Bologna non più Bologna – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sat, 22 Feb 2025 21:00:49 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 David Maria Turoldo: il mio amico don Milani https://www.carmillaonline.com/2024/03/09/david-maria-turoldo-il-mio-amico-don-milani/ Sat, 09 Mar 2024 22:55:12 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=81652 di Francisco Soriano

Il mio amico don Milani è un libro di appunti scritto da David Maria Turoldo a testimonianza del rapporto umano e spirituale vissuto con il parroco di Barbiana fino alla sua scomparsa, avvenuta nel 1956 a Firenze. La premessa che Turoldo riserva a questo testo appare necessaria al fine di definire con chiarezza i contorni di una vicenda drammatica e polemica, che ha riguardato fino ad oggi la figura e l’opera pedagogica di don Milani. La prova che il dibattito rimane ancora vivo è stato l’intervento di qualche mese fa del maître à penser della destra nostrana Marcello Veneziani, [...]]]> di Francisco Soriano

Il mio amico don Milani è un libro di appunti scritto da David Maria Turoldo a testimonianza del rapporto umano e spirituale vissuto con il parroco di Barbiana fino alla sua scomparsa, avvenuta nel 1956 a Firenze. La premessa che Turoldo riserva a questo testo appare necessaria al fine di definire con chiarezza i contorni di una vicenda drammatica e polemica, che ha riguardato fino ad oggi la figura e l’opera pedagogica di don Milani. La prova che il dibattito rimane ancora vivo è stato l’intervento di qualche mese fa del maître à penser della destra nostrana Marcello Veneziani, in un articolo apparso su «La Stampa» il 27 maggio scorso, dove si apostrofava negativamente l’azione pedagogica del parroco definendola addirittura come una nociva utopia.

David Maria Turoldo nell’introduzione al testo ci informa della sua intima necessità, in un momento storico connotato da stravolgimenti sociali e politici, di emergere dal silenzio e finalmente parlare di don Milani: Quando qualche volta mi è capitato di confessarlo, allora veramente ho sentito, per merito di lui, quanto grande e misterioso è questo sacramento della fraternità e del perdono. Cose troppo delicate per dirle in un qualsiasi articolo. Anzi, è questa una delle ragioni per cui io su don Milani ho preferito piuttosto tacere. E però questa volta, davanti a certe manipolazioni e storpiature, il silenzio poteva essere anche una colpa. Da sottolineare che, molto spesso, alcuni atteggiamenti della classe dirigente italiana hanno rappresentato in generale nei confronti della proposta di cambiamento sociale e di un fermo richiamo all’uguaglianza sul terreno dei diritti più elementari, la proiezione di una ideologia fortemente conservatrice animata da un visionario ritorno al passato con la prospettiva esplicita di consolidare uno status presente di privilegio e potere.

Nella polemica sull’opera di don Milani è emersa talvolta una tendenza a derubricare la figura del parroco a personaggio di culto, rendendo meno pregnante la sua idea di scuola finalmente e realmente democratica. Dal ’68 in poi, una parte consistente di persone ha sostenuto che la pedagogia di don Milani sia stata negativa e controproducente: un esempio ideale e pratico di un modello che preconizzava una scuola non dei ricchi ma di tutti, col professore uguale ai suoi alunni, dialogante, senza bocciature e senza autorità, perché “l’obbedienza non è una virtù”. Sul concetto di potere e autorità ritengo che il pensiero di don Milani sia stato ampiamente frainteso.

David Maria Turoldo intervenne già ai suoi tempi, titolando uno dei suoi interventi: Don Milani non era come dite voi! Nonostante fra don Milani e Turoldo vi fossero differenze quasi abissali, per molti aspetti permaneva la comune idea e la necessità di fare luce sulla statica e sonnolenta posizione del cattolicesimo italiano, rintanatosi in una sorta di strategica e comoda stabilizzazione frutto della “vittoria” elettorale del 18 aprile 1948.

Al fine di non servirsi di dati non riferibili, di interpretazioni fasulle, o finire in cliché di parte, Turoldo ammette di aver sempre stentato a parlare di lui: un uomo con cui non si può scherzare; un uomo di denuncia e di radicale rottura e assoluta: denuncia che provoca resistenze a non finire, e condanne a diluvio come tutti sappiamo. In tempi in cui soprattutto intellettuali come Pasolini argomentavano sul dopoguerra italiano, macroscopicamente si determinavano contraddizioni sociali fortemente drammatiche, per il passaggio inevitabile da una civiltà agraria a quella industriale e l’esplosione di infiniti problemi di cultura, società, religione. Società in sfacelo; moltitudini di poveri senza speranza; tempi di industriali-vampiri; valori e ideali in terribile crisi. Era da questo momento e da questo spazio, dove su tutto campeggiava il protagonista e la vittima: il povero, che nasceva don Milani.

Per Turoldo l’amico don Milani era soprattutto un uomo concreto. Era questa una chiave di lettura ineludibile se si voleva comprendere la complessità di questo personaggio. Uomo incarnato in fatto di fede, perché rimasto intimamente ebreo, Turoldo ci fa capire perché il parroco di Barbiana pensasse che l’antico testamento non va disgiunto dal nuovo, quanto la legge non va disgiunta dallo spirito, la giustizia dalla carità. […] È la sua conversione che è la chiave per entrare nel suo segreto. Dunque la concretezza rappresenta lo spazio della vera complessità che sfugge anche alle più raffinate sintesi teoriche: per questo don Milani era monoliticamente determinato all’azione e al fare. Quella di don Milani era una Torah e una chiesa osservata e vissuta fino alla scrupolosità; una realtà da mai più abbandonare, costi quel che costi, anche il martirio se necessario. […] Una fede sempre rapportata al povero, basata sullo stesso istinto ebraico, chiamata a farsi corposità, appunto, storia.

Don Milani era un prete poco fiducioso nei confronti degli intellettuali, perché basava la propria vita sulla concretezza, la corporeità, così poco propenso ad accettare il piano astratto delle cose. Come uomo di fede reputava l’ingiustizia come un peccato del mondo, la povertà rappresentava il culmine di questa divaricazione in seno alla società fra chi poteva definirsi un uomo libero e chi invece era costretto allo sfruttamento e alla sudditanza. E non lontano da questa dinamica che è alla base delle lotte e delle contraddizioni, profetizzava quel male che sarebbe presto sfociato negli eccidi: egli vide alla fine del secondo millennio «l’ora della resa dei conti… quando tutto il nostro mondo sbagliato sarà stato lavato in un immenso bagno di sangue».

Turoldo ha contribuito con il suo saggio su don Milani a chiarire un punto focale della dottrina religiosa e umana di quest’uomo duro, seppur umile, violento quanto dolce nel perseguire la sua idea di giustizia sociale. Il rapporto con l’autorità era uno di questi punti decisivi, soprattutto se si considerava che egli riconosceva l’autorità ma non il potere, sia nella battaglia che condusse contro i militari, sia nel rapporto con la chiesa. Infatti non accettava «la chiesa carismatica, invisibile e piena di umori», bensì il corpo, il corpo di Dio e, per relazione, il corpo della chiesa, che vuol dire organizzazione, disciplina e autorità. Dicendo infatti che l’obbedienza non era una virtù, affermava che il potere spersonalizza, al contrario dell’autorità che, liberante, fa crescere. Per questo motivo egli si scagliava contro il potere e con la opposta ferma convinzione rispettava l’autorità: potere e autorità erano per don Milani inversamente proporzionali.

L’ultima considerazione, infine, va fatta per l’uomo di fede, che don Milani incarnava in modo assoluto. La sua era la fede di un convertito: per questo divenne «ragione di vita o di morte, un assoluto». Per Turoldo infatti il convertito, il neofita, assume le posizioni estreme di chi vuol cambiare il mondo, e lotta per raggiungere il fine con qualsiasi mezzo e a qualsiasi costo. Don Milani era anche questo.

La sua azione incentrata sul povero si basava sulla lotta alla prima e originaria ingiustizia che era la sua condizione di ignoranza, la sua mancanza di conoscenze che non consente di affrancarsi dal potere, appunto, e dallo sfruttamento. La sua pastorale si fondava su una convinzione: prima educhiamo e formiamo l’uomo, poi l’uomo penserà da sé. Su questo assioma e con questa fede la sua opera è stato l’esempio più lampante e coraggioso del messaggio evangelico dell’uomo di Nazareth.

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Prima dell’art.18 (parte quinta) https://www.carmillaonline.com/2016/07/30/dellart-18-parte-quinta/ Sat, 30 Jul 2016 21:00:44 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=32295 di Alexik

Ducati 3[A questo link il capitolo precedente.]

Fine di luglio, un caldo soffocante. Nei capannoni della Ducati di Borgo Panigale, occupati notte e giorno dalle operaie, mancava l’aria. Ma bisognava tener duro: c’erano 960 posti di lavoro da difendere in quell’estate del ’53. E non era solo per il salario: quella fabbrica era la loro. L’avevano riconquistata nel ’44, il giorno dello sciopero generale sotto l’occupazione nazista, e poi ricostruita nel ’45, mattone su mattone, facendola risorgere dalle macerie dei bombordamenti. Non si sarebbero fatte buttare fuori [...]]]> di Alexik

Ducati 3[A questo link il capitolo precedente.]

Fine di luglio, un caldo soffocante.
Nei capannoni della Ducati di Borgo Panigale, occupati notte e giorno dalle operaie, mancava l’aria. Ma bisognava tener duro: c’erano 960 posti di lavoro da difendere in quell’estate del ’53.
E non era solo per il salario: quella fabbrica era la loro.
L’avevano riconquistata nel ’44, il giorno dello sciopero generale sotto l’occupazione nazista, e poi ricostruita nel ’45, mattone su mattone, facendola risorgere dalle macerie dei bombordamenti. Non si sarebbero fatte buttare fuori facilmente.

Sapevano che si trattava di una rappresaglia contro la città: Bologna aveva votato male.
A Roma i democristiani erano furibondi. Avevano varato una riforma elettorale progettata per conseguire il potere assoluto. Ma la legge Scelba, rinominata ben presto ‘legge truffa’, che assegnava il 64% dei seggi a chi superava il 50% dei voti, non gli era servita a niente: alle elezioni politiche del giugno ’53 la coalizione a guida DC si era attestata al 49,2, perdendo il premio di maggioranza.
Di conseguenza, andavano puniti i territori che avevano votato contro, ed anche i lavoratori che dall’inizio dell’anno scioperavano in massa contro il ‘tentativo democristiano di spezzare la proporzionale’.
Il giorno dopo l’approvazione della legge, l’adesione allo sciopero dei lavoratori bolognesi era stata fortissima. In migliaia avevano manifestato nelle strade del centro, affrontando i caroselli della Celere e le cariche nel quadrilatero (Piazza Maggiore/Indipendenza/Ugo Bassi/Farini). Molti erano stati pestati, arrestati e sottoposti a fermo di polizia, disposti a farsi massacrare ‘per la democrazia e la Costituzione’.
Ignari del fatto che, circa 60 anni dopo, la formazione politica erede del PCI avrebbe sfornato una riforma elettorale decisamente peggiore. L’Italicum, attualmente in vigore, assegna infatti il premio di maggioranza a chi raggiunge il 40% dei voti. Scelba, a confronto, è un dilettante.
Ma non divaghiamo. Nel ’53 i primi a subire rappresaglie per lo sciopero contro la legge truffa furono i lavoratori che dipendevano, a vario titolo, dallo Stato.

A cominciare dai ferrovieri. ‘D’ordine Sig Ministro prego V.S. di impartire disposizioni a tutti i compartimenti F.S. di far pervenire nella maniera più sollecita gli elenchi nominativi del personale che ha partecipato alla manifestazione di protesta indetta dalla Confederazione Generale del Lavoro contro l’approvazione della Legge elettorale restando fermo che coloro che si saranno astenuti dal lavoro dovranno senz’altro essere sottoposti a provvedimento disciplinare data la natura politica della manifestazione’.

Legge truffaIn seguito al telegramma del Ministero dei Trasporti dieci operai vennero licenziati all’Officina Materiale Mobile, per aver costituito ‘una vera e propria formazione fanatica e faziosa’ attuando ‘una eccezionale abusiva attività politica nell’impianto’, per essere ‘esponenti del Sindacato Ferrovieri Italiani, organizzatore dello sciopero’, professare ‘idee politiche-sindacali di estrema sinistra’, ecc., ecc.
Oltre ai licenziamenti, nel Compartimento FFSS di Bologna vennero comminati agli scioperanti 1.778 provvedimenti disciplinari.

A Bologna anche il destino della Ducati dipendeva dallo Stato, che nel dopoguerra aveva acquisito la proprietà dell’impresa tramite il FIM, il Fondo per il Finanziamento dell’Industria Meccanica, e ne controllava gli organi direttivi.
Con una tempistica sospetta il governo De Gasperi, all’indomani del responso elettorale del ‘53, tagliò, tramite il FIM, i fondi alla fabbrica più rossa di Bologna, la città che aveva votato male.
Un po’ come ha recentemente minacciato di fare il governo Renzi con il capoluogo piemontese che ha ‘sbagliato sindaco’. Ma non divaghiamo e torniamo nel ‘53.

A fine luglio arrivarono le 960 lettere di licenziamento e di sospensione dal lavoro. Seicentosessanta erano indirizzate alle donne, che rappresentavano in Ducati l’80% delle maestranze.
Un provvedimento che puzzava di rappresaglia di massa, tenendo conto che dei 2.912 dipendenti della fabbrica 2.218 avevano la tessera della Fiom, 1.550 erano gli iscritti al PCI e 625 lavoratrici facevano parte dell’UDI.
Provocazioni ce ne erano state anche prima. Già dopo la vittoria democristiana del ’48 il clima in fabbrica era cambiato, e i dirigenti sindacali e politici più in vista della Ducati erano finiti nei reparti confino.

Lavoratrici della Ducati portano conforto alle figlie di Maria Margotti, uccisa durante le lotte bracciantili.

Lavoratrici della Ducati portano conforto alle figlie di Maria Margotti, uccisa durante le lotte bracciantili.

Fecero un reparto come il confino, eravamo in 25 – 30 che lavoravamo tutti noi … membri delle Commissioni interne, membri del Consiglio di Gestione, i più esposti politicamente, eravamo gli esiliati” (Giorgino Masetti, tornitore alla Ducati, delegato Fiom alla Commissione Interna).
C’erano stati licenziamenti per rappresaglia, come quello nel ’51 di Albertina Bitelli, una storica resistente di fabbrica, ed anche licenziamenti di massa, 118 per la smobilitazione dello stabilimento di Bazzano (in quell’occasione, la popolazione del paese bloccò per un giorno il trasferimento dei macchinari).

Ma mai un attacco così pesante. La natura pretestuosa dei 960 licenziamenti era palese: la Ducati era tutt’altro che un’azienda decotta.
Aveva rappresentato per anni l’eccellenza dell’industria italiana nei campi dell’elettrotecnica, dell’elettronica, dell’ottica e della meccanica di precisione. Il suo personale, a tutti i livelli, era stato selezionato fra i migliori dalle facoltà di ingegneria e dagli istituti tecnici e professionali, e perfezionato da una scuola interna.
Negli anni ‘30 la ricerca Ducati sulle onde radio era considerata all’avanguardia, e i suoi condensatori venivano esportati in tutto il mondo. Ne produceva 400.000 al giorno, e ne riforniva anche la Philips e la Siemens, clientele piuttosto esigenti.

Ducati. Sala montaggio condensatori.

Ducati. Sala montaggio condensatori.

I suoi reparti R&S avevano sviluppato in maniera pionieristica radio, walkie talkie, macchine calcolatrici, rasoi elettrici, sistemi di intercomunicazione a viva voce, apparecchi di precisione, microcamere fotografiche e proiettori cinematografici tecnologicamente avanzati.
Prodotti di vasta applicazione civile, anche se la guerra era stata la principale committente: prima quella d’Etiopia, e poi il secondo conflitto mondiale.
Ai fini bellici, la Ducati fabbricava telefoni da campo per l’esercito, rice trasmittenti per carri armati e pompe ad iniezione per i caccia. La sua divisione ottica forniva, su licenza della tedesca Zeiss, binocoli marini per la visione notturna migliori di quelli prodotti dalla casa madre, oltre a componenti per i periscopi dei sommergibili. Produzioni di morte, ma tecnicamente ineccepibili.
Solo nel 1944 erano sorti problemi di qualità del prodotto, con l’estendersi dei sabotaggi della produzione bellica da parte delle operaie (opera meritoria in cui si distinsero Albertina Bitelli e Anna Zucchini).
Ma dopo la ricostruzione del dopoguerra, il livello era tornato quello di sempre, e l’offerta produttiva si era ampliata con il ‘Cucciolo’, un micromotore da applicare alle biciclette (in pratica, il Solex con 30 anni di anticipo), che stava riscuotendo un notevole successo.
Ridimensionare una fabbrica del genere non poteva avere nessun senso da un punto di vista di politica industriale, che non fosse la rappresaglia.

Ed era uno sputo in faccia anche alla storia della Resistenza operaia della città.
L’eccellenza tecnica, ignorata nel ’53 dai governanti della Repubblica, era stata riconosciuta dieci anni prima dal comando tedesco, che all’indomani dell’8 settembre si era impossessato della fabbrica, circondandola con venti carri armati e disponendone il trasferimento in Germania.
In quell’occasione, dal cortile della Ducati era iniziato un febbrile via vai notturno di camion e carretti. Erano dirigenti, tecnici e operai che trasportavano clandestinamente prototipi di macchine, progetti, strumenti di precisione, materie prime, da occultare nei sotterranei del cinema Manzoni e in altri 70 nascondigli segreti. Rischiando la vita.
Tutte le maestranze si erano date da fare per rendere le operazioni di smontaggio lentissime e irrazionali, mentre i fratelli Ducati erano riusciti a dirottare i macchinari destinati in Germania verso mete intemedie, nei loro stabilimenti al nord.
L’evolversi della guerra fece definitivamente fallire il progetto.

I tedeschi, che occupavano militarmente la fabbrica, dovettero verificare il basso indice di gradimento che riscuotevano fra le operaie il 1° marzo del 1944. Queste le cronache della giornata:

Alla vigilia del 1° marzo, scritte inneggianti allo sciopero erano state fatte sulle mura della fabbrica. La mattina, fin dal primo turno, ai portoni della fabbrica c’erano le SS e i fascisti. Nei reparti c’era grande animazione… L’orario di inizio dello sciopero era fissato per le 10, al segnale di prova giornaliera delle sirene di allarme. Gli ultimi minuti sembravanoi interminabili. Finalmente squillò il segnale delle 10. Mi precipitai nel corridoio centrale. Solo il reparto attrezzeria uscì subito. Ero stata incaricata di dare il segnale di inizio dello sciopero e lo feci di corsa. In pochi secondi più di 3.000 operai e impiegati del grande complesso si rovesciarono nel corridoio centrale(Anna Zucchini, operaia Ducati).

Masi_GiovanniIl Ruestungskommando era già al corrente del movimento in preparazione e mandò ordinanze da affiggere nelle fabbriche Ducati, nel testo delle quali era prevista anche la pena di morte per i sabotatori, e l’assunzione della Direzione da parte del Col. Hollidt… (Durante lo sciopero) arrivarono quelli delle SS e prelevarono un certo numero di dimostranti che furono accompagnati nei locali vuoti della ex divisione tecnica. I compagni dei prelevati fecero una manifestazione e continuarono l’astensione dal lavoro. Il Col. Hollidt, seccato per la mancata obbedienza ai suoi appelli da me trasmessi in italiano, ordinò ad un gruppo di avieri germanici in sosta sul piazzale merci, di entrare con le armi e mi fece diffondere un ultimatum in questi termini: Se fra pochi minuti gli operai non riprendono il posto di lavoro i soldati germanici sono costretti a sparare” (Anna Mathà, dipendente Ducati, interprete).

Due ore esatte durò la manifestazione, e a nulla valsero le ripetute minacce delle SS di ritirarci immediatamente nei reparti di produzione. Alla ripresa del lavoro, fui arrestata insieme ad altri sei o sette operai. Fummo interrogati a lungo, ma il giorno dopo fui rilasciata. Tre giorni più tardi la direzione della Ducati mi licenziò e allora cominciò per me un’altra fase nella Resistenza” (Anna Zucchini, operaia Ducati).

Nel luglio successivo, il capitano Steiling, capo degli ufficiali di sorveglianza alla Ducati, venne abbattuto da ignoti a colpi di arma da fuoco nel cortile della fabbrica.
La Ducati diede vari combattenti alla Resistenza. Oltre ad Anna Zucchini, staffetta della 7a GAP e poi responsabile del distaccamento ‘Tarzan’ di Anzola Emilia, erano operai della Ducati Raffaele Gandolfi, del Comando Militare della Resistenza in Emilia Romagna (CUMER), e Celestino Cassoli, organizzatore di scioperi e sabotaggi, e delle Squadre di Azione Partigiana della zona di Bazzano. Veniva dalla Ducati Giovanni Masi, nominato giovanissimo come responsabile del PCI della zona Saffi, il quartiere industriale più importante di Bologna. Agitatore di fabbrica anche prima dell’8 settembre, Giovanni Masi fu fra i fondatori del Comitato Sindacale Clandestino per la Provincia di Bologna, che coordinava le attività di resistenza e boicottaggio nei luoghi di lavoro. Arrestato più volte dai nazifascisti, resistette sempre alle torture. Subì la deportazione a Dachau, Buchenwald e Bad Gandersheim. Morì fucilato in Germania, senza riuscire a compiere 20 anni.

12 ottobre 1944. Bombardamento della Ducati.

12 ottobre 1944. Bombardamento della Ducati.

Il complesso della Ducati di Borgo Panigale venne completamente raso al suolo il 12 ottobre 1944. Maestranze e macchinari erano in salvo, dislocati prudentemente nelle sedi di Bazzano e Crespellano. Dei muri, però, ne rimase poco.
A Liberazione avvenuta, mentre i proprietari accusati di collaborazionismo erano rifugiati a Milano, “gli operai, gli impiegati e i tecnici si trasformarono in muratori per ricostruire la fabbrica, in poliziotti per andare alla ricerca delle macchine rubate e portate in tutta Italia, in dirigenti della produzione”. Le donne partecipavano allo sgombero delle macerie e  rimettevano in funzione l’asilo aziendale, indispensabile alle lavoratrici madri.

A tutte loro, e a questa grande Storia tecnica e politica, fatta di intelligenza, capacità, fatica, sangue e coraggio, nel ’53, nella ‘Repubblica nata dalla Resistenza’, il governo De Gasperi volle sputare in faccia.
Alla notizia dei 960 licenziamenti, che riguardavano anche 18 lavoratrici in gravidanza o con figli minori di un anno (non licenziabili secondo la legge), la fabbrica venne subito occupata e resistette per una settimana, prima di essere sgomberata dalla Celere.

Quel giorno “sembrava che dovessero affrontare una guerriglia. Ci spinsero fuori come fossimo delle delinquenti, invece volevamo soltanto lavorare”  (Albertina Bitelli e Amelia Benazzi, operaie Ducati).
Quando occupammo la fabbrica stavamo dentro giorno e notte… E una volta arrivò la Celere e ci bastonò col tubo di gomma dura, che fa un male tremendo. I nostri prendevano i seggiolini e si difendevano così” (Maria, operaia Ducati).

Asilo Ducati. Una eccellenza della città.

Asilo Ducati.

Le lavoratrici non si scoraggiarono e iniziano una capillare opera di coinvolgimento della città, con volantinaggi in tutti i quartieri. Quelle, fra loro, distaccate nella colonia aziendale di Lizzano in Belvedere, anche se raggiunte dalle lettere di licenziamento continuarono ad accudire i figli delle compagne.
Le altre, sgomberate dalla fabbrica, rimasero in presidio lì davanti. “Stemmo davanti alla fabbrica di giorno e di notte, per sei mesi, prima col solleone e un caldo insopportabile, poi con pioggia e freddo. Resistemmo per la nostra volontà di rientrare, ma anche per la solidarietà illimitata dei cittadini, bottegai e commercianti, di Borgo Panigale.
Tutti ci facevano credito e una parte scendeva in lotta con noi.

Scaduta la mutua, il medico, dott. Masala, visitava e dava medicine gratuitamente ai lavoratori ammalati. La solidarietà si allargava, le cooperative e il Molino di Corticella ci portavano pasta e il necessario per fare il condimento.
Da questo partì l’iniziativa di una mensa. L’oste Bolelli (chiamato Ribello) e gli inquilini del suo condominio misero a nostra disposizione la loggia che divenne il nostro refettorio e contemporaneamente la nostra sala per riunioni. Due compagni facevano da mangiare con l’ombrello. Nonostante i disagi, per sei giorni alla settimana a mezzogiorno mangiavamo un piatto di minestra calda” (Albertina Bitelli e Amelia Benazzi, operaie Ducati).
Quelli delle altre fabbriche “ci mandavano della farina, ci mandavano della pasta, ci mandavano un po’ di salame, da poter riuscire a stare sempre lì.” (Ovidia Galloni, impiegata Ducati)
E i contadini ci portavano il grano. La farina per aiutare le famiglie rimaste senza sostentamento. Quelli che avevano qualcuno in famiglia che ancora lavorava lasciavano la roba per chi non aveva niente” (Maria, operaia Ducati).

Ducati: in lotta per il reintegro.

Ducati: in lotta per il reintegro.

Si schierarono le amministrazioni comunale e provinciale a fianco delle operaie che intanto, in piazza, continuavano ad affrontare le cariche. “So che c’era la polizia che ci dava le bastonate per disperderci nelle manifestazioni. È stata una lotta molto grande … E poi io presi anche una bastonata, che mi toccò di andare dentro una latteria, dove mi bagnarono la testa. Davanti alla Questura” (Jole, operaia Ducati).

Dopo sei mesi di trattative a Roma al Ministero del Lavoro, la società Ducati dispose il reintegro di 50 operai/e, e la trasformazione degli altri licenziamenti in semplici sospensioni, coperte dalla Cassa Integrazione Guadagni.
Ai cassaintegrati offrì corsi di riqualificazione in vista di un graduale reinserimento in azienda, che non avvenne mai. Vennero tutti licenziati nel gennaio ’55, quando ormai erano fuori dalla fabbrica da un anno e mezzo, e la capacità di reagire si era persa. (Continua)

Riferimenti:

Luigi Arbizzani, La Costituzione negata nelle fabbriche. Industria e repressione antioperaia nel bolognese (1947-1957), Grafiche Galeati – Imola, 1991.

Eloisa Betti, Elisa Giovannetti, Senza giusta causa. Le donne licenziate per rappresaglia politico sindacale a Bologna negli anni ’50, Editrice socialmente, 2014.

Resistenza, Organo dell’ANPI provinciale di Bologna, n. 1, marzo 2014.

A.A.V.V., Comunisti, i militanti del PCI raccontano, Roma, Editori Riuniti.

Anna Zucchini, Linceo Graziosi, Gli anni difficili. Antifascismo, ricostruzione post bellica e sviluppo industriale nei ricordi di due operai metalmeccanici, Bologna, Ed. Fiom, a cura di Giovanni Mottura, 2001, p. 300.

Mauro Morbidelli, Senza giusta causa  (documentario), 2005, 51 minuti.

 

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¡Berta Cáceres presente! https://www.carmillaonline.com/2016/03/29/berta-caceres-presente/ Mon, 28 Mar 2016 22:00:29 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=29497 bertadi Helena Scully Gargallo e Nino Buenaventura

[Presentiamo un testo di Helena Scully Gargallo sull’attivista Berta Cáceres, vilmente uccisa il 3 marzo scorso in Honduras. La sua lotta e la memoria non si fermano. Il testo è stato letto il 23 Marzo 2016, ore 19.34, calendario Mediterraneo, Circolo Anarchico Berneri, Bologna. Di seguito riportiamo una poesia di Nino Buenaventura dedicata a Berta, “Ritratto d’amore con assassinio”, scritta in italiano e tradotta in spagnolo dallo stesso Nino. F.L.]

Difficile parlare con la rabbia e il dolore che percorrono tutto il corpo, bloccando la gola, impedendo [...]]]> bertadi Helena Scully Gargallo e Nino Buenaventura

[Presentiamo un testo di Helena Scully Gargallo sull’attivista Berta Cáceres, vilmente uccisa il 3 marzo scorso in Honduras. La sua lotta e la memoria non si fermano. Il testo è stato letto il 23 Marzo 2016, ore 19.34, calendario Mediterraneo, Circolo Anarchico Berneri, Bologna. Di seguito riportiamo una poesia di Nino Buenaventura dedicata a Berta, “Ritratto d’amore con assassinio”, scritta in italiano e tradotta in spagnolo dallo stesso Nino. F.L.]

Difficile parlare con la rabbia e il dolore che percorrono tutto il corpo, bloccando la gola, impedendo alla parola e al pensiero di fluire.

Difficile sfidare l’impotenza suscitata dalla consapevolezza che ci stanno ammazzando e che per loro la vita non ha nessun valore.

Le lacrime devono essere versate per dissipare il dolore, per far si che l’acqua del pianto ci rinverdisca dentro e che quello che crescerà in noi ci riempia di vita.

Quando la rabbia ci pervade, la miglior cosa è respirare profondamente e organizzarci, tanto collettivamente, come individualmente, cosicché, piano piano, si trasformi in ribellione.

Lo scorso tre marzo, Berta Cáceres, compagna fondatrice e coordinatrice del Consejo Cívico Popular e Indígena de Honduras (COPINH) è stata assassinata dalle pallottole d’un sistema che disprezza la vita, che ha paura della forza dei popoli che difendono i loro fiumi, le loro terre, il loro crescere e il loro vivere condividendo.

berta-vive-la-lotta-continuaBerta era e continua a essere la forza dei popoli originari di Abya Yala. Il riecheggiare dei suoi passi persiste nelle strade della Esperanza (Honduras), dove è nata ed è stata uccisa. La sua potente voce continua a nascere dalle nostre bocche per gridare agli assassini della terra, che l’organizzazione popolare della forza Lenca è più forte del piombo con il quale la vogliono far tacere, che la nostra scommessa è per la vita, nel senso più ampio della parola, e soprattutto, che la vita non è un regalo che loro gentilmente ci concedono, la vita non si impone, la vita si rinforza, si purifica e si organizza, per combattere contro la paura, il proiettile, la diga idroelettrica, la miniera, l’esercito e tutti i meccanismi di morte e controllo che ci vogliono imporre e con i quali vogliono distruggere il nostro spazio vitale.

Berta è stata assassinata dallo stato hondureño che dà in concessione e vende le terre che non gli appartengono, perché la terra e di chi la cammina, la semina, la vive. Colpevoli della sua morte sono l’impresa costruttrice di capitali locali DESA (Desarrollos Energéticos S.A.), e una delle più potenti costruttrici, la cinese Sinohydro. Assassino è il governo golpista e dittatoriale di Juan Orlando Hernández, che è anche colpevole di non dar la protezione necessaria e mantenere in un territorio ostile e pericoloso il compagno Gustavo Castro Soto, testimone diretto dell’omicidio di Berta Cáceres e ferito nell’attacco. Il malgobierno hondureño sta impedendo che Castro esca dal paese, mettendo in pericolo la sua integrità fisica e mentale. Gustavo Castro è, come Berta, un difensore della terra, coordinatore di Otros Mundos Chiapas (organizzazione messicana per la difesa dei diritti umani, i beni comuni e la madre terra).

Berta insieme al COPINH riuscirono ad impedire la costruzione della centrale idroelettrica Agua Zarca che pretendeva incarcerare ed avvelenare le acque del fiume Gualcarque, da dove sorgono le voci sacre delle bambine del popolo Lenca. La costruzione è stata fermata temporaneamente, ma la militarizzazione della zona e il continuo assedio delle e degli integranti del COPINH, che resistono nel territorio, è estremamente preoccupante.

L’Honduras è uno dei paesi più pericolosi per gli attivisti. Centodieci ambientaliste e ambientalisti sono stati uccisi negli ultimi cinque anni; l’assassinio di Berta non è un caso isolato, e sappiamo che la sua morte non è stata la prima e purtroppo non è stata nemmeno l’ultima; due settimane dopo che è stata strappata la vita della nostra compagna, sorella, amica, madre, è stato ucciso Nelson Garcia, compagno facente parte del COPINH. È stato assassinato due ore dopo aver partecipato alla resistenza contro lo sgombero degli abitanti della comunità di Río Chiquito.

berta_vive_xlargeCon l’assassinio di Berta, con l’esproprio delle nostre terre, delle nostre acque, dei nostri spazi di costruzione di altri mondi, quello che cercano è terrorizzarci, farci credere che non abbiamo possibilità di agire, farci aver paura di conoscere le nostre strade, i nostri quartieri, le nostre campagne.

Voglio dire, come giovane messicana, come compagna di tutti voi in basso a sinistra: il loro sistema di morte solo rinforza la nostra lotta per il Buen Vivir, la loro imposizione perpetua del terrore come modello di vita ci spinge a organizzarci per recuperare e per far crescere i semi che rinverdiranno i nostri prossimi passi.

Adesso più che mai, gridiamo: ¡Berta vive! ¡La lucha sigue! ¡El pueblo Lenca vive! Berta non è morta, ne sono nate altre cento!

Abajo y a la izquierda compas, continuiamo a seminare di vita il desde abajo per far vedere a quelli di sopra che la morte non ci renderà muti, che sarà distrutta la loro imposizione del terrore.

Continuiamo ad organizzarci affinché la nostra cieca rabbia si dissipi; per risolvere con il lavoro comunitario, con il dialogo con altre realtà, fra di noi, i problemi che ci impongono e le sfide che si presentano, senza mai arrenderci.

Non riusciranno a strapparci la parola, nonostante continuino a riempire di sangue le nostre terre, le nostre case, i nostri corpi… amori ed amicizie.

Non fermeranno la lotta dei nostri popoli. Non riusciranno a violentare le nostre terre, non riusciranno a venderle. Perché se toccano una di noi, toccano tutte.

Berta, esempio di tutto, insegnante, Utopía, Esperanza, come si chiamavano i suoi spazi di lotta.

La nostra Berta respira, nei ricordi di ognuna di noi. Quella Berta che suscitava la mia ammirazione e allo stesso tempo m’intimidiva, con la sua voce da gigante. “E te, perché non parli?” Mi rimproverava Meli mentre camminavamo due passi dietro mia madre e la madre della mia amica Berthita, “Mi fa paura la sua forza” – “La forza di un popolo non ti deve mai intimorire, Helena”.

Il propagarsi dei suoi passi dà un significato al futuro di costruzione di nuove forme e sguardi per capire il territorio-corpo, la lotta femminista e indigena, il sentire dell’acqua.

Ringrazio la vita per avermi permesso di conoscere le sue terre, seguendola nel suo camminare.

Berta si espande nella resistenza del popolo Lenca e nella resistenza di ogni popolo di Abya Yala e del mondo.


RITRATTO D’AMORE CON ASSASSINIO – Per Berta Cáceres

Le tue figlie sono minute,

una di esse si morde il labbro

e parla con la tua voce da gigante.

Eri madre

ed eri figlia del tuo popolo,

una combattente senza gloria,

senza fortuna.

 

Poi sono venuti gli omuncoli del denaro

con assetate idrovore meccaniche,

sono venuti a quantificare la vita di un popolo,

a chiuderla in disumane barriere

a trasformare la vita in capitale

e la morte in bene comune.

La prepotenza del piombo

ha potuto con te quello che non ha potuto

la strisciante lascivia del denaro.

 

Ascoltate! Hanno assassinato Berta!

Hanno assassinato uno dei sorrisi

che si scagliava contro il tempo.

Ascoltate! Hanno assassinato una di noi,

ed è come se in un sol colpo

avessero asportato un’intera foresta,

come se in un lampo avessero dimezzato una montagna,

avessero potuto incendiare i fiumi e i mari.

Ascoltate! Hanno assassinato Berta,

e l’acqua or schizza furibonda dai propri argini!

 

Per te scrivo queste righe,

per te mai conosciuta

per te intravista

nella figura sfuocata di tua figlia,

nelle lacrime di una amica.

 

Chiedo a te Berta,

di poter accarezzare il tuo nome,

la tua forza,

per essere un po’ anch’io figlio tuo,

e madre… perché in me nasca l’alba di una nuova alba.

Perché il tuo sorriso sia il marchio inconfondibile

che smentisca la rassegnazione dei pessimisti,

degli spossati.

 

Nino Buenventura

 

[Versione in spagnolo – Versión en español]

 

RETRATO DE AMOR CON ASESINATO – Para Berta Cáceres

Tus hijas son menudas,

una de ellas se muerde el labio

y habla con tu voz de gigante.

Eras madre

y eras hija de tu pueblo,

una combatiente sin gloria,

sin fortuna.

 

Y llegaron los homúnculos del dinero

con sedientas tragadoras mecánicas,

llegaron a cuantificar la vida de un pueblo,

a cerrarla en deshumanas barreras

a transformar la vida en capital

la muerte en bien común.

La arrogancia del plomo

pudo contigo lo que no pudo

la serpentina lascividad del dinero.

 

¡Escuchen! ¡Asesinaron a Berta!

Mataron una sonrisa

que se arrojaba contra el tiempo.

¡Escuchen! Asesinaron a una de nosotros,

y es como si de un solo golpe

hubiesen extirpado una entera foresta,

como si en un relámpago hubiesen demediado una montaña,

como si pretendieran incendiar los ríos y los mares.

¡Escuchen! ¡Asesinaron a Berta,

y ahora el agua salpica furibunda desde su proprio manto!

 

Por ti escribo estos versos

jamás conocida,

por ti vislumbrada

en la figura difuminada de tu hija,

en las lagrimas de una amiga.

 

Te pido, Berta

acariciar tu nombre,

tu fuerza,

para ser por un poco hijo tuyo,

y madre… para que en mí nazca el alba de una nueva alba.

Para que tu sonrisa sea la señal inconfundible

que desmienta la resignación de los pesimistas,

de los postrados.

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Spaccare Tutto (Il Racconto) https://www.carmillaonline.com/2016/03/26/spaccare-tutto-il-racconto/ Sat, 26 Mar 2016 01:15:49 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=29421 di Jago Malteni

Blu1Il racconto che segue è stato concepito dall’autore come uno spin-off (com’è che si dice) del romanzo a puntate “L’arca della fattanza”, in tema con la recente e quantomeno discutibile apertura di una mostra di street art a Bologna.

Spaccare tutto.

A metà tra l’imperativo categorico e l’istruzione per l’uso, Giobi vede la scritta campeggiare sul muro di fronte, in una foto che circola da un po’ in rete. Chi l’ha scattata, però, non poggiava le suole sull’asfalto di un marciapiede, accorto [...]]]> di Jago Malteni

Blu1Il racconto che segue è stato concepito dall’autore come uno spin-off (com’è che si dice) del romanzo a puntate “L’arca della fattanza”, in tema con la recente e quantomeno discutibile apertura di una mostra di street art a Bologna.

Spaccare tutto.

A metà tra l’imperativo categorico e l’istruzione per l’uso, Giobi vede la scritta campeggiare sul muro di fronte, in una foto che circola da un po’ in rete. Chi l’ha scattata, però, non poggiava le suole sull’asfalto di un marciapiede, accorto magari a non spiaccicarle su una merda fresca di cane, ma sopra al marmo lucido e disinfettato di una stanza chiusa. Il muro in questione, d’altronde, non è un muro esterno, appartato dietro un gomito della Bologna universitaria o sul ciglio di un viale di periferia, ma la parete di una sala, la sala di un palazzo, il palazzo che da poco è stato adibito a m(a)us(ol)eo di arte urbana.

Murales, scritte e graffiti levati di sana pianta dalla strada, scrostati alla lettera dai muri sui quali abitava la loro sola ragione d’essere e appesi sottovetro sulle pareti di un posto che è più un “obitorio”, come è stato detto, che altro.

Un po’ come allestire una mostra di sostanze psicoattive lungo i corridoi di una clinica per disintossicazione da droghe. Il che sarebbe pure una gran bella idea, a pensarci, se non fosse che la clinica è privata e l’ingresso esclusivo, riservato a pochi, meglio se proibizionisti.

Spaccare tutto.

Facile che l’autore della scritta, per mai che avesse voluto vederla in un posto come quello, fosse proprio a un posto come quello che volesse riferirsi. E il peggio, la cosa che più fa bestemmiare per il senso d’impotenza che arriva veloce appena dopo l’incazzatura, è che chi ha allestito la mostra ne è perfettamente consapevole.

Blu3Quella scritta, messa lì, non è che una provocazione bella e buona. È il potere che piglia per culo l’antagonismo derubricandolo a stupido gioco infantile, ma solo dopo averlo represso con la forza e rinchiuso nella gabbia di quattro mura domestiche, asettiche e sterilizzate.

Ci manca solo che ti mettono pure qualche attrezzo a disposizione per invitarti a “spaccare” tutto sul serio, – pensa Giobi al riguardarsi la foto, – tipo quei martelletti che trovi sui mezzi pubblici per infrangere i vetri, “da usare solo in caso di emergenza”. Cioè, nel caso in questione, subito! Immediatamente!

Pezzi di arte urbana che da un giorno all’altro vengono sottratti al loro contesto originario e incorniciati a uso e consumo di migliaia di visitatori paganti, tutti in fila per ingrossare le tasche di qualche magnate gallerista: se non è emergenza questa?

E non è manco per il costo del biglietto in sé, e cioè tredici fottutissimi euri più uno di cauzione (che pure è una mezza randellata nelle reni per uno studente spiantato e fuorisede). È proprio che certe cose… certe cose no, porcaputtana!

Specie se a farle sono quelli che fino all’altro ieri si riempivano la bocca di “decoro” urbano, gli stessi che mo pretendono di fare soldi con parte di quel “degrado” che a parole hanno sempre osteggiato, condannato, combattuto con ogni mezzo, ma che tutt’a un tratto si rivela fonte di profitto, gallina spennata dalle uova d’oro (a patto però che il messaggio sociale e politico sotteso non oltrepassi i cancelli d’ingresso).

Queste cose, però, le hanno già dette in tanti, al punto che è pure inutile starsele a ripetere. C’è tra gli altri chi al proposito ha parlato di “decontestualizzazione” dell’opera d’arte, chi è andato a scomodare Benjamin, chi Foucault e chi addirittura Marx, tirando in ballo il concetto di “accumulazione originaria del capitale”.

Tutto giusto e condivisibile, per carità. Ma certe cose Giobi si è scocciato di leggerle, tanto più se le vede spegnersi davanti agli occhi non appena lo schermo del portatile gli va in standby.

Blu2Vorrebbe fare qualcosa, invece, qualcosa di più concreto. Di fronte a uno schifo del genere si sente chiamato a non starsene più con le mani in mano, lui che appresso alla street art si è inceppato fino quasi a perderci la testa. Specie ora che alcuni pezzi di quel puzzle che da tempo cerca invano di ricomporre non sono più per strada, disseminati sotto i portici e per le vie della città, ma nel chiuso di una specie di camera ardente.

Qualcosa deve farla. Ma cosa? Sabotare, boicottare. Certo, ma come?

Blu, per esempio, ha cancellato le sue opere con un’audace, poetica e sacrosanta passata di grigio. Le cose fatte sui muri, del resto, mica sono là per restarci in eterno? Tanto vale, sennò, trasferirle veramente in un cazzo di museo! Per non dire che di recente lo stesso Blu ha cancellato un paio di sue opere a Berlino, senza però che in quel caso ci fosse il rischio di vedersele snaturare in una galleria d’arte.

Quelli che lo hanno aiutato a ripulire le pareti si sono pure beccati una denuncia. La più assurda delle denunce che mai graffitaro si potesse beccare: quella di aver cancellato un murales invece che di averlo fatto!

Giobi, però, non è un graffitaro. Non è Blu, soprattutto, e di sottrarre graffiti ai mercanti d’arte non se lo può permettere (senza poi contare che cancellarli tutti è veramente un’impresa impossibile).

Eppure, se proprio non si può evitare che delle opere d’arte urbana finiscano surgelate in vetrina, tanto vale agire in senso inverso, portando cioè un po’ di strada dentro le mura dove stanno imprigionate, restituire loro un po’ del contesto in cui hanno visto la luce, un po’ di sano lerciume, un po’ di “degrado”.

Questo s’è detto Giobi, e da quando l’idea gli è entrata nella capoccia non se n’è più voluta uscire. Si è messo perciò a studiare una maniera per realizzarla, un piano d’azione, una strategia. Almeno cinque le cose che servono: una bomboletta spray, una vescica gonfia sul punto di implodere, un passamontagna per eludere telecamere e sorveglianza, scaltrezza da faina e tanto, tantissimo culo.

Blu4Di entrare per l’ingresso principale, ovviamente, non se ne parla. Il palazzo è costantemente piantonato dalle guardie e i controlli saranno persino raddoppiati da che la mostra è salita agli onori della cronaca. Giobi però, sviscerando meglio la mappa dei sotterranei bolognesi (quella che si era procurato grazie a Luca), ha scoperto l’esistenza di un passaggio che sbuca giusto nel seminterrato del palazzo in questione. Il primo sopralluogo fatto gliene ha dato conferma; il secondo gli ha addirittura suggerito il modo di raggiungere il piano allestito senza passare per la porta principale. La fregatura è che la sola entrata per dove può passare è in realtà un’uscita, una porta d’emergenza sul retro. Che, come tutte le cazzo di porte d’emergenza sul retro, si apre solo da dentro. Dovrà perciò appostarsi fuori e aspettare che qualcuno, un custode o un addetto, la apra per qualche motivo; al che, senza farsi sgamare, dovrà intrufolarsi dentro in punta di piedi, raggiungere le sale della mostra e una volta là aspettare il momento giusto per…

No, da solo non potrà mai farcela.

Perciò ha provato a sentire Luca, che subito si è detto d’accordo a fargli da palo. Pure domani stesso, che alla mostra aveva comunque già pensato di andarci. Giobi allora, vista la disponibilità dell’amico, gli ha chiesto di andare lui ad aprirgli quella cazzo di porta d’emergenza sul retro. A un orario concordato, certo, e magari dopo essere entrato un po’ di tempo prima nei locali della mostra, non più di quello che basta a farsi un’idea della vigilanza e delle misure di sicurezza. Le due di pomeriggio è l’ora in cui è presumibile che ci siano meno visitatori, e che si abbassi pertanto la guardia. E per quell’ora sono rimasti d’accordo.

Fino a che, il giorno dopo, quell’ora non è arrivata.

Blu5Le due, le due e cinque, le due e dieci… Giobi è là fermo in posizione, con l’aria di un ratto risalito per le fogne e venuto fin là a impestare l’impestabile. Il passamontagna è già infilato in testa, la bomboletta in un tascone e la vescica grossa quanto un pallone da basket. È da stamattina che non piscia, e per poco la tensione non gliela fa fare addosso.

Alle due e un quarto Luca apre finalmente la porta, giustificando il ritardo col fatto che fino a un momento prima ci fosse uno dei vigilanti a sorvegliare l’uscita.

Giobi si fida e lo segue fino al primo giro d’angolo, dove lo vede sporgersi a osservare la situazione mentre con una mano gli fa segno di aspettare. Poi, passato un minuto o forse due, gli dà il via libera. E Giobi si fionda allo scoperto.

I passi rimbombano nel silenzio mostruoso di quelle sale stranamente vuote. Le pareti sono tappezzate per intero da quadri entro cui si trovano costretti pezzi di muro, vecchie porte in legno e saracinesche divelte, persino cartoni per pizze, con sopra stencil e graffiti affiancati da insulse targhette che ne specificano l’autore, l’anno, la provenienza.

A un momento gli sembra pure di vedere quelle scritte cominciare a muoversi, fluttuare in spirali ipnotiche che si allargano fino a sfondare le cornici e sconfinare per sopra alle pareti. Strano: era sicuro di non aver assunto sostanze allucinogene prima di uscire. (Non invece come quella volta che si era risvegliato in piena notte su una panca ai giardini di San Leo, tra gli anatemi e le bottigliate della signora Anna).

Luca intanto gli fa strada, finché, percorse alcune sale fino a quella principale, salite poi alcune scale e svoltato un altro paio d’angoli, l’occhio non gli cade sulla scritta che aveva visto in foto.

Spaccare tutto.

Blu6L’atrio è deserto, il momento propizio. Con le spalle copertegli da Luca, che resta a fare da palo poco distante, Giobi si sbottona la patta dei calzoni e vuota la vescica lungo la base della parete. Un minuto e passa di pisciata fumante, roba che manco Fiabeschi! (Tipo l’ultima volta che aveva pisciato nei cessi al piano seminterrato del 36…)

Poi sfodera la bomboletta e la fa cantare, imbrattando di scarabocchi ogni minimo angolo della stanza. Ne scrive di ogni: La street art senza street non è manco più art, Padroni ladroni, Musealizzatemi ‘sta minchia, La proprietà è un furto… con diverse A cerchiate da per tutto.

Luca, nel frattempo, è ancora là con le mani in tasca, tranquillo, forse pure troppo. Fatto sta che non dà segni di allarme, per cui Giobi riprende fiato e si ferma a contemplare il lavoro fatto: proprio un bel servizio, non c’è che dire. In culo a chi vorrebbe l’arte di strada senza più la strada per torno.

Spaccare tutto.

Ancora quella scritta, là immobile a caratteri cubitali, sotto la luce fredda di due lampade al neon. Pare avercela con lui ora, come fosse un invito, un promemoria a concludere il lavoro cominciato e lasciato a metà. Martelli non ce ne stanno in dotazione, ma in un angolo Giobi scorge un estintore e non può mantenersi d’esaudire il desiderio che appena gli sfiora le cervella: abbrancarlo di colpo e schiantarlo contro la parete dove la scritta si staglia.

Il fracasso è tale da far scattare l’allarme, e l’allarme tale da far risvegliare Giobi nel suo letto, di colpo, con una sirena d’ambulanza spiegata nelle orecchie e un impellente bisogno di pisciare.

Cazzo!

Nemmeno dopo il caffè si leverà di dosso la netta sensazione che fosse tutto successo per davvero. Incapace a capacitarsene, acchiapperà il telefono e cercherà il numero di Luca tra le ultime chiamate:

«Pronto Lù! Senti qua, avrei una cosetta da proporti…»

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L’Arca della Fattanza (Epilogo) https://www.carmillaonline.com/2016/01/17/larca-della-fattanza-epilogo/ Sat, 16 Jan 2016 23:00:55 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=27839 di Jago Malteni (copertina di l’éparvier)

Coperta(1)SGOMINATA BANDA DI PERICOLOSI CRIMINALI!

La scritta, a caratteri cubitali, stavolta non campeggia su un muro, ma sopra un cartello posto dinanzi al chiosco d’un edicolante. Giobi, uscito stamane solo per godersi gli ultimi avanzi d’estate, la legge diffidente: il solito sensazionalismo di facciata dei quotidiani locali, versione silente degli strilloni che le testate di un tempo sguinzagliavano per le strade, dopo aver mandato in stampa le edizioni straordinarie.

No, con lui non funziona. Ci vuole ben altro per farlo abboccare!

E però non resiste [...]]]> di Jago Malteni (copertina di l’éparvier)

Coperta(1)SGOMINATA BANDA DI PERICOLOSI CRIMINALI!

La scritta, a caratteri cubitali, stavolta non campeggia su un muro, ma sopra un cartello posto dinanzi al chiosco d’un edicolante. Giobi, uscito stamane solo per godersi gli ultimi avanzi d’estate, la legge diffidente: il solito sensazionalismo di facciata dei quotidiani locali, versione silente degli strilloni che le testate di un tempo sguinzagliavano per le strade, dopo aver mandato in stampa le edizioni straordinarie.

No, con lui non funziona. Ci vuole ben altro per farlo abboccare!

E però non resiste alla curiosità e ne piglia una copia. La prima pagina non parla d’altro. L’occhiello recita: Colti in flagrante mentre spacciavano droga nei sotterranei della città.

L’articolo di fondo non è da meno…

Tempestiva ed efficace l’azione della polizia, che durante la mattinata di ieri ha snidato e tratto in arresto quattro componenti di una pericolosa banda criminale (oltre che un loro assiduo cliente), da tempo dedita allo spaccio di sostanze stupefacenti. I banditi conducevano il traffico illecito nei canali sotterranei della città di Bologna, dove avvenivano gran parte dei rifornimenti e degli scambi di droga. Proprio nei sotterranei ha preso avvio l’inseguimento, che si è poi concluso sui tetti del quartiere ebraico, dove, in un appartamento in via dell’Inferno, è stato stanato il quartier generale della cosca. «Abbiamo colto i malviventi in flagranza di reato, – ha dichiarato il Commissario, – mentre il traffico di stupefacenti era giustappunto in corso. Il tallonamento è stato a dir poco spettacolare, degno di un action-movie hollywoodiano, ed ha avuto buon esito solo grazie alla tenacia e alla prontezza dei nostri ragazzi». (segue a p. 2)

Ma tu senti di che va cianciando quell’esaltato di un commissario! “Flagranza di reato, traffico di stupefacenti in corso… Tallonamento spettacolare, degno di un action-movie…” Che megalomane! E poi chi sarebbe ‘sto “assiduo cliente”? Stupidaggini, frottole inventate per incastrare i presunti colpevoli, cazzate bell’e buone, e tanto strepitose da risultare persino credibili!

Già se lo vede il caposbirro, tutto impettito, con l’aria tronfia del salvatore della patria, che strizza l’occhietto al cronista di turno e gli fa così col gomito, mentre gli dice: “questa scrivila, eh, mi raccomando”. Roba da Bollywood, altro che Hollywood! Roba che al massimo potrebbe finire in un “b-moovie da spazzatura”, per citare, con tanto di refuso, una scritta che gli è cara.

Lesto, Giobi apre il giornale a pagina due. È in leggero ritardo, ma Luca può aspettare. Intanto, per non perdere tempo, riprende a passeggiare, la visuale coperta dall’inchiostro ancora fresco della carta stampata…

L’azione è partita grazie alla segnalazione di un anziano signore che alle prime luci dell’alba, dalla sua finestra in via de’ Musei, ha scorto tre persone in strada nell’atto di forzare un accesso ai seminterrati del Museo del Risorgimento. L’uomo, però, ben lucido nonostante la veneranda età di 84 anni, non ha potuto fornire alla polizia l’identikit dei delinquenti, poiché, come egli stesso ha tenuto a precisare, «i tre avevano il viso coperto da maschere, di quelle che indossano i sovversivi durante le manifestazioni». Alcune di queste maschere, in effetti, sono state ritrovate sul luogo della retata: due erano nel covo dei malviventi, un’altra galleggiava sulle acque del fiume sotterraneo e una quarta stava a terra, a pochi passi dal portone d’entrata del palazzo. C’è dunque ragione di pensare che costoro, oltre che spacciatori senza scrupoli, fossero altresì dei pericolosi antagonisti. È assai probabile, in tal caso, che essi abbiano partecipato ai recenti scontri tra studenti e forze dell’ordine in Piazza Verdi, dove gli agenti sono stati vittime del lancio prolungato di oggetti contundenti. Questo, però, potrà essere acclarato solamente nel prosieguo delle indagini.

– Ehi tu, imbecille, sta’ attento a dove metti i piedi!

Giobi inciampa su un rialzo del lastrico e quasi va a finire addosso a uno. Ma l’attimo dopo è di nuovo con gli occhi incollati all’articolo.

Che storia è mai questa? Certo che in questa città ogni occasione è buona per gettare fango sui movimenti studenteschi e sui centri sociali. Ai giornalisti dovrebbero metterli a scrivere sceneggiature, non resoconti di cronaca. Nelle redazioni sono sprecati, braccia rubate alla MinCulPop-Fiction!

Confermata è invece l’identità dei fuorilegge: Z. W. B., 31 anni, di nazionalità camerunense, percussionista di una ben nota band di strada, immigrato da qualche mese e in possesso di regolare permesso di soggiorno; U. Y. G., moldavo 37enne, l’unico ad avere già precedenti penali nel suo paese d’origine; L. X., 27 anni, cinese, laureata  presso la sede bolognese della Johns Hopkins e banconista in un famoso locale del centro; e infine V. E., di anni 52, al momento ricoverato al Sant’Orsola perché colto da un malore mentre cercava di scappare a nuoto attraverso le acque del canale sotterraneo.

L’unico di cui non si dice la provenienza è lui, il capoccia, che guarda caso è un bolognese purosangue. Stampa locale di merda! Ben gli sta, comunque, se l’hanno pescato moribondo dal fiume!

Di tutti gli altri, invece, vita morte e miracoli: del bestione esteuropeo che ha la fedina penale sporca; del tizio centrafricano che fa il bonghettaro a piazza Verdi (e dove sennò?); della cinesina (dev’essere lei la tipa che gli ha fregato l’accendino…) che fa la barista interinale con in tasca una laurea alla Johns Hopkins (di nuovo ‘st’università americana di mezzo: ennesima e mai ultima coincidenza?)…

Curioso, poi, che i tirapiedi fossero tutti di nazionalità diversa. Gli tornano alla mente le parole del prof. a lezione, tra le poche che s’era segnate sul quaderno: La creazione di divisioni su base nazionale tra i lavoratori sembra costituire una necessità strutturale per la classe imprenditrice… (Non che sia la stessa cosa, però ci può stare…)

È momentaneamente in stato di fermo anche un cliente della banda, D. T., studente universitario pugliese, anch’egli recuperato dalle acque del fiume in stato confusionale. Malgrado costui si ostini nel dichiarare la propria estraneità ai fatti, non è ancora stato in grado di fornire agli inquirenti un alibi che giustificasse altrimenti la sua presenza nei sotterranei al momento della retata.

Cazzo, alla fine pure Mimmo è stato accalappiato! Rachid no, quelli della redazione lo avrebbero sottolineato a dovere, e pure con dovizia di particolari: un palestinese immigrato e senza fissa dimora che si trova coinvolto in una storia simile sarebbe pane per i loro denti marci!

Non resta che incrociare le dita e sperare che Mimmo venga rilasciato al più presto, prima almeno che faccia nomi. Ma quello squinternato di un pugliese non è un infame, sa il fatto suo e saprà tenere la bocca chiusa. Giobi è disposto a scommetterci.

Nessun grosso quantitativo di droga è stato ancora rinvenuto nell’appartamento, tuttora sotto sequestro, in cui i malviventi coordinavano le attività illegali. Gli agenti però assicurano che stanno facendo il possibile per scovarne il deposito.

Dunque la cassaforte è ancora lì, intonsa e stracolma di roba. È probabile a ‘sto punto che gli sbirri, presi dalla foga del tallonaggio, ci siano passati davanti senza manco rendersene conto. Sai altrimenti quanto avrebbe goduto il caporedattore nel rivelare in esclusiva quanti quintali di droga fossero andati in sequestro?

L’abitazione al centro delle indagini è di proprietà di una facoltosa signora bolognese, la quale ha espressamente manifestato la propria volontà di rimanere nell’anonimato. Costei ha ammesso di aver affittato l’immobile con regolare contratto al più anziano dei componenti della banda, ma ha altresì affermato di non essere minimamente al corrente di quanto avveniva tra quelle mura. La signora si è dichiarata, anzi, parte lesa, e per il tramite del suo avvocato sta facendo pressioni affinché l’appartamento venga sollecitamente dissequestrato. «L’istanza – fa sapere il Questore – verrà certamente accolta e l’appartamento tornerà presto a disposizione della legittima proprietaria, la cui innocenza è stata appurata al di sopra di ogni ragionevole dubbio. Ma il dissequestro dell’immobile avverrà solo dopo che la polizia vi avrà effettuato, come da regolare procedura, i dovuti controlli».

Interessante: un appartamento che presto resterà sfitto e una cassaforte piena di roba negli scantinati dello stesso palazzo…

Thom Yorke ha ragione, cazzo: due più due fa sempre cinque!

Il signor questore ha concluso il suo intervento congratulandosi con gli agenti che hanno condotto l’arresto ed encomiando le forze dell’ordine per l’indispensabile servizio che svolgono quotidianamente per contrastare l’increscioso, e negli ultimi tempi purtroppo crescente, degrado cittadino.

Giobi ripiega il giornale e si sfrega le mani imbrattate d’inchiostro, mentre sale le scalette del giardino del Guasto dove Luca, seduto su una panca, lo sta aspettando da un pezzo.

Gli racconterà delle pieghe inattese che hanno preso gli eventi, gli farà leggere l’articolo e poi gli dirà come stanno veramente le cose. E alla fine pondererà di certo quello che sta ponderando lui. Anche gli altri saranno d’accordo. Rachid compreso, naturalmente.

Un sorriso gli spunta a fil di labbra.

Non può sapere, né saprà mai, che dietro alcune frasche, a margine del murale battezzato qualche notte addietro come arca della fattanza, una scintilla balugina al suo passaggio, fugace e impercettibile, nelle pupille di un coniglio nero.

 

Titoli di coda.

Di tutti i graffiti che compaiono nella storia sono frutto di fantasia solo la citazione “dantesca” nei sotterranei, quella “tibetana” nei bagni del 36, il coniglio al 10 di via dell’Inferno e quello a cui si fa cenno in chiusura. Gli altri roditori, invece, non soltanto sono reali, ma pare che stiano persino sopravvivendo al repulisti generale. La speranza è che nessuno si accorga mai di loro.

Reale è anche la scritta “io ti vede”, di cui il protagonista ha ricordo approssimativo alla fine dell’ottava puntata: è al 32 di via Zamboni, nel bagno dei maschietti al pianterreno.

Le descrizioni degli ambienti sotterranei e dei passaggi per accedervi sono liberamente ispirate al romanzo I sotterranei di Bologna di Loriano Macchiavelli. Nel testo, poi, sono disseminate diverse citazioni, a volte nascoste altre volte meno, tratte da opere di Andrea Pazienza.

Il film a cui si accenna nella quarta puntata, in riferimento alla tentata rapina alla Cassa di Risparmio nel ‘77, è Lavorare con lentezza, film del 2004 con regia di Guido Chiesa e sceneggiatura di Wu Ming.

Il protagonista e gli amici del suo giro sono personaggi di finzione, costruiti però enfatizzando i caratteri di persone in carne e ossa, di cui, si può dire, essi sono caricature.

Per il resto, eventuali riferimenti a persone o fatti reali sono da considerarsi casuali.

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L’Arca della Fattanza (Capitolo 5b) https://www.carmillaonline.com/2016/01/10/larca-della-fattanza-capitolo-5b/ Sat, 09 Jan 2016 23:00:46 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=27480 di Jago Malteni

Coperta10 (Small)[A questo link tutte le puntate de L’Arca della Fattanza – Disegno di copertina di l’éparvier]

I giorni s’accorciano.

Ottobre volge al termine, novembre è alle porte.

Alle sei è già buio, e piove a dirotto. Il frangersi delle gocce sull’esterno dei vetri produce un picchiettio leggero, che per la breve durata di qualche istante regala a Giobi un mesto e vacillante senso di casa.

È lì, del resto, che adesso si trova, precipitato tra le macerie lasciate [...]]]> di Jago Malteni

Coperta10 (Small)[A questo link tutte le puntate de L’Arca della Fattanza – Disegno di copertina di l’éparvier]

I giorni s’accorciano.

Ottobre volge al termine, novembre è alle porte.

Alle sei è già buio, e piove a dirotto. Il frangersi delle gocce sull’esterno dei vetri produce un picchiettio leggero, che per la breve durata di qualche istante regala a Giobi un mesto e vacillante senso di casa.

È lì, del resto, che adesso si trova, precipitato tra le macerie lasciate in giro dai muratori. Da domani, dicono, avrà inizio la ricostruzione.

Raccatta le poche rimanenze di frigo e se le fa bastare per cena. Poi, senza neppiù la forza di alzarsi da tavola, si gira una canna con l’erbetta di Luca e l’accende con movenze da invertebrato.

Negli ultimi giorni – nemmeno s’è accorto come – s’è trovato coinvolto in una spirale di eventi ipnotica e rocambolesca, senza apparenti vie d’uscita. Impossibile, una volta dentro, tirarsene fuori.

E ora che il ciclone s’è chetato, Giobi vorrebbe tanticchia pigliare pace, fermarsi a rifiatare, riflettere, rassemblare le cose e provare a metterle in fila, tirarne le somme. Ma niente, nisba, non ce la fa. Ha il cervello in loop e i pensieri ancora troppo in subbuglio: al loro posto un vorticare ininterrotto d’immagini in caduta libera, ritagli e scampoli di maschere e voci come tasselli d’un mosaico incompiuto, pezzi sparpagliati di uno stesso puzzle che a occhio sembrano combaciare ma che poi, all’atto di congiungerli, non danno mai l’incastro giusto. Cerchi, che invece di chiudersi s’inanellano in spire sempre più grandi, finendo per diffrangersi in geometrie non-euclidee, sdrucciolevoli e scomposte, come cocci scaleni di uno specchio infranto.

Giobi giochicchia con l’accendino. L’insperatamente ritrovato, suo fedele e inarraffabile accendino. Avvicina il posacenere per ciccarci dentro. Poi, tirata una boccata profonda, la trattiene a lungo nei polmoni. Nel silenzio della cucina può udire il crepitio della cartina che brucia, dell’erba e del tabacco che ardono e si fanno cenere…

E “lentissimamente ruotano le adiacenze immediate”, e iniziano a confondersi il visibile e l’invisibile, la veglia e il sonno, realtà e surrealtà e allucinazione. E senza continuità di soluzione s’accavallano le due dimensioni dei graffiti con le tre del mondo fuori, l’orizzontale e il verticale col sotto e col sopra, all’incrocio preciso tra l’inferno e il paradiso, tra la terra e il cielo, tra i bassifondi e lo spazio aperto. Perché davvero a un certo punto è stato come se il ventre della città lo avesse risputato fuori con un rigurgito, sbalzato dalle viscere del sottosuolo fino alla vertigine dei tetti, dalla condanna alla salvezza in poco meno di un minuto.

Un altro tiro, poi un altro ancora. Principi attivi s’immettono nei vasi sanguigni e dai polmoni vanno a spandersi lungo i milioni di capillari, a invadere le periferie del corpo che, stanco morto, s’affloscia.

E si accalcano, senza tregua, tutte le nutrie e gli scoiattoli e i neri-conigli di questo mondo, ombre di altrettanti bianconigli che non esistono se non in quell’altro, di mondo, in quel paese delle meraviglie a cui non s’approda che lasciandosi trasbordare da una delle tante versioni cripto-dantesche del Caron-dimonio-con-occhi-di-bragia, con tanto di stige da oltrepassare una volta varcata la soglia degli inferi.

E si frappongono, in un limbo sospeso a mezz’altezza, tutte le scritte e i graffiti del centro, a formare un graffito unico che li comprende tutti ma che un senso proprio non ce l’ha, o se ce l’ha non sa trattenerlo e lascia che si disparga in mille rivoli, lungo più d’altrettante strade possibili, al punto che una vale l’altra visto che alla fine, quale che sia il percorso che scegli, ti ritrovi sempre al punto di partenza, a pensare che il tuo, di percorso, non sarà mai quello giusto, datosi che in fondo lo sono tutti quanti. E tu non potrai far altro che girare e girare ancora in tondo, nella giungla metropolitana che t’avvolge e ti trangugia, centrifugato di qua e di là dall’occhio cieco di un ciclopico ciclone, nel labirinto in saliscendi contro i cui spigoli sbatacchierai la testa fino a farti male e non sentire più dolore.

È un bordello, è tutto un cazzo di bordello.

Come ha potuto mai sognarsi di cercare un ordine, o anche solo di vedercelo, dentro una caos di ‘sta maniera?

“Era un eunuco che si faceva seghe immaginarie agitando il braccio nel vuoto”, direbbe il Pompeo di Andrea Pazienza.

Eppure, prima che tutto avesse inizio, era proprio la ricerca di un senso che ne dava uno al suo girovagare per i cigli delle vie del centro.

Lo spino è a metà, spento o quasi. Giobi lo ravviva con un paio di boccate decise.

Dov’è il bandolo della matassa? E cosa resta di tanto sgrovigliare se non un ringarbugliarsi ancora più confuso?

Soprattutto, c’è una risposta che dia senso – un fine, una fine – a queste fottute domande?

Giobi riavvolge il nastro e torna al principio: ripensa all’abbiocco nei giardini di San Leo, alle bottigliate della Signora Anna e al coniglio nero che lo ha condotto da lì fino al Guasto; ripensa all’arca della fattanza e a tutte le allucinazioni di quella notte funesta; all’ingresso segreto per chiavette USB e a quelli per la bolognanderground, tra la Vita e la Morte prima e in via dell’Inferno poi; ripensa agli scontri di Piazza Verdi e ai fricchettoni dello studentato occupato, alla truffa architettata male e riuscita ancora peggio; ripensa al suo accendino e alla sbarba cleptomane che era riuscita a sgraffignarselo; ripensa alla gang, allo gnomo bolognese e all’Incredibile Hulk dei Balcani, a Mimmo e Rachid.

Ripensa a lei.

C’è da uscirne pazzi, e forse è tutta fatica sprecata.

(Eppure qualcosa…)

Esausto, le sinapsi allo stremo, Giobi dà gli ultimi tiri alla canna, la bocca invasa da un retrogusto acerbo, come di cartoncino da filtro.

(Eppure qualcosa resta…)

Poi, alzandosi, affoga il mozzico nel posacenere, manda il resto del mondo affanculo e va dritto a franarsi sul letto.

(Ma cosa, cos’è che resta? Sarà poi vero che scoiattoli e conigli neri conducono da qualche parte?)

È da un po’ che non legge. Allunga una manaccia e afferra il libro che trova aperto, dorso in su, sulla scrivania…

I tuoi passi rincorrono ciò che non si trova fuori degli occhi ma dentro, sepolto e cancellato: se tra due portici uno continua a sembrarti più gaio è perché è quello in cui passava tempo fa una ragazza dalle larghe maniche ricamate, oppure è solo perché riceve la luce a una cert’ora come quel portico, che non ricordi più dov’era…

S’addormenta col libro sul petto.

Al risveglio, l’indomattina, per un attimo gli sembrerà d’aver sognato tutto.

Ma solo per un attimo.

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L’Arca della Fattanza (Capitolo 5a) https://www.carmillaonline.com/2016/01/03/larca-della-fattanza-capitolo-5a/ Sat, 02 Jan 2016 23:00:40 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=27477 di Jago Malteni

coperta9Ecco intanto, per chi se l’è perse, il riassunto delle puntate precedenti: Giobi è uno studente calabrese che vive da anni a Bologna. Appassionato di street art, è da tempo sulle tracce di improbabili connessioni tra i graffiti che tappezzano i muri del centro. Una notte, mentre è in stato di allucinazione, s’imbatte in qualcosa che impegna da un po’ (ma senza esito) le sue ricerche: un coniglio nero dipinto alla base di un muro, uguale ad altri due che, secondo i suoi [...]]]> di Jago Malteni

coperta9Ecco intanto, per chi se l’è perse, il riassunto delle puntate precedenti: Giobi è uno studente calabrese che vive da anni a Bologna. Appassionato di street art, è da tempo sulle tracce di improbabili connessioni tra i graffiti che tappezzano i muri del centro. Una notte, mentre è in stato di allucinazione, s’imbatte in qualcosa che impegna da un po’ (ma senza esito) le sue ricerche: un coniglio nero dipinto alla base di un muro, uguale ad altri due che, secondo i suoi strampalati calcoli, starebbero lì a tracciare percorsi segreti. La mattina dopo si rende conto che era solo un’allucinazione, ma trova uno strano biglietto in tasca, con sopra un indirizzo: Via dell’Inferno, 10. Ci va, e con sua grande sorpresa scopre un altro nero-coniglio, stavolta reale, all’interno del palazzo. Nota anche, prima di allontanarsene in punta di piedi, degli strani movimenti attorno a una porta blindata nel dismesso cortile interno. Incontra poi Luca, un amico che gli viene in aiuto mostrandogli una porta USB incastonata in un muro, dove Giobi rintraccia dei file che parlano di droghe “enteogene” e di una misteriosa Bologna sotterranea. Il giorno dopo, sfuggito a una carica degli sbirri durante un corteo per il diritto alla casa, incappa per caso in un suo vecchio amico, Mimmo, e con lui ripara in uno studentato occupato. Qui, al termine di una concitata assemblea, riesce a convincere Rachid, ragazzo palestinese, a scendere con lui nei sotterranei della città. Anche Mimmo è dei loro, e il mattino seguente, scesi di soppiatto nei bassifondi, i tre si trovano a spiare dei loschi armeggi con pacchetti di roba pescati dall’acqua e stipati dentro una cassaforte, all’altezza di quello che a Giobi pare proprio il palazzo al 10 di Via dell’Inferno. Il giorno dopo, vista la concreta possibilità di mettere le mani su quella roba, Giobi e Rachid si ridanno appuntamento per tentare il colpaccio… (Disegno di copertina di l’éparvier)

Capitolo 5a

Alle sette meno cinque, l’indomattina, Giobi è già in via de’ Musei, tra la Vita e la Morte.

Malgrado lo spiacevole incontro della sera passata, si è svegliato ottimista e carico, a pallettoni, con picchi di adrenalina a elettrizzare il sistema nervoso. Dopo due minuti era già per strada, i pugni serrati nelle tasche della felpa, sotto la spinta di un’insolita frenesia. Neanche s’è curato di calarsi il cappuccio per ripararsi dalla pioviggine leggera.

Rachid non c’è ancora. Meno male, sennò lo doveva aspettare pure stamattina. C’è invece, più inaspettato di una proposta di lavoro decente, quello sciroccato di Mimmo. Giobi gli lancia un’occhiata tra il lo-sapevo e l’ormai-sei-qui-ma-vedi-di-non-fare-altre-cazzate, e gli fa:

– Mi’, si può sapere che ci sei venuto a fare? Non avevi detto che…

– Ci ho ripensato, Gio’. Anzi, per farmi perdonare di ieri, stamattina sono venuto in orario e con la torcia carica. È già un’ora che sto qua…

– Un’ora?!

– Eh sì, mi ero scordato che stanotte c’era il cambio del coso, là, del fuso orario.

– Il solito tremone, come dite voi! Ma poi guarda che non è il fuso orario che è cambiato, quello mi sa che è un’altra cosa… Fuso ci sei tu, semmai!

– Sì, va buo’, quello che è… l’ora legale, solare… quella cosa là, insomma. Però quando me ne sono accorto, invece di starmene con le mani in mano sono andato a pigliare dei cornetti, qua dietro l’angolo. Tieni, uno è il tuo…

Giobi non ha fatto colazione, e un cornettazzo a quell’ora gli giunge come manna dal cielo. Non lo può rifiutare. Con un morso ne divora mezzo ed emette un mugugno a bocca piena, apposta incomprensibile, che vorrebbe dire “grazie”.

– Ah, senti Gio’, prima che me ne scordo, ho pensato di portare pure queste… – E Mimmo mostra tre maschere di Guy Fawkes, quelle di V per Vendetta che Giobi odia almeno quanto la birra analcolica.

– Nooo, di nuovo? Ma ti sei fissato co’ ‘ste cazzo di maschere? – e il cornetto quasi gli va di traverso.

– È per sicurezza, Gio’. Metti che quelli ci sgamano e ci sfilano appresso. Con le maschere non ci riconoscerebbero neppure…

– Vabbo’, vabbo’… – Stamattina Giobi non ci tiene proprio a guastarsi il buonumore.

Rachid è puntuale come i rintocchi del campanile. Guarda i due senza chiedere spiegazioni, trangugia il suo cornetto e tira fuori un grimaldello dalla saccoccia.

– Questo è ferro bulgaro, attrezzo professionale. Io prova con questo se non riesce con cazzo di porco.

– Graande! Ma dove l’hai preso?

– Questi affari miei.

Per fare contento Mimmo, i tre indossano le maschere, forzano la grata e si addentrano nel seminterrato del museo. Procedono quatti, come da copione, fino al punto in cui l’ultima volta si sono appostati per assistere alla scena dei quattro figuri alle prese con i panetti di roba…

Di fianco all’imbocco delle scale, come Giobi sospettava, c’è un tizio che presidia la cassaforte, forse il tipaccio africano che pure aveva visto l’altro giorno, durante il sopralluogo improvvisato al 10 di via dell’Inferno. Dunque, se i turni di guardia sono fissi, dopo di lui dovrebbe toccare al bestio biondo…

Giobi deglutisce. Il respiro è pesante dietro quella maschera del cazzo. Era dai tempi di Darth Vader che non si sentiva un fiato così rumoroso, altro che V per vendetta!

Una fifa strisciante gli attanaglia le caviglie: nel migliore dei casi ci sarà da squagliarsela a gambe levate, specie dopo l’incontro ravvicinato di ieri sera, con tutte le minacce e le male parole che sono volate. Meglio però non farne parola con gli altri due, servirebbe solo a far impennare la tensione. Che comunque c’è, è già alta e sale ogni momento di più, stuzzicata dai muggiti che il vento e le acque, oggi più irrequiete, dell’Aposa si trascinano appresso.

È come se cento e più fantasmi stessero loro col fiato sul collo.

Finché il momento non arriva.

Allo sparire del piantone, già intesi sul da farsi, i tre s’incamminano furtivi nell’oscurità. Il tempismo è perfetto: come appena piazzano il piede di porco sotto il portello della cassaforte arriva da sopra il segnale, uno-due-tre, uno-due-tre, a più riprese, seguito ogni volta da strepiti e clangori metallici. L’uno addosso all’altro, Giobi, Mimmo e Rachid, impugnano alla meglio l’attrezzo e mettono tutto lo sforzo possibile nel far leva contro il forziere, che però, spingi e spingi, non dà segni di cedimento. Il tempo stringe, e Rachid pensa bene di giocarsi la carta del più preciso e meno chiassoso grimaldello. Gli altri due gli fanno luce e lo guardano armeggiare col fiato sospeso. Non si accorgono che intanto l’uno-due-tre di sopra è cessato, e che ha fatto posto al tramestio di tre o più persone che si stanno scapicollando giù per le scale… Quando avvertono il pericolo hanno già una stroboscopia di torce puntate dritte negli occhi.

O-ccazzo!

Le tre maschere di Guy Fawkes coprono il terrore che s’incide in un lampo sulle altrettante facce. Ma se la fuga sincronizzata fosse sport olimpico, i tre meriterebbero il podio per come se la danno a gambe. Davanti hanno il buio, certo, ma finché le torce degli inseguitori puntano su di loro, riescono ancora a vedere dove mettono i piedi.

I quattro (o forse più) predatori grugniscono insulti irripetibili contro le prede in fuga, ma sono più lenti, arrancano, non gli stanno dietro. Se avessero armi da fuoco avrebbero già sparato dei colpi in aria. I tre fuggitivi lo sanno e, visto il vantaggio che già hanno preso, cominciano pure a illudersi di poterne uscire sani e salvi. Vivi, perlomeno. Quello che non sanno (e che nemmeno, del resto, potrebbero immaginare) è quanto sta lì lì per succedere…

Una luce in fondo al tunnel è di solito un buon presagio, soprattutto se si avvicina; nella fattispecie, vuol dire che c’è qualcun altro, laggiù, che sta correndo in direzione opposta. Per cui i casi sono due: se si tratta di rinforzi, di amici accorsi in loro aiuto (qualcuno del Katsim, magari), le possibilità di salvezza si raddoppiano; se invece si tratta di nemici le possibilità si azzerano del tutto, giacché si troverebbero schiacciati tra due forze avverse, uguali e contrarie. E quelli lì, a giudicare da come sbraitano, amici proprio non sono: sono sbirri in retata, altri nemici.

Ergo: sono fottuti! O meglio: con buona probabilità non sono loro quelli a cui la pula sta dando la caccia, ma come si fa a spiegarglielo? “No, signor commissario, noi volevamo solo… truffare dei fuorilegge! Per caso è reato truffare dei fuorilegge?”

sottobacheca2 (1)Ebbene sì: sono fottuti!

Il ragionamento non fa una grinza, ed è forse per questo che Mimmo, tratte al volo le dovute conseguenze, si getta di peso nell’acqua, forse nel disperato tentativo di raggiungere a nuoto l’altra sponda. Giobi e Rachid sono tentati di emularlo ma non se la sentono, hanno i piedi inchiodati alla banchina.

È in quel preciso frangente che i due s’accorgono che non c’è più nessuno, ora, a corrergli dietro, e che, come c’era da aspettarsi dopo l’arrivo della polizia, gli inseguitori di colpo sono diventati inseguiti. A far sempre la parte di questi ultimi sono invece loro, rimasti ora in due, che pigliano a scappare in direzione opposta.

I piedipiatti sono ancora ben lontani dal raggiungerli, forse per via delle goffe imbracature da speleologi di cui sono bardati. Quelli della cosca, invece, sono sempre più vicini, di poco innanzi a loro. Uno inciampa e casca a picco nel fiume:

– Booiaaddìooo!! Presto, scalzacàn, ciapatemi su!!

È il capoccia che si sgola, con quella sua voce roca, garrula, inequivocabile. La mente di Giobi è attraversata dal pensiero che sia stato Hulk a dargli lo sgambetto, come lui stesso gli aveva suggerito la sera prima. Fatto sta che nessuno dei tirapiedi si scomoda per fargli da bagnino, se ne fregano e tirano dritti a sgambarsela.

Nella foga della corsa, Giobi trova la lucidità di supporre che quei tizi sappiano già dove scappare. Una gang che gestisce traffici sotterranei deve per forza avere una via di fuga pronta ad ogni evenienza. Stargli dietro, pertanto, sarebbe la cosa migliore.

Sta per dirlo a Rachid, ma in un istante vede i gangster inforcare le scale a chiocciola e il suo compagno proseguire invece lungo la banchina, dritto per dritto. Tituba per qualche secondo, ma poi, giusto il ragionamento appena fatto, sceglie la via di sopra: si salvi chi può.

Senza volerlo, i tre sono stati capaci di svignarsela per altrettante strade: una mossa da manuale per chi si trova braccato. Gli sbirri ora avranno non poco filo da torcere per acciuffarli tutti. Ma chi di loro ha preso la strada giusta, questo non è dato saperlo.

È in affanno, Giobi, sale i gradini a quattro a quattro. Segue gli inseguiti e, come s’aspettava, rivede la luce del giorno nel dismesso cortile interno di via dell’Inferno, 10. Fortuna che la porta di metallo fosse già stata aperta prima.

I piedipiatti gli sono alle calcagna, gli scagnozzi lo precedono di poco. Ne sfrutta la scia e s’inerpica su per le scale del palazzo, fino all’ultimo piano. Stavolta non ha il tempo di risistemare lo zerbino cinese, scrauso e malmesso là in terra, ma riesce comunque a intrufolarsi nell’appartamento, in tempo per vedere i fuggiaschi arrampicarsi su una scala di legno che mena direttamente sul tetto. Ultimo è il colosso dei Balcani, che per via del tonnellaggio perde tempo a ficcarsi su per il pertugio, concedendone agli sbirri quel tanto che basta per sfondare la porta d’ingresso. Giobi non ha scelta: si lancia anche lui sulla scala, e con una spinta decisa dà la stura al gorilla e lo fa straboccare di sopra. Poi, rapidissimo, sale anche lui e ritappa veloce la botola.

Su, alla luce del sole, alza gli occhi e vede i gangster continuare la fuga tra le antenne e gli abbaini, su per i tetti del ghetto ebraico. Ma in quel preciso momento, fulmine a ciel sereno, un attacco di vertigine lo coglie su due piedi, brusco, alla sprovvista. Per arginarlo Giobi è costretto ad accasciarsi sulle tegole, strisciare fino a un comignolo e poggiarvisi contro. È solo allora che gli sbirri sfondano la botola per fare irruzione sul tetto. Giobi ha l’istinto di risollevarsi per darsela a gambe, ma si frena tempestivo nel rendersi conto che là accucciato gli agenti non possono vederlo.

Fermo immobile dov’è, vede il manipolo di poliziotti lanciarsi alla caccia dei malviventi, a distanza crescente da quel suo fortunoso appostamento.

Si porta una mano al volto per lo scampato pericolo, ed è solo toccandola che si ricorda di stare indossando ancora quella maschera del cazzo. Fastidiosa e insopportabile, sì, ma deve ammettere che gli ha appena salvato il culo! Senza, lo avrebbero di sicuro riconosciuto, identificato, schedato. Gli sbirri come gli sgherri. Così invece sa per certo di poterla passare liscia, di tornare alla vitaccia di prima come se niente fosse. Non gli resta che uscirsene indenne da quel palazzo. E dire che manco più ci sperava…

Tira un mezzo sospiro e rimira una Bologna inedita ai suoi occhi, fatta di torri che svettano aguzze sui tetti, ruvidi e scaleni, delle case, sopra lo sfondo grigio d’un ordinario cielo di mezz’autunno.

Si rialza in tutta calma e torna a scendere per le scalette di legno. Giù, indisturbato, approfitta dell’occasione per curiosare tra le stanze vuote di quell’appartamento a cui, giorni prima, gli era stato negato l’accesso. Ancora ne conserva l’indirizzo in tasca…

S’aggira tra i vani, fruga nei cassetti, passa al setaccio i ripiani della mobilia. Ma niente, nulla più di un normalissimo ambiente domestico. Chi ci abita ha già provveduto a far sparire ogni traccia d’attività criminosa. Ma Giobi non si dà per vinto e continua a rovistare in giro, finché non trova su una mensola delle bombolette spray con degli stencil per graffiti, tra cui uno, fresco ancora di vernice, con su la scritta: Giochi o non giochi? Ecco, lo sapeva: è la conferma che aspettava, la riprova che il suo ragionamento era corretto. Per averne una ulteriore e chiudere tutti i cerchi in via definitiva, cerca ancora tra i calchi e le sagome, ma niente che somigli a un roditore. La cosa più interessante, tra le altre, è la stampa di una bottiglia con dentro, invece che un messaggio da srotolare, l’intero mare in cui galleggia un’altra (o forse quella stessa?) bottiglia. Che non somigli un po’ a quella sua ricerca senza fine, il trovare dentro ogni risposta una domanda più grande che comprende in sé anche la precedente? E se tutto non fosse altro che un immenso frattale senza capo né coda?

Poco più in là, da non credersi, Giobi scova anche un paio di maschere di Guy Fawkes, identiche a quella che sta indossando. (“Pure qua! – è il pensiero che gli viene – Ma è un assillo, non se ne può più!”). Poi fissa lo sguardo su un orologio appeso alla parete: le sette e trentacinque. Minchia, prestissimo! Di solito a quest’ora dorme ancora come un ghiro in letargo. E ora invece si ritrova lì, a guardarsi intorno con occhi increduli, a pensare che sono successe più cose nell’ultima mezz’ora che, forse, in un anno qualsiasi della sua vita!

Torna a ravanare intorno e non crede ai suoi occhi quando, aperto un tiretto a caso, s’imbatte nella più insperata e piacevole delle sorprese: il suo fedele, inarraffabile accendino, con tanto di scritta Fight for your lighter e pieno di graffi sotto a furia di stappare birre. Lo afferra e, come se il contatto con l’oggetto potesse sprigionare il ricordo di quando lo aveva impugnato l’ultima volta, Giobi vede tornare a galla degli stralci rimossi di memoria…

Locale affollato, luci soffuse: una tipa, occhi a mandorla e movenze felpate, gli si para davanti chiedendogli se ha da accendere e se ne vuole dell’altra; lui, come ipnotizzato, risponde sì a entrambe le domande e lei gli fa segno di aspettare; lui invece le barcolla dietro, rapito da quel suo sculettare sinuoso e rotondo, fino a che non la vede entrare nel portone di un palazzo e poi accendere una luce all’ultimo piano; dopodiché lui entra in un bar, chiede biascicando un cicchetto, acchiappa una penna e strappa un foglio da un blocchetto; quindi, prende nota dell’indirizzo…

Poi più niente, il ricordo si ferma qua. Sulla grafia del foglietto che non s’è mai tolto di tasca, intanto, ci aveva preso: era veramente quella di uno sballato!

Giobi stringe l’accendino tra palmo e dita, si guarda intorno e decide che a ‘sto punto è meglio filarsela. Si scaraventa giù per le scale (non senza aver risistemato l’indecifrabile zerbino cinese), saluta il coniglio al pianterreno e in un secondo riguadagna, incolume, la strada.

S’ode lontano il frastuono di sirene spiegate, e un pensiero va a quegli altri due matti: chissà se sono riusciti a sfangarsela anche loro. Si porta intanto una mano al volto e, con gesto liberatorio, si caccia finalmente quella fottuta maschera di dosso.

Respira. Alza gli occhi, legge e annuisce: ‘u mpernu è nenti..!

E così, accendino in pugno e pugni in tasca, s’incammina verso non sa dove, di nuovo alla ricerca di qualcosa da cercare. Mezzo giro d’orologio e già il suo è un volto come un altro nel viavai frenetico di via Zamboni, risucchiato dai flussi e dai riflussi della Bologna di sopra…

– Ciao!

– Ehi, ciao!

– …

– Come stai?

– Ehm… bene. Tu?

– Anch’io. Ora però sto di corsa, scusami eh, devo andare. Ciao!!

– Ciao…

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L’Arca della Fattanza (Capitolo 4b) https://www.carmillaonline.com/2015/12/27/larca-della-fattanza-capitolo-4b/ Sat, 26 Dec 2015 23:00:24 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=27470 di Jago Malteni

Arca fattanza 4b (1)Per chi se l’è perse, ecco di seguito il riassunto delle puntate precedenti: Giobi è uno studente calabrese che vive da anni a Bologna. Appassionato di street art, è da tempo sulle tracce di improbabili connessioni tra i graffiti che tappezzano i muri del centro. Una notte, mentre è in stato di allucinazione, s’imbatte in qualcosa che impegna da un po’ (ma senza esito) le sue ricerche: un coniglio nero dipinto alla base di un muro, uguale ad altri due che, [...]]]> di Jago Malteni

Arca fattanza 4b (1)Per chi se l’è perse, ecco di seguito il riassunto delle puntate precedenti: Giobi è uno studente calabrese che vive da anni a Bologna. Appassionato di street art, è da tempo sulle tracce di improbabili connessioni tra i graffiti che tappezzano i muri del centro. Una notte, mentre è in stato di allucinazione, s’imbatte in qualcosa che impegna da un po’ (ma senza esito) le sue ricerche: un coniglio nero dipinto alla base di un muro, uguale ad altri due che, secondo i suoi calcoli strampalati, starebbero lì a tracciare percorsi segreti. La mattina dopo si rende conto che era solo un’allucinazione, ma trova uno strano biglietto in tasca, con sopra un indirizzo: Via dell’Inferno, 10. Ci va e, con sua grande sorpresa, scopre un altro nero-coniglio, stavolta reale, all’interno del palazzo. Nota anche, prima di allontanarsene in punta di piedi, degli strani movimenti attorno a una porta blindata nel dismesso cortile interno. Incontra poi Luca, un amico che gli viene in aiuto mostrandogli una porta USB incastonata in un muro, dove Giobi rintraccia dei file che parlano di droghe “enteogene” e di una misteriosa Bologna sotterranea. Il giorno dopo, sfuggito a una carica degli sbirri durante un corteo per il diritto alla casa, incappa per caso in un suo vecchio amico, Mimmo, e con lui ripara in uno studentato occupato. Qui, al termine di una concitata assemblea, riesce a convincere Rachid, ragazzo palestinese, a scendere con lui nei sotterranei della città. Anche Mimmo è dei loro, e il mattino seguente, scesi di soppiatto nei bassifondi, i tre si trovano a spiare dei loschi armeggi con pacchetti di roba pescati dall’acqua e riposti in una cassaforte, all’altezza di quello che a Giobi pare proprio il palazzo al 10 di Via dell’Inferno. I tre, allibiti, proseguono al buio lungo il canale, fino a uscire, dopo un po’, di nuovo all’aperto…

Capitolo 4b

– Cioè, Gio’, fammi capire: tu domani vorresti tornare là sotto, scassinare la cassaforte sotto il naso di quelli là e filare via col malloppo senza che nessuno si faccia male?

– Esattamente!

– E lo dici così, come se niente fosse?

– Sì, figlioli, e vi dico pure che sarà più facile di quello che pensate. Fate conto: con tutto il casino che abbiamo combinato poco fa, quelli non si sono neppure accorti di noi… Figuratevi se ci andiamo tanticchia più organizzati… facciamo il colpaccio, figlioli!

– Però se ci chiappano quelli ci strappano scroto con un morso!

– È vero, Rachid, quelli fanno paura per quanto so’ grossi, ma io dico che di cervello ne hanno poco e che li possiamo fregare. Già prima, impanicati e tutto, siamo arrivati a un passo dal mettere le mani su quella robba…

– A proposito, Gio’, sai per caso di che si tratta?

– No, di preciso no… Però qualcosa mi dice che è robba buona. Sostanze enteogene

Enteoché?

– Niente, Mi’, lascia perdere…

– Mh… A me invece qualcosa mi dice che tu non ce la conti giusta! E poi, scusa, laggiù non c’eravamo scesi per un altro motivo?

– Vero questo, noi abbiamo andato giù per cercare un maniera di occupare casa. Ora cosa è questo di nuovo? Mimmo ragione, Jo’, tu non ci conti giusto…

– Ma se non vi conto giusto come facevo a sapere le cose che v’ho appena detto? E poi, in capo a voi, se veramente era così pericoloso, io Giovanni Biglia mi andavo a infognare con voi dentro ‘sta storia?

– Va buo’, d’accordo. Ma una volta là, mi spieghi come facciamo a forzare la cassaforte senza farci sgamare?

– Il piano è semplice, figlioli, sentite: al primo cambio di guardia ci avviciniamo, attendiamo il loro segnale e

– Il loro? Come il loro? Vuoi dire il nostro

– No no, hai capito bene: il loro segnale. Fidatevi: se restiamo in silenzio e facciamo attenzione, i loro uno-due-tre arriveranno chiari e forti. Fate conto che la porta che devono aprire di sopra non si smuove manco a spintonarla con un carrarmato: per forza che devono spingere sincronizzati. Al che noi non dobbiamo fare altro che concentrare le forze e, ai loro tre, fare leva tutti assieme sopra al piede di porco, in maniera che il fracasso nostro sarà coperto da quello che nel frattempo preciso faranno loro di sopra. Funzionerà, sentite a me. Avremo in tutto almeno quattro o cinque minuti di tempo: apriamo il forziere, arraffiamo il possibile e ce la svigniamo!

– E se una cosa va di storto?

– Se una cosa va di storto vuol dire che la svigniamo a mani vuote, come abbiamo fatto poco fa. L’abbiamo scampata una volta, perché non dovremmo farcela di nuovo? Poi, al limite, si può temporeggiare e riprovare al cambio di guardia successivo…

– Sì, Jo’, io ci sta.

– Io invece no, ragà, non me la sento.

– Come vuoi, Mi’, qua nessuno ti costringe. Rachid, allora intesi io e te? Ci vediamo domani mattina, stesso posto e stessa ora.

– Capito, come di oggi, alla sette tra vita e morte?

– Esattamente, alle sette tra la Vita e la Morte. Mi raccomando, eh…

– Tu raccomando, non ritarda altra volta!

– Sì, sì, tranquillo. A domani.

– Oh, ma mo ve n’andate tutt’e due? E a me mi lasciate qua da solo? Aspettate un momento, oh… Ma tu ‘uarda ‘sti due chini de merda!

È sera fatta.

Giobi se ne torna a casa, dopo un giorno all’inferno. Pesano i passi e rimbombano sotto la volta dei portici, stranamente deserti, di via Zamboni. Un campo di battaglia evacuato, derelitto, ancora in macerie dopo gli scontri di ieri.

Ma, oltre al ciarpame e ai cocci sparsi, c’è qualcos’altro che stona nel quadro d’insieme. Qualcosa che Giobi non tarda a notare: una scritta nuova, mai vista prima, una domanda posta a ripetizione lungo i colonnati, in caratteri piccoli e ricavati da una stessa matrice, a ridosso dei due conigli neri e per l’intero tratto che li separa: Giochi o non giochi?

Un invito, un’esortazione. Come a dire: allora, che fai? Cosa aspetti? Accetti la sfida o te la stai facendo sotto?

Ciò che più lo colpisce, però, è quello che scorge qualche passo più avanti, appena dietro l’angolo, su uno dei battenti del portone d’ingresso del Museo di Mineralogia (di fianco al dipartimento di Geologia, all’incrocio con via Irnerio), dove Giobi non può non notare uno scoiattolo fresco di stampa, appena una spanna più in alto degli scalini d’ingresso.

Trasale, s’incuriosisce, s’avvicina.

La colla è recente, non asciugata del tutto, e lo scoiattolo ha una somiglianza spiccatissima con quell’altro. Peccato solo che si trovi giusto a metà tra i due conigli, per cui la scoperta non dice nulla più di quanto già sapesse. C’è un roditore in più, certo, ma il tragitto rimane lo stesso. Eppure quella domanda, giochi o non giochi?, continua a echeggiargli per la testa. Che qualcuno gli stia giocando un brutto scherzo?

Arca fattanza 4b (2)Assorto in ‘sti pensieri, Giobi non s’è accorto che c’è un uomo appostato all’ombra di un pilastro che lo sta osservando e che, per via del suo palese interessamento al graffito, ha appena capito essere lui, lui e nessun altro, la persona che sta cercando. E nemmeno s’accorge, dopo aver ripreso a camminare, che l’uomo lo sta tallonando da vicino, da molto vicino, da sempre più vicino, finché, nel tratto più buio del portico, non lo agguanta da dietro afferrandolo per la collottola.

Giobi non ha il tempo di urlare fuori lo spavento che si ritrova una manaccia a tappargli il muso. Tenta di divincolarsi ma è come paralizzato, la gola stretta tra le borchie puntute di un lungo bracciale di pelle…

Cazzo, è lui! – pondera con occhi sbarrati di terrore. – Non può essere che lui! L’energumeno di via dell’Inferno, il bestio palestrato dell’Esteuropa, l’Incredibile Hulk dei Balcani! Ma come ha fatto a beccarmi? Che cazzo vuole da me? Oddio no, non voglio morire giovane!

– Tu ascolta me bene, piccolo squizzo di merda: tu stare lontano, tu non mischiare più dentro questa storia. Capito? Tu no fare furbo con me. Io guarda te altra sera quando tu scrivere indirizzo; io guarda te altro giorno quando bussare in partamento; io guarda te scappare in locale di Kazzìm, qua vicino, e anche prima con amichi di tuo in sotterraneo. Io sa tutto, capito? Io guarda tutto, io capisce tutto…

Ha un alito pestifero, il colosso di Madre Russia.

“Cos’è, il capoccia ti tiene a digiuno e tu rimedi con una dieta a base di scarafaggi e carogne di pantegane infoiate? Almeno tappami pure il naso, bastardo di un cinghiale mutante, così mi risparmi i miasmi di quella chiavica che ti ritrovi al posto della bocca!”

È quello che Giobi vorrebbe gridare, ma con la bocca sigillata non riesce ad emettere più d’un mugolio indistinto.

La morsa si stringe. Le borchie del bracciale sono acuminate e pungono forte sul gozzo.

E tuttavia, all’apice dello scoramento, il gigante molla la presa e spinge Giobi in avanti con impeto tale da scaraventarlo a terra. Poi fa dietrofront e, inaspettatamente, s’allontana.

Giobi, ancora scosso, si ricompone come può. Raccoglie il fiato e, quando Hulk è ormai a distanza di sicurezza, gli spolmona contro furibondo, accecato dalla rabbia:

– Cos’è, te ne vai mo? Mi sei venuto alle spalle e non hai avuto neppure il coraggio di guardarmi negli occhi. Vigliacco! Grande e grosso come sei, non capisco perché ti fai comandare a bacchetta da quel nanerottolo! Perché tu e i tuoi pari non lo buttate una buona volta nel fiume, a quello? Perché non ti ribelli, eh? Te lo dico io: perché sei solo un cacasotto, ecco perché! Un fascistoide del cazzo, ecco che cose sei!

Alle urla azzardate di Giobi, il bestione sembra avere un sussulto. Sta lì lì per voltarsi, e a Giobi pare di leggere un briciolo di debolezza nel modo in cui reclina il capo. Ma poi riaccelera il passo e in un niente sparisce dietro l’angolo.

Un avvertimento, un’intimazione. Non doveva fargli male, solo intimorirlo. Ha eseguito degli ordini. E forse la provocazione finale ha veramente colpito nel segno, andando dritta a toccare un nervo scoperto.

Giobi si passa una mano sul collo: ancora gli brucia, per via degli aculei che per poco non glielo riducevano a scolapasta. Al ritrarla, si scopre il palmo imbrattato d’un filo di sangue. Scosso e indolenzito, piglia a calci una lattina, come a scacciare fuori i rimasugli d’incazzatura che dopo la sfuriata gli sono rimasti in corpo. Poi, a capo chino e spalle incassate, si rimette sulla via di casa.

“Cos’è che diceva quel porco? Io ti guarda, io ti guarda… Ma non era Dio, quello? Io ti guarda scrivere indirizzo… Ma di che va blaterando, se l’indirizzo me lo sono ritrovato in tasca? …E se invece avesse ragione lui? Mah… Cos’altro ha detto più? Io ti guarda bussare in partamento… Era lui allora dietro lo spioncino… Però c’è qualcosa che non mi torna, qualcosa che sfugge… ‘rcoggiuda, che confusione!… e poi, cos’ha detto più quel trippone? Ah, sì: Io ti guarda con tui amichi in sotterraneo… Ecco, questo mi suona piuttosto strano. Se veramente ci ha visti, prima là sotto, allora perché non ha cercato di fermarci? Mh… non può essere… avrà al massimo sentito dei rumori e, insospettito, ha pensato bene di bleffare. Ma come ha fatto a risalire fino a me e a essere così sicuro di aver acciuffato la persona giusta?

Lo scoiattolo! È vero, cazzo, lo scoiattolo! Gli è servito da esca! Come pure quella domanda, posta lì a più riprese: Giochi o non giochi? È andato prima di stencil e di colla, il bestione, e poi si è messo nascosto, in attesa, finché io interessandomene non sono cascato come un fesso nella sua trappola. Questo però vuol dire che Hulk e la sua gang sanno dei graffiti. E magari credono pure che io sia giunto a loro seguendone le tracce. Il che, in parte, sarebbe anche vero…

Comunque sia, ‘sta storia puzza più dell’alito di quel cinghiale bastardo! Ma se pensa d’avermi impaurito si sbaglia di grosso: l’appuntamento per domattina è preso e dietrofront io non faccio. Rachid sarà certamente là, puntualissimo. Non è uno che si fa attendere e pregare, lui…

Io ti guarda, io ti guarda… A ripetermele, queste parole, non mi suonano poi tante nuove… Dov’è che l’ho già incontrate, sentite, lette? Forse in un cesso dell’università, al trenta-e-qualcosa di via Zamboni? Sì, può essere… Ma anche no!

Io sa tutto, io capisce tutto… diceva poi il gorilla.

Beato lui! – pensa Giobi mentre pesca le chiavi di casa dalla tasca del giubbotto. – Io non sa e non capisce proprio un cazzo di niente!

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L’Arca della Fattanza (Capitolo 4a) https://www.carmillaonline.com/2015/12/20/larca-della-fattanza/ Sat, 19 Dec 2015 23:00:40 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=27420 di Jago Malteni

Torrente-Aposa-0003Per chi se l’è perse, ecco di seguito il riassunto delle puntate precedenti: Giobi è uno studente calabrese che vive da anni a Bologna. Appassionato di street art, è da tempo sulle tracce di improbabili connessioni tra i graffiti che tappezzano i muri del centro. Una notte, girovagando per la città in stato di allucinazione, s’imbatte in qualcosa che da un po’ impegna, ma senza esito, le sue ricerche: un coniglio nero dipinto alla base di un muro, uguale ad [...]]]> di Jago Malteni

Torrente-Aposa-0003Per chi se l’è perse, ecco di seguito il riassunto delle puntate precedenti: Giobi è uno studente calabrese che vive da anni a Bologna. Appassionato di street art, è da tempo sulle tracce di improbabili connessioni tra i graffiti che tappezzano i muri del centro. Una notte, girovagando per la città in stato di allucinazione, s’imbatte in qualcosa che da un po’ impegna, ma senza esito, le sue ricerche: un coniglio nero dipinto alla base di un muro, uguale ad altri due che secondo lui starebbero là a tracciare percorsi segreti. Solo la mattina dopo si avvede che si trattava di allucinazione. Trova però uno strano biglietto in tasca, con sopra un indirizzo: Via dell’Inferno, 10. Ci va e, con sua grande sorpresa, scopre un altro nero-coniglio, stavolta reale, all’interno del palazzo. Nota anche dei loschi movimenti attorno a una porta blindata nel dismesso cortile interno. S’incuriosisce, ma subito se ne allontana per non destare sospetti. Poco dopo incontra Luca, un suo amico che, per aiutarlo nelle ricerche, gli mostra una porta USB incastonata in un muro, dove Giobi trova su dei file che parlano di droghe “enteogene” e di una misteriosa Bologna sotterranea (con tanto di mappa). Il giorno dopo si trova coinvolto in degli scontri di piazza durante un corteo e, all’ennesima carica degli sbirri, scappa. Seguendo Mimmo, suo vecchio amico incontrato per caso nella fuga, si ritrova in uno studentato occupato, e qui, al termine di un’assemblea, riesce a convincere Rachid, un ragazzo palestinese, a scendere con lui nei sotterranei della città per provare insieme a esplorarli. Anche Mimmo è dei loro. L’appuntamento è per il mattino seguente…

Capitolo 4a

Compro casa a dio.

L’enigmatica scritta gli è tornata in sogno, stanotte, con l’inflessione di un mantra stomachevole che esala verdastro dalle fauci di un ratto ciclopico (anche più di quello che dimora all’incrocio tra Sant’Apollonia e Belmeloro), levitante come un santone zen dai baffi lunghi e radi…

Dunque, ricapitolando: la visione onirica di un ratto, essere ripugnante che sguazza e striscia nelle fogne, che annuncia solenne di voler comprare casa a dio… Che starebbe mai a significare? Una creatura in odor d’inferno che si prenota un posto in paradiso… Dov’è, se c’è, il messaggio sotteso? E cos’ha a che fare, se ce n’ha, coi sotterranei?

Giobi si gratta il capo e smuove i capelli, come a liberare le immagini del sogno rimastevi impigliate dopo la levataccia. Che poi, si sa: i sogni non significano mai un cazzo!

Si scalda le mani col fiato e le sfrega per scacciare il freddo del primo mattino. Ma non è di freddo il brivido che gli serpeggia su per le vertebre e che, giunto dietro la nuca, gli si muta lesto in un pensiero: tocca a lui stamane scendere negli inferi, quelli veri della città. Se ha fatto bene i calcoli, devono stare proprio là sotto, qualche metro appena sotto i piedi.

L’appuntamento era per le sette davanti al Museo del Risorgimento, nello spiazzo tra la Chiesa della Vita e l’ex Ospedale della Morte.

Rachid era già lì, seduto sui gradini delle scale del portico, quando Giobi, con dieci minuti di ritardo, è arrivato. Dalle sette e dieci, intanto, si sono fatte le sette e venti, e ancora di Mimmo non s’è vista ombra.

– Quel narcolettico starà ancora ronfando, mannaggia alla capa sua! Che facciamo, Rachid? Qua tra un po’ cominciano a aprire pure i negozi..!

– Aspettiamo altro poco. Io no ha fretta…

Il tono di Rachid è basso, dimesso. Non sembra condividere le preoccupazioni di Giobi che invece, da par suo, è a un passo dal proporgli di procedere in due, salvo poi avvedersi che non possono senza una torcia: e spetta a Mimmo portarla.

A Giobi toccava occuparsi del resto, cioè della mappa, che ha stampata e ben ripiegata in saccoccia, e del piede di porco. Procurarselo è stato un gioco da ragazzi: ha chiesto ai muratori che gli stanno demolendo la casa (e i timpani) di uscire un minuto dal cesso, il tempo di pisciare e sciacquarsi via il sonno dalla faccia e, una volta chiuso dentro, coperto dallo scroscio dello sciacquone, ha sfilato il ferro dalla cassetta degli attrezzi e se l’è infilato nei calzoni. Servirà intanto per forzare la grata attraverso cui s’intrufoleranno giù, fino poi a sbucare nel canale sotterraneo dell’Aposa.

Lì sotto sì che sarà pieno di sorci, altro che quelli incollacciati alle pareti! Ma se è vero che i neri-conigli stanno là a segnare vie per i sotterranei, probabile è che ce ne sia qualcun altro nei paraggi. E così, già che si trova, Giobi passa veloce in rassegna le facciate dei palazzi d’intorno. Ma desiste presto perché non nota niente d’interessante: solo un tratto di muro con delle sbrecciature e degli altri coperti da strati di pittura più recente. Se pure qualcosa c’era, è stata poi cancellata…

– Che tu cerca?

– Niente, Rachid, niente. – E come a cambiare discorso, Giobi guarda l’ora al cellulare: – È che sono già le sette e venticinque e quell’altro ancora non si spiccia. Comincio a perdere la pazienza…

– Stae calmo, amico, vedi che adesso lui arriva.

– Mah, Rachid, io comincio a pensare sul serio che quello ci dà la sòla. Tu piuttosto, come fai a startene così tranquillo?

– Io no tranquillo, amico. Io… triste.

– …?

– Io ricordo di volta che andava sotto terra, a mio paese, dentro tunnel antibomba vicino di parco dove giocava quando bambino. Quando le aerei israeliane volavano sopra io correva mano con la mano di mio cugino e entrava con lui sotto di galleria. Una volta io riuscito a scappare e mio cugino no, lui ha caduto a terra e morto in cento pezzi!

Giobi ci rimane di sasso, senza parole.

– Mi dispiace, – balbetta. – Quanti anni aveva?

– Lui tredici. Però adesso non ha più voglia di parlare questo, perché Mimmo sta ora arrivando, tu vede?

– Ah, finalmente, eccolo quel matto! Alla buon’ora… – Giobi lo sogguarda in cagnesco e ironeggia: – Mezz’ora spaccata di ritardo, i miei più vivi complimenti!

– Eh lo so, raga’, scusate. È che non mi è suonata la sveglia… – Mimmo è trafelato, ha il fiatone e la voce ancora impastata di sonno.

– Sì, vabbo’, la solita scusa. Te ne potevi cercare una meglio. Tipo, che ne so, che ti stavi bombando una milfona in sogno e ti rincresceva di appenderla in tronco. Comunque sei fortunato che in giro ancora non c’è anima viva. La torcia, piuttosto, l’hai portata?

– Sì, eccola, – la trae di tasca e la mostra ai compagni. – Però mi sa che ha la pila un po’ scarica, e non ho trovato un cazzo di cinese aperto per comprarne una nuova…

– Com’è, fammi capire, adesso la colpa sarebbe dei cinesi? Certo che sei proprio un tremone, com’è che dite voi pugl

– Voi due basta ora di litigare, ora non è tempo da perdere! Luce questa è bastanza, Jo’, e poi tu anche prima hai venuto con ritardo! Dai a me quel coso là, cazzo di porco o come si chiama, che mentre voi fate fumo di parole io prova di aprire questo…

La grata cede al terzo o quarto colpo.

Le gambe dei tre, a turno, scompaiono nello scuro del seminterrato. Mezzo metro di vuoto e i piedi toccano il primo piolo, incassato nella pietra, di una scala a muro.

L’ultimo che scende richiude la grata.

Gli scantinati del Museo del Risorgimento odorano di polvere, ruggine e legno marcio. Il tempo, laggiù, è scandito da un lento rosicare di tarli, picchiettio incessante che trasforma gli anni in decenni e i decenni in secoli. Tra suppellettili, anticaglie assortite, ragnatele e ciarpame vario, Mimmo fa strada con la luce fioca della pila, già mezza scarica. Inciampa in un affare di metallo (una vecchia lampada a olio troppo bassa per entrare nel cono luminoso della torcia) e produce un fracasso da industria pesante.

– Stai attento, cazzo! Vuoi farci sgamare?

Dal silenzio che torna più intenso di prima, affiora quello che si direbbe uno scrosciare d’acque: l’Aposa, è di là. Giobi consulta la mappa e ne riceve conferma.

I tre sprovveduti e sprovvisti esploratori seguono il richiamo del fiume, e fatti un centinaio di passi lungo un cunicolo si ritrovano sotto l’arcata in muratura del canale. La luce flebile della torcia colpisce il muro di fronte, dove una scritta si staglia a mezz’altezza: la vernice è di un bianco sporco, vissuto, in parte colato giù per l’umidore che di continuo trasuda dalla parete. Dice: Per me si va nella bolognanderground. Proprio così, tutto attaccato e senza u, come il titolo del file sui sotterranei…

La mano anonima che ha qui parafrasato un verso dell’inferno dantesco deve per forza avere a che fare con quella che ha redatto, o almeno titolato, il documento inserito nell’archivio segreto del Guasto. L’autore ignoto ha rispettato pure l’endecasillabo. Per la serie, mo ci vuole: “Lasciate ogni speranza, voi ch’entrate!”

La torcia di Mimmo, impaziente, già si va abbassando sulle acque del fiume: le scopre limacciose, ancora in attesa di una piena autunnale prossima a venire, ma scorrevoli e, soprattutto, meno fetide del previsto. Ci pensa il flusso d’aria costante, là sotto, a spazzare via i pessimi odori che altrimenti ristagnerebbero nell’aria.

Cartina alla mano, Giobi fa cenno di procedere a sinistra e i tre s’incamminano sulla banchina viscida che costeggia il canale, la mano premuta fissa contro le pietre madide della parete. Avanzano a passi lenti, bene accorti a non scivolare nel buio umido che li avvolge da capo a piedi. Nessuno sarebbe disposto ad ammetterlo, ma tutti e tre si sentono addosso una strizza tremenda, un panico che gli penetra, come quell’umido, fin dentro le ossa.

Nel dare i primi segni di cedimento, la luce della torcia riesce a intercettare il movimento di qualcosa sulla banchina opposta. La mano di Mimmo, tremante, perlustra l’oscurità e si ferma su una nutria dalle pupille scarlatte, iniettate di sangue, che in quanto a fattezze non ha quasi nulla da invidiare al ratto gigante del graffito, quello che compra casa a dio. Fortuna che c’è il fiume di mezzo, sennò se la sarebbero letteralmente fatta nelle mutande!

Ed è proprio mentre illumina l’animale che la torcia di Mimmo si spegne del tutto e li lascia, sbigottiti e brancolanti, al buio.

– Cazzo, Mi’, lo sapevo!

– Scusate ragà…

– Scusate ‘sto cazzo!! La verità è che sei la solita ipertrofica testa di minchia! Un fricchettone mancato, ecco che sei! E mo faresti bene a cacciartela su per il buco del culo, quella torcia di merda!

– Eddai, Gio’, non t’incazzare. Ho detto che mi dispiace…

– Vaffanculo Mimmo, va-ffa-ncu-lo! Non so che farmene delle tue scuse del cazzo! Adesso voglio vedere come ci tiri fuori di q

– Voi due basta, sempre litigare. Ora no serve. Quello che ha bisogno è una cosa di luce, una cosa come un acciandino…

– Un accendino, sì, giusto! – Mimmo si fruga le tasche – Ma dov’è che l’ho messo?

– Ce n’ho uno io…

Giobi lo tira fuori e l’accende. Non che la fiamma, tremula e messa a dura prova dal filo di vento costante, faccia molta luce, ma permette almeno ai tre di vedere dov’è che poggiano i piedi.

– Ah, eeecco dov’era finito il mio accendino! – se n’esce Mimmo dopo un po’.

– Eh? Dove?

– Ce l’hai tu in mano, Gio’!! Dì la verità, te lo sei affondato ieri allo studentato.

– Ma quando mai! Come ti viene? …Senti, caro Domenico, tu già stai in difetto ché se stiamo al buio è per colpa tua. Mo ti metti pure a fare storie?

– È vero, lo ammetto, sì, ho sbagliato. Però quello è il mio accendino, e tu devi restituirmelo.

– Ma dico, ti sembra questo il momento di accampare diritti su un fottutissimo accendino? Comunque va bene, caro il mio Domenico, tie’, rieccoti il tuo giocattolo, che voglia di litigare non ne tengo mica!

Ma Giobi, per ripicca, glielo porge dalla parte incandescente e Mimmo si scotta tantissimo nell’afferrarlo.

Ci t’a murt e ci t’a stramurt!! – smadonna nel suo dialetto.

– Ti sta bene, coglione! Anzi, la prossima volta te la stac

– Shhhhh! Voi due ora basta, cazzo! – Sbotta Rachid nello sforzo di sgridarli sottovoce. – State un poco zitti! Vi sembra questo un momento di litigare?

Ha ragione.

Dal silenzio ristabilito, dopo un po’, emerge come un parlottio, concitato ma lontano, e fasci di luce che fendono il buio da parte a parte. Fortuna che il canale faccia lì una leggera curva, di modo che chiunque stia cercando di far luce verso di loro non possa comunque vederli. Ma i tre, impacciati e senza un nascondiglio a portata di passo, più forte premono le terga contro il muro.

Poi, trascorso un minuto o forse due, il mormorio cessa e decidono di proseguire piano, di soppiatto, natiche rasenti alla parete. Avanzano qualche metro nascosti nell’oscurità e, raggiunta una buona posizione, si fermano a guardare: quattro uomini, armati di retino, sono intenti a pescare dal fiumiciattolo dei pacchetti incelofanati e ricolmi di roba, che un’inferriata calata nell’acqua impedisce alla corrente di portare via; poi, sgocciolati per bene, i pacchetti vengono stipati in una cassaforte incastonata là di fianco nel muro.

La luce di una lampadina pone in risalto le quattro sagome e ne proietta, oblunghe e affaccendate, le ombre sulla volta. Tutte diverse, ognuna con un profilo e una fisionomia difforme dalle altre. C’è anche una donna, sembra. Con una silhouette, peraltro, davvero accattivante…

Non si capisce cosa quei loschi figuri stiano facendo di preciso, ma a giudicare dalla foga con cui si muovono deve trattarsi di qualcosa di torbido, più delle acque del fiume. Forse hanno avvertito la presenza dei tre e, temendo che fossero sbirri, cercano di sbrigarsi per non essere presi con le mani nel sacco.

Già… ma cosa c’avranno, nel sacco? Che cosa contengono quei panetti di roba? Denaro sporco, una partita di droga? Certamente roba che scotta! Giobi aveva visto fare una cosa simile in un film di Sergio Leone, C’era una volta in America, dove a essere recuperate dal fondo del mare erano però casse d’alcol in tempi di proibizionismo, con un sistema parecchio ingegnoso che però ora non ricorda…

Il più piccolo dei quattro, intanto, non fa che sgolare ordini agli altri; e quelli, benché di gran lunga più grossi di lui, eseguono senza fiatare. È un tipo tarchiato e un po’ goffo, il piccoletto, con la panza e due strati almeno di pappagorgia. Si direbbe il capoccia, e, dall’accento, bolognese.

– Bòia d’un mànnd lèder! Datevi una sbrigata, pelandroni!

– Sì, capo. Noi finisce subito…

L’uomo che ha parlato per ultimo è il più grosso e nerboruto degli scagnozzi. Ha l’accento di uno che viene dall’Est Europa, l’avambraccio foderato per intero da un vistoso bracciale…

“‘Momento, – s’illumina Giobi tra sé e sé, – ma io a quello lo conosco! È il brutto ceffo di via dell’Inferno! E questo significa… può significare solo una cosa… e cioè che… sì, che ci siamo proprio sotto!”

C’aveva preso, allora, le sue ipotesi erano azzeccate: i conigli neri, via dell’Inferno, i sotterranei, forse pure le droghe allucinogene… C’è un legame che tiene insieme queste cose! Ma quale? Chi e cosa c’è dietro?

Per un attimo gli era parso tutto più chiaro. Ma la faccenda è più complicata di quanto riesca per ora a immaginare, e già gli sembra di non capirci più niente…

Mentre Giobi chiude cerchi e ne apre di nuovi, i quattro uomini terminano il lavoro, blindano il deposito e spariscono, lasciandosi dietro buio e silenzio.

È Mimmo, sottovoce, a romperlo: – Ma dove sono finiti?

– Boh! Si saranno infilati in un passaggio nel muro. Venite, andiamo a dare un’occhiata…

– Aspetta, Gio’, che pensi di fare?

Ma Giobi, col baricentro spostato il più possibile contro la parete, s’è già avviato in quella direzione, seguito a ruota dai più titubanti Mimmo e Rachid.

Scavato nella pietra, all’altezza del punto in cui i quattro tizi sono scomparsi, c’è un passaggio con delle scale a chiocciola che portano su. Giobi appizza le orecchie: i rumori che giungono sono quelli di un gruppo di persone alle prese con una massiccia porta metallica, restia a lasciarsi aprire. Bestemmie, stridori di ruggine, spinte scandite da lunghe sequenze di uno-due-tre

– Vi sembrerà assurdo, figlioli, ma io so esattamente dove ci troviamo!

– E cioè dove?

– Al 10 di via dell’Inferno! …Non mi guardate così, poi vi spiego meglio. Mo vediamo piuttosto se riusciamo a…

E prima ancora di dirlo, Giobi lo sta già facendo: con un balzo si porta davanti alla cassaforte in cui sono stati ammassati i panetti, e senza attendere l’aiuto degli altri due cerca di forzarne l’apertura col piede di porco. Però niente, lo sportello non si smuove di un millimetro.

Qualcuno, intanto, sta riscendendo le scale. I tre ne odono i passi: non c’è più tempo, se non quello di darsela a gambe. E in pochi secondi i tre si dileguano, senza che nessuno, come pure c’era da aspettarsi, s’accorgesse di loro e cominciasse a corrergli dietro sbraitando a squarciagola.

Che culo!

Per non farsi beccare sono costretti a procedere al buio lungo il restante tratto di canale. Un buio pesto, che gli occhi non arrivano a guardarsi le mani. Un buio intriso di viscidume e popolato da piccole ombre che guizzano sfuggenti lungo le pareti. (No, pure qua?)

Finché, d’un tratto, non s’ode una voce. Asettica, come riprodotta da un nastro:

Il treno regionale sei-cinque-cinque-sei proveniente da Prato Centrale è in arrivo al binario due, piazzale Est. Allontanarsi dalla linea gialla.

– Ma che caz…

– Stiamo sotto la stazione, figlioli!

– Stazione, vero. E se arriva questa rumore deve ci stare un passaggio in tra il muro.

– Sì, Rachid ha ragione, eccolo! Guardate là, quel filo di luce, pare che filtra da sott’a una porta…

– È vero! Bravo, Mi’! Ma non credere che basta questo a farti perdonare.

– Guarda Gio’ che se non la finisci co’ ‘sta stor

– Voi ziittti, cazzzoo! Me venire male alla testa. Jo’, dai a me cazzo di porco che penso io a qua…

Rachid si rimbocca le maniche, brandisce il ferro e prende a lavorare di muscoli. Sputa una sfilza lunghissima di espressioni arabe intraducibili e intraslitterabili, forse intercalari di disappunto, più probabilmente gravi esecrazioni nei confronti del dio suo o di chi sa quale altro. Mezza dozzina di colpi e la porta è bell’e scardinata.

Qualche rampa di gradini in salita, un paio di varchi e di strettoie e i tre si ritrovano in un sottopassaggio del piazzale Est.

Quando escono all’aperto la luce del giorno li acceca, come una ferita, un taglio preciso in mezzo agli occhi.

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L’Arca della Fattanza (Capitolo 3b) https://www.carmillaonline.com/2015/12/13/larca-della-fattanza-capitolo-3b/ Sat, 12 Dec 2015 23:00:04 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=27057 di Jago Malteni

coperta6Per chi se l’è perse, ecco intanto la sintesi delle puntate precedenti: Giobi è uno studente calabrese che vive a Bologna, iscritto al primo anno fuoricorso di Scienze politiche. Appassionato di street art, è da tempo sulle tracce di improbabili connessioni tra i graffiti che tappezzano i muri del centro. Una notte, tornando barcollante e allucinato verso casa, s’imbatte in qualcosa che da un po’ impegna – ma senza esito – le sue ricerche: un coniglio nero dipinto alla base di [...]]]> di Jago Malteni

coperta6Per chi se l’è perse, ecco intanto la sintesi delle puntate precedenti: Giobi è uno studente calabrese che vive a Bologna, iscritto al primo anno fuoricorso di Scienze politiche. Appassionato di street art, è da tempo sulle tracce di improbabili connessioni tra i graffiti che tappezzano i muri del centro. Una notte, tornando barcollante e allucinato verso casa, s’imbatte in qualcosa che da un po’ impegna – ma senza esito – le sue ricerche: un coniglio nero dipinto alla base di un muro, uguale ad altri due che – ne è convinto – starebbero là a tracciare percorsi segreti. Solo la mattina dopo si rende conto che si trattava di allucinazione. Frugandosi nelle tasche ritrova però uno strano biglietto, con sopra un indirizzo: Via dell’Inferno, 10. Ci va e, con sua grande sorpresa, scopre un altro nero-coniglio (stavolta reale!) all’interno del palazzo. Nota anche dei loschi movimenti attorno a una porta blindata nel dismesso cortile interno. S’incuriosisce, ma per non destare sospetti se ne allontana in punta di piedi. Poco dopo Luca, un suo amico che vorrebbe aiutarlo nelle ricerche, gli mostra una porta USB incastonata in un muro, dove Giobi trova dei file che parlano di droghe “enteogene” e di una misteriosa Bologna sotterranea (con tanto di mappa e relative informazioni storiche). Il giorno dopo, mentre è a lezione al 36 di Via Zamboni, si trova coinvolto in uno scontro in piazza Verdi, nel bel mezzo di una manifestazione per il diritto alla casa, ai limiti della guerriglia urbana. Scappa e, seguendo una delle tante maschere di Guy Fawkes che solo poi scoprirà nascondere il volto del suo amico Mimmo, riesce a sfuggire all’assalto degli sbirri e a mettersi in salvo con lui… (Disegno di copertina di l’éparvier)

Capitolo 3b

Katsim, dice la scritta sulla facciata d’ingresso di quello che si direbbe uno studentato occupato.

Avvisaglie poco rassicuranti arrivano da dentro. Con un frastuono di voci s’annuncia d’urgenza l’“assemblea plenaria e straordinaria”, come pure si legge da un cartello appeso su un vecchio leggio scalcagnato, raccattato chissà dove. Nel timore di uno sgombero imminente, l’ingresso è tenuto sotto stretta sorveglianza da due tipacci che esortano a entrare alla svelta, così da barricarsi dentro prima che la sbirraglia faccia loro cattive sorprese.

Giobi s’addentra anche lui e occhieggia in giro, mentre Mimmo è già sparito.

La stanza è gremita: non più di trenta metri quadri, con tre file di panche delle quali la più esterna ricalca il perimetro e le altre due convergono verso il centro. Le pareti sono tappezzate di striscioni e manifesti, slogan, locandine di eventi, adesivi e scrittacce varie.

C’è fermento nell’aria e agitazione, rabbia. Tanta. Gli agenti di polizia stavolta le hanno menate sul serio, senza esclusione di colpi, e là in mezzo c’è chi si lecca le ferite, chi le disinfetta per incerottarsele, chi ingarza lividi, e bernoccoli, e ossa frante. C’è anche chi, in quel pronto soccorso arrangiato alla meno peggio, chiude canne e le fa girare, per lenire i dolori e scaricare i volt di tensione. Una menzione speciale per il servizio la meritano due fricchettoni, anch’essi con le maschere di Guy Fawkes sollevate sopra i dread, che rollano e sleccano cartine con una calma invidiabile dentro una bolgia come quella.

Giobi si ritaglia uno spazio vicino alla porta d’entrata. Siede su una delle panche e, nel farlo, vede poggiato un accendino incustodito sul tavolo accanto. Ce l’ha lì, a portata di taccheggio, per cui se lo intasca disinvolto.

È uno dei due rastoni, dopo neanche un giro d’orologio, a chiamarlo con un “ehi, vecchio” e a domandargli, manco a farlo apposta, se ha da accendere. No, risponde lui secco. E i sensi di colpa nemmeno lo sfiorano, tenuti a bada con la scusa del karma che agisce per sua mano eccetera eccetera…

Metti però che l’abbia visto? “Ma sì, – s’autoassolve, – chissenefotte!” Fosse per lui, anzi, a quei tipi gli scorcerebbe a tutti i capelli (se non proprio la capoccia!). Specie quand’è che se ne vanno in giro con quelle stupide maschere sulla faccia. E poi, se c’è una cosa che Giobi detesta, quella è essere chiamato “vecchio”…

Il volume delle voci, frattanto, digrada fin quasi ad azzerarsi. È una ragazza a prendere la parola, il timbro di voce inversamente proporzionale all’esile corporatura.

– Compagne e compagni del collettivo, convochiamo d’urgenza quest’assemblea perché è la situazione che lo richiede. L’autunno è di quelli caldi, e noi non ci faremo trovare impreparati. Dopo l’ennesima carica di cui siamo stati vittime è più che mai necessario mantenere alta la guardia. Nessuno dei nostri, per il momento, pare sia stato messo in stato di fermo dalla pula, ma il rischio di una rappresaglia incombe su di noi, appena dietro l’angolo. Per cui dobbiamo reagire in fretta, compagne e compagni, prima che i padroni (o come diavolo volete chiamarli) si decidano a sferrare l’attacco decisivo. Gli spazi occupati sono sempre più oggetto di sgomberi, di atti di violenza gratuita, infame e codarda. Ma noi non ci stiamo, e siamo pronti a reagire con forza, innalzando altre barricate e, se necessario, occupando altri spazi! Gli anni Zero sono finiti da un pezzo, compagne e compagni, è giunto il momento di passare all’azione!

Ha la lingua sciolta, la tipa. Segnali di approvazione seguono alle sue parole, il messaggio è giunto forte e chiaro. A parlare dopo di lei è un ragazzo romano, di nome Matteo, che ha il torace fasciato per le manganellate che s’è beccato negli scontri di poco fa.

– Quoto ‘n pieno le parole della compagna, – esordisce con formula di rito. – Noi tutti, qua, siamo determinati non solo a difendere coi denti ciò che avemo conquistato a fatica, ma pure a riprenderci ciò che ce spetta. A spinte, se necessario, come oggi avemo dimostrato. Io come voi, ne portamo addosso le conseguenze. Ma non una manganellata sarà ‘ncassata invano, se servirà per affermare più forte la nostra dignità de studenti. Dalle aule ai libri, dalla mensa agli studentati, combatteremo pe’ ogni nostro diritto. E, su tutti, pe’ il diritto alla casa, sempre più oltraggiato da ‘na speculazione selvaggia, da l’ingordigia dei proprietari, da prezzi che lievitano senza controllo, in spregio a un impoverimento incalzante che ‘nveste strati sociali sempre più ampi. Non illudiamoci, compagne e compagni: presto tenteranno de sgomberare anche questi locali, unica dimora per quelli de noantri che al momento nun se ponno permette un posto letto in affitto. È per questo che dovemo fa’ partì una risposta concreta. Da qui, da ora! Perché solo la lotta paga, compagne e compagni, e noi semo stufi de vede’ troppe case senza gente e troppa gente senza casa! Daje!

Anche Matteo si busca la sua quota d’applausi, tra cui quelli di Mimmo, che Giobi vede ricomparire all’angolo opposto della stanza. Ad aver preso intanto la parola è un tipo occhialuto con l’aria un tantino da nerd, lenti tonde e montatura in metallo, annunciato da qualcuno come “un compagno del collettivo di ricerca che ci farà un po’ un quadro aggiornato della situazione”.

– Se m’è concesso dire la mia, ‘ompagne e compagni, penso ‘he prima di passare all’azione occorra un’analisi più approfondita del conflitto in atto e dei rapporti di forza che vi entrano in gio’o. L’ondata di violenza di cui siamo bersaglio, penso, va inquadrata in un orizzonte di respiro più ampio. Essa non è ‘he l’aspetto visibile di un progetto reazionario di più vasta portata, volto alla disgregazione del tessuto sociale ‘he noi, in quanto studenti, insieme ‘oi lavoratori e coi migranti, rappresentiamo. La dismissione e la svendita ai privati dei palazzi e delle sedi stori’he universitarie trovano ragion d’essere, io penso, nella dispersione pianifi’ata delle energie antagonisti’he, nella disgregazione e nel decentramento della lotta. L’infausto progetto di un campus all’ameri’ana fuori dal centro, negli stabilimenti dell’ex Staveco, già espressamente reso pubbli’o dal rettore in combutta ‘oi poteri forti della città, è in tutto funzionale a ‘odesta strategia. Esso diverrebbe, io penso, un dispositivo di ‘ontrollo biopoliti’o delle nostre vite, entro ‘ui ogni azione, singola o ‘ollettiva che fosse, sarebbe facilmente neutralizzabile poi’hé eterodiretta, incanalata cioè entro spazi addomesti’ati e resi sterili a priori…

Da parte di qualcuno comincia a trasparire una certa insofferenza verso quelle elucubrazioni in toscanaccio. Mo si scannano – pensa Giobi, con le antenne ritte a captare l’aria che tira. C’è chi scalpita e reclama il turno di parola. Mimmo è tra questi. Ma è di nuovo Matteo, mano destra a sorreggere il fianco, a prenderla per ribattere.

– D’accordo, compagno. Ma ti faccio notare che qua avemo urgenze ben più gravi da discutere. La gran parte de li studenti è co’ l’acqua alla gola, nun ce la fa a paga’ manco le tasse, figuramose le bollette e l’affitto. E per giunta ci troviamo nel bel mezzo de ‘n’attacco frontale sferratoci contro dal padronato…

Ma quell’altro non ci sta, e rintuzza:

– Mi spiace ‘ontraddirti, ‘ompagno, ma io penso ‘he un’azione frettolosa porterebbe solo a un’escalation di violenza ‘he, alla lunga, non farebbe ‘he favorire il nemico. È loro interesse mantenere alta la tensione, e se noi non cerchiamo di attenuarla finiremmo per cadere nella loro trappola. Io penso ‘he non possiamo trascurare ‘odesto aspetto, allorché si tratta di elaborare una ‘ontrostrategia che sia veramente effi’ace, tanto sul breve ‘uanto sul lungo termine! Io penso…

– Tu pensi, tu pensi… E ‘nvece io penso che tu pensi troppo, compagno, lasciatelo dire! Ma da’vero credi che la casalinga siriana, il pastore iracheno o, che ne so, il bracciante nigeriano, te capiscano quanno parli de biopolitica? A loro serve ‘na casa, po’racci loro, e nun gliene pò frega’ de meno de Foucault o de chi altri vuoi tu!

Matteo raccoglie proseliti. Si lascia fomentare dagli incitamenti che riceve e rimarca più forte le cadenze in romanesco, finendo per alzare, senza forse volerlo, i toni dello scazzo: – È la questione abitativa che va affrontata prima de tutto, lo vuoi capire o no? Discutendone, anzi, stamo già perdenno tempo. Al resto ce penseremo dopo, quann’è che avremo tutti, e non solo tu, un tetto su la testa e ‘n letto sott’ar culo! Mo, adesso e solamente adesso, è il momento de mobilitarce e occupare, occupare, occupare!

C’è chi predica calma, ma gli animi sono già ben scaldati, bollenti. Occupy! è il coro quasi unanime. Il toscano occhialuto, in netta minoranza, è messo ormai all’angolo, per quanto ancora c’è chi è disposto a difenderlo (anche fisicamente) dagli attacchi verbali (e non) di cui è bersaglio.

– È un infiltrato del Bàlas! – insinua qualcuno. – È qui per conto di quegl’altri. Sono invidiosi per come ci stiamo muovendo e hanno mandato lui per rallentare il nostro processo di lotta!

– Sì, è vero! – rincara la dose qualcun altro. – Non per niente non se n’è visto uno dei loro, prima alla manifestazione…

L’accavallo delle voci diventa reboante, benzina su un fuoco che una scintilla di più farebbe esplodere del tutto. Fortuna che, per motivi che non è dato sapere, l’attenzione dei più si sposta verso una grossa mappa di Bologna affissa alla parete, recante lo stemma del Ministero degli Interni e, appena sotto, la scritta “Prefettura – Ufficio Territoriale del Governo di Bologna”. Spiegazzata ai bordi e punteggiata da appositi contrassegni, la mappa fornisce un chiaro prospetto degli stabili che la Questura tiene sotto controllo in quanto a rischio occupazione: proprio un lavoro fatto bene, non c’è che dire, accurato e preciso. Un servizio utile, per una volta, – ironeggia Giobi tra sé e sé, – a dispetto di quanti non fanno che lamentarsi dell’operato delle forze di polizia. Niente di meglio, nell’ottica di chi vuole occupare, per prendere bene la mira e colpire il bersaglio giusto.

E, come fosse un bersaglio veramente, la cartografia è crivellata di svariate freccette di colore rosso, conficcate al mezzo di altrettanti cerchietti segnati con l’evidenziatore, lì a indicare, tra gli altri, gli edifici di proprietà ecclesiastica sui quali i membri più attivi del collettivo vorrebbero mettere le mani. Le mani sulla città, per l’appunto. Non fosse che, di ‘sti tempi, quegli stabili sono presidiati giorno e notte…

Giobi, messosi frattanto all’erta, fissa anche lui la mappa, ma pare estraniato rispetto al pandemonio che gli infuria attorno. Incomincia, invece, a seguire un flusso di pensieri tutto suo: il centro di Bologna là sulla mappa, quell’altra che ha trovato ieri sera sulla chiavetta; le vie di sopra e le vie di sotto, le freccette rosse a designare i palazzi storici della Chiesa…

Ci pensa la Soldatessa, militante anarchica femminista, a riportare un po’ d’ordine (e a interrompere, senza volerlo, il flusso mentale di Giobi).

– No, compagni! così non va bene. Smettiamola di litigare, per favore. Ma vi rendete conto che andandoci contro l’un l’altro è come se i pedoni cominciassero a prendersela con le bici piuttosto che con le auto? …Sentiamo invece cos’ha da dirci Rachid, nostro compagno palestinese, che è insieme studente, lavoratore e migrante…

Giobi aveva già notato un ragazzo di carnagione più scura e osservato i suoi sforzi nel capire le parole altrui, ammirato quel suo incuriosito silenzio. Chiamato ora in causa, Rachid racconta, con un italiano sghembo ma diretto e senza circonvoluzioni, la sua vicenda.

– Cari compagni e care compagne, grazie per fare me parlare, io tanto bisogno. Io nato a Gaza e sempre vissuto guerra in mio paese. Io scappato dopo bomba di Israele con tunnel di sotto terra. Stato a Egitto. Da Egitto con altri ragassi sopra el barco e, dopo molto viaggio, arrivato a Sicilia un anno fa e venuto dopo qui a Bologna. Molto bello città, me piace molto. Io studiare Economics, come a Palestina, per avere permesso di soggiorno, però anche lavoro nero a mercato di frutta per pagare tassa di università. Ora stare in casa con troppa persona. Cazzo, ragazzi, in mia camera quattro! Io allora sta con voi per questo battaglia!

– E noi siamo felici di averti come compagno di lotta, – chiosa la Soldatessa. Seguono applausi e cenni di unanime apprezzamento per il “nuovo acquisto”.

Giobi è colpito dal tono risoluto con cui Rachid ha parlato di sé, da quel suo gesticolare animato che le cose te le schiaffa dritte in faccia. E subito, a pelle, prova simpatia per lui.

All’inizio del suo intervento, Rachid ha parlato di un certo tunnel attraverso cui è riuscito a scappare dalla Striscia di Gaza. Lui sì – considera tra sé – che sarà pratico di sotterranei! Il pensiero gli offre il destro per riacciuffare le fila, prima interrotte, del flusso di coscienza… La mappa di sopra e la mappa di sotto, i palazzi storici del centro, condotti sotterranei che sbucano negli scantinati; la fuga di Rachid in Egitto, quella di poco prima dagli sbirri; le bombe in testa, la foto dell’autoblindo in via Zamboni, Chiedi al ‘77 se non sai come si fa… come si fa cosa? Bella, comunque, la storia della tentata rapina al caveau della Cassa di Risparmio! Era giusto il ’77, proprio l’anno a cui chiedere se non sai come si fa… Ma cosa? Come si fa cosa? …Ma sì, ceeerto! Sì, cazzo! Come ha fatto a non pensarci prima?!?

Col tono di chi ha appena ricevuto l’illuminazione, Giobi piglia la parola senza chiederla neppure a se stesso:

– Compagni! – esclama, – ho capito! Ce l’ho, ho la soluzione!

Alcuni si voltano verso di lui, in trepidante ascolto.

– Dai sotterranei! Occupiamo dai sotterranei! Ho tutto quello che serve per farlo, basta confrontare questa mappa con un’altra che ho sul…

L’uscita di Giobi lascia increduli quelli gli avevano prestato attenzione, compreso chi, per un breve istante, gli aveva pure dato credito. Anche Mimmo gli lancia occhiate interrogative, perplesse. Non uno, insomma, che l’abbia preso sul serio. Al punto che finanche Giobi comincia a dubitare, se non della sua sanità mentale, almeno della sensatezza di quella sua proposta. Che quindi, rimasta lì appesa, cade nell’indifferenza generale e nemmeno viene presa in considerazione. E pensare che lì per lì, per come c’era arrivato, gli era parsa una gran genialata. (O forse lo era e, come tutte le gran genialate, al principio non vengono mai comprese?)

L’assemblea si conclude con la proclamazione di un nuovo corteo per il diritto alla casa, durante il quale sarà valutata l’opportunità di fare irruzione in uno degli stabili candidati all’occupazione.

Giobi, deluso dall’andazzo, non si dà per vinto e si fa largo per raggiungere Rachid, defilatosi intanto dalla calca di sbarbe che lo stanno assalendo per farne la conoscenza.

– Piacere, Giovanni! – si presenta, e, scambiate con lui due chiacchiere al volo, si decide a riproporgli, stavolta in privato, l’idea che era rimasta inascoltata durante la pubblica assemblea “plenaria e straordinaria”.

– Fa’ conto, Rachid: scendiamo a fare un giro d’ispezione, ma senza impegno… così, tanto per… e poi vediamo com’è che si mette…

Rachid, abituato a ben altre scorribande, accetta con un cenno inequivocabile del capo. È in quel preciso momento che spunta fuori Mimmo, il quale altro, nell’origliare la conversazione, vi avrà certamente fiutato qualcosa di adrenalinicamente appetibile in cui andarsi a ficcare:

– Oh, ragà, non vi scordate di me, eh! Ci sto pure io!

Mbè – si dice Giobi alzando appena una spalla – se non altro il bilancio è positivo: la sua proposta sarà anche passata sottotraccia in corso d’assemblea, ma intanto è riuscito a imbarcarsi nell’impresa altri due scoppiati come lui o forse peggio, disposti entrambi ad accompagnarlo in missione. E perciò, senza traccheggiare oltre, Giobi spiega ai due di che si tratta, servendosi del mappone della Questura per illustrare a grandi linee la conformazione dei sotterranei. A esplicita domanda di Mimmo, però, tace su come ha ottenuto quelle informazioni…

– Insomma, figlioli, dobbiamo solo trovare ‘sto benedetto passaggio per di qua, tra la Chiesa della Vita e l’ex Ospedale della Morte…

– Tra vita e morte, – commenta Rachid con un mezzo sorriso.

– Esatto, Rachid! Tra la Vita e la Morte. Per voi quand’è che si può fare?

– Per me subito, anche mattina domani.

– Per me pure, Gio’!

– Però mattina presto, figlioli, ché non ci deve vedere nessuno. Facciamo alle 6?

– Alle 6?? Ma a quell’ora è ancora scuro pesto. Alle 7 è meglio: già è giorno però le vie sono ancora deserte…

– Vabbo’, vada per le 7. Ma non un minuto più tardi, intesi? Ah, e uno di voi dovrà procurarsi una torcia. Al resto provvedo io.

– Io a casa ce l’ho, una torcia.

– E portala allora.

– Io portare cosa?

– Tranquillo, Rachid, porta te stesso e stiamo a posto. A domattina, figlioli! Mi raccomando, eh, conto su di voi…

Sulla soglia del Katsim, salutati Mimmo e Rachid, Giobi cerca di ricordarsi dov’è che ha parcheggiato la bici, prima che venisse risucchiato nel vortice dei tafferugli, della ritirata e di tutto quanto il resto… Ah già, ecco: sotto i portici di piazza Scaravilli.

Ed è lì che, come appena arriva, lo assale una sensazione che ogni studente fuorisede deve aver provato almeno una volta nell’arco dei suoi anni universitari: una sorta di smarrimento misto a incazzatura nera.

La bici: scomparsa.

‘orcodiundiominore!

Quell’ammasso di ferraglia verde non l’aveva mai tradito prima. Per quanto si reggesse con lo sputo, quella bici l’ha sempre condotto ovunque, quandunque e comunque. Fedele compagna di ventura, bussola solida anche nelle notti più funeste, quelle col freddo, la pioggia e litri di vino in circolo nelle vene… E adesso? Volatilizzata, svanita chissà dove, rubata da chissà chi. Niente ne è rimasto. Nemmeno un pezzo di telaio arrugginito, le gomme dei freni, un cazzo di bullone. Niente. Nada. Nisba.

Com’era quella cosa? Sarò un punto immobile al centro di un universo in pieno movimento.

– Col cazzo! – impreca tra i denti sotto la volta del portico. – Che gli crollasse un cornicione in fronte, a quella merdaccia! Chiunque sia!

E avanti così finché, sfranto, non si rassegna a tornarsene a piedi.

– Ma se l’acchiappo, a quell’infame… io l’ammazzo, lo sfondo… gliela strrappo a morsi, quella pelle viscida che si ritrova… lo scuoio vivo, coi denti e con le unghie… Pezzo di bastardo… Io, io lo…

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