fagocitato i corpi e li ha sotterrati insieme a quella stessa umanità ormai putrefatta e dimenticata.


  1. David Cronenberg: «il dato più importante dell’esistenza umana è il corpo e più ci allontaniamo dal corpo umano, meno le cose diventano reali e dobbiamo inventarle. Forse il corpo è l’unico dato dell’esistenza umana a cui possiamo aggrapparci»: intervista rilasciata a Richard Porton, Il regista come filosofo, in D. Cronenberg, Una storia di violenza, a cura di D. Schwartz, Wudz Edizioni, Arezzo-Milano, 2024, p. 270. 

  2. Cfr. V. Codeluppi, La vetrinizzazione sociale. Il processo di spettacolarizzazione degli individui e della società, Bollati Boringhieri, Torino, 2007. 

  3. Cfr. E. Mazzarella, Contro Metaverso. Salvare la presenza, Mimesis, Milano-Udine, 2022. 

  4. Cfr. A. Chimento, C. Maccaferri, Dal corpo mutante alla proiezione inconscia: il tema del doppio nel cinema di David Cronenberg, in L. Taddio, a cura di, David Cronenberg. Un metodo pericoloso, Mimesis, Milano-Udine, 2012. 

  5. Cfr. F.P. de Ceglia, Vampyr. Storia naturale della resurrezione, Einaudi, Torino, 2023, p. 20 e seguenti. 

  6. Cfr. ivi, pp. 22-23. 

  7. Cfr. V. Susca, Tecnomagia. Estasi, totem e incantesimi nella cultura digitale, Mimesis, Milano-Udine, 2022. 

  8. Cfr. G.N. Bovalino, Algoritmi e preghiere. L’umanità tra mistica e cultura digitale, Luiss University Press, Roma 2024. 

  9. Cfr. Tenta di contattare una delle tribù più isolate del mondo, arrestato youtuber americano, “Rai News.it”, 7 aprile 2025. 

  10. Cfr. G. Deleuze, Cinema II. L’immagine tempo, trad. it. Ubulibri, Milano, 1989, p. 190. 

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Poteve Opevaio. Fantozzi e l’astrazione kafkiana del padrone https://www.carmillaonline.com/2025/04/01/poteve-opevaio-fantozzi-e-lastrazione-kafkiana-del-padrone/ Tue, 01 Apr 2025 05:00:27 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=87473 di Marco Sommariva

Mentre non è ancora morto il Poteve Opevaio, schiere di sfruttati continuano a prendere il bus al volo

Per la regia di Luciano Salce, il 27 marzo 1975 usciva nei cinema Fantozzi, e il giorno del cinquantesimo anniversario – giovedì 27 marzo 2025 – tornerà nelle sale questo primo leggendario capitolo della saga del Ragionier Ugo; a festeggiare lo storico personaggio inventato da Paolo Villaggio, sarà una versione del film rimessa a nuovo dal laboratorio di restauro cinematografico L’Immagine Ritrovata, con la supervisione di Daniele Ciprì per il processo di color correction.

Fantozzi nasce nelle storie che Villaggio [...]]]> di Marco Sommariva

Mentre non è ancora morto
il Poteve Opevaio,
schiere di sfruttati
continuano a prendere il bus al volo

Per la regia di Luciano Salce, il 27 marzo 1975 usciva nei cinema Fantozzi, e il giorno del cinquantesimo anniversario – giovedì 27 marzo 2025 – tornerà nelle sale questo primo leggendario capitolo della saga del Ragionier Ugo; a festeggiare lo storico personaggio inventato da Paolo Villaggio, sarà una versione del film rimessa a nuovo dal laboratorio di restauro cinematografico L’Immagine Ritrovata, con la supervisione di Daniele Ciprì per il processo di color correction.

Fantozzi nasce nelle storie che Villaggio scrive per “L’Europeo”, un settimanale d’attualità edito da Rizzoli pubblicato sino al 2013; diventerà un libro nel 1971, quando lo stesso editore del settimanale gli proporrà di raccogliere queste storie in volume.

Nella premessa del libro datata luglio 1971, l’attore genovese scrive: “Con Fantozzi ho cercato di raccontare l’avventura di chi vive in quella sezione della vita attraverso la quale tutti (tranne i figli dei potentissimi) passano o sono passati: il momento in cui si è sotto padrone. Molti ne vengono fuori con onore, molti ci sono passati a vent’anni, altri a trenta, molti ci rimangono per sempre e sono la maggior parte. Fantozzi è uno di questi. Nel suo mondo il padrone non è più una persona fisica, ma un’astrazione kafkiana, è la società, il mondo. E di questa struttura lui ha paura sempre e comunque perché sa che è una struttura-società che non ha bisogno di lui e che non lo difenderà mai abbastanza. Questo per lo meno qui da noi. Ma questo rischia di diventare un discorso politico troppo serio per uno «scherzo» quale deve essere tutta questa faccenda del «libro» e mi fermo qui”.

Era ed è sì un discorso politico: lo era allora, quando sul viso di Fantozzi ritrovavamo tutte le sconfitte dell’impiegato medio italiano, non una caricatura, ma una discarica pubblica dove ci si alleggeriva tutti, in cui si evacuavano le risate amare che le nostre facce da culo producevano guardando le genuflessioni del Ragionier Ugo davanti allo stesso Megadirettore Galattico che ci aspettava l’indomani in ufficio, al quale rispondevamo “faccio subito” intanto che speravamo che qualcuno gli sparasse nelle gambe; lo è al giorno d’oggi, mentre una struttura-società che non ha bisogno di noi e non ci difenderà mai abbastanza, ci sta sfruttando con quella viscida delicatezza che cinquant’anni fa ancora non esisteva, che prevede di non prenderci a manganellate perché, con gli anni, è stata capace di convincerci che dobbiamo essere noi a manganellare i nostri pari che non seguono le direttive dei potenti – non a caso, nella stessa premessa l’autore ci consiglia coi potenti “di essere vischiosi, servili e sempre d’accordo anche su posizioni «fasciste»”, un po’ come certi conduttori televisivi che da decenni non riusciamo a scollarceli di dosso, regnanti indiscussi di squallidi studi televisivi consacrati alle celebrazioni del regime.

Sul manganellare i nostri pari, Villaggio aveva capito che era un processo già iniziato: “[…] la pesantissima boccia di metallo di 42 chili centrò in piena nuca il suo direttore, che aveva accostato alle labbra in quel momento un bicchiere di vino ristoratore. Fantozzi non si fermò neppure a chiedere scusa ma si diede alla macchia sulle montagne. Cominciò allora una delle più feroci cacce all’uomo degli ultimi centovent’anni. Parteciparono alla ricerca cani-poliziotto e feroci molossi napoletani, mescolati ai quali c’erano moltissimi impiegati ruffiani che si erano offerti come cani da riporto per segnalarsi presso la direzione sperando in un aumento. Dopo tre giorni e tre notti di drammatica caccia tra gli acquitrini, Fantozzi fu circondato da un gruppo di colleghi abbaianti, tenuti al guinzaglio da alcuni feroci dirigenti”.

A differenza dei tanti comici che proliferano nei numerosi spettacoli d’oggi creati apposta per far ridere il pubblico e che sempre più raramente raggiungono l’obiettivo, Villaggio non ci parla di una zona dell’Italia – siciliani o calabresi “contro” milanesi, nordisti “contro” sudisti, apologie del romanesco, napoletano, toscano, eccetera – non ci parla di uomini “contro” donne e viceversa – i primi che sporcano di pipì la seduta del water, le seconde che sono intrattabili in “quei giorni” – no, Villaggio non ha alcuna intenzione di anestetizzarci con queste fesserie che fingiamo di credere esistere ancora ridendo fintamente a crepapelle perché intorno a noi altri fanno la stessa cosa, no, Villaggio ci parla dell’autobus preso al volo perché cinquant’anni fa si provava a dormire sino all’ultimo minuto dopo giornate snervanti già allora per la mancanza di senso, che mi ricordano molto da vicino la vita che fanno certe dipendenti della cooperativa che ha in appalto la pulizia degli uffici dove lavoro che, stremate dalla giornata lavorativa precedente, alle cinque del mattino prendono al volo il primo di tre autobus che, dopo un’ora e mezza di viaggio, le porterà a svuotarmi nuovamente il cestino chiedendomi scusa per il disturbo, e il tutto per un pugno di euro all’ora, lo stesso che a volte mi capita di dare in elemosina a Yassir, il ragazzo bengalese che mi riporta a posto il carrello vuoto, dopo che ho riempito l’auto coi sacchetti della spesa, situazione che a volte mi fa sentire come il Megadirettore Galattico Duca Conte Maria Rita Vittorio Balabam, il Direttore Marchese Conte Piermatteo Barambani o un altro qualsiasi feroce padrone o amministratore delegato: è un attimo saltare dall’altra parte della barricata senza neppure accorgersene.

Se è vero che 1984 di Orwell fu un romanzo premonitore, vedete se vi dice qualcosa dei nostri giorni questo estratto del libro Fantozzi: “Cominciò […] una discussione tra giovani sulla contestazione studentesca e l’intervento americano in Vietnam. Fantozzi credeva di essere nel covo della reazione: ma con suo grande stupore s’accorse che più quei gran signori erano bardati con orologi Cartier e brillanti (con uno solo dei quali lui avrebbe vissuto senza patemi il resto dei suoi giorni) più erano su posizioni maoiste. La maggior parte, giudicò Fantozzi, era a sinistra del partito comunista cinese. […] L’indomani mattina lui “timbrava” alle 8: pensando a quei giovani sovversivi che si sarebbero svegliati a mezzogiorno, gli si confondevano le idee”.

Questo è Fantozzi; Villaggio, invece, nella biografia in quarta di copertina della seconda edizione del libro, datata 1981, si definisce “figlio di padre ricchissimo” e per questo “a sinistra del partito comunista cinese”, non solo, sostiene che “a Roma ha fondato con un gruppo di nobili una frangia politica di estrema sinistra molto “in” che si chiama «POTEVE OPEVAIO»”.

Il libro Fantozzi era anche confortante; alla rabbia di mio padre che bestemmiava nel leggere dell’ennesima apparizione mariana a una contadina quattordicenne, piuttosto che a dei bambini impegnati a sorvegliare un gregge o a una bambina belga, il concittadino e quasi coetaneo Paolo Villaggio rispondeva così: “Un giorno c’era un tale caldo che a Fantozzi alle undici del mattino, mentre era in cucina che faceva correre un po’ d’acqua per bere, comparve improvvisamente la Madonna. Era in piedi sull’acquaio e gli sorrideva, poi scomparve. “Sarà questo maledetto caldo” si disse: e decise di raggiungere la moglie in campagna. Mentre si preparava per il viaggio si domandava perché mai la Madonna per il passato si sia limitata a comparire a pastorelli semianalfabeti e in zone montuose, e mai per esempio a Von Braun, al Centro Spaziale di Houston durante una riunione della NASA. Non ricordava infatti di aver mai letto sui giornali notizie di questo tipo: “Ieri alle 16,30 la Santa Vergine è comparsa improvvisamente dietro la lavagna di un’aula gremita di studenti della scuola di ingegneria di Pisa, durante la lezione di “meccanica applicata alle macchine”. Il docente professor Mannaroni-Turri, noto ateo, è svenuto di fronte a duecento studenti”.

Il libro Fantozzi è ancora confortante; alla mia rabbia condita di bestemmie che fa seguito all’ascolto di boiate pazzesche tipo quella espressa da due signore bionde col fisico scolpito che, d’estate, alla spiaggia, lamentano il “sold out” – a giugno! – nelle “location” più “in” di New York che le costringerà a trascorrere il Capodanno da un’altra parte, mentre una donna africana larga quanto le due messe assieme passa loro accanto stracarica di mercanzia che nessuno vuole, le pagine del libro mi consolano così: “A un’ora da Roma, Fantozzi andò in corridoio a fumare. C’erano due bambini molto belli biondi, figli di ricchi: tutti i figli dei ricchi sono biondi e uguali, i figli dei braccianti calabresi sono scuri, disuguali e sembrano scimmie. Erano dei bambini molto educati e non facevano rumore. Una baby-sitter americana bionda li custodiva. Uscirono dallo scompartimento le madri. Erano molto giovani, molto belle, molto ricche, molto profumate, molto eleganti e molto abbronzate: venivano da due mesi sulla neve a Gstaad in Svizzera e parlavano della gente che c’era lassù. Fantozzi le guardava con la bocca semiaperta. Le due donne cominciarono a parlare delle loro prossime vacanze al mare ed erano un po’ in pensiero perché non sapevano più dove andare: dovunque ormai andassero, dalla Corsica alle isole Vergini, trovavano della gente orribile. Fantozzi si commosse quasi per il dramma di quelle poverette. Il treno entrò alla stazione Termini. Sulla banchina c’era una tragica lunga fila di terremotati siciliani del Belice. Erano seduti sulle loro valigie di cartone […] e guardavano muti il vuoto. Una delle due signore disse: “E’ stato un anno davvero disgraziato!”. “Meno male” pensò Fantozzi “che si occupano di questi poveracci!”. “Perché?” domandò l’amica. E l’altra: “Perché non abbiamo mai avuto a Gstaad una neve così poco farinosa!”

Perché mi consolano queste pagine? Perché avere testimonianza scritta che figure così mostruosamente stronze già esistevano più di mezzo secolo fa e che, quindi, certi orrori non sono solo frutto degli sfaceli della mia generazione, solleva un poco il morale: lo so, non sono messo bene.

Perché la mia generazione, e pure quella dopo, di errori ne ha fatti veramente tanti, nonostante gli ammonimenti ricevuti da cinema e letteratura; avvertimenti che, ancor oggi, continuano a esser lanciati vista la produzione di Scissione, una serie televisiva statunitense del 2022 dove gli impiegati di una ditta non conoscono altro al di fuori delle attività svolte all’interno dell’azienda, sono solo schiavi asserviti al raggiungimento di uno scopo il cui significato è loro precluso. Allo sceneggiatore televisivo e produttore statunitense Dan Erickson, l’idea gli è stata ispirata da certe sue deprimenti esperienze lavorative giovanili maturate in ambito impiegatizio, un po’ come Paolo Villaggio quando, da giovane, lavorava all’Italsider di Genova come impiegato e iniziava a mettere in cantiere certe idee, ma per saperne di più su Scissione v’invito a leggere questo pezzo di Walter Catalano: Severance/Scissione: il Corporate Horror e gli incubi di Fantozzi.

Conforto, consolazione, riconoscenza, ecco quello che raccolgo dal genio di Paolo Villaggio, e non sono il solo; scriveva Oreste Del Buono nell’introduzione al libro: “L’ultima apparizione di Paolo Villaggio a cui ho assistito in televisione quasi mi ha fatto piangere per la riconoscenza. La riconoscenza per chi si sobbarca il peso di tutti i diseredati dell’aspetto e del gesto, di tutti gli umiliati e offesi dalla propria bruttezza e goffaggine, di tutti i mutilati del pensiero e della prassi, dell’affabilità e della sintassi. Si era sotto le feste di Natale, magari alla viglia stessa. Avevano chiamato Paolo Villaggio in televisione per commentare insieme natività e austerità, un miscuglio di moda nel nostro disgraziato paese”.

Chi aveva invitato l’attore genovese s’aspettava da lui un po’ d’umorismo, ma sbagliò i suoi conti: Villaggio si presentò trasandato, malmostoso e, parlando con piglio truce, disse “controvoglia una sgradevolezza dopo l’altra” e prese a parlar male di se stesso, perché quello aveva da dire – Paolo Villaggio non fingeva mai.

A proposito di Natale, leggete quest’altro estratto del libro Fantozzi: “A casa la signora Pina gli preparò una minestra calda. Lui si sedette a tavola con uno sguardo da pazzo e diede la prima cucchiaiata. La moglie lo guardò e gli disse: “Buon Natale, amore!”. In quel momento l’albero si abbatté sulla tavola con violenza, centrò Fantozzi in piena nuca e lui tuffò la faccia nella minestra rovente. Si provocò ustioni di quarto grado. Non gli uscì un lamento: più tardi, nel buio della stanza da letto, pare che abbia pianto in silenzio con grande dignità”.

Quella dignità che perdiamo quando siamo preda della sindrome da consumo; ossia, quasi sempre.

Villaggio fa cenno al boom consumistico in un’intervista rilasciata alla Televisione Svizzera nel 1975: “Il piccolo Fantozzi, l’omino che per anni è vissuto nel boom consumistico, ha ricevuto dai mass-media, cioè dalla televisione, dai settimanali e da tutte le informazioni possibili, uno stimolo preciso, quasi un ordine a consumare, ad acquistare, a vivere secondo determinati schemi, e lo schema di questa filosofia era precisissimo: attento!, che se compri e ti attrezzi in determinati modi, cioè secondo la chiave consumistica, potrai essere felice, vivrai in un mondo che sarà felice e contento per mille anni. Improvvisamente, invece, un crack strano; insomma, tutto questo sistema meraviglioso, pieno di promesse, questo mondo fiabesco si è incrinato: è bastato che nel Medio Oriente una forte tensione internazionale chiudesse i rubinetti del petrolio perché tutta la grande economia mondiale entrasse in crisi”.

Villaggio fa riferimento al periodo a cavallo tra il 1973 e il 1974 quando, in seguito alla crisi petrolifera, diversi governi del mondo occidentale, tra cui l’Italia, emanarono disposizioni per contenere drasticamente i consumi energetici: ricordo, per esempio, che ci si metteva d’accordo tra parenti per uscire insieme nei giorni festivi, con l’auto che poteva circolare senza prendere la multa – una domenica toccava alle macchine con targhe che terminavano col numero pari, quella dopo era il turno delle dispari.

Oggi come oggi pare che il consumare, l’acquistare, il vivere secondo determinati schemi, siano azioni che non si riescano a fermare, neppure a rallentare.

E se pensate che anche andare a vedere la versione di Fantozzi rimessa a nuovo faccia parte di questo circolo vizioso, quello del consumare e del vivere secondo determinati schemi, vi rispondo che andrò ugualmente a vederlo lasciandovi alla vostra erre moscia e a quella cagata pazzesca de La corazzata Potëmkin.

E mentre mi si azzera la salivazione per l’emozione dovuta a questa mia intransigente presa di posizione, già sento iniziare lo scroscio dei novantadue minuti di applausi che mi renderanno immortale.

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The Monkey, Oz Perkins e la Nemesi edipica https://www.carmillaonline.com/2025/03/29/the-monkey-oz-perkins-e-la-nemesi-edipica/ Sat, 29 Mar 2025 21:00:06 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=87707 di Chiara de Stefano

Dopo il successo dello scorso anno di Longlegs, Oz Perkins torna con The Monkey: una commedia horror eccentrica, esagerata e grottesca uscita nelle sale italiane lo scorso venti marzo. Si tratta di un adattamento cinematografico di un racconto di Stephen King contenuto nella raccolta Scheletri (Sperling & Kupfer, 1989) che narra la storia di due gemelli Hal e Bill (Theo James, The White Lotus) e di una vecchia scimmia giocattolo lasciata in eredità dal loro defunto padre. A prima vista, la scimmia meccanica con il suo tamburello sembra innocua, ma presto la loro curiosità si trasforma in [...]]]> di Chiara de Stefano

Dopo il successo dello scorso anno di Longlegs, Oz Perkins torna con The Monkey: una commedia horror eccentrica, esagerata e grottesca uscita nelle sale italiane lo scorso venti marzo. Si tratta di un adattamento cinematografico di un racconto di Stephen King contenuto nella raccolta Scheletri (Sperling & Kupfer, 1989) che narra la storia di due gemelli Hal e Bill (Theo James, The White Lotus) e di una vecchia scimmia giocattolo lasciata in eredità dal loro defunto padre. A prima vista, la scimmia meccanica con il suo tamburello sembra innocua, ma presto la loro curiosità si trasforma in orrore: ogni volta che azionano il giocattolo, qualcuno intorno a loro muore. In preda al panico, cercano di sbarazzarsene, ma anni dopo riappare pronta a rovinare le loro vite e a falciarne altrettante, perché la scimmia – diabolico memento mori – non si distrugge mai​. È l’eco di un passato che non muore, un doppio oscuro del padre scomparso che torna a reclamare la propria colpa sui figli. La maledizione di una tragedia antica, una Nemesi edipica che passa di generazione in generazione, riflettendosi nelle cicatrici di una famiglia spezzata: tópos ricorrente in molte altre opere kinghiane. Essa è l’oggetto che si rivela vivo in uno spazio ritualedirebbe Carlo Severi nel suo saggio L’oggetto-persona (Einaudi, 2018) – perché non è solo un feticcio animato, ma un simulacro con una volontà autonoma. Difatti, non solo uccide, ma sceglie anche chi uccidere. Il suo criterio, divino e arbitrario, fa di essa la caricatura grottesca di Dio. Un essere che non punisce secondo giustizia, ma secondo un capriccio insondabile, un sollazzo fatale. La scimmia è dunque un’entità cosmica, un motore dell’entropia​, un giocattolo maledetto che non insegue, non minaccia, ma semplicemente sceglie. E quando sceglie, la morte è già in atto. A differenza di altri oggetti maledetti del cinema (come il video di The Ring o la bambola assassina in Annabelle), la scimmia non agisce con una logica umana: è un oracolo distorto, un’entità con un’intelligenza arcana, un demiurgo della morte.

Se c’è una costante nel cinema di Perkins, appartenente al cosiddetto elevated horror, è che l’orrore si muove in sottrazione: si insinua, sibila e poi colpisce, paziente, con violenza beffarda e inquietante. Ma The Monkey è anche un’anomalia nella sua filmografia, con la sua pellicola polverosa al neon. Il precedente Longlegs (2024), il cui color grading freddo per gli esterni e caldo per gli interni, costruiva infatti un’atmosfera di terrore ipnotico e rarefatto, qui invece il male si veste di grottesco, di ironico. C’è una consapevolezza quasi camp, in cui il decesso è coreografia, una danza macabra orchestrata con eleganza dal fato stesso​. E proprio per questo The Monkey richiama il modello di Final Destination (James Wong, 2000) e per simbolo intertestuale I delitti della Rue Morgue di Edgar Allan Poe. L’orrore non è la scimmia che uccide con smisurata violenza, ma il fatto che non possiamo sfuggire alla sua imperscrutabile decisione​. Perkins gioca con le aspettative, facendo oscillare il film tra il puro splatter quasi comico e il sottile terrore psicologico. Le morti sono coreografate come in Evil Dead 2 (Sam Raimi, 1987) assurde fino al ridicolo. Ma dietro la risata c’è una verità inevitabile: la scimmia ci osserva, prima o poi suonerà il suo tamburo di morte​ anche per noi. A meno che non stiamo già girando la sua manovella.

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Adolescence (2025): un dramma in quattro atti che toglie il respiro https://www.carmillaonline.com/2025/03/23/adolescence-2025-un-dramma-in-quattro-atti-che-toglie-il-respiro/ Sun, 23 Mar 2025 21:00:07 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=87595 di Gioacchino Toni

È da poco disponibile sulla piattaforma Netflix Adolescence (2025), miniserie televisiva britannica in quattro episodi ideata da Jack Thorne e Stephen Graham, diretta da Philip Barantini, che affronta il preoccupante incremento in Gran Bretagna degli episodi di violenza commessi da ragazzi molto giovani nei confronti di coetanee focalizzandosi sullo scatenarsi improvviso di momenti di ira incontrollabile da parte maschile. La serie è costruita come un dramma in quattro atti da cui derivano altrettanti episodi girati ciascuno di essi in un unico piano sequenza che segue i personaggi e gli accadimenti in maniera ravvicinata senza momenti di stacco, meccanismo [...]]]> di Gioacchino Toni

È da poco disponibile sulla piattaforma Netflix Adolescence (2025), miniserie televisiva britannica in quattro episodi ideata da Jack Thorne e Stephen Graham, diretta da Philip Barantini, che affronta il preoccupante incremento in Gran Bretagna degli episodi di violenza commessi da ragazzi molto giovani nei confronti di coetanee focalizzandosi sullo scatenarsi improvviso di momenti di ira incontrollabile da parte maschile. La serie è costruita come un dramma in quattro atti da cui derivano altrettanti episodi girati ciascuno di essi in un unico piano sequenza che segue i personaggi e gli accadimenti in maniera ravvicinata senza momenti di stacco, meccanismo che, insieme ad una recitazione altrettanto priva di interruzioni ed alla drammaticità degli eventi narrati, inchioda lo spettatore allo schermo quasi togliendogli il respiro.

Adolescence si rivela una macchina perfetta nell’assorbire lo spettatore all’interno delle vicende narrate, tra i dialoghi serrati che scorrono a flusso continuo, conducendolo ad uno stato di disagio costruito sulla sensazione di impotenza che viene a provare e che non riguarda soltanto la percezione di non sapere come muoversi di fronte a ciò che osserva e di non riuscire a darsi spiegazioni immediate e credibili, ma soprattutto dal rendersi conto di quanto il mondo dei ragazzi a cavallo tra preadolescenza ed adolescenza risulti sostanzialmente sconosciuto agli adulti, cioè a coloro che si trovano quotidianamente a crescerli, educarli, giudicarli e sanzionarli tra meccanica applicazione di consuetudini, regolamenti, leggi e genuini, sebbene tardivi, sensi di colpa.

Tutti e quattro gli atti/episodi che compongono il dramma riescono ad ottenere uno stato di suspense e di coinvolgimento nello spettatore inducendolo a seguire ogni singola puntata quasi in apnea in una situazione di imbarazzo determinata da un lato dal fastidio provocato dalla fredda macchina law&order – nel suo rapportarsi in maniera distaccata e automatica nei confronti di un fragile ragazzino e della sua famiglia colti alla sprovvista dagli eventi che procedono rapidi e incomprensibili – e, dall’altro, dalla gravità del fatto commesso: la brutale uccisione a coltellate di una ragazzina.

[Attenzione, il testo che segue, pur non entrando nei dettagli della vicenda narrata dalla serie, contiene spoiler]

La vicenda è ambientata a Doncaster, città del South Yorkshire inglese a poche decine di chilometri da Sheffield. Il primo atto mette in scena l’irruzione della polizia all’alba nell’abitazione della famiglia Miller composta dai genitori Eddie (Stephen Graham) e Manda (Christine Tremarco) e dai figli Lisa (Amelie Pease), ormai diciottenne, e Jamie (Owen Cooper), di soli tredici anni. A guidare l’irruzione sono l’ispettore capo Luke Bascombe (Ashley Walters) ed il sergente capo Misha Frank (Faye Marsay). Nonostante l’atteggiamento controllato e professionale tenuto dai due, le modalità risolute con cui avviene l’irruzione, a partire dallo sfondamento della porta di casa, appaiono del tutto sproporzionate per un obiettivo che prevede l’arresto di un tredicenne sino ad allora incensurato in una tranquilla famiglia inserita nel tessuto cittadino.

La macchina law&order procede dunque inesorabile nella sua routine istituzionalizzata in protocolli da eseguire: l’elencazione dei diritti; la schedatura al posto di polizia; l’offerta di un avocato d’ufficio e la nomina del padre come adulto presente durante le varie fasi; la perquisizione corporale; i prelievi per le comparazioni con le tracce rinvenute sulla vittima; l’interrogatorio. Nonostante tutto proceda senza abusi da parte delle autorità di polizia, nel rispetto dei diritti dell’arrestato, è per certi versi proprio la fredda meccanicità con cui tutto accade ad inquietare anche alla luce del fatto che si ha a che fare con uno spaventato tredicenne ed una famiglia catapultati in una situazione a loro totalmente sconosciuta in cui percepiscono di non avere più il controllo degli eventi essendo in balia di una macchina più grande di loro.

A fare da contraltare alla pena che lo spettatore prova per il fragile ragazzino in balia della glaciale macchina poliziesca si aggiunge presto, con l’interrogatorio condotto da Bascombe e Frank, la presa d’atto della gravità del crimine di cui viene accusato il piccolo Jamie. I due poliziotti indirizzano sin da subito l’interrogatorio sulle modalità con cui il tredicenne guarda al genere femminile a partire dai beceri commenti di stampo sessuale lasciati sui social. In un crescendo di tensione si giunge a parlare del suo rapporto con la compagna di scuola Katie, assassinata la sera precedente, fino al momento in cui l’ispettore capo Bascombe mette il ragazzino, e con lui il padre e l’avvocato Victor (Douglas Russell) che lo assistono, di fronte alle immagini di una telecamera di sorveglianza che lo mostrano assalire ed uccidere con inaudita violenza a coltellate la ragazza.

Crollata con la visione delle immagini la certezza dell’innocenza del figlio, in un primo tempo il padre resta immobile, incapace di avere qualsiasi contatto fisico con il figlioletto che, seduto al suo fianco, invece, sembra non attendere altro. Dopo un interminabile momento di sospensione i due riescono finalmente a abbracciarsi e piangere insieme palesando, scopriremo, come sia ricorrente nell’uomo l’evitare il contattato con il figlio, a partire dallo sguardo, nei momenti in cui questo tradisce le sue aspettative.

Il secondo atto del dramma si sposta a tre giorni dopo l’assassinio della ragazzina ed è ambientato in un altro luogo regolamentato e gerarchizzato: la scuola frequentata da Jamie e Katie. Qua si recano Bascombe e Frank sperando di trovare indizi sull’arma del delitto ma ben presto si trovano di fronte ad un’inquietante realtà che appare del tutto sconosciuta agli adulti fatta di: sottovalutazione dell’accaduto da parte di diversi ragazzini; episodi di incontrollata ostilità nei confronti di tutto e tutti da parte di Jade (Fatima Bojang), la migliore amica della scomparsa Katie; sconcertanti rivelazioni all’ispettore capo da parte del figlio Adam (Amari Bacchus), che frequenta la scuola, a proposito del significato degli emoticon a sfondo sentimentale e sessuale a cui ricorrono i ragazzini sui social e della subcultura “incel” diffusa in rete (facente riferimento all’involuntary celibate a cui si sentono costretti i maschi che non rientrano nei canoni che interessano alle donne) presente tra gli studenti, tanto che, a suo dire, la stessa Katie aveva ripetutamente provocato e deriso Jamie additandolo come incel.

La scuola si rivela uno spazio incomprensibile agli adulti che vi mettono piede, un luogo in cui si palesa la difficoltà quotidiana da parte dei docenti anche solo nel gestire la condotta dei ragazzi nelle loro patetiche ed anacronistiche divise ordinate ed ordinatrici, tra episodi di bullismo e rissosità per i motivi più futili. Nel corso della permeanza a scuola dei due poliziotti, Jade aggredisce violentemente Ryan (Kaine Davis), amico di Jamie, in cortile accusandolo di essere il vero responsabile della morte di Katie. Ryan elude le domande che gli vengono rivolte dai poliziotti, tanto da darsi alla fuga, ma una volta raggiunto da Bascombe ammette di aver fornito lui il coltello all’amico pensando volesse soltanto spaventare la ragazzina.

Consegnato Ryan ai colleghi che lo arrestano con l’accusa di complicità nell’omicidio di Katie, il poliziotto, mosso dal senso di colpa, prova ad allacciare rapporti più stretti con il figlio Adam rendendosi conto di quanto poco lo conosca davvero. Come era avvenuto tra Jamie ed il padre Eddie dopo l’interrogatorio, anche in questo caso il ragazzino si mostra disponibile ad instaurare rapporti più affettuosi con il genitore, quasi a suggerire la responsabilità dei padri nella superficialità dei legami che intrattengono con i figli. Soltanto una tragedia sembra poter scuotere i genitori mettendoli di fronte a quanto siano labili o compromessi i rapporti con i figli. Il secondo atto si chiude con Eddie che depone fiori nel luogo in cui il figlio ha ucciso Katie.

La terza parte di Adolescence si proietta in avanti a sette mesi dall’omicidio della ragazzina ed è incentrata sui colloqui tra Jamie e la psicologa Briony Ariston (Erin Doherty) all’interno di una struttura psichiatrica minorile in cui si trova recluso il ragazzino in attesa del processo. Dopo il posto di polizia e la scuola, siamo nuovamente proiettati in un luogo disciplinato e disciplinatore, con le sue regole, i suoi spazi ed i suoi ritmi. Il comportamento di Jamie nei confronti della psicologa oscilla costantemente tra compiacenza ed aggressività, tra bisogno di instaurare un contatto umano e di fiducia con la donna e scatti improvvisi di ira che non di rado assumono atteggiamenti minacciosi. Briony tenta con fatica di sapere qualcosa di più circa l’ambiente famigliare e sociale in cui il ragazzino è cresciuto, soprattutto con riferimento alle figure maschili come il padre e ciò provoca atteggiamenti di chiusura o di forte irritazione in Jamie che, più volte, accusa la donna di volerlo fregare con i suoi giochetti psicologici.

Dai difficili colloqui emerge come il ragazzino, che costantemente palesa il suo sentirsi non attraente agli occhi del genere femminile, avesse sperato di sfruttare a proprio vantaggio un momento di debolezza di Katie – presa di mira dopo che un ragazzino di cui si era invaghita aveva diffuso tra i coetanei una sua fotografia in topless ricevuta privatamente – per invitarla ad uscire con lui. Le cose si erano però presto ribaltate, visto che la ragazza non solo aveva rifiutato la sua proposta, ma aveva a sua volta approfittato della cosa per prenderlo di mira sui social denigrandolo e tentando così di trasformarsi da vittima in carnefice infierendo sul compagno di scuola deviando su di lui l’attenzione dei social.

In un crescendo drammatico il tredicenne, dopo avere a lungo ripetuto di non avere ucciso la coetanea, arriva ad ammettere il fatto tentando di attenuare la portata del gesto sostenendo che, a differenza di quanto avrebbero fatto altri al suo posto, non ha violentato la ragazza ma si è tutto sommato limitato ad accoltellarla ripetutamente. A questo punto la psicologa decide di interrompere la seduta e comunica a Jamie che le sue viste sono così terminate suscitando una forte reazione nel ragazzino che, nuovamente, oscilla tra richiesta di aiuto, di continuarla a vederla, e di astio nei suoi confronti perché, come tutti, lo sta abbandonando. In tale alternarsi di scatti di ira e richiesta di aiuto, Jamie chiede insistentemente alla donna se anche lei lo trova “brutto”. Questa terza parte del dramma si conclude con la psicologa che, una volta restata sola nella stanza, devastata dalla seduta, è in balia di un attacco di panico determinato non solo dalle rivelazioni a cui ha assistito ma anche dal sostanziale senso di impotenza da cui si sente sovrastata.

L’ultimo atto di Adolescence si proietta ad oltre un anno dall’omicidio, con la famiglia Miller che, in attesa del processo del figlio, tenta di portare avanti una quotidianità inevitabilmente segnata dalla tragedia che l’ha colpita. I tentativi di normalità crollano nel giorno del cinquantesimo compleanno di Eddie, quando il suo furgone di lavoro viene imbrattato da alcuni ragazzini con la scritta “nonce”, termine gergale utilizzato per indicare un crimine sessuale che coinvolge un bambino. La cosa determina un’accelerazione degli eventi. La condotta dell’uomo si fa frenetica nel tentare, invano, di cancellare la scritta con acqua e sapone, dunque nell’andare con la moglie e la figlia in un grande magazzino di bricolage ove acquistare qualcosa che permetta di eliminare l’insulto dalla fiancata dell’autoveicolo. Nel parcheggio la tensione aumenta al punto tale da sfociare in un’esplosione di violenza dell’uomo nei confronti di alcuni ragazzini che individua come responsabili della gesto, dunque nel gettare stizzito una secchiata di vernice sulla scritta al fine di ricoprirla al più presto. Eddie manifesta così i medesimi scatti d’ira incontrollabile che abbiamo visto nel figlioletto.

Durante il ritorno a casa, nel silenzio glaciale dell’abitacolo – che fa da contraltare al clima scanzonato, per quanto anch’esso sopra le righe, dell’andata – arriva una telefonata dal carcere di Jamie che intende fare gli auguri al padre per il compleanno. La chiamata, per quanto rivolta al padre, viene ascoltata in vivavoce dall’intera famiglia e durante questa il ragazzino rende nota la sua intenzione di dichiararsi colpevole dell’omicidio. Giunti a casa i due genitori discutono in camera su cosa avrebbero potuto fare per seguire il figlio prestandogli maggiore attenzione, seguendolo anche nelle sue condotte sui social – il lato forse più nascosto ed a loro incomprensibile della vita del figlio – evitando così, forse, i tragici eventi che lo hanno visto protagonista. Soprattutto Eddie appare lacerato dal senso di colpa per non aver saputo costruire un rapporto differente con il figlio.

Con una recitazione decisamente efficace – davvero molto bravi gli attori che impersonano i genitori ed il figlioletto, così come la psicologa e i due agenti di polizia –, una scelta azzeccata come quella di ricorrere a lunghissimi piani sequenza che incollano lo spettatore ai personaggi, ai loro dialoghi serratissimi e agli ambienti, Adolescence, assesta due cazzotti in rapida successione sul naso degli spettatori.

Il primo, come detto, toglie oggettivamente il fiato lasciando gli adulti – siano essi genitori, educatori, psicologi ecc. – davvero privi di parole di fronte a quanto messo in scena e, soprattutto, alla quotidianità fuori dagli schermi perché, nonostante la sicumera con cui “gli esperti” di turno pontificano dai salotti televisivi o dalle pagine dei quotidiani, dei ragazzini, della loro vita online ed offline, gli adulti sembrano sapere e, soprattutto, capire davvero poco.

Il secondo colpo è invece indirizzato direttamente al mondo maschile, al suo malato atteggiamento nei confronti delle donne e, nel caso dei padri, alla sostanziale incapacità di strutturare con i figli un rapporto che abbandoni una volta per tutte la pretesa di pensarli esclusivamente come proiezione di sé stessi, negandone così l’identità e dando luogo a inevitabili disillusioni che, in qualche modo, saranno fatte loro pagare.

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Non odiare in Palestina. I shall not hate https://www.carmillaonline.com/2025/03/03/86820/ Mon, 03 Mar 2025 06:00:52 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=86820 di Roberta Cospito

I shall not hate è sia il titolo di un libro di Izzeldin Abuelaish, nato a Gaza e primo medico palestinese a lavorare in un ospedale israeliano, sia del film realizzato dalla documentarista e produttrice franco-americana Tal Barda, nata e cresciuta a Gerusalemme.L’associazione Find the Cure ha presentato la sedicesima edizione di Mondovisioni, una rassegna di documentari curata da CineAgenzia in collaborazione col settimanale Internazionale. Attraverso docufilm selezionati dai maggiori festival internazionali, la rassegna, che ha fatto tappa con il patrocinio del Comune  al cinema Nuovofilmstudio di Savona, porta sul grande schermo storie di attualità – in particolare sui diritti umani – [...]]]> di Roberta Cospito

I shall not hate è sia il titolo di un libro di Izzeldin Abuelaish, nato a Gaza e primo medico palestinese a lavorare in un ospedale israeliano, sia del film realizzato dalla documentarista e produttrice franco-americana Tal Barda, nata e cresciuta a Gerusalemme.L’associazione Find the Cure ha presentato la sedicesima edizione di Mondovisioni, una rassegna di documentari curata da CineAgenzia in collaborazione col settimanale Internazionale. Attraverso docufilm selezionati dai maggiori festival internazionali, la rassegna, che ha fatto tappa con il patrocinio del Comune  al cinema Nuovofilmstudio di Savona, porta sul grande schermo storie di attualità – in particolare sui diritti umani – con l’intento di fornire agli spettatori un’informazione chiara, profonda e consapevole su tematiche spesso difficilmente fruibili tramite i media tradizionali.

Izzeldin Abuelaish – uomo straordinario, più volte candidato al Premio Nobel per la pace – crede fermamente nella possibilità di una convivenza tra il popolo palestinese e quello israeliano. Durante la guerra di Gaza, il 16 gennaio 2009, tre delle sue figlie e una nipote vengono uccise dal fuoco israeliano diretto immotivatamente contro la sua abitazione. Questo attacco viene vissuto praticamente in diretta dal pubblico israeliano poiché il medico, appena resosi conto dell’enormità della tragedia, chiama il giornalista televisivo di Channel 10, Shlomi Eldar, il quale risponde al telefono pur essendo in onda e, coraggiosamente, tramite il vivavoce, dà la possibilità al suo pubblico di ascoltare la richiesta di aiuto di Abuelaish. Le urla disperate di un padre – tra l’altro, già vedovo da un anno – che vede i corpi delle sue figlie e della figlia del fratello, dilaniati e sparsi per l’appartamento insieme a resti di mura, calcinacci, giocattoli, libri, vestiti, entrano prepotentemente nelle case di un’intera nazione.

In un momento come questo, in cui il suo credo di pace, la sua etica, vengono messi a dura prova, il medico sorprende tutti e lancia un messaggio pubblico fortissimo: “Non odierò” – I shall not hate, appunto. Non solo: la figlia dodicenne costretta a quattro mesi di ricovero ospedaliero per le gravi ferite alle dita di una mano e all’occhio destro, alla giornalista che le chiede se prova sentimenti di odio risponde con uno spiazzante: “Odiare chi?”, lasciando senza parole l’intervistatrice e noi in sala.

Il messaggio Abuelaish è chiaro: è possibile non odiare, anzi, considerare la pace come unica via percorribile. La migliore alleata per uscire dai conflitti, secondo Abuelaish è l’istruzione, e infatti, per superare il dolore delle perdite subite e i primi momenti di vita in Canada, dove il medico decide di rifugiarsi, le superstiti della famiglia si dedicano allo studio. che viene considerato come un’oasi di pace. Intanto Abuelaish, coerentemente con questa visione, ha creato una fondazione “Figlie per la Vita” in memoria delle sue ragazze uccise, che fornisce borse di studio per aiutare le giovani donne provenienti da Palestina, Israele, Libano, Giordania, Egitto e Siria negli studi universitari in Canada, Stati Uniti e Belgio.

Colpisce la potenza delle immagini del documentario e  resta difficile dimenticare il viso straziato del medico che chiede aiuto per le sue figlie; le interminabili macerie delle case sbriciolate della striscia di Gaza di fronte a un mare di un azzurro impietoso nella sua bellezza; il lento muoversi di un’umanità ferita e sofferente; lo sguardo commosso di una ragazza che racconta il suo passato condiviso con chi ha poi ha perso la vita in modo brutale; l’aspetto fiero di un viso che chiede giustizia per delle vittime innocenti; il corpo di un uomo inginocchiato a terra schiantato dal dolore con i vestiti imbrattati del sangue di sua figlia; l’espressione commossa di chi ricorda un altro modo di vivere; i primi piani di chi, nel raccontare, non lascia spazio alla rassegnazione. E rimangono impressi anche gli innesti animati che, non interrompendo affatto la narrazione, sono capaci di aumentare l’empatia verso i soggetti di queste storie orrende.

Tutto quanto visto I shall not hate e in altre immagini di questo genere dovrebbe essere sufficiente a far deporre qualsiasi tipo di arma in qualsiasi guerra.

Durante una gita al mare la famiglia Abuelaish aveva scattato delle foto e, nel riguardarle anni dopo, si renderà conto che solo le ragazze che hanno perso la vita nella terribile giornata del 16 gennaio 2009, avevano scritto i lori nomi sulla sabbia, come a voler lasciare un ricordo, una traccia evidente del loro passaggio in questo mondo, come se avessero avuto una sorta di presagio di quanto sarebbe poi successo.

Il principio del non odiare espresso dal film trova una bellissima sintesi in quanto scritto da Etty Hillesum – scrittrice ebrea morta nel campo di concentramento di Auschwitz – nel libro Diario (1941-1943): “Una pace futura potrà esser veramente tale solo se prima sarà stata trovata da ognuno in se stesso – se ogni uomo si sarà liberato dall’odio contro il prossimo, di qualunque razza o popolo, se avrà superato quest’odio e l’avrà trasformato in qualcosa di diverso, forse alla lunga in amore se non è chiedere troppo. È l’unica soluzione possibile”.

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Severance/Scissione: il Corporate Horror e gli incubi di Fantozzi https://www.carmillaonline.com/2025/02/26/severance-scissione-il-corporate-horror-e-gli-incubi-di-fantozzi/ Tue, 25 Feb 2025 23:01:23 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=86787 di Walter Catalano

Normalmente mi occupo di serie tratte da testi letterari, comics o videogiochi ma per Severance/Scissione farò un’eccezione. Lo show distribuito da Apple TV + è infatti opera originale dello sceneggiatore e showrunner Dan Erickson. Diretta da Ben Stiller e Aoife McArdle e avvalendosi di un cast fuori dell’ordinario che comprende John Turturro, Christopher Walken e Patricia Arquette, la serie affronta un tema complesso come il rapporto tra memoria e identità sferrando una serrata critica alle derive del capitalismo. Potremmo includerla in quella categoria di storie in cui l’attività nelle grandi aziende multinazionali, riflessa come in uno specchio [...]]]> di Walter Catalano

Normalmente mi occupo di serie tratte da testi letterari, comics o videogiochi ma per Severance/Scissione farò un’eccezione. Lo show distribuito da Apple TV + è infatti opera originale dello sceneggiatore e showrunner Dan Erickson. Diretta da Ben Stiller e Aoife McArdle e avvalendosi di un cast fuori dell’ordinario che comprende John Turturro, Christopher Walken e Patricia Arquette, la serie affronta un tema complesso come il rapporto tra memoria e identità sferrando una serrata critica alle derive del capitalismo. Potremmo includerla in quella categoria di storie in cui l’attività nelle grandi aziende multinazionali, riflessa come in uno specchio deformante che ne rivela la natura reale, viene denunciata come un incubo assoluto. Thomas Ligotti qualche anno fa definì corporate horror alcuni suoi racconti collocabili in questo ambito, My Work Is Not Yet Done: Three Tales of Corporate Horror (2002) oltre ai successivi La torre rossa, A favore dell’azione punitiva, Il nostro supervisore temporaneo, inclusi in Teatro Grottesco (2006, ristampato nel 2008) – volumi entrambi pubblicati in italiano da Il Saggiatore rispettivamente nel 2020 e nel 2015. Con una deriva visionaria molto meno afferente al gotico rispetto ai testi di Ligotti e più orientata verso certa fantascienza sociologica che dalla verve caustica di autori come Frederik Pohl e Cyril Kornbluth, Alfred Bester o Harlan Ellison scivola verso l’iperrealismo postmoderno di James G. Ballard, anche Severance sembra rientrare perfettamente nei canoni ligottiani del corporate horror, la descrizione allucinata e destabilizzante di un paradigma aziendale che stritola l’individuo e la comunità in nome del profitto cristallizzando gli impiegati in una gerarchia soverchiante e in un meccanismo di azioni indotte volte non più alla semplice produzione, come per gli spilli di Adam Smith, ma divenute fantasmatiche, imperscrutabili e oscure. L’azienda, che già nei paradossi caricaturali e parodistici del nostro Fantozzi, si era metafisicizzata in Megaditta gestita da Duca-Conti e Mega-Direttori Galattici, qui si equipara all’Heimarmene concentrazionaria degli Gnostici – forse la Black Iron Prison dell’Exegesis di Philip K. Dick – se non a un vero e proprio Inferno dantesco.

L’idea di Dan Erickson, ispirata a certe sue deprimenti esperienze lavorative giovanili maturate in ambito impiegatizio, è che una grande azienda multinazionale, la Lumon Industries, induca alcuni dei suoi dipendenti a farsi impiantare chirurgicamente nel cervello un microchip che separi l’individuo in due entità separate, una – gli innies, gli interni – che cartesianamente pensa e quindi è solo sul luogo del lavoro e l’altra – gli outies, gli esterni – che segue la sua vita personale e privata. Ognuna delle due parti è ovviamente esclusa dalla memoria e quindi dall’esperienza dell’altra: avviene quindi una sorta di clonazione che in realtà riguarda solamente lo sdoppiamento di un medesimo essere vivente. Si annulla una parte di sé per trasformarla in una sorta di ape operaia – priva di una vita propria e quindi di ogni ideale e giudizio – al servizio di un’azienda miliardaria. I dipendenti della Lumon, così, sono letteralmente il loro lavoro, non avendo alcuna coscienza della vita esterna. L’individuo lavoratore, l’innie, può dedicarsi a tempo pieno al suo impiego e l’altro, l’outie, può godersi una giornata libera da impegni. Ma il primo subisce la rottura del ciclo circadiano (il lavoratore tecnicamente non ha mai esperienza del sonno) e si priva di una qualsiasi vita di relazione, ha la percezione di non andare mai via dal lavoro, imprigionato nel loop infinito dell’esecuzione automatica di routine lavorative di cui ignora il senso, nella spersonalizzazione dell’impiego d’ufficio, preda della necessità da parte dell’industria di avere al proprio servizio mere macchine senza identità, pedine totalmente devote al mansionario, arrendevoli e mai solidali, perse nella disumanità di un compito di cui ignorano la vera natura e dall’esecuzione del quale dunque non possono trarre alcuna soddisfazione; in cambio l’outie dall’altra parte, cancella definitivamente lo stress del lavoro una volta abbandonato l’ufficio. Lo switch tra ricordi privati e lavorativi avviene entrando nell’ascensore della ditta, dotato di sensori che attivano il chip impiantato nel cervello dei dipendenti sottoposti alla procedura. Gli innies non sanno chi sono nella vita privata e non conoscono gli scopi dell’azienda: lavorano a tali condizioni spesso solo per dimenticare chi sono fuori. Ad esempio il protagonista Mark Scout (interpretato da Adam Scott), che ha accettato la procedura imposta dalla Lumon allo scopo di ridurre le ore atroci di lutto per la recente morte della moglie. Una dissociazione quindi dal duplice scopo: un palliativo per le sofferenze emotive dell’individuo nel mondo di fuori e un utile incremento dell’efficienza produttiva per l’azienda nel mondo di dentro. Il controllo sull’equilibrio tra lavoro e vita privata è l’aspirazione di ogni imprenditore: gestire un dipendente ideale che al lavoro lasci fuori tutto, che non abbia più distrazioni né passioni. La scissione chirurgica di Severance non è che l’applicazione estrema, fantascientifica di scissioni già attuali: di chi, per esempio, abbia due cellulari, uno per le chiamate private e uno per quelle di lavoro e alternativamente tenga acceso l’uno o l’altro, o di chi non possa liberamente rispondere al proprio telefono personale o avere accesso a internet sul posto di lavoro. È l’evoluzione estrema e avveniristica dei principi del fordismo e del taylorisimo: la razionalizzazione del lavoro, l’ottimizzazione delle risorse e il compimento ultimo dell’alienazione. In un’epoca in cui il principio di separazione tra la vita lavorativa e la vita professionale è divenuto prassi, Severance non fa che mostrarci la versione più estrema e mostruosa di una metodologia già in atto.

Gli impiegati della Lumon non conoscono altro al di fuori delle attività svolte all’interno dell’azienda, schiavi asserviti al raggiungimento di uno scopo il cui significato è loro precluso. La cancellazione da parte dell’innie della vita dell’outie, si estende a tutto il passato antecedente l’impiego; al lavoratore non resta memoria alcuna della propria famiglia, del proprio nome, dei propri interessi. Lungi dal limitarsi alla procedura chirurgica sui dipendenti, la divisione è il principio fondante della Lumon: divide et impera. La precisa ripartizione dei compiti, l’inesistente interazione tra i differenti reparti, ignoti e ostili l’uno all’altro, tutto concorre a creare un contesto in cui il lavoratore, apparentemente blandito e tutelato, non possa schivare la scure inquisitrice dell’industria. E in assenza di memoria storica (e di memoria in generale), alla Lumon si è venuta col tempo a creare fra gli innies una vera e propria mitologia e deificazione dei padri fondatori dell’azienda (la versione seria del Mega-Direttore Galattico di Fantozzi): secondo Erickson, le grandi aziende sono come sette o culti e gli interni della Lumon ne idolatrano il fondatore Kier Eagan come un profeta, autore di un manuale aziendale che è l’equivalente di un testo sacro e viene citato, preso a modello, commentato e glossato. La distopia del post-taylorismo determina un contesto così efficiente e ieratico da risultare inerte, smaterializzato: i capi della corporation sono ridotti a pura voce, l’aziendalismo è la nuova religione e il lavoro è icona e feticcio idolatrato in un museo dedicato ai Fondatori dell’azienda che occupa un’immensa sala della Lumon.

Fin nell’architettura e nel design minimalista degli uffici, nell’estetica retrofuturista, nella gestione degli spazi simmetrica e opprimente della Lumon si sottintende un sistema di controllo individuale, prima ancora che sociale. Prevale l’estetica perturbante delle backroom – le aree riservate di un ambiente pubblico, tendenzialmente lavorativo, con esplicito riferimento al fenomeno di creepypasta nato sul sito internet imageboard 4chan e incentrato su immagini di corridoi senza fine, uffici, svolte su luoghi che ripetono ossessivamente la stessa configurazione architettonica. Un labirinto inquietante e interminabile. La versione postmoderna dell’Inferno. Se qualcosa va fuori posto, se si rompe l’ordine delle backroom, il sistema si sconvolge e la catena produttiva collassa. Un pericolo che giustifica la necessità della scissione: tenere fuori l’elemento emotivo, circoscrivere il lavoro ad un io controllabile. Eppure nell’asettico dedalo della Lumon, percorso surrealisticamente da misteriose caprette bianche, può nascere e crescere persino l’amore, pur castrato dall’occhio e dall’artiglio corporativo: ogni sentimento all’interno del severed floor (il nome del piano riservato agli impiegati scissi) passa attraverso il filtro dell’incertezza: nessuno degli innies sa, infatti, quali legami abbia intessuto al di fuori dell’ufficio. Eppure Irving Bailiff (John Turturro), si innamorerà di Burt Goodman (Christopher Walken), e Mark Scout (Adam Scott) di Helly Eagan (Britt Lower).

Proprio per ovviare alle insicurezze emotive degli innies, l’azienda ha istituito, come premio di produzione e come tecnica di rilassamento, simile allo yoga, l’intervento di un’operatore specializzato che racconti ai dipendenti qualcosa del loro outie, ma solo cose molto generiche, che potrebbero valere per tutti (al tuo outie piace la musica, gli piacciono i film, è gentile, aiuta gli altri ed è benvoluto, ecc.), premurandosi però che chi ascolta non si fissi su un aspetto particolare di quanto gli viene raccontato: l’esperienza deve restare plastica, duttile, non indirizzarsi mai ad una visione concreta.

E la stessa sigla dello show, piccola opera d’arte e chiave di accesso al tema base di Scissione, rimanda a questa plasticità vischiosa, mostrando, come in un balletto inquietante, la tensione fra le due esistenze del protagonista in equilibrio tra lavoro e vita privata. L’ideazione e la realizzazione dei titoli di testa è opera del 3D artist berlinese Extraweg, al secolo Oliver Latta; specializzato nella modellazione di corpi ‘gommosi’ in CGI e la cui opera Human Paste divenne virale sui social non molto tempo fa. Fin dalla sigla, dunque, la malleabilità è indicata come la caratteristica principale di Severance. Una plasticità in negativo però, la forza occulta che modella l’identità degli individui secondo i voleri dell’azienda.

Dopo i nove episodi della prima stagione, rilasciati nel 2022, sono da poco stati emessi i primi tre episodi dei dieci della seconda, realizzata alla fine del 2024, qui gli Innies protagonisti riescono a risvegliarsi temporaneamente nel mondo dei loro outies, nella speranza di denunciare all’opinione pubblica il trattamento spietato inflitto loro dalla Lumon: Helly (Britt Lower) ha così scoperto di essere l’impietosa figlia dell’amministratore delegato dell’azienda – una nemica di classe sdoppiata nella stessa persona – Irving (John Turturro) si è reso conto che l’inconscio del suo outie ha reminescenze dei luoghi opprimenti del lavoro e li dipinge ossessivamente in quadri perturbanti, ma anche che l’amore della sua vita Burt (Christopher Walken) è sposato con qualcun altro. Le loro personalità si declinano in modi fin troppo discrepanti e sovvertitori tanto che la ribelle Helly innie non può riconoscersi parte della rigida e spietata Helly outie. Intanto Mark outie e innie scoprono che la moglie del primo forse non è davvero morta ma ha svolto il ruolo di superiore del secondo alla Lumon; la perfida Harmony Cobel (Patricia Arquette), dirigente Lumon licenziata dall’azienda (severance oltre a scissione significa anche licenziamento) ha molte cose da raccontare ma non vuole farlo; lo scopo del lavoro sui numeri al computer diligentemente svolto dal team aziendale resta un insondabile mistero; la trama si complica con le nuove attività clandestine dei ribelli che descindono le vittime rimuovendo il loro microchip cerebrale, mentre le sconcertanti caprette bianche continuano a percorrere i corridoi anodini della Lumon in un’alternanza di ironia nonsense, humor nero e dramma dell’assurdo. Ne verremo a capo in qualche modo?

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Processi di ibridazione. Il tema del doppio nel cinema di David Cronenberg https://www.carmillaonline.com/2025/02/21/processi-di-ibridazione-il-tema-del-doppio-nel-cinema-di-david-cronenberg/ Fri, 21 Feb 2025 21:00:18 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=86250 di Gioacchino Toni

Tra inquietanti ibridazioni che toccano il corpo e la mente egli individui, sessualità inconsuete e indistinguibilità tra reale e visionario, a far capolino più volte nella filmografia cronenberghiana è anche il tema del doppio. Andrea Chimento e Camilla Maccaferri, Dal corpo mutante alla proiezione inconscia: il tema del doppio nel cinema di David Cronenberg, in Luca Taddio, a cura di, David Cronenberg. Un metodo pericoloso (Mimesis, 2012), hanno proposto un’interessante analisi della presenza di tale tema nel cinema del canadese.

I due studiosi evidenziano come nella prima parte della filmografia di Cronenberg i protagonisti si trovino frequentemente ad [...]]]> di Gioacchino Toni

Tra inquietanti ibridazioni che toccano il corpo e la mente egli individui, sessualità inconsuete e indistinguibilità tra reale e visionario, a far capolino più volte nella filmografia cronenberghiana è anche il tema del doppio. Andrea Chimento e Camilla Maccaferri, Dal corpo mutante alla proiezione inconscia: il tema del doppio nel cinema di David Cronenberg, in Luca Taddio, a cura di, David Cronenberg. Un metodo pericoloso (Mimesis, 2012), hanno proposto un’interessante analisi della presenza di tale tema nel cinema del canadese.

I due studiosi evidenziano come nella prima parte della filmografia di Cronenberg i protagonisti si trovino frequentemente ad avere a che fare con i loro doppi orrorifici, «epifanizzazione concreta del male interiore» degli individui. Se il «tema del doppio-estrinsecazione del mostruoso che giace nell’inconscio di ciascuno», lo si ritrova tanto in Shivers (1975) quanto in Rabid (1977), è con Brood (1979) che si palesa più nettamente attraverso le creature partorite dalla protagonista che rappresentano tanto un’incarnazione del suo lato malevolo che una diabolica distorsione della figlioletta.

Con La mosca (1986) la riflessione sul doppio mostruoso in senso carnale si manifesta attraverso la figura ibrida di Brundlefly, essere dal corpo repellente che mantiene però un barlume di umanità. La tematica del doppio la si ritrova anche in Videodrome (1983) ed eXistenZ (1999), in cui i protagonisti si trovano a fare i conti con una fusione/sdoppiamento tra realtà e virtualità mediatica che se nel primo caso trova soluzione nell’omicidio dell’alter ego catodico e con esso nel suicidio dello steso protagonista, mentre nel secondo la liberazione del doppio pare potersi dare con la disconnessione all’esperienza ludica.

Un processo di duplicazione, in questo caso per via psicotropa, tocca anche il protagonista de Il pasto nudo (1991), alter ego di Burroughs, autore dell’omonimo romanzo: il doppio del protagonista è, come per gli altri film citati, una declinazione di sé stesso generata dal ricorso a sostanze stupefacenti dello scrittore che lo conduce a confondere la realtà con un mostruoso universo parallelo. Si tratta di uno sdoppiamento-potenziamento esclusivamente psichico, non dissimile da quello che caratterizza il protagonista di La zona morta (1983) che da placido e timido insegnante si risveglia dal coma causato da un incidente in un doppio di sé distorto e inquietante dotato di poteri preveggenti. Riprendendo la tematica dei poteri psichici già presente in Scanners (1981) e in Stereo (1969), Cronenberg mostra in questo caso come lo sdoppiamento mostruoso possa coinvolgere tanto il corpo quanto la mente del protagonista generando uno sdoppiamento della realtà.

Chimento e Maccaferri evidenziano come nella sua produzione più recente, il regista abbia invece fatto più volte riferimento al mascheramento di una reale natura mantenuta nascosta: in Spider (2002), ove lo schizofrenico protagonista cela a sé stesso un trauma infantile; in La promessa dell’assassino (2007), incentrato su un agente sotto corportura costretto a dotarsi di un’identità fittizia; nell’intrigo identitario presente in M. Butterfly (1993); in A History of Violence (2005), ove il personaggio principale vive la sua placida normalità celando la sua identità turbolenta che vorrebbe seppellita nel passato, costretto dagli eventi, per mantenere una qualche forma di accettabilità sociale, a rinunciare «a una condizione di completezza, dovendo rinnegare un aspetto, per quanto deplorevole, della propria personalità».

È con Inseparabili (1988) che Cronenberg affronta più direttamente la questione del doppio. La perversa unità idilliaca tra i due gemelli protagonisti del film, identici nell’aspetto ma dotati di personalità diverse, che si completano a vicenda, si infrange con la comparsa di una donna e con essa dell’innamoramento: la presenza di un terzo soggetto incrina i rapporti tra i due sino a sfociare in un omicidio-suicidio; insomma, l’uccisione del Doppio diventa il suicidio dell’Io. La sovrapposizione identitaria reciproca e complementare sulla quale si basa il rapporto dei due gemelli contempla lo sdoppiamento di una metà buona da una malvagia, oltre alla compenetrazione e alla fagocitazione dell’uno da parte dell’altro. I due protagonisti sono due individui distinti separati ma al tempo stesso sono la medesima persona tenuti, come sono, a compiere le medesime esperienze affinché queste siano da loro vissute come reali.

Un triangolo di personaggi è presente anche in Crash (1996), formato dal protagonista James Ballard – a cui il regista mette lo stesso nome dello scrittore del romanzo da cui ha tratto il film –, la moglie Catherine e Vaughan, che condivide con la coppia una perversa attrazione sessuale per gli incidenti stradali. Un triangolo che, come in Inseparabili, è destinato a frantumarsi tragicamente, in questo caso a causa dell’incidente-suicidio di Vaughan destinato però a lasciare traccia indelebile del suo immaginario perverso nella coppia di sposi. Il rapporto tra Ballard e Vaughan si rivela come quello di due identità in cui la più debole si lascia talmente influenzare dalla più forte al punto di ricalcarla. Un doppio, scrivono Chimento e Maccaferri, «basato sul rapporto maestro-allievo, senza che quest’ultimo rinneghi mai le idee del suo insegnante; l’opposto di quanto avviene invece in A Dangerous Method (2011) in cui l’allievo Jung sceglierà strade diverse rispetto a quelle proposte dal maestro Freud». L’unità che sembrava indissolubile tra i due si romperà inesorabilmente quando l’allevo sceglierà di analizzare la psiche umana in altro modo rispetto al maestro.

«A metà tra Inseparabili e Crash, A Dangerous Method diventa l’ultimo tassello di un discorso sul doppio da sempre presente nel cinema del regista» che, evidenziano Chimento e Maccaferri, non poteva trovare un’incarnazione migliore delle figure dei due analisti che hanno approfondito la tematica del doppio. Come è accaduto in Insperabili, il serrato legame tra i due uomini viene meno con la comparsa di una figura femminile che, nel trasformare il doppio in triade, lo frantuma. «In qualche modo, come per i gemelli Mantle, anche Freud e Jung si dividono una donna: non come amante comune, dal momento che Freud nutre per lei un interesse puramente professionale, ma come paziente e difensore delle idee di uno o dell’altro». Se l’allievo si separa dal maestro per esplorare nuovi territori, quest’ultimo vende nell’allontanamento di Jung una modalità di oscuramento della propria fama. «Il loro rapporto, più che assomigliare a un’unione gemellare, prende sempre più la forma di un legame paterno-filiale, laddove, per sconfiggere l’ombra di Edipo, con buona pace di Freud, il figlio è costretto a distruggere il padre».

Sebbene in maniera meno traumatica rispetto ai casi presenti in altri film di Cronenberg, Ineparabili su tutti, anche in questo caso il distacco netto dall’Io-doppio non permette alcuna riconciliazione: i due soggetti proseguiranno la loro esistenza come entità nettamente separate su trattorie incomunicanti. L’attrazione professionale che Freud provava per Jung, visto inizialmente come il riflesso di sé stesso da giovane, svanisce e distaccandosi dal riflesso finisce «per lasciare Narciso privo della sua immagine da rimirare». Per quanto divenuti ostili l’uno all’altro, commentano Chimento e Maccaferri, resteranno condannati ad essere frequentemente accostati negli studi psicanalitici. «Proprio come due gemelli, sempre citati insieme, come se non potessero essere vissuti come due entità distinte, morti l’uno accanto all’altro e per sempre inseparabili».


Processi di ibridazioneSerie completa

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The Substance. Il massacro dello show business https://www.carmillaonline.com/2025/02/14/86634/ Fri, 14 Feb 2025 06:00:03 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=86634 di Roberta Cospito

Di The Substance, film di Coralie Fargeat – regista francese apprezzata in passato per il suo Revenge (2017), in cui raccontava la vendetta di una donna stuprata –, se ne sta parlando molto e con commenti piuttosto divergenti.

In effetti, è un film piuttosto particolare per cui questa varietà di opinioni non mi stupisce affatto; sinceramente, anch’io non ho capito bene in quale percentuale mi sia piaciuto, ma sta di fatto che il film è senza dubbio interessante.

Approdato nella sale italiane tra la fine del 2024 e l’inizio del 2025, il film ruota attorno all’assunzione di una [...]]]> di Roberta Cospito

Di The Substance, film di Coralie Fargeat – regista francese apprezzata in passato per il suo Revenge (2017), in cui raccontava la vendetta di una donna stuprata –, se ne sta parlando molto e con commenti piuttosto divergenti.

In effetti, è un film piuttosto particolare per cui questa varietà di opinioni non mi stupisce affatto; sinceramente, anch’io non ho capito bene in quale percentuale mi sia piaciuto, ma sta di fatto che il film è senza dubbio interessante.

Approdato nella sale italiane tra la fine del 2024 e l’inizio del 2025, il film ruota attorno all’assunzione di una “sostanza” reperita sul mercato nero da parte dell’attrice cinquantenne Elisabeth Sparkle (fisico e volto sono di Demi Moore), ormai in declino e relegata a fare lezioni di aerobica per la televisione, nonostante in passato sia stata premiata anche con un Oscar.

L’imperativo dello show business è però impietoso e, così, lo spiacevole produttore del programma – Harvey, stesso nome di battesimo di Weinstein, il tristemente noto produttore cinematografico statunitense –, con le fattezze dell’attore statunitense Dennis Quaid, decide che ormai Elisabeth ha fatto il suo tempo ed è ora che lasci il campo a una sostituta più avvenente.

L’essere licenziata proprio nel giorno del suo cinquantesimo compleanno perché non ha più lo splendore della gioventù – curiosamente il suo cognome, Sparkle, in inglese significa scintillare –, fa precipitare la diva nella depressione più totale per cui, di fronte alla possibilità di ritornare ai fasti del passato, cede rapidamente alla tentazione d’inocularsi una sostanza che le darà la possibilità di creare – in pratica, partorire non dal grembo ma dalla schiena – una versione migliore di se stessa, dove per migliore in questo caso s’intende più giovane e bella.

Le regole del procedimento sono poche, semplici e ben spiegate: il siero è inoculabile una sola volta e le due donne, la “diva matrice” e la “diva altra sé”, dovranno alternarsi ogni sette giorni, l’una andando in una specie di letargo mentre l’altra resterà libera di agire: Elisabeth potrà così rivivere per interposta persona un’altra giovinezza con tutti i suoi benefici, percependo nello stato “vegetativo” tutto quello che l’altra – interpretata da Margaret Qualley, battezzata Sue – vivrà direttamente.

L’esperimento pare funzionare. Sue riesce a essere la protagonista dello spettacolo che prima era condotto da Elisabeth riscuotendo un successo strepitoso ed entrando rapidamente in un vortice di impegni, conoscenze, opportunità, ormai precluse all’altra che si ritroverà, invece, ad affrontare settimane di solitudine e inattività a cui non era abituata.

Ben presto, a Sue il tempo a sua disposizione non basta più e – contravvenendo alla regola dell’alternanza e dimenticando l’imperativo che le viene fornito insieme al kit di (ri)generazione di tenere ben presente il fatto che l’identità è una sola, seppur in qualche modo sdoppiata – decide di non lasciare più possibilità di vita all’altra innescando, così, un meccanismo di devastazione del corpo (matrice) di Elisabeth da cui pare impossibile ritornare indietro.

Ogni momento rubato alla vita dell’altra crea a questa un terribile invecchiamento del corpo, un po’ come succede ne Il ritratto di Dorian Gray per cui Dorian venderà la sua anima per garantirsi che sarà un’immagine dipinta e non il proprio corpo a invecchiare.

L’aspetto più rilevante e apprezzabile del film è la denuncia che fa la regista: è evidente la critica allo show business, al mondo degli affari che alimenta quello dello spettacolo. per cui bisogna massimizzare i guadagni e buttare via ciò che viene considerato obsoleto, persone incluse; un mondo in cui bisogna vincere a ogni costo e pazienza se si lasciano dei feriti sul campo.

L’altra forte critica è nei confronti di una società in cui la mercificazione del corpo delle donne è all’ordine del giorno, decisa a farci credere che l’esteriorità, la bellezza, sia l’unico obiettivo che valga la pena perseguire nella vita.

La regista, con decise inquadrature sul corpo giovane e sodo di Sue, stringendo l’occhio della telecamera su glutei, cosce, seni e labbra, restituisce alla perfezione lo sguardo che alcuni uomini posano senza il minimo rispetto sui corpi femminili ignorando (o facendo finta di ignorare) quanto sia offensivo e doloroso per chi li riceve. Ma assieme si sviluppa una critica anche nei confronti di chi non riesce ad accettare i segni che il passare del tempo lascia inevitabilmente sul nostro corpo, segni che dovremmo imparare, se non proprio ad apprezzare, almeno ad accettare con serenità, lasciando che la natura segua il suo corso.

A un certo punto del film Elisabeth incontra un suo vecchio compagno di scuola che, incantato dal suo aspetto – stiamo parlando di Demi Moore, una bellezza decisamente fuori del comune –, riesce a vincere la timidezza lasciandole il suo numero di cellulare; in un primo momento, lei lo liquida velocemente, ma quando i morsi della solitudine iniziano a farla sanguinare decide di telefonargli e accettare un suo invito a cena. La sera stabilita si prepara con cura e, con il suo attillato vestito rosso, si appresta a uscire, ma il suo sguardo si posa sull’immagine di Sue ritratta in un enorme poster visibile dalla finestra del suo appartamento e, a quel punto, corre in bagno ad aggiustarsi il trucco, i capelli, una, due, tre volte, finché alla fine rinuncerà a uscire non considerandosi nemmeno abbastanza bella da poter farsi vedere dal suo ex compagno di scuola, un uomo che definirlo ordinario è un complimento, o da eventuali avventori del ristorante dove i due si sarebbero incontrati.

Chi come me in quel momento faceva il tifo per lei, una donna che finalmente avrebbe potuto ricevere i complimenti cui era stata abituata e di cui aveva un bisogno disperato per ricominciare a sentirsi viva, resta delusa dalla sua scelta di non uscire ma, d’altra parte, quando una persona è abituata a essere osannata, idolatrata, ammirata quotidianamente la vita “normale” è dura da gestire, l’equilibrio con se stessi difficile da raggiungere.

La maturità, il vissuto da cui Elisabeth dovrebbe o potrebbe ricevere forza, non riesce a evitarle l’arenarsi in poltrona davanti alla televisione; fa riflettere il fatto che, nonostante i tanti soldi guadagnati in una vita da prima donna, le varie frequentazioni con altre celebrità, i riconoscimenti di vario tipo (addirittura la stella sulla Hollywood Walk of Fame) non resti traccia né di felicità né di rapporti umani su cui poter contare.

The Substance mi ha lasciata perplessa per qualche momento eccessivamente didascalico come, per esempio, il sottolineare più volte e da subito l’unicità delle due versioni femminili – peraltro, ponendo lo spettatore in uno stato di allerta per cui si può immaginare che sarà proprio questo l’aspetto che creerà problemi nella gestione della sostanza – e qualche esagerazione di troppo; per esempio, molti hanno ritenuto eccessivo il finale in cui viene versato sangue a ettolitri – scene, in effetti, molto splatter che però possono essere giustificate dal voler farci riflettere sulla mostruosità della bellezza a ogni costo – ma, personalmente, ho trovato più fastidioso il fatto che Sue riesca a ricavare dal suo bagno una sorta di sgabuzzino non visibile all’esterno, con l’abilità di una carpentiera d’esperienza quando, invece, si sta parlando di una star della tv che nulla c’entra con fiamme ossidriche e martelli.

Durante la visione del finale, mentre le immagini del corpo in disfacimento di Elisabeth riempivano il grande schermo, continuavo a pensare al saggio di Jude Ellison Sady Doyle Il mostruoso femminile edito da Tlon, un’opera che indaga – analizzando miti, letteratura e anche cinema horror – la primordiale paura che il patriarcato nutre da sempre nei confronti delle donne: “La donna è sempre stata un mostro. La mostruosità femminile si insinua in ogni mito, dal più noto al meno conosciuto: sirene carnivore, Furie che con artigli affilati come rasoi dilaniano uomini, leanan sídhe che incantano mortali per poi prosciugarne l’anima. Queste figure – di una bellezza letale o di una bruttezza intollerabile, subdole o traboccanti di furore animale – rappresentano tutto ciò che gli uomini trovano minaccioso nelle donne: bellezza, intelligenza, rabbia e ambizione. Nel mito cristiano, a essere donna è l’apocalisse. Nella Bibbia, infatti, si profetizza che la fine dei tempi sarà dominata da una regina lussuriosa con in mano un calice d’oro «colmo delle abominazioni e delle impurità della sua prostituzione”.

Mi piace chiudere così, con la letteratura, a mio avviso sempre poco citata quando si scrive di cinema, benché nelle numerose recensioni a The Substance abbondino, anche giustamente, gli accostamenti con film quali The elephant man di David Lynch, Shining di Kubrick, Crash di David Cronenberg, Titane di Julia Ducournau, La morte ti fa bella di Robert Zemeckis, Alien di Ridley Scott, Carrie. Lo sguardo di Satana di Brian De Palma e molti altri ancora.

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Goldrake siamo noi https://www.carmillaonline.com/2025/02/11/goldrake-siamo-noi/ Mon, 10 Feb 2025 23:01:00 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=86923 di Luca Cangianti

Sandokan, Sean Mallory, Goldrake. Ogni generazione di rivoluzionari combatte con un eroe immaginario nel cuore. Le memorie dattiloscritte del partigiano Giovanni Pepe s’intitolano I tigrotti di Bandiera Rossa. I resistenti eretici romani s’ispiravano alla furia del personaggio salgariano. Gli imperialisti britannici avevano sterminato la famiglia di Sandokan così come i nazifascisti avevano massacrato per anni il proletariato europeo scatenando il flagello della guerra. La scimitarra del pirata nelle mani dei partigiani diventava un mitra. I rivoluzionari degli anni settanta nei cortei serravano i cordoni e intonavano la colonna sonora di Giù la testa, il capolavoro spaghetti-western di Sergio Leone [...]]]> di Luca Cangianti

Sandokan, Sean Mallory, Goldrake. Ogni generazione di rivoluzionari combatte con un eroe immaginario nel cuore.
Le memorie dattiloscritte del partigiano Giovanni Pepe s’intitolano I tigrotti di Bandiera Rossa. I resistenti eretici romani s’ispiravano alla furia del personaggio salgariano. Gli imperialisti britannici avevano sterminato la famiglia di Sandokan così come i nazifascisti avevano massacrato per anni il proletariato europeo scatenando il flagello della guerra. La scimitarra del pirata nelle mani dei partigiani diventava un mitra.
I rivoluzionari degli anni settanta nei cortei serravano i cordoni e intonavano la colonna sonora di Giù la testa, il capolavoro spaghetti-western di Sergio Leone in cui il peone Juan Miranda e l’irlandese Sean Mallory attraversano le vicende della rivoluzione messicana. Negli anni settanta il sogno di un mondo migliore fu represso con stragi, torture e incarcerazioni di massa, fino al grande reset postfordista.
Le sorelle e i fratelli minori di quella generazione erano appena adolescenti negli anni ottanta: davanti alle scuole, in un clima di crescente indifferenza, distribuivano volantini contro i missili a Comiso, la dittatura in Cile e la riforma regressiva della scuola secondaria. Sapevano che prima di loro era accaduto qualcosa di affascinante e terribile cui non avevano potuto partecipare.

Avremmo dato non so cosa per poter esser lì e ci maceravamo nella rabbia al pensiero che mentre si occupano le fabbriche, le università e le scuole, mentre ci si accalcava nelle assemblee e non si conosceva la solitudine, noi non avevamo ancora raggiunto il metro e mezzo d’altezza. Le nostre voci erano squittii e non avremmo avuto la forza di impugnare i pesanti megafoni del tempo. Eravamo solo bambini nel 1978, stavamo davanti al televisore, vedevamo Goldrake. Ci immedesimavamo nel suo pilota, Actarus: i veghiani avevano distrutto il suo pianeta, sterminato i suoi cari. Qualcosa di simile stava accadendo anche a noi: quanti nostri fratelli maggiori cadevano vittime dell’eroina? Quanti annichiliti dalla militarizzazione del conflitto sociale, dal riflusso, dal tradimento? In qualche modo anche il nostro pianeta era andato distrutto. E Actarus combatteva con il suo robot i mostri che avevano perpetrato questo crimine.

Goldrake U, il reboot in onda su Rai 2 lo scorso gennaio, ha scatenato sui social una guerra proustiana di madeleine. A cinquant’anni dalla serie originale, le immagini di guerra sono più cupe, la ferita dell’eroe più profonda, il robot più inquietante e misterioso. La trama allude a un inconscio collettivo numinoso che scorre sotto le vicende storiche e personali.
L’immaginario non è una mera sovrastruttura, ma innerva i modi di produzione. La sua potenza creativa è al tempo stesso strumento di dominio e grimaldello di liberazione. Mi spiego così quei cortei studenteschi che gridavano: «Contro il sindacato concertante, doppio maglio perforante». Era 1992, i confederali avevano siglato un accordo trilaterale che prevedeva l’abolizione della scala mobile e nel paese si sviluppò un vasto movimento di contestazione operaia.

Provo a immaginare una metaforica «ora x» in cui ci libereremo dei mostri che deturpano la natura delle nostre valli; che ci obbligano a fuggire dalle nostre terre devastate dalle guerre e dal riscaldamento climatico; che ci torturano nei lager libici, ci fanno affogare in mare, ci rubano la vita e la dignità. Ci provo, e ancora una volta vedo Goldrake. È molto più torvo di quello della nostra infanzia e in effetti assomiglia a quello del recente reboot. È indecifrabile, molto diverso da una semplice macchina, ha colori più cupi, freme di una energia a lungo repressa, ma continua a urlare il nome delle sue armi: disintegratori paralleli, tuono spaziale, raggio antigravità. Lo vedo incassare colpi, subire ferite mortali, resistere oltre l’impossibile, fino al catartico grido finale: «Alabarda spaziale!». Cioè rivoluzione.

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La cultura di massa al capolinea https://www.carmillaonline.com/2025/02/03/la-cultura-di-massa-al-capolinea/ Mon, 03 Feb 2025 21:00:53 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=86544 di Gioacchino Toni

Vanni Codeluppi, La morte della cultura di massa, Carocci, Roma 2024, pp. 116, € 13,00

Nella prima parte del volume Codeluppi tratteggia come si è guardato alla cultura di massa nella seconda metà del Novecento ricordando come il dibattito che si è sviluppato negli anni Sessanta attorno ad essa risenta in buona parte delle tesi prodotte sin dall’immediato secondo dopoguerra dalla Scuola di Francoforte tendenti a denunciare come il modello economico capitalista soffochi ogni istanza creativa ed espressiva di cambiamento ricorrendo ai media per manipolare le coscienze ed omologare i comportamenti degli individui proponendo spesso nelle sue narrazioni [...]]]> di Gioacchino Toni

Vanni Codeluppi, La morte della cultura di massa, Carocci, Roma 2024, pp. 116, € 13,00

Nella prima parte del volume Codeluppi tratteggia come si è guardato alla cultura di massa nella seconda metà del Novecento ricordando come il dibattito che si è sviluppato negli anni Sessanta attorno ad essa risenta in buona parte delle tesi prodotte sin dall’immediato secondo dopoguerra dalla Scuola di Francoforte tendenti a denunciare come il modello economico capitalista soffochi ogni istanza creativa ed espressiva di cambiamento ricorrendo ai media per manipolare le coscienze ed omologare i comportamenti degli individui proponendo spesso nelle sue narrazioni l’happy end come strategia di soddisfazione immediata volta ad allontanare dall’impegno politico orientato alla giustizia sociale.

Per quanto a proposito della cultura di massa anche in Italia, nel corso degli anni Sessanta, si guardi alle teorie francofortesi, è soprattutto Pier Paolo Pasolini a sviluppare nei suoi confronti una critica radicale accusandola di operare, insieme all’industrializzazione ed al nascente consumismo, un’omologazione distruttrice dell’universo arcaico contadino cancellandone gli stili di vita e la cultura popolare tradizionale.

Mentre il francese Edgar Morin, sin dai primi anni Sessanta, guarda in maniera dialettica alla cultura di massa nella sua complessità, mettendo in relazione il sistema di produzione culturale con i bisogni espressi dagli individui, lo statunitense Dwight Macdonald denuncia il farsi strada di una cultura di livello medio che, pur differenziandosi da quella di basso livello, dietro a forme derivate dalla “cultura alta” diffonde contenuti di scarsa qualità.

A guardare invece alla cultura di massa con inedito interesse sono studiosi come Marshall McLuhan, Roland Barthes ed Umberto Eco. In particole, quest’ultimo osserva come nella cultura di massa il fruitore tenda a ricavare godimento dalle variazioni di una struttura sostanzialmente conservativa e, soprattutto, nel confrontarsi con i tre livelli culturali (alto, medio e basso) proposti da Macdonald, Eco sottolinea come in realtà questi non corrispondano automaticamente a tre differenti livelli qualitativi e nemmeno ad altrettante classi sociali nettamente distinte: ad essere differenti sono piuttosto le modalità di fruizione degli individui, lo sguardo con cui si guarda ai prodotti culturali al di là del loro livello qualitativo e contenutistico.

Codeluppi ricorda dunque come sia in particolare il sociologo tedesco Niklas Luhmann a cogliere, nel corso degli anni Settanta, la progressiva frammentazione della società occidentale, avviata verso una stratificazione fondata su numerose subculture, anche a causa della radio e della televisione e di un generale superamento del modello fordista in direzione di una struttura produttiva reticolare sparsa sul territorio: qua si pongono le basi per quello che sarebbe poi stato chiamato “capitalismo digitale”. In Italia è Alberto Abruzzese a riprendere la Scuola di Birmingham ed i cutural studies che hanno colto come il futuro capitalismo digitale si sarebbe fondato sul nuovo ruolo assegnato ai consumatori, orientati a divenire “prosumer”, cioè sia producer che consumer.

Altro momento chiave su cui si sofferma Codeluppi è la comparsa del concetto di posmoderno introdotto da Jean-François Lyotard sul finire degli anni Settanta, a cui si farà ampio ricorso nel decennio successivo per designare, tra le altre cose, il processo di frammentazione culturale e di disgregazione dei confini tra cultura alta e bassa, che, secondo Fredric Jameson, ha comportato nelle società capitalistiche occidentali un vero e proprio appiattimento da cui è derivata una “estetica della superficie”, prontamente fatta propria dal neoliberismo, fondata più sulla “sensazione” che non sul significato e sull’interpretazione.

Come ha avuto modo di argomentare in Ipermondo (2012), piuttosto che di postmodernità, Codeluppi preferisce parlare di ipermodernità, in quanto individua in quest’ultima un’esasperazione della modernità piuttosto che un suo superamento. L’autore spiega poi come la tendenza messa in luce da Walter Benjamin dei media ottocenteschi, come il telefono, di suscitare nell’essere umano un atteggiamento di soggezione, sia del tutto applicabile anche al grande schermo cinematografico che troneggia su una sala in cui il pubblico è mantenuto al buio ed al televisore che, come evidenziato da Jean Baudrillard, tende ad essere posto su un piedistallo. Come ha notato Byung-Chul Han, le cose sembrano cambiare con gli strumenti digitali e mediatici, visto che questi non creano forme di soggezione in quanto sono stati “naturalizzati”, si potrebbe dire con McLuhan incorporati come protesi, sancendo così l’avvenuta ibridazione dell’essere umano con i dispositivi tecnologici.

I media contemporanei si caratterizzano, oltre che per una inedita accelerazione dei tempi di fruizione, per il ricorso a modalità di “comunicazione di flusso” che non mancano di “fluidificare” gli stessi spettatori: se i media ottocenteschi e della prima parte del Novecento ambivano a “catturare l’attenzione” di una massa, gli strumenti digitali tendono invece a cerare “sciami digitali”, come li definisce Byung-Chul Han, cioè aggregati di individui che condividono una condizione comune sebbene d’isolamento. Al posto di ambire ad identificarsi in un gruppo di grandi dimensioni, gli individui contemporanei ricercano modalità con cui sentirsi differenti dagli altri.

Codeluppi segnala come l’universo televisivo da qualche tempo sembri essersi avviato verso una polarizzazione che vede da un lato i canali generalisti seguiti soprattutto da un pubblico di età avanzata e di basso livello di scolarizzazione e dall’altro le grandi piattaforme a pagamento che vantano un pubblico più giovane e maggiormente scolarizzato. Se tali piattaforme, interne ai processi di digitalizzazione e globalizzazione, da un lato tendono ad omogeneizzare la somministrazione di prodotti audiovisivi agli spettatori delle diverse aree del Pianeta e dei più diversi orientamenti culturali, dall’altro, ricorda lo studioso, non mancano di produrre opere imperniate attorno a specificità locali e culturali rendendole disponibili ovunque e a tutti.

A risultare sempre più evidente nella società contemporanea è soprattutto il ridimensionamento del ruolo svolto dalla middle class che in passato rappresentava il principale target di mercato per i prodotti culturali di livello medio. Soprattutto negli Stati Uniti è evidente come ad essersi indebolito sia quello che a lungo è stato il punto di forza del sistema cinematografico: la capacità di realizzare opere popolari di successo commerciale ed al tempo stesso di discreto livello qualitativo. Per indicare tale processo, Codeluppi parla di “marvelizzazione” della cultura, intendendo evidenziare come a tutto ciò abbia contribuito la Marvel con il suo cinema di supereroi.

Nati negli anni Trenta del Novecento, i supereroi hanno visto scemare il ruolo di grande rilievo che avevano assunto nell’immaginario collettivo alla fine della seconda guerra mondiale venendo per certi versi sostituiti dalla fantascienza, probabilmente più adatta a rapportarsi con le inquietudini del momento. Negli anni Sessanta la Marvel ha drasticamente modificato i suoi supereroi facendoli per certi versi “scendere dall’Olimpo”, umanizzandoli, un po’ come era avvenuto per le divinità della statuaria greca tardo classica, in un memento di crisi delle poleis. Pian piano è stato creato un unico grande contesto – Marvel Cinematic Universe – in cui i diversi personaggi della scuderia possono incontrarsi ampliando a dismisura gli intrecci narrativi e dando al tempo stesso unitarietà all’universo Marvel. Riprendendo la tendenza seriale televisiva, inoltre, i film dei supereroi tendono ad adottare finali aperti che preannunciano futuri sviluppi in nuovi “episodi”.

Il successo del sistema Marvel, sostiene Codeluppi, «ha contribuito in maniera significativa a fare andare profondamente in crisi ambiti in precedenza importanti all’interno del mercato cinematografico, come le commedie sentimentali, i film drammatici e i film indipendenti»; insomma, «il dominio dei film Marvel probabilmente ha accelerato la quasi totale scomparsa dal mercato di quelli che erano in passato i film di fascia media» (p. 69) e che ora non sarebbero sufficientemente redditizi, soprattutto se paragonati agli incassi delle opere con i supereroi, che, tra l’altro, si dilatano facilmente in redditizi franchise e merchandising.

Codeluppi si sofferma brevemente anche sull’universo musicale notando come, a partire dagli anni Ottanta, quando hanno preso piede i videoclip musicali, si è assistito ad un progressiva importanza assegnata all’immagine dei/delle cantanti, vero e proprio prodotto commerciale principale, rispetto alla creatività e alle sperimentazioni musicali e testuali delle canzoni. Si tenga inoltre presente, sottolinea lo studioso, che le stesse modalità di consumo dei prodotti digitali tendono ad abbassare la qualità estetica: i prodotti musicali ed audiovisivi vengono spesso fruiti in condizioni ambientali “disturbate”, esterne, di movimento, di scarsa concentrazione, superficiali, dunque come mero intrattenimento di fondo senza prestarvi particolare attenzione.

Si può pertanto parlare di una vera e propria crisi che riguarda le modalità espressive impiegate per comunicare. Se ciò avviene, è probabilmente perché si pensa che un’attenzione per la qualità estetica possa determinare un rallentamento dell’attività svolta dai flussi in azione nel sistema mediatico. Dunque si ritiene che sia necessario concedere spazio soprattutto a forme elementari e poco distintive, che possono circolare facilmente e senza ostacolare il movimento dei flussi, ma che, proprio per questo, determinano in impoverimento dell’offerta culturale (p. 78).

In un’epoca in cui il modello comunicativo è imperniato principalmente sull’efficacia di funzionamento, e sulla redditività, con conseguente abbassamento della cura formale dei messaggi, a proliferare, afferma Codeluppi, è il “culto del banale”. Basti pensare al successo dei reality show che, in alcuni casi, riescono a far coincidere il flusso della vita quotidiana del pubblico con quello televisivo. Il processo di “vetrinizzazione” di cui lo studioso si è a lungo occupato (La vetrinizzazione sociale, 2007; Tutti divi, 2009; Mi metto in vetrina, 2015; Vetrinizzazione, 2021), particolarmente evidente nei social e in piattaforme come OnlyFans, assume le forme del “bordello senza muri”, di cui parlava McLuhan, privo di cura estetica dei contenuti.

Lo schermo non mostra eventi rilevanti, ma le persone rimangono ugualmente davanti a esso. Evidentemente, non siamo più di fronte a un processo di trasmissione di messaggi dotati di un contenuto, ma a una pura forma di circolazione, a una connessione costante basata su un flusso ininterrotto di contenuti poco rilevanti e finalizzati soltanto a ottenere di essere visti. Forse, è possibile anche sostenere che non siamo più di fronte a un vero processo di comunicazione, ma soltanto a semplici pratiche di condivisione di forme espressive (p. 84).

La stessa tendenza alla gamificazione, al ricorso delle logiche ludiche a scopi motivazionali-prestazionali-profiettevoli, enormemente aumentata con la digitalizzazione, può essere vista come evoluzione di quella proposta televisiva indirizzata, come argomentava a metà degli anni Ottanta Neil Postman, a promuovere contenuti visuali leggeri, trasmessi in rapida e frammentata successione, mercificati, progettati esclusivamente per attrarre e intrattenere il pubblico divertendolo ben oltre i generi storicamente votati a tale compito.

Rispetto ai simulacri (copie di copie che si rinviano senza fine senza che esista più un originale) a cui faceva riferimento Jean Baudrillard, nelle attuali società fortemente mediatizzate, secondo Codeluppi, si è di fronte a “simulacri integrali”, che si costruiscono autonomamente un loro originale, dunque non si avrebbe più a che fare «con un rapporto tra la realtà e un suo modello di rappresentazione, ma con un rapporto diretto tra modello e modello». Si giungerebbe così al tramonto della realtà; non perché questa cessi davvero di esserci, ma perché tende ad essere «sostituita da un altra specie di realtà: quella mediale e digitale. Perché i media tendono a costruire un mondo privo di problemi e decisamente più piacevole rispetto a quello fisico» (p. 96)

Gli strumenti digitali amplificano a dismisura quanto già introdotto dalla televisione: la richiesta ai fruitori di lasciarsi andare ad una comunicazione di flusso tendente ad annullare ogni contenuto profondo. «Il modello che s’impone è quello di un social media come TikTok: video brevi o anche brevissimi e assenza di qualsiasi forma di approfondimento» (p. 99). Altro che società dell’informazione, l’attuale era digitale si sta rivelando in realtà dispensatrice di disinformazione, disorientamento ed ignoranza. È in un tale contesto che, da qualche tempo, ha fatto irruzione l’intelligenza artificiale generativa prospettando per i cantori del mondo sin qua descritto magnifiche sorti e progressive e, per chi guarda a tutto ciò con occhio critico, un panorama decisamente inquietante, ma che può e deve essere cambiato.

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