AltroQuando – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Wed, 05 Mar 2025 21:00:15 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 György Lukács, un’eresia ortodossa / 4 – Il partito e la dialettica marxiana https://www.carmillaonline.com/2025/02/02/gyorgy-lukacs-uneresia-ortodossa-4-il-partito-e-la-dialettica-marxiana/ Sun, 02 Feb 2025 21:00:44 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=85799 di Emilio Quadrelli

Il terzo paragrafo del breve saggio è dedicato alla questione del partito e alla sua funzione direttiva nel processo rivoluzionario, qui Lukács offre la più chiara e nitida esposizione della teoria leniniana del partito che il movimento comunista abbia mai elaborato. Ma proprio detta esposizione sarà oggetto di non poche critiche e censure. Perché? Lukács, in piena continuità con Lenin, non fa altro che subordinare la forma partito alla dialettica marxiana. In altre parole, considerando, e non potrebbe essere altrimenti, il partito un prodotto storico lo pone continuamente al vaglio dell’unica forma di sovranità che la dialettica [...]]]> di Emilio Quadrelli

Il terzo paragrafo del breve saggio è dedicato alla questione del partito e alla sua funzione direttiva nel processo rivoluzionario, qui Lukács offre la più chiara e nitida esposizione della teoria leniniana del partito che il movimento comunista abbia mai elaborato. Ma proprio detta esposizione sarà oggetto di non poche critiche e censure. Perché? Lukács, in piena continuità con Lenin, non fa altro che subordinare la forma partito alla dialettica marxiana. In altre parole, considerando, e non potrebbe essere altrimenti, il partito un prodotto storico lo pone continuamente al vaglio dell’unica forma di sovranità che la dialettica marxiana riconosce: la lotta di classe. Non avevano forse detto Engels e Marx che l’unica scienza che riconoscevano era la scienza storica? Ma questa scienza non scientista non era forse determinata dai conflitti delle classi? Non era forse la soggettività di classe a essere l’elemento costitutivo e costituente della scienza marxiana? Ma questo, allora, non significa, senza ambiguità di sorta: la strategia alla classe, la tattica al partito? Questo il nocciolo della questione. Il partito non può chiamarsi fuori dalla dialettica storica, quindi non può rimanere separato e immune da ciò che, in maniera spontanea, la classe pone all’ordine del giorno.

Ciò che Lukács pone al centro di questo paragrafo è esattamente il legame dialettico tra partito e classe. Una relazione che, di fatto, negano tanto le concezioni riformiste e revisioniste alla Bernestein, quanto quelle rivoluzionarie alla Luxemburg, tutte incentrate sulla spontaneità. Ma cosa lega ciò che, in apparenza, appare non solo distante ma addirittura incommensurabile? Perché, andando al sodo, riformismo e spontaneismo non sono che due facce della stessa medaglia? Ciò che qui entra immediatamente in gioco, ancora prima della concezione del partito (questa alla fine ne sarà solo un semplice riflesso) è la visione del processo storico. Da un lato, quello che possiamo individuare come asse riformismo–spontaneità, vi è un’idea sostanzialmente evoluzionista del divenire storico per l’altra, quella riconducibile alla teoria leniniana, la storia è sempre frutto di conflitti di classe aperti e mai storicamente già determinati. Da un lato, quindi, il determinismo scientista, dall’altro la determinatezza della soggettività. Da una parte la scienza marxiana dall’altra lo scientismo positivista. Per Bernstein la funzione del partito, in piena coerenza con il suo evoluzionismo determinista e positivista, non può che limitarsi al ruolo dell’accompagnatore. In un percorso storicamente già tracciato, il compito del partito non può che essere quello del gestore di quanto già esplicito dentro la realtà. Il partito, quindi, non deve esercitare alcun surplus politico, farlo vorrebbe dire avere la pretesa di forzare il cammino storico e anteporre il treno della soggettività all’oggettività della storia. Da questo, e in fondo con piena coerenza, l’accusa a Lenin di blanquismo e giacobinismo1.

Accuse che, pur se apparentemente con segno diverso, ritroveremo nella critica luxemburghiana e, in maniera ancora più marcata, da parte di tutto quel filone comunemente noto come consiliare o comunista di sinistra2. Certo, tanto Luxemburg quanto i comunisti di sinistra non negano la necessità della rivoluzione e fanno interamente loro l’assioma marxiano: La violenza è l’ostetrica della storia, ma, proprio in virtù di ciò, considerano il partito di Lenin inutile e persino dannoso. Centrale in tutto ciò è la classe la quale, nella sua evoluzione/trasformazione spontanea, governa autonomamente il processo storico–rivoluzionario. Se per i riformisti l’evoluzione storica conduce oggettivamente, e potremmo aggiungere spontaneamente, al socialismo per Luxemburg e comunisti di sinistra la classe, attraverso una sua maturazione, arriva spontaneamente e unitariamente, il che non è poi così concettualmente distante dall’evoluzionismo riformista, alla rivoluzione e, a quel punto, la funzione del partito diventa inutile, almeno sotto il profilo della direzione politica poiché la classe si dirigerà da sola. Non solo. Questo processo sarà talmente diffuso e di massa, ovvero i livelli di coscienza di classe saranno così generalizzati e sostanzialmente uniformi, che l’esercizio della forza, ovvero la dittatura rivoluzionaria e il terrore rosso organizzati intorno al partito, saranno un fatto obiettivamente controrivoluzionario e qui non vi sono divergenze politiche ma presupposti filosofici diversi. Il problema e le differenze stanno a monte poiché diversi, distanti e incommensurabili sono i presupposti che stanno alla base della teoria leniniana e quelli che fanno da sfondo a tutti i suoi critici. In tutto ciò la diversa articolazione di una linea politica non è frutto di alcuna contingenza temporanea che, in qualunque momento, potrebbe portare a ritrovate unità, bensì la diversità incommensurabile propria di punti di vista non conciliabili. Il modo in cui, tanto da destra quanto da sinistra, i critici si posizioneranno nei confronti dell’ottobre e del coevo terrore rosso3. mostreranno come non la forza delle idee ma la materialità delle cose siano all’origine della suddivisione dei campi dell’amicizia e dell’inimicizia.

La linea di demarcazione è quanto mai rigida: da una parte il meccanicismo e l’oggettivismo di riformisti e comunisti di sinistra, dall’altro la dialettica storica marxiana. Da questa, in fondo, occorre sempre partire. La solitudine in cui Lenin il più delle volte si ritrova sarà, come vedremo a proposito della guerra imperialista, pressoché assoluta e racconta qualcosa di non secondario: la sua è la solitudine del punto di vista proletario dentro un mondo egemonizzato da tutti i punti di vista delle diverse sfaccettature del mondo borghese: è la solitudine della filosofia della prassi in lotta mortale con tutta la filosofia.

Se l’importanza di Lenin, come i suoi adulatori e critici hanno continuamente provato a evidenziare, si limitasse alla sfera politica, a distanza di anni non saremmo ancora qui a ragionare su di lui ma ciò che vale per Marx, vale per Lenin. Se Marx fosse stato un semplice economista, uno storico di valore o un politico particolarmente arguto ma non avesse segnato il mondo con una filosofia in grado di indicare per intero e per sempre il tempo storico, nessuno, se non per fini puramente dottrinali ed eruditi, prenderebbe in continuazione le sue opere tra le mani. Se ciò accade è perché questo pensiero, che non è mai un pensiero individuale ma sempre storico, ha offerto strumenti o meglio ancora, un metodo la cui attualità non decade. Paradossalmente, ma forse solo per chi lo approccia in maniera superficiale e non ne coglie così il portato complessivo, la battaglia di Lenin per il partito è quanto di meno organizzativo e pratico e quanto di più teorico e filosofico, vi sia.

La polemica di Lenin con tutto il movimento socialdemocratico e operaio dell’epoca non fa altro che reiterare le radicali divergenze di Marx ed Engels con i socialisti a loro coevi e la loro polemica verso questi fu, in apparenza, non solo puntigliosa ma persino ossessiva così come, e questo ancor più indicativo, la polemica con tutto quel mondo progressista fuoriuscito dal movimento hegeliano occupò non poco del loro tempo4. Ma quello che, a uno sguardo distratto, poteva apparire un gusto al limite del maniacale per la schermaglia intellettuale, celava una battaglia di ben altro tenore e spessore. In gioco vi era la messa a punto di uno strumento teorico–filosofico che doveva supportare tutto un moto storico il cui senso si cominciava appena a cogliere. In quel contesto dovevano essere messe a punto quelle armi della critica senza le quali la critica con le armi è destinata a soccombere. Se osservata sotto questa luce, allora, tutta la battaglia di Lenin per il partito assume una veste che si emancipa velocemente dagli orizzonti puramente organizzativi poiché, attraverso il partito, si tratta di mettere in relazione le armi della critica con la critica con le armi e pertanto porre l’accento sulle armi della critica diventa persino ovvio. Questa la distanza incommensurabile tra Lenin e tutti gli altri. La partita è tra la dialettica marxiana e la sua negazione, non su quanta importanza debba avere il Comitato Centrale. Chiuso questo prolungato ma doveroso inciso, torniamo a osservare il dibattito intorno al partito.

Per gli anti leniniani si potrebbe dire che il partito serve nella fase prerivoluzionaria come fattore illuminante, ma che decade nel momento in cui la classe approda alla rivoluzione. A caratterizzare entrambe queste due ipotesi è l’evoluzione oggettiva e spontanea in cui il passaggio storico viene a darsi. Insieme a ciò, e questo molto di più tra i cultori della spontaneità rivoluzionaria che tra gli esegeti del gradualismo riformista, vi è un’idea monolitica e sostanzialmente idealista della classe, questa, infatti, in seguito a una condizione storica determinata, approda a una coscienza di classe rivoluzionaria in blocco e, in virtù di ciò, sarebbe in grado di portare a termine il processo rivoluzionario autonomamente senza dover ricorrere a una qualche forma di direzione che non sia la direzione della classe stessa. In questo modo, palesemente, viene fatto rientrare dalla finestra quanto era stato cacciato dalla porta. A diventare essenziale, in pieno stile menscevico, diventa il livello medio della coscienza di classe poiché, accettando tale ottica, solo questa condizione mediana è in grado di unire la classe. A non essere compreso è quanto, all’interno delle dinamiche del conflitto di classe, a essere determinanti siano comunque e sempre i settori avanzati della classe e non la sua media statistica.

Da sempre, in ogni situazione di conflitto, è solo e unicamente una minoranza significativa a prendere l’iniziativa e a trascinare le masse medie. Le rivoluzioni sono sempre opera di una minoranza di massa ma una minoranza in grado di cogliere l’occasione che un determinato contesto offre5. Di più: l’azione di questa ha sempre i tratti di un cominciamento e non quelli di un millimetrico progetto studiato a tavolino. “Si comincia… poi si vede!” Appunto, ma ciò che in questa concezione viene soprattutto elusa è la funzione cosciente del partito la quale, è tale, proprio perché poggia sulla triade marxiana prassi/teoria/prassi. Questo, a conti fatti, sembra essere il vero nocciolo della questione e non si tratta certo di cosa da poco. Solo comprendendo ciò, e assumendolo completamente come mostra Lukács, diventa possibile andare al fondo della teoria leniniana del partito. Lenin sicuramente, come si è visto, non nega che la strategia sia sempre appannaggio della classe mentre ciò che spetta al partito è la dimensione propria della tattica. Volendo si potrebbe risolvere la triade prassi/teoria/prassi in strategia/tattica/strategia e, con ciò, forse le cose diventano più chiare. Dalla prassi che è ciò che le masse esprimono in potenza, attraverso alcune pratiche, ed è quindi riconducibile alla messa in atto di una prospettiva strategica, la teoria, ovvero il partito in quanto elemento cosciente, ricava una tattica la quale viene rimessa nella prassi quindi dentro la strategia della classe che a sua volta rimette in campo una prassi. Ciò che gli spontaneisti non colgono è come questo passaggio dalla prassi alla prassi non può darsi in maniera lineare ed evoluzionista ma necessita di un intermezzo in grado di rendere esplicito e organizzato ciò che la strategia ha posto, ma solo in potenza, all’ordine del giorno. Il partito è l’anello di congiunzione permanente che consente alla prassi di compiere un salto qualitativo.

Quando il partito rimette nella prassi ciò che ha appreso dalle masse lo fa avendo trasformato quella potenzialità politica in tattica insurrezionale ed è questo passaggio politico che restituisce alla classe. In questo modo, e solo in questo, il partito assolve la sua funzione direttiva; ma non solo: centrale, nel ruolo e nella funzione che il partito deve assolvere, è la capacità di leggere, dentro i fatti prodotti dalla classe, la tendenza. Esattamente qui si pone la netta e rigida contrapposizione tra la teoria leniniana del partito e il codismo6 che, pur se in maniera diversa, ne accomuna i critici. Proprio perché la classe non è un tutto omogeneo e i suoi comportamenti assolutamente non lineari e fautori di un unico livello di scontro, occorre saper comprendere, interpretare e visualizzare entro quale tendenza questi si pongono. Si tratta di applicare la dialettica marxiana dentro il conflitto di classe e farlo tenendo sempre a mente che, come ricorda Marx: “É dall’anatomia dell’uomo che si ricava l’anatomia della scimmia”. Ciò significa che, in relazione al conflitto di classe, la tendenza va colta a partire dal punto più alto della conflittualità. Quello e solo quello indica dove si colloca la strategia della classe.


  1. Queste accuse furono rivolte a Lenin da gran parte della socialdemocrazia del tempo. Lo stesso testo Che fare? non risultò immune da tali critiche.  

  2. Le migliori esposizioni teoriche di questa opposizione teorica all’impostazione leniniana rimangono, K. Korsch, Marxismo e filosofia, Edizioni Pgreco, Milano 2012, A. Pannekoek, Lenin filosofo, Edizioni Pgreco, Milano 2016. Per una buona e documentata ricostruzione storica di questa tendenza si veda, E. Rutigliano, Linkskommunismus e rivoluzione in occidente. Per una storia del Kapd, Edizioni Dedalo, Bari 1974.  

  3. Sull’esercizio del Terrore rosso come risposta ai suoi critici di destra e di sinistra rimane insuperabile, L. Trockij, Terrorismo e comunismo, Sugar, Milano 1964.  

  4. K., Marx, F. Engels, La sacra famiglia, Editori Riuniti, Roma 1967.  

  5. Al proposito il modo in cui prese forma la Rivoluzione francese è quanto mai esemplificativo. L’attacco alla Bastiglia, l’evento che diede il la a una delle più grandi rotture storiche, fu opera di circa un migliaio di persone. Cfr., A. Mathiez, G. Lefebrve, La rivoluzione francese, Vol. I, Einaudi, Torino 1997.  

  6. Sul codismo si vedano le argomentazioni di G. Lukács in, Coscienza di classe e storia. Codismo e dialettica, cit.  

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Controcultura, musica ribelle e critica rivoluzionaria https://www.carmillaonline.com/2025/01/08/cultura-ribelle-e-politica-rivoluzionaria/ Wed, 08 Jan 2025 21:00:09 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=85879 di Sandro Moiso

Mario Maffi, La cultura underground, Giuseppe Laterza & Figli. Roma-Bari 1972, pp. 472

Questo libro è nato come libro di intervento politico. Non vuole cioè cadere in quell’obbiettività tanto cara al sistema che tutto uguaglia, tutto smorza e tutto svuota, concludendo con il solito gloria che tutti i salmi chiude. Il periodo della «cultura underground» e della sua trasformazione politica è un periodo di estrema importanza nella storia americana, e quindi mondiale: conoscerlo e comprenderlo significa entrare in prima persona nei nodi dei problemi; ed entrarvi in prima persona significa mettere se stessi a disposizione della soluzione. Nessun [...]]]> di Sandro Moiso

Mario Maffi, La cultura underground, Giuseppe Laterza & Figli. Roma-Bari 1972, pp. 472

Questo libro è nato come libro di intervento politico. Non vuole cioè cadere in quell’obbiettività tanto cara al sistema che tutto uguaglia, tutto smorza e tutto svuota, concludendo con il solito gloria che tutti i salmi chiude. Il periodo della «cultura underground» e della sua trasformazione politica è un periodo di estrema importanza nella storia americana, e quindi mondiale: conoscerlo e comprenderlo significa entrare in prima persona nei nodi dei problemi; ed entrarvi in prima persona significa mettere se stessi a disposizione della soluzione. Nessun distacco, ma piena partecipazione critica e polemica: questo si richiede sia a chi studi questo argomento sia a chi lo divulghi sia, infine, a chi ne sia convolto in un modo o nell’altro. ( Mario Maffi, La cultura underground – 1972)

Nel 1972 uscì in Italia un libro di Mario Maffi che, insieme alla Guida alla musica Pop di Rolf-Ulrich Kaiser pubblicato appena un anno prima negli Oscar Mondadori, avrebbe soddisfatto la fame di informazione e di interpretazione “politica” di chi, come il sottoscritto, aveva colto nelle trasformazioni in atto nella musica “giovanile” proveniente da oltre Oceano, a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta, importanti elementi e sintomi del cambiamento in corso, non soltanto, anche se e forse soprattutto, dal punto di vista generazionale.

Però, mentre il libro di Kaiser, uscito in Germania nel 1969, si occupava quasi esclusivamente di musica rock e pop, quello di Maffi, La cultura underground, affrontava con un respiro assai più ampio e una capacità interpretativa ben definita politicamente tutti gli aspetti di una controcultura ribelle e antagonista, underground come si diceva allora, che dai movimenti sociali di rivolta e protesta americani aveva preso spunto.

Certo, sia il libro di Kaiser che quello di Maffi, in Italia erano stati preceduti nell’intento dall’uscita della rivista Re Nudo, la prima e la più longeva espressione, di natura libertaria e situazionista, della controcultura dagli anni successivi al Sessantotto. Fondata a Milano nel novembre 1970 da un gruppo di intellettuali, artisti e militanti, tra i quali Andrea Valcarenghi, Gianni De Martino, Dario Fo, Marco Fumagalli, Gianfranco Manfredi, Claudio Rocchi, Gianni Emilio Simonetti, Michele Straniero, Massimo Villa, e il cui numero zero fu pubblicato nel novembre del 1970 come supplemento al numero 19 di «Lotta Continua»

Quasi subito quella prima “redazione” del giornale si sarebbe divisa sul tema dei finanziamenti e della pubblicità. Così nel giugno di quell’anno parte del gruppo redazionale, capeggiato dai membri dell’”ala situazionista” mise in atto una sorta di scissione, che rimase, però, una provocazione temporanea, considerato che subito dopo «Re Nudo» tornò a essere guidato da Valcarenghi.

Nel numero di gennaio del 1972 la rivista lanciò la proposta di dare vita a un nuovo movimento ispirato ai “White Panthers” statunitensi di John Sinclair: un tentativo di unire i tradizionali temi contro-culturali all’impegno “classista” nei confronti di temi come l’aborto, il divorzio, le condizioni nelle carceri, il disagio delle periferie urbane. Ma questa iniziativa portò ancora una volta ad una scissione da parte di alcuni redattori romani, indirizzati a una visione più hippie della rivista, che avrebbe comunque proseguito la sua attività fino al 1980.

Dopo aver fatto, doverosamente, omaggio a quel primo tentativo in Italia di coniugare, piuttosto disordinatamente, cultura giovanile e politica “antagonista”, occorre tornare a rivolgere lo sguardo al testo di Maffi, che si distinse subito per chiarezza d’intenti e unitarietà di interpretazione di fenomeni apparentemente distanti e ben distinti tra di loro.

La prima edizione, replicata nel 1973, si divideva in due sezioni, che sarebbero state mantenute sia nella successiva edizione in due volumi sempre per la casa editrice Laterza nel 1980 che nella riedizione del 2009 per la casa editrice Odoya. La prima, intitolata Dalla cultura underground al Movement, costituiva quella eminentemente politico-culturale, mentre la seconda, La produzione artistica underground, era principalmente suddivisa tra nuovo cinema, musica rock e teatro. Con un suddivisione che, fin dalle prime pagine della Premessa, privilegiava nettamente l’interpretazione politica e classista di quelle nuove manifestazioni musicali, letterarie, cinematografiche e teatrali provenienti dagli States più che quella meramente estetica. Così scriveva infatti l’autore nelle prime pagine della prima edizione:

La pubblicazione di questo libro coincide con un momento tutto particolare del dissenso interno americano, momento che da più parti viene definito di riflusso. In linea di massima, si tratta di una diagnosi corretta, pur nella limitatezza delle etichette. Effettivamente, il Movement è in una fase di stasi, di riconsiderazione, anche di disorientamento; ma sarebbe profondamente ingenuo pensare che questa fase altro non sia che il lento e graduale ritorno all’ovile del giovane ribelle. La gratuità di un’analisi simile discende proprio da un fraintendimento di ciò che è stato il dissenso americano in tutte le sue forme, e soprattutto dall’ignoranza storica che impedisce di comprendere la natura, gli sviluppi, il significato e le prospettive potenziali di simili «movimenti».
In questa fase di riflusso, il Movement sta scontando in realtà le proprie debolezze teoriche, i propri errori ideologici, le proprie posizioni confuse: alla grande esplosione incontrollata, istintiva, anarcoide, strategicamente non chiara, segue necessariamente il periodo del disorientamento, dell’analisi, dell’auto-critica, se si vuole; il momento della ricerca d’una chiarezza ideologica, di una intransigenza politica (dapprima rifuggite e osteggiate, ora ritenute sempre più indispensabili), attraverso la riconsiderazione di tutte le azioni e di tutti gli errori.
[…] Il periodo di stasi del Movement è quindi non rinuncia e ritorno all’accettazione dei valori della società capitalistica, ma studio, verifica, sfrondamento di tutte quelle posizioni quasi idealistiche, quasi romantiche, volontaristiche, che hanno costituito il nucleo – e la debolezza – della protesta giovanile. Può darsi che ciò non sia ancora qualcosa di completamente consapevole, di razionalmente compreso, ma la tendenza generale – che dovrà anche superare lo sconforto, la delusione e il pessimismo subentrati – è questa: lo dimostra proprio il graduale affermarsi di nuovi gruppi su basi più chiaramente marxiste, legati in origine all’operaio nero, ma con il programma dichiarato di raggiungere quello bianco per una lotta comune sul luogo di lavoro1.

Se è vero che il ricco testo di Mario Maffi costituiva, e ancora costituisce, un autentico viaggio attraverso le esperienze della beat generation, i problemi dell’individuo e della droga, la politica e la guerra nel Vietnam, i gruppi pacifisti, gay e femministi, le organizzazioni delle minoranze etniche e del dissenso più radicale espresso dal Black Panther Party e dai Weather Underground, le sperimentazioni del cinema e del teatro, la produzione musicale da Bill Haley ed Elvis Presley ai Fugs e Frank Zappa, è anche vero che queste note di metodo iniziali sono ancora fondamentali per orientarsi nella valutazione dei movimenti sociali, non solo americani, sviluppatisi nel corso degli ultimi decenni.

Non tutti occidentali, non tutti caratterizzati da grandi innovazioni artistiche, culturali e musicali (anche se il rap dei ghetti delle metropoli europee costituisce una nuova forma di comunicazione che deve essere analizzata e compresa2 ), ma tutti espressione di contraddizioni che, comunque, devono essere seriamente prese in considerazione. Evitando, però, di confondere l’azione e la reazione spontanee con una tattica o, addirittura, una strategia da applicare fiduciosamente, anche in contesti molto diversi da quelli di origine.

Il libro di Maffi, alla sua uscita, rappresentava proprio la volontà di interpretare un movimento di ampia portata senza per forza accettarne tutti i comportamenti o le idee espresse dal suo interno. Un metodo che prendeva le distanze sia dalla acritica accettazione dei fenomeni legati agli hippies e al pacifismo di stampo peace and love and drugs, come avveniva per esempio nel caso di Re Nudo o almeno di una sua ampia componente, ma anche dalla condanna espressa nei confronti di quei fenomeni espressi dal Movement portata avanti, anche in questo caso acriticamente, dalla tradizione del partito togliattiano, dai marxisti-leninisti e anche da una parte, probabilmente maggioritaria della Sinistra Comunista cui faceva riferimento lo stesso autore, prendendo però, in maniera più che evidente, le distanze dall’ultimo articolo scritto da Amadeo Bordiga (18891970) su «il programma comunista» nel 1968, dove tutti i movimenti giovanili e studenteschi venivano implacabilmente liquidati, non riconoscendo in essi le differenze da quelli che avevano invece caratterizzato i movimenti nazionalisti e guerrafondai che avevano caratterizzato gli anni precedenti il Primo conflitto imperialista mondiale3.

La stesura di quel testo, per lo stesso autore, all’epoca non ancora trentenne, costituì probabilmente una sorta di rivolta generazionale, in famiglia per così dire, vista la sua vicinanza alle posizioni espresse dal Partito Comunista Internazionale, di cui «il programma comunista» era l’organo di stampa. E forse è dovuta anche a questo aspetto la passione che anima le pagine di un libro che, in una prosa polemica e incisiva, passa in rassegna gli aspetti sociali e culturali di un’intera epoca, sondandone le origini e le profonde motivazioni individuali e collettive.

Così, anche se oggi quell’originaria freschezza che accompagnò il secondo e ultimo Rinascimento americano è andata perduta4, il libro di Mario Maffi ha ancora molto da insegnare e ricordare non soltanto alle generazioni più giovani, ma anche a chi non è mai uscito dalle maglie di una interpretazione rigida di un marxismo trasformato in dogma oppure che, ancor più comunemente, non ha saputo far altro che abbandonare, con la scusa della delusione e della raggiunta “maturità”, la strada maestra della rivoluzione.

«Chiamiamo comunismo il movimento reale che abolisce lo stato di cose presente.» (K. Marx, F. Engels, L’ideologia tedesca – 1845/1846)


  1. M. Maffi, La cultura underground, Giuseppe Laterza &Figli. Roma-Bari 1972, pp. V- VII.  

  2. Come ha provato a fare Louisa Yousfi con Restare barbari. I selvaggi all’assalto dell’Impero, DeriveApprodi, Roma 2023.  

  3. Si veda: A. Bordiga, Nota elementare sugli studenti e il marxismo, «il programma comunista», n. 8, 1-15 maggio 1968.  

  4. Il “primo” Rinascimento americano è ricollegabile all’espressione coniata dal critico letterario Francis Otto Matthiessen nel 1941, che faceva riferimento al movimento del trascendentalismo e al più generale movimento letterario e culturale fiorito negli Stati Uniti intorno a esso tra la vigilia della seconda rivoluzione industriale e la Guerra di Secessione, i cui principali rappresentanti erano stati Ralph Waldo Emerson, Walt Whitman, e Henry David Thoreau.  

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Elogio dell’eccesso / 6: Flannery O’Connor e la rivelazione della fede in una Chiesa senza Cristo https://www.carmillaonline.com/2024/12/30/elogio-delleccesso-6-flannery-oconnor-testimone-di-una-chiesa-senza-cristo/ Mon, 30 Dec 2024 21:00:23 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=86004 di Sandro Moiso

L’estate è stata molto arida quassù e il riuscire nuovamente ad andare a messa ogni giorno mi ha lasciato indifferente – mi vengono in mente pensieri orribili per meschinità e egoismo anche con l’Ostia sulla lingua (22 settembre 1947, Iowa City – A Prayer Journal)

L’altra sponda dell’Atlantico ha dato alla letteratura universale, fin dall’Ottocento, alcune autrici che vanno sicuramente annoverate tra le sue massime espressioni. Dalle poesie di Emily Dickinson (1830-1886) al femminismo di Mary McCarthy (1912-1989), intima amica di Hannah Arendt; dai racconti di Lucia Berlin (1936-2004) (per una loro recensione si veda di Sandro Moiso

L’estate è stata molto arida quassù e il riuscire nuovamente ad andare a messa ogni giorno mi ha lasciato indifferente – mi vengono in mente pensieri orribili per meschinità e egoismo anche con l’Ostia sulla lingua (22 settembre 1947, Iowa City – A Prayer Journal)

L’altra sponda dell’Atlantico ha dato alla letteratura universale, fin dall’Ottocento, alcune autrici che vanno sicuramente annoverate tra le sue massime espressioni. Dalle poesie di Emily Dickinson (1830-1886) al femminismo di Mary McCarthy (1912-1989), intima amica di Hannah Arendt; dai racconti di Lucia Berlin (1936-2004) (per una loro recensione si veda qui ) ai romanzi e racconti di ambiente western della canadese Annie Proulx. E proprio quest’ultima ci deve far riflettere sul fatto che alcune delle migliori espressioni letterarie basate sulle storie del West sono state frutto della penna di donne e non di uomini, come ancora troppo spesso un certo femminismo di maniera spinge a credere e come invece dimostra, ad esempio, la raccolta di racconti di Dorothy M. Johnson (1905-1984) da cui sono stati tratti tre dei film di genere più famosi di tutti i tempi: L’uomo che uccise Liberty Valance (John Ford, 1962), Un uomo chiamato cavallo (Elliot Silverstein, 1970) e L’albero degli impiccati (Delmer Daves, 1959)1.

Ma la più importante e straordinaria esperienza letteraria femminile made in USA è stata sicuramente quella di Flannery O’Connor (1925-1964), la cui vita fu segnata da un lupus eritematoso sistemico, ereditato dal padre, che l’avrebbe condotta alla morte non ancora quarantenne.

All’età di sei anni, Flannery insegnò a un pollo a camminare all’indietro e fu la prima occasione di celebrità. Gli inviati di una rivista filmarono la piccola “Mary O’Connor” con il suo pollo e quelle immagini fecero il giro del paese. Flannery disse in seguito: «C’ero anch’io con il pollo. Ero là solo per assisterlo, ma fu il momento culminante della mia vita. Tutto quello che è accaduto dopo, è stato solo una anticlimax».

Questa attenzione per i volatili da cortile l’avrebbe accompagnata sempre, anche quando nei primi anni Cinquanta le fu diagnosticato il lupus, motivo per cui fece ritorno alla fattoria di famiglia a Milledgeville, che avrebbe rinominato Andalusia e dove si sarebbe circondata di tutto quanto più le piaceva, sostanzialmente libri e animali da cortile. Così negli anni avrebbe allevato tacchini, quaglie, oche, fagiani, galline. Come avrebbe scritto in una lettera: «Dove viviamo io e mia madre c’è molto spazio e mi sono comperata alcuni pavoni e sto seduta per ore sui gradini del cortile a studiarli. Ho intenzione di diventare l’Autorità Mondiale sui Pavoni, e spero che una volta o l’altra mi offrano una cattedra alla Facoltà di Pollamologia.» Come avrebbe annotato Fernanda Rossini, in un suo saggio sulla vita e le opere di Flannery O’Connor:

Nonostante i frequenti rimbrotti della madre e le lamentele dello zio Louis, arriverà a possederne una trentina o più, decisa ad averne un numero sufficiente per inciampare in uno di loro ogni volta che esce di casa. Sono uccelli dal piumaggio e dal portamento maestoso che non ha scelto a caso di allevare, poiché, come lei stessa affermava: «Nella simbologia medievale rappresenta la Chiesa: gli occhi sono gli occhi della Chiesa […]. Il pavone rappresenta la Trasfigurazione, di cui è senz’altro uno dei simboli più belli». Nelle sue storie i pavoni, seppur animali comuni negli ambienti rurali, non sono mai presenze fortuite. Le piace osservarli, dipingerli e capita che raccolga e regali ad amici e visitatori le penne della ruota che l’animale cambia2.

Finì così col descriverli anche in un suo saggio intitolato The Kings of Birds.
Il lettore di queste righe deve perdonare il percorso apparentemente tortuoso e di scarso rilievo con cui ci si avvicina alla personalità di un’autrice le cui aspettative di vita erano di cinque anni al momento della scoperta della malattia, ma che sopravvisse per quasi altri quindici.

Un’autrice sprofondata, autenticamente, nella fede tipica e nella letteratura del Sud degli Stati Uniti, che già aveva dato autori del calibro di William Faulkner. Una letteratura intrisa spesso di comicità, tragedia e grottesco che in seguito, per molti versi sarebbe rientrata nella definizione di “American Gothic”, comprendente romanzi quali Santuario dello stesso Faulkner fino ai migliori racconti di autori come Joe Lansdale, ma che affondava le sue radici nella visionarietà di Edgar Allan Poe.

Tutti i suoi romanzi e racconti sono intrisi da una visione della vita cinica, violenta, spietata ma, allo stesso tempo, anche incommensurabilmente umana. Storie che vedono protagonista un’umanità povera, spesso diffidente, per la quale la religiosità, quasi sempre primitiva e al limite dell’eresia, rappresenta, apparentemente, l’unica possibile consolazione.

Infatti al centro delle sue opere spesso c’è l’incontro tra uomini e soprattutto donne e ragazze di campagna con personaggi travestiti da predicatori e uomini di Dio. Non che non lo siano nei fatti, ma certo poco onesti e disinteressati. Opere in cui la sensualità del Sud stride con la rigidita delle norme della fede o delle svariate congregazioni che animano quelle comunità e di cui l’autrice, pur essendo dichiaratamente cattolica, ci rende edotti.

Tra il gennaio 1946 e il settembre 1947, O’Connor tenne un diario che è sostanzialmente una raccolta di preghiere. In queste annotazioni raccontò la sua vita e, attraverso suppliche quasi sempre poco spirituali e molto materiali, cercò di intrattenere un dialogo con Dio. Come ebbe a scrivere ancora in A Prayer Journal, pubblicato soltanto nel 2013: «Per favore, Dio, aiutami a essere una brava scrittrice… Se devo faticare per il mio lavoro di scrittrice, caro Dio, lascia che sia al Tuo servizio. Mi piacerebbe essere santa in modo intelligente.»

Come si è già detto, Flannery era una fervente cattolica che viveva nella Bible Belt, il profondo Sud, e da qui discendevano le contraddizioni che animavano le sue opere, anche se occasionalmente ebbe modo di tenere conferenze su argomenti religiosi, viaggiando anche parecchio nonostante la salute cagionevole.

Pur avendo scritto complessivamente 32 racconti e solo 2 romanzi, O’Connor divenne famosa soprattutto per i due romanzi La saggezza nel sangue (Wise Blood,1952)3 e Il cielo è dei violenti (The Violent Bear It Away,1960)4. Dal primo fu tratto, nel 1979, un film, diretto da John Houston, che venne girato a Macon nella contea di Baldwin in Georgia, proprio nei pressi di quella che era stata la residenza della O’Connor.

La trama del film e del romanzo vede al centro la figura di Hazel Motes che, traumatizzato da piccolo dal nonno predicatore, una volta terminato il servizio militare, incontra un predicatore di strada cieco, Asa, che lo convince a seguire il suo stesso cammino. Hazel si forma così un’idea tutta sua di Gesù Cristo e decide di predicarla. Non è come la maggioranza dei predicatori che cercano solo di tirar su un po’ di dollari con le loro parole, lui è convinto e predica un Gesù che non è morto in Croce per noi e perciò il peccato non esiste. Per fare ciò fonda una propria Chiesa, quella della “Verità senza Cristo”, finendo in un mondo completamente nuovo per lui, in cui si muovono truffatori, “lolite” e poveri di spirito in cerca d’affetto. Così ben presto si troverà a vivere situazioni difficili da affrontare, tra opportunisti e falsi predicatori, e a farne le spese sarà alla fine proprio lui.

E’ interessante notare che Asa, come Omero, è cieco. Un visionario senza la possibiliztà di vedere, finendo col rappresentare l’assurda cecità di chi si affida alla religione stessa. Un dubbio che pervade il romanzo, il film, la stessa Flannery; sempre in bilico tra fede e disperato tentativo di in/validarne i contenuti per il tramite di un metodo “popperiano” di falsificazione dei dogmi e delle verità date “una volta per tutte”.

Anche se è in racconti come A Good Man is Hard to Find (1955)5, cui si sarebbe direttamente ispirato Joe Lansdale per il suo Da mani bizzarre (By Bizarre Hands , 1989)6, che l’autrice raggiunge i vertici della sua scrittura e di una visione personalissima di un mondo contadino, ignorante ed egoista, in cui apparentemente il volere di Dio si sposa con le convenienze famigliari, fino ad esserne trasformato secondo le circostanze. Racconti che da soli basterebbero a fracassare tutte le narrazioni salvifiche, politiche, perbenistiche e religiose delle infinite chiese evangeliche o pentecostali su cui si fonda, ancora ai nostri giorni, tanto conservatorismo e razzismo statunitense.

Madri che consegnano, letteralmente, le proprie figlie, ad individui evidentemente poco raccomandabili, pur di liberarsi di un peso in famiglia, in un contesto in cui è evidente l’assoluta assenza di qualsiasi Grazia divina e un misticismo, quello dell’autrice, che si sforza di trovare “altro” nella pratica religiosa, anche se cattolica. Tutti racconti, che in mezzo a situazioni grottesche e personaggi memorabili sottolineano la presenza di un fattore imponderabile nell’esistenza dell’essere umano grazie all’introduzione nella trama di circostanze imprevedibili e a una profonda indagine sui comportamenti umani. Cercando di rintracciare anche nel suo sé quella certezza in Cristo che, come dimostrano le frasi messe in epigrafe, potrebbe consolarla o premiarla ma che, in realtà, sa già in partenza di non poter trovare.

Non a caso, quindi, i suoi saggi e le sue lettere sulla scrittura sono contenuti in due raccolte intitolate, rispettivamente, Nel territorio del diavolo7 e Sola a presidiare la fortezza8.

I miei pensieri sono così lontani da Dio. Potrebbe anche non avermi creata. E la sensazione che ricavo dallo scrivere queste pagine dura circa una mezz’ora e sembra una farsa. Non desidero alcuna sensazione superficiale e artificiale suscitata dal coro [della chiesa]. Oggi ho dato prova di essere insaziabile – di biscotti ai cereali e di pensieri erotici. Non c’è nient’altro da dire su di me. (Flannery O’Connor, 26 settembre 1947)


  1. D. Johnson, L’uomo che uccise Liberty Valance, Mattioli 1885, 2024 (racconti scritti in lingua originale tra il 1949 e il 1957)  

  2. Si veda: F. Rossini, Flannery O’Connor. Vita, opere, incontri, Edizioni Ares, Milano 2021, pp. 120-121.  

  3. Traduzione italiana di Marcella Bonsanti, con una nota di Fernanda Pivano, Garzanti, Milano, 1985; Prefazione di Fernanda Pivano e Postfazione di Luca Doninelli, Garzanti, Milano 2002-2010. 

  4. Traduzione di Ida Omboni, Einaudi, Torino, 1965; Longanesi, Milano, 1969; Introduzione e biobibliografia di Marisa Caramella, Collana Einaudi Tascabili. Torino, 1994; Collana Letture, Einaudi, Torino, 2008. In seguito nella traduzione di Gaja Lombardi Cenciarelli con Prefazione di Marco Missiroli, minimum fax, Roma, 2020.  

  5. Un brav’uomo è difficile da trovare, in F. O’Connor, La vita che salvi può essere la tua, traduzione di Ida Omboni, Einaudi, Torino, 1968 oppure in Un brav’uomo è difficile da trovare, traduzione Gaja Cenciarelli, con una postfazione di Joyce Carol Oates, minimum fax, Roma, 2021 e, ancora, in Tutti i racconti (The Complete Stories, 1971), a cura e con un’introduzione di Marisa Caramella, traduzione di Ida Omboni e Marisa Caramella, 2 voll., Bompiani, Milano, 1990.  

  6. Ora in J. R. Lansdale, In un tempo freddo e oscuro e altri racconti, Giulio Einaudi Editore, Torino 2006.  

  7. F. O’Connor, Nel territorio del diavolo. Sul mistero di scrivere, a cura di Robert e Sally Fitzgerald, ed. italiana a cura di Ottavio Fatica, traduzione di Giovanna Granato, Theoria, Roma, 1993, oppure con prefazione di Christian Raimo, Roma, minimum fax, 2003.  

  8. F. O’Connor, Sola a presidiare la fortezza. Lettere (The Habit of Being: Letters Of Flannery O’Connor, 1988) a cura di Ottavio Fatica, traduzione di Giovanna Granato, Einaudi, Torino, 2001; ed. aumentata (con le lettere dal 1948 al 1964), Minimum Fax, Roma, 2012. Entrambi i testi sono ora raccolti in Un ragionevole uso dell’irragionevole. Saggi sulla scrittura e lettere sulla creatività, Prefazioni di Christian Raimo (2002) e Ottavio Fatica (2012), Roma, minimum fax, 2019,  

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György Lukács, un’eresia ortodossa / 3 – Dal “popolo” al popolo. Il proletariato come classe dirigente https://www.carmillaonline.com/2024/12/26/gyorgy-lukacs-uneresia-ortodossa-3-dal-popolo-al-popolo-il-proletariato-come-classe-dirigente/ Thu, 26 Dec 2024 21:00:03 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=85443 di Emilio Quadrelli

Nel paragrafo “Il proletariato come classe dirigente” Lukács ripercorre tutto il lavoro compiuto da Lenin all’interno del movimento rivoluzionario dell’epoca per far emergere il proletariato come classe dirigente dentro la rivoluzione russa. Sulla scia di quanto argomentato in precedenza, l’attualità della rivoluzione, Lenin combatte una battaglia teorica, politica e organizzativa per costruire l’autonomia politica del proletariato in quanto classe dirigente del processo rivoluzionario. È bene ricordare che ciò non avviene nel corso delle giornate insurrezionali del 1905 e, tanto meno, dopo il febbraio del ’17, ma piuttosto in anni apparentemente cupi come quelli che caratterizzano la fine [...]]]> di Emilio Quadrelli

Nel paragrafo “Il proletariato come classe dirigente” Lukács ripercorre tutto il lavoro compiuto da Lenin all’interno del movimento rivoluzionario dell’epoca per far emergere il proletariato come classe dirigente dentro la rivoluzione russa. Sulla scia di quanto argomentato in precedenza, l’attualità della rivoluzione, Lenin combatte una battaglia teorica, politica e organizzativa per costruire l’autonomia politica del proletariato in quanto classe dirigente del processo rivoluzionario. È bene ricordare che ciò non avviene nel corso delle giornate insurrezionali del 1905 e, tanto meno, dopo il febbraio del ’17, ma piuttosto in anni apparentemente cupi come quelli che caratterizzano la fine dell’ottocento e il primo novecento russo. Anni in cui, per un verso, si osserva lo sviluppo industriale e agrario del capitalismo all’interno del sistema feudale russo, dall’altro la crisi politica del populismo e l’affermarsi di un movimento borghese che, nel contesto, userà il marxismo come ideologia del capitalismo. In contemporanea a ciò si assiste alla nascita delle prime forme di organizzazione operaia.

Il dibattito politico del movimento rivoluzionario e democratico è ancora pesantemente egemonizzato da quell’idea di popolo che aveva fatto da sfondo al populismo e alle sue diverse anime. Una continuità storica che, in qualche modo, si protrae sin dai tempi dei decabristi. L’irrompere del modo di produzione capitalista dentro l’apparente immobilismo dell’impero zarista mette in crisi quell’idea di particolarità che la Russia si era a lungo portata appresso e che tanto aveva incuriosito e attratto il mondo politico e culturale europeo. Il mistero russo aveva necessariamente coinvolto lo stesso movimento rivoluzionario tanto che gli stessi Marx ed Engels sulla Russia si erano soffermati in più occasioni1. Agli occhi degli europei la Russia si mostrava, al contempo, come bastione solido e inamovibile della controrivoluzione ma anche, per non secondarie schiere di rivoluzionari delusi dagli insuccessi del ’48 europeo, come il luogo maggiormente prono a un radicale processo rivoluzionario. L’autocrazia per gli uni, il popolo per gli altri, diventavano tanto i poli quanto l’esemplificazione del rapporto rivoluzione/controrivoluzione.

Una esemplificazione forse eccessiva che, però, aveva alle spalle qualcosa di più di una semplice suggestione. Indubbiamente l’autocrazia ben poteva vantare il suo ruolo reazionario, mostrando in tal modo di essere la miglior garante internazionale di fronte all’idra della rivoluzione così come il movimento populista si mostrava una forza sovversiva tanto determinata quanto indomita. Autocrazia e popolo, in apparenza, sembravano essere realtà astoriche non soggette a quella permanente e radicale trasformazione economica e sociale alla quale, invece, era pervenuta l’Europa capitalista. Ma il capitalismo penetra, proprio per mano dell’autocrazia, anche in Russia.

Quella formazione economica e sociale considerata inamovibile inizia a assumere caratteristiche che, più o meno velocemente, iniziano a mandare in frantumi il mondo di ieri. Lentamente, ma in maniera costante, la questione operaia inizia a farsi strada anche dentro l’impero zarista. Gli stessi populisti, o almeno la parte teoricamente e politicamente più attenta, iniziano a modificare la loro linea di condotta, per questi gli operai e le città cominciano ad assumere un interesse impensabile solo qualche tempo prima, interesse che, però, è ben lungi da comprenderne il portato. Per i populisti gli operai diventano una componente del popolo il quale, nella sua astrattezza, rimane il soggetto storico del movimento rivoluzionario. Allo stesso tempo l’idea che il popolo possa dar vita a un modello economico e sociale in grado di saltare il capitalismo, rimane un dogma pressoché immutato per i populisti. Esattamente speculare a questa posizione conservativa ha preso forma quella progressiva della borghesia, la quale mira a realizzare una rivoluzione di tipo occidentale in grado di liberare il capitalismo dai vincoli in cui il modello autocratico, a causa delle alleanze di classe alle quali è soggetto, lo imprigiona. Lenin si inserisce come un vero e proprio cuneo all’interno di queste ipotesi che non sembrano avere alternative.

Qui il testo di Lukács si fa estremamente interessante e lo è perché, avendo a mente la stragrande maggioranza della pubblicistica sull’operato di Lenin in relazione allo sviluppo del capitalismo in Russia, elimina dall’orizzonte di questo qualunque oggettivismo e determinismo di sorta2. Ciò che Lukács evidenzia è come a interessare Lenin non sia tanto e semplicemente constatare come lo sviluppo del capitalismo in Russia sia ormai diventato un semplice dato di fatto, bensì gli effetti che tutto ciò comporta per la composizione di classe. A partire da un processo oggettivo, lo sviluppo del capitalismo dentro l’intero impero zarista con conseguente sradicamento dei tradizionali rapporti sociali anche nelle le campagne, Lenin giunge a ridefinire il soggetto della rivoluzione, infatti, lui non abiura l’idea di popolo ma la riformula avendo a mente, da un lato la configurazione concreta del popolo dentro la trasformazione capitalista, dall’altro la figura centrale, il proletariato, che nella sua esistenza cristallizza la massima tensione del conflitto.

Lenin separa il proletariato dal popolo per rimettervelo successivamente dentro come forza motrice dell’insurrezione. Su ciò Lukács si sofferma non poco. Perché? In questo modo Lukács mira a combattere due battaglie: da un lato ribadire come Lenin, e con lui la dialettica marxiana, siano del tutto estranee all’oggettivismo e al determinismo in seconda battuta, ed è ciò che gli fa comprendere Lenin sino in fondo, e come per questo a essere sempre predominante sia l’attualità della rivoluzione. Ciò che Lukács coglie, sin dagli anni venti del ‘900 è la distorsione determinista e oggettivista che anche dentro il movimento comunista albeggia prepotentemente. Una distorsione che, soprattutto in occidente, tenderà velocemente a farsi egemone sia nelle tendenze più prossime alla socialdemocrazia, sia in alcune tendenze di estrema sinistra. Per questo soffermarsi su questo passaggio è particolarmente utile. Ciò che, a differenza di quanto fa Lukács, viene solitamente posto in evidenza in relazione al dibattito sullo sviluppo del capitalismo in Russia è la precisa e netta posizione di Lenin contro i populisti, ossia verso la possibilità di saltare la fase capitalista, il riconoscere il carattere progressivo che in ogni caso il capitalismo porta in seno, il necessario appoggio a questo sviluppo e, in contemporanea, l‘organizzazione dei futuri affossatori del capitalismo. In realtà le cose non sono proprio così. Questo è il classico modo proteso a salvare capra e cavoli attraverso il quale l’evoluzionismo socialdemocratico si approprierà di Lenin. Si riconosce il tratto rivoluzionario di Lenin mentre lo si imprigiona nella logica dello sviluppo delle forze produttive. Per altro verso si liquida in poche battute il complesso rapporto di Lenin con il populismo arrivando a ignorare che, se alla sua prima opera di spessore teorico ha dato il titolo Che fare? un qualche motivo ci sarà pur stato3.

Il rapporto di Lenin con il populismo è tutto tranne che semplice e lineare e non solo per le pur non irrilevanti questioni personali che lo legano alle vicende del populismo. Per un verso il suo giudizio è sicuramente spietato. I populisti si pongono fuori dalla storia idealizzando un mondo che non c’è più e su questo Lenin non si fa remora di affondare i colpi verso il loro corpo teorico, però sarebbe intellettualmente poco onesto limitare a ciò il suo punto di vista. C’è tutto un filone del populismo che, rompendo con la tradizione apolitica del proprio passato, inizia a considerare la dimensione politica come ambito dell’attività rivoluzionaria. Sono gli stessi che iniziano a volgere lo sguardo verso gli operai e le città e che, aspetto che catturò non poco l’interesse di Lenin, avevano dato vita a strutture organizzative ferree, centralizzate e, per i tempi, improntate a un certo grado di professionalità. Strutture che avevano fatto il loro punto di forza nell’attività cospirativa e che, a differenza di tutto il filone del populismo educazionista, ponevano il combattimento politico e militare al centro della loro iniziativa. Lenin coglie con lucidità questa spaccatura dentro il populismo e tanto si distanzia dagli educazionisti, che per molti versi possono considerarsi gli antesignani del menscevismo, quanto apprezza il tratto giacobino degli altri. Nel Che fare? l’eredità di questo populismo troverà uno spazio non secondario e Lenin, quindi, non rinnega la soggettività di questa idea, semmai la plasma all’interno di uno scenario storico che aveva spazzato via quegli orizzonti. Puntualizzare questo aspetto non serve solo e semplicemente a ristabilire una verità storica ma significa ricollocare Lenin dentro quella attualità della rivoluzione che l’ortodossia comunista ha teso a cancellare.

Lenin non ragiona come Struve e neppure come Pleckanov che, per molti versi, è del tutto complementare al primo, ciò che gli interessa è cogliere, dentro il processo storico in atto in Russia, il soggetto della rivoluzione e quel soggetto, il soggetto operaio, deve essere organizzato fin da subito sul terreno dell’insurrezione. In Lenin non ci sono, differenziandosi immediatamente sia da Struve che da Pleckanov, due tempi. Non c’è l’ascesa della borghesia, l’instaurazione del suo dominio e poi, a ciclo concluso, il graduale passaggio verso il socialismo: in lui vi è qui e ora, il partito dell’insurrezione. Perché questo partito possa esistere occorre individuare il soggetto della rivoluzione e questo soggetto è la classe operaia, ma fare questo non è sufficiente, perché limitarsi a ciò significherebbe isolarla e condannarla alla sconfitta. Lenin non è il teorico e l’artefice della purezza operaia, ma piuttosto il filosofo del ruolo direttivo ed egemone di questa classe all’interno del processo rivoluzionario4, della quale lui cristallizza il ruolo egemone e la sua funzione dirigente dentro la rivoluzione al fine di farne avanguardia di questa, ponendola alla testa di tutti i subalterni. In questo modo egli lega la classe operaia al popolo ma non al popolo astratto e astorico dei populisti bensì al popolo concreto che lo sviluppo del capitalismo ha sedimentato.

Tradotto in soldoni, nel contesto, significa principalmente legare la classe operaia alla questione contadina la quale, nel frattempo, ha perso del tutto i tratti idilliaci entro i quali aveva continuato a immaginarla il populismo. Lenin frantuma l’idea astratta di popolo e ne estrae la figura operaia non per isolarla politicamente ma per farla emergere come soggetto della rivoluzione. Fatto ciò, costruita l’autonomia politica e teorica della classe operaia, la riconduce dentro il popolo. La rivoluzione è sempre opera di masse subalterne le quali per forza di cose non sono, e neppure possono essere, solo classe operaia. Ciò è fin troppo chiaro a Lenin il quale non ha mai vagheggiato di una rivoluzione operaia pura, infatti, ciò che gli interessa è costruirne l’autonomia politica in modo da consentirle di svolgere sino in fondo il ruolo direttivo della rivoluzione. Le rivoluzioni, da sempre, mettono in moto milioni di individui ben distanti dall’incarnare classi sociali pure e sono sempre opera di quella moltitudine spuria che è il popolo. Lenin, però, rompe con l’idea di popolo per tornarvi subito dopo ma il suo popolo non avrà più nulla di quello immaginato e caro ai populisti, perché esso è l’insieme di quelle forze concrete e reali che daranno, come il 1905 sarà lì a dimostrare, l’assalto tanto all’autocrazia quanto alla grande borghesia e ai proprietari terrieri che hanno importato nella campagna gli elementi propri dell’agricoltura e dell’allevamento capitalisti. Questo il popolo reale, questa la composizione delle classi che lo sviluppo del capitalismo ha sedimentato.

Mentre menscevichi e borghesia si limitano a stare dentro a questo processo Lenin non si rinchiude in ciò. Vi sta dentro, perché è impossibile ignorare quanto la realtà storica ha sedimentato, ma in contemporanea vi è contro. Dentro questa obiettiva trasformazione storicamente determinante, scaglia il treno della soggettività di classe; allo scientismo e al determinismo e all’immancabile immobilismo di classe che si porta appresso, quello dei menscevichi e dei borghesi che arrivano persino a patteggiare con l’autocrazia pur di dar corso allo sviluppo delle forze produttive, contrappone la variabile soggettiva della lotta di classe. La storia è storia di lotte di classe, solo il risultato di questo conflitto determinerà uno scenario storico–politico piuttosto che un altro5. Si sta sicuramente dentro, ma per essere altrettanto sicuramente contro. La dialettica storica è la dialettica del conflitto, la guerra di classe la sua cristallizzazione.

Proviamo a tradurre il paragrafo sul presente. Da tempo siamo di fronte a qualcosa che ha trasformato il mondo in maniera sicuramente non meno radicale di quanto lo sviluppo del capitalismo avesse comportato per l’impero zarista. La globalizzazione e tutto ciò che si è portata dietro ha decisamente posto in archivio il mondo di ieri. Le conseguenze di ciò sono immense e non possono essere certo trattate in quattro battute, tuttavia è possibile evidenziarne alcuni aspetti che, almeno per i nostri mondi, si mostrano particolarmente laceranti. Parliamo dell’Europa occidentale e della sua storia più recente. Ciò che appare per prima cosa evidente è l’eclissarsi di quella particolare forma statuale nota come stato/nazione e di quel modello sociale che, per gran parte del ‘900 l’ha accompagnato, il welfare state. Tutte le classi sociali sono state investite da questo vortice il quale, in poche battute, ha detto che il mondo di ieri non esiste più. L’era globale non è un semplice passaggio interno a un modello, non è una pallida riforma, ma una rivoluzione, un salto epocale a tutti gli effetti. Nulla è più come prima. Lo stare dentro e contro tornano a essere il cuore del dibattito politico contemporaneo. Nessuno può esimersi da una presa di posizione in merito. Alla luce di ciò, una rilettura del Lenin di Lukács si mostra più che attuale.

Di fronte a quanto accade, pur con tutte i difetti del caso, sembra di risentire le medesime argomentazioni sorte in Russia di fronte all’irrompere del capitalismo. Da una parte i populisti che difendono strenuamente il mondo di ieri e che, in contemporanea, tendono a rendere eterni i soggetti sociali di quell’epoca; dall’altra i fautori del progresso che cantano le lodi di un capitalismo definitivamente liberatosi da ogni vincolo. Tutto, come allora, sembra compresso entro questa strettoia. A ben vedere anche le argomentazioni di ieri, pur con tutte le tare del caso, non sono tanto distanti da quelle del presente: la difesa del passato, per di più infarcito di narrazioni al limite del mitologico, contro il, non meno fantasioso, divenire radioso di una modernità emancipata da ogni vincolo. In pratica la contrapposizione tra la difesa dei proletariati nazionali europei e di quella particolare forma–stato all’interno della quale erano ascritti e tra l’imporsi dell’individuo completamente individualizzato e portatore di non secondari diritti civili e una forma statuale emancipatasi da ogni funzione sociale. Uno stato snello il cui compito si limita a compiti militari e di polizia senza alcuna intromissione nella vita degli individui. Comunitaristi da una parte, liberalisti dall’altra, popolo contro individuo, stato contro mercato e così via. I modi in cui questa apparente strettoia sembra porsi rimandano a un aut aut che non ammette vie di fuga. Lo stesso dibattito politico contemporaneo sintetizzabile in sovranisti ed europeisti sembrerebbe inchiodare la realtà entro le strettoie di queste forche caudine. Forse non è neppure un caso che il termine populismo sia tornato prepotentemente in auge.

Esattamente dentro questo passaggio, invece, è possibile cogliere l’attualità del nostro testo. Qui, sulla scia di Lukács, è possibile recuperare per intero il metodo di lettura storico proprio di Lenin rompendo in tal modo l’apparente orizzonte obbligato del presente. Ma ciò cosa comporta? Da dove cominciare? Dobbiamo e soprattutto è possibile essere contro la globalizzazione? Dobbiamo cullarci nel presunto idilliaco mondo di ieri, fantasticandone il restauro o bisogna pensare l’insurrezione nel presente? Ma, ancor prima, sarebbe il caso di chiederci cosa hanno comportato le trasformazioni in atto nei confronti della classe e della sua composizione. In altre parole: chi è il potenziale seppellitore dell’ordinamento capitalistico contemporaneo? Ecco che, di fronte a queste domande, il quadro della realtà storica assume tratti meno obbligati di quanto l’aut aut solitamente presentato ci mostra. L’espandersi globale del mercato sta, di fatto, uniformando sul piano internazionale una condizione proletaria e subalterna impensabile solo poco tempo prima. L’era globale ha fatto saltare la tradizionale suddivisione tra primo e terzo mondo. Oggi questi due ambiti non sono stati azzerati ma, si potrebbe dire, universalizzati. Le condizioni proprie di quest’ultimo sono state importate e poste a regime nel vecchio primo mondo mentre, forme di questo, sono ampiamente presenti nell’ex terzo mondo. La globalizzazione, come è stato ormai ampiamente argomentato (e a ciò necessariamente rimandiamo) ha dato origine a società postcoloniali dove la forma colonia è diventata parte costitutiva e costituente delle stesse vecchie metropoli del primo mondo6. Ciò ha dato vita alla formazione di masse subalterne e proletarie transnazionali omogeneizzate da condizioni di vita e di lavoro sempre più identiche.

Questo proletariato internazionale, queste masse subalterne, sono il popolo concreto con il quale abbiamo a che fare, questo, e non altri, sono i potenziali affossatori del capitalismo dell’era globale. Questo proletariato e questo popolo non ha alcun motivo per guardare con una qualche nostalgia l’epopea passata. Queste masse senza volto non hanno, nel presente, nulla da difendere ma solo da spezzare le catene che le imprigionano. Esattamente a partire da questo dato di fatto il partito può prendere le forme dell’insurrezione del presente, qui e solo qui va posto il Lenin del e nel presente. Dentro questo passaggio si misura l’attualità del metodo leniniano, quindi del partito dell’insurrezione.

(3continua)


  1. Per una buona discussione di ciò si vedano: P. P. Poggio, Marx, Engels e la rivoluzione russa, in Quaderni di Movimento operaio e socialista, n. 1, Edizioni Centro Ligure di Storia Sociale, Genova 1974; A. Walicki, Marxisti e populisti: il dibattito sul capitalismo, Jaca Book, Milano 1973.  

  2. Bisogna, infatti, non limitarsi, come hanno fatto i deterministi, a considerare il testo analitico Lo sviluppo del capitalismo in Russia, ma guardare all’insieme della produzione teorico–politica leniniana in merito allo sviluppo del capitalismo. Lì Lenin mostra chiaramente come il determinismo sia qualcosa di assolutamente distante da lui poiché, ciò che realmente interessa a Lenin, è organizzare gli affossatori del capitalismo non cantare le lodi di questo. È la soggettività della classe dentro lo sviluppo capitalista che interessa Lenin e la possibilità che, dentro questo processo storico–oggettivo, si aprono per l’emancipazione dei subalterni. Il Che fare? di ciò ne condensa, a ben vedere, la sintesi ma altri testi, come Le caratteristiche del romanticismo economico; Quale eredità respingiamo, in V. I. Lenin, Opere, vol. 2, Edizioni Rinascita, Roma 1954 sono altrettanto utili al fine di sottrarre Lenin a una lettura oggettivista e determinista.  

  3. Come risaputo Lenin riprese per il suo testo il titolo del romanzo populista di N. D. Černyševskij, Che fare?, Garzanti, Milano 1986. Con ciò Lenin volle dare una palese testimonianza di come, mentre si rigettava tutta una tradizione populista del tutto obsoleta, dall’altra se ne riprendevano le migliori qualità rivoluzionarie. Quella di un Lenin del tutto estraneo al mondo e alla tradizione populista è una leggenda storica dovuta solo all’imporsi dell’oggettivismo e del determinismo dentro il marxismo. Su questo aspetto l’interessante Introduzione di Vittorio Strada al Che fare?, Einaudi, Torino 1970.  

  4. Esattamente qua si configura la frattura insanabile con il menscevismo di sinistra di Trockij e la sua Rivoluzione permanente, Torino, Einaudi 1967. Trockij è il vero assertore della rivoluzione operaia pura e ciò non gli farà mai comprendere la relazione complessa e contraddittoria che necessariamente si instaura tra classe operaia e masse subalterne. Le avvisaglie di ciò si erano già mostrate nella sua critica al giacobinismo del Che fare?, Red Star Press, Roma 2022, quando rimprovera a Lenin il legame con l’esperienza giacobina non comprendendo che, proprio dentro quell’esperienza, era compresa in potenza la moderna rivoluzione delle masse subalterne. Come i populisti si inventavano il mondo di ieri, Trockij finisce con l’inventarsi il mondo di oggi e, con ciò, finisce con il perdere la concretezza storica entro la quale si giocano i conflitti delle classi.  

  5. La linea di condotta tenuta da Lenin nel corso degli eventi del 1905 è, al proposito, quanto mai esemplificativa. Il modo e le motivazioni con le quali affronta e argomenta la possibile partecipazione dei bolscevichi a un governo rivoluzionario ne rappresentano un’eccellente cristallizzazione.  

  6. Cfr.: S. Mezzadra, B. Neilson, Confini e frontiere. La moltiplicazione del lavoro nel mondo globale, Il Mulino, Bologna 2013.  

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György Lukács, un’eresia ortodossa / 2 — Affinità elettive https://www.carmillaonline.com/2024/11/24/gyorgy-lukacs-uneresia-ortodossa-2-affinita-elettive/ Sun, 24 Nov 2024 21:00:22 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=85181 di Emilio Quadrelli

Se decliniamo, infatti, il tema della alienazione dentro l’ambito coloniale avremo la netta sensazione di come le argomentazioni lukácsiane abbiano ben poco di datato, e ancor meno di erudito, ma colgano esattamente la questione essenziale di un’epoca. Ciò apre qualcosa di più che un semplice ponte tra Lukács e Fanon poiché, tra i due, le affinità non sembrano essere secondarie. Il fatto che, nei nostri mondi, questa affinità non sia stata colta mostra, più che una disattenzione, la diffidenza che la stessa intellettualità radicale, con un occhio però sempre attento ai dispositivi posti in campo dall’ortodossia, abbia [...]]]> di Emilio Quadrelli

Se decliniamo, infatti, il tema della alienazione dentro l’ambito coloniale avremo la netta sensazione di come le argomentazioni lukácsiane abbiano ben poco di datato, e ancor meno di erudito, ma colgano esattamente la questione essenziale di un’epoca. Ciò apre qualcosa di più che un semplice ponte tra Lukács e Fanon poiché, tra i due, le affinità non sembrano essere secondarie. Il fatto che, nei nostri mondi, questa affinità non sia stata colta mostra, più che una disattenzione, la diffidenza che la stessa intellettualità radicale, con un occhio però sempre attento ai dispositivi posti in campo dall’ortodossia, abbia continuato a nutrire verso tutto ciò che continuava a essere in odor di eresia e, aspetto forse ancora più significativo, verso quella teoria politica, come nel caso di Fanon, che nel marxismo ortodosso individuava un non secondario tratto colonialista. Mentre l’oggettivismo imperante dentro il mondo comunista non poteva che essere un elemento di rafforzamento dello status quo, tanto a ovest come a est, l’umanesimo marxiano di Lukács apriva verso quel mondo colonizzato il quale, proprio nei suoi aspetti più radicali e rivoluzionari, si appropriava interamente della sovversione marxiana giovanile. Va da sé che, in un simile contesto, l’attualità della rivoluzione non può che essere l’attualità di una prassi. La riscoperta di Lukács coincide con la riscoperta della attualità della rivoluzione e di quel passaggio dalla preistoria alla storia che sempre fa da sfondo all’insorgenza dei subalterni. In fondo quel tratto escatologico che aveva contrassegnato la rivista eretica “Kommunismus” è proprio di tutte le ere rivoluzionarie, il riscatto è sempre alla fonte della lotta di classe. Ma torniamo al nostro pamphlet.

Il testo su Lenin è tanto più stupefacente se teniamo a mente che, nel momento in cui viene scritto, l’autore è ben distante dal conoscere gran parte della produzione leniniana, della quale ha, però, una profonda conoscenza empirica. È un Lenin conosciuto nella prassi, dentro quel turbinio di fatti che il treno della rivoluzione scandiva a ogni suo passaggio. Un treno dove le fermate e le ripartenze e la stessa velocità di crociera non poteva essere predeterminata. Solo il fuoco della lotta di classe, di tutte le classi sociali in lotta, offriva il combustibile alla locomotiva. Guerra imperialista, crisi, insurrezione popolare, ancora guerra imperialista, crisi, insurrezione proletaria e contadina, presa del Palazzo d’Inverno, vittoria della rivoluzione, sua crisi e arretramento, dispiegamento della guerra civile, costruzione dell’esercito rosso, vittoria sulla controrivoluzione interna e accerchiamento imperialista sono le varie stazioni che accompagnano il percorso per nulla lineare e scontato del treno bolscevico. È il Lenin che si muove dentro questo percorso, il vero ispiratore del testo lukácsiano; il pamphlet su Lenin è il pamphlet della e sulla prima rivoluzione immediatamente internazionale.

Sono anni in cui rivoluzione e controrivoluzione si affrontano senza più alcuna sorta di mediazione. La gurra civile internazionale è la cornice concreta dell’epoca.1. Per quattro lunghi anni l’ottobre ha dovuto sostenere un conflitto armato contro la reazione bianca e l’intervento imperialista internazionale. La rivoluzione ha conosciuto insieme vittorie momentanee, accompagnate da catastrofiche sconfitte. La rivoluzione, purtroppo, non si è diffusa, contrariamente a quanto fatto sperare inizialmente. La marcia verso Varsavia è stata interrotta, la repubblica sovietica in Ungheria è stata spazzata via, la socialdemocrazia tedesca ha liquidato manu militari l’insorgenza proletaria, i pur eroici tentativi austriaci non hanno avuto seguito, mentre in Italia la sconfitta operaia spalanca le porte al fascismo. Sono anni contrassegnati da una frenetica attività dove, per i militanti rivoluzionari, la linea di confine tra la vita e il patibolo è quanto mai sottile2 e Lukács è attore protagonista di tutto ciò.

Il testo su Lenin, pertanto, non può che risentire e assumere interamente lo spirito del tempo. Paragrafo dopo paragrafo Lukács affronta tutte le questioni che attraversano il movimento rivoluzionario riportando continuamente il concreto dentro l’astrazione. Per questo, alla fine, il pamphlet risulta un testo teoricamente denso dove, in ogni pagina, è possibile cogliere, oltre all’immensa erudizione dell’autore, l’insieme di domande che, volta per volta, il movimento rivoluzionario è costantemente obbligato a porsi. Di più; nel breve saggio Lukács va, senza fronzoli di sorta, al cuore delle questioni che, non solo contestualmente, il movimento comunista si trova ad affrontare. Composizione di classe, forma partito, la questione dello stato, la cornice politica propria dell’imperialismo e via dicendo lo rendono un testo che ha ben poco di datato. Consegnare e rinchiudere questo saggio nell’ipotetico scaffale dei pensatori del passato come tributo al mondo di ieri significa non avere compreso nulla di Lukács e ancor meno del suo Lenin (e in fondo di Lenin stesso), ed è forse qui che la questione lascia i panni della schermaglia teorica per farsi battaglia politica a tutto tondo del e sul presente. Qui si pone la rigida contrapposizione tra l’attualità della rivoluzione e i suoi becchini. Qui si pone la drastica cesura tra la soggettività dei rivoluzionari e l’oggettivismo e il determinismo dei socialdemocratici di ieri e di oggi. Qui si pone la differenza tra l’essere e lo stare sul filo del tempo della rivoluzione e l’assunzione del tempo reificato del capitale come unica dimensione possibile.

In coerenza con ciò questo breve saggio cercherà di esserne all’altezza. Paragrafo per paragrafo si proverà così a stare sul filo del tempo nel tentativo di cogliere nel presente, quanto la complessità del testo è in grado di suggerirci. Nessun accademismo comunista ma una guida per l’azione. Ci sembra infatti che, pur con le ovvie tare del caso, nel mondo attuale le questioni poste da Lukács siano tutt’altro che datate. Qual è il contesto storico in cui ci troviamo? Come si definisce la classe nel presente e in che modo questa è in grado di farsi egemone nei confronti di tutti i subalterni, cristallizzando in tal modo attorno a sé il popolo nella sua concretezza? Quale forma organizzativa deve assumere la soggettività politica nel presente. In che modo l’imperialismo si è trasformato, passando per la centralità della questione dello stato che, detto per inciso, è stata a lungo accantonata dai movimenti rivoluzionari, sino ad arrivare alla complessità che gli scenari geopolitici contemporanei pongono di fronte ai movimenti di classe? Sono tutti temi che mostrano quanto attuale sia la ripresa tra le mani di questo testo. La sua rilettura parte da questa consapevolezza, nell’augurio che tutto ciò possa contribuire a dare qualche traccia di risposte agli interrogativi del presente. Interrogativi che non poco hanno a che vedere con la stringata premessa attraverso cui Lukács presenta il suo Lenin.

Il saggio apre con un breve paragrafo introduttivo tutto incentrato sull’attualità della rivoluzione in quanto unità di misura della fase storica. All’inizio può apparire un punto di vista tanto banale quanto generico: Lenin, cioè, si sarebbe limitato a dire e osservare che il contesto storico in cui vive è gravido di rivoluzioni. A una lettura solo poco più attenta le cose si mostrano in ben altro modo e dietro quella apparente banalità è racchiuso tutto il senso cristallino della dialettica storico materialista interamente restaurata. Proviamo a darne ragione. Lukács, non a caso, apre il suo Lenin con una breve quanto mai densa nota epistemologica. Lenin è il restauratore della teoria marxiana che la Seconda Internazionale ha non tanto modificato e rivisto, ma completamente mistificata. Cosa ha fatto in sostanza la Seconda Internazionale? Una cosa molto semplice: ha scorporato Marx e la filosofia della prassi in un insieme di categorie scientifiche proprie della modellistica nella quale la borghesia cataloga il sapere. Così, volta per volta, Marx si fa filosofo, sociologo, storico, economista mentre, del Marx politico, si tende a eluderne il portato. Operazione, quest’ultima, sicuramente sensata poiché il Marx politico rende pressoché impossibile la precedente classificazione3.

Scomponendo e ascrivendo Marx nei vari ambiti disciplinari, di fatto, lo si ascrive dentro le retoriche proprie del sapere della borghesia e quindi lo si azzera. In questo modo l’inizio della rivoluzione storica marxiana presente sin dalla nota tesi numero undici delle Tesi su Feuerbach: “I filosofi hanno soltanto diversamente interpretato il mondo ma si tratta di trasformarlo.”, è ridotta alla stregua di un curioso aneddoto. Con ciò si oscura l’inizio della rivoluzione della quale, la filosofia della prassi, ne è tanto l’incipit quanto il programma. La Seconda Internazionale mentre da un lato assumeva il marxismo come sua dottrina politica, dall’altro lo collocava nel tranquillizzante ambito della storia delle idee e, con ciò, lo depurava del suo portato storico e sovversivo. Ne esorcizzava la rottura filosofica che, alla scala della storia, incarna l’irrompere politico di una classe in guerra aperta e totale contro l’ordine esistente. Non aveva avuto, forse, un ruolo simile la filosofia dei Lumi nei confronti del mondo antico? Non aveva forse questa scompaginato complessivamente tutta la cornice filosofica del mondo antico? Con la decapitazione del Re non veniva forse decapitato tutto l’ordine discorsivo di un’era? La filosofia della Grande Rivoluzione non si contrapponeva come insieme di saperi ad altri saperi ma rompeva con tutto un modello epistemico. Tra la vecchia e la nuova filosofia non vi era uno scontro di conoscenza bensì uno scontro di potere. La ghigliottina risolse la diatriba. Attraverso quel passaggio la borghesia iniziò a plasmare il mondo a sua immagine e somiglianza4.

La filosofia della prassi, alla scala della storia, si pone come la filosofia della nuova classe, la filosofia del proletariato. Il suo compito non è competere con la storia, l’economia, la filosofia della borghesia ma esattamente spezzare il dominio di queste discipline. Se Marx si fosse pensato in veste di economista avrebbe potuto titolare il suo capolavoro come critica dell’economia politica? Avrebbe potuto criticare, dove critica significa sparare ad alzo zero, l’economia politica se quella, ovvero la scienza economica, fosse stata veramente la sua dimensione? Se Il capitale, come l’ortodossia socialdemocratica prima e quella comunista dopo hanno continuamente sostenuto, fosse stata un’opera di scienza economica è immaginabile che Marx si sarebbe preso così gioco degli economisti e, per farlo, avrebbe utilizzato un’arma così poco scientista ed economica come la dialettica5? Evidentemente no. Non per caso Marx pone l’accento sulla critica per enfatizzare esattamente il senso della sua operazione. Paradossalmente, trasformare il marxismo in una scienza, è quanto di meno ortodosso si possa fare poiché il problema di Marx non è farsi scienziato ma critico radicale di quello scientismo che è stato posto a fondamento dell’ordine capitalista. La presunta neutralità della scienza è una leggenda che socialdemocrazia e ortodossia comunista hanno coltivato proprio contro Marx.

Qualcosa di ancor più chiaro lo troviamo nella nota asserzione: “Noi (Engels e Marx) riconosciamo una sola scienza: la scienza storica”6. Cosa c’è di meno storico, nel senso di comunanza con la disciplina storica di questa asserzione che, in una sola frase, racchiude un mondo? La scienza storica di Marx ed Engels è la scienza della lotta di classe, la scienza della soggettività di classe. Potrà mai questa essere tranquillamente riposta nell’ambito delle discipline storiche? Evidentemente no poiché, questa scienza storica, non è altro che la scienza della rivoluzione. Non una filosofia tra le molte, non una scuola storica tra le altre, non una teoria economica tra le tante, bensì la critica storico–politica di questi saperi. La critica sovversiva e unitaria della società borghese e dei suoi saperi codificati questa è la filosofia della prassi. Tutto ciò è stato bellamente rimosso dalla Seconda Internazionale in un’operazione di addomesticamento del marxismo tuttora in atto. Lenin rompe esattamente tutto ciò restituendo alla teoria marxiana la sua funzione di radicale rottura storica. Se non si comprende questa operazione rimane impossibile accostarsi a Lenin. Questa è la puntualizzazione e la premessa indispensabile che, come corposo incipit, è posto da Lukács al suo Lenin.

Ma cosa c’entra la dialettica storico–materialista con l’attualità della rivoluzione? Perché Lenin li lega in maniera indissolubile? Perché proprio su ciò Lukács pone un’attenzione quasi maniacale? Perché il metodo, quindi il piano astratto della teoria, ha così tanto a che fare con il concreto storico e quindi con la politica rivoluzionaria? Per un motivo tanto semplice quanto complesso: il metodo consente di leggere la totalità del processo storico e ricavare pertanto ciò che l’analisi separata degli eventi non è assolutamente in grado di cogliere ed è qui che Lukács evidenzia il dato centrale della restaurazione leniniana quella di, grazie alla dialettica storico–materialista, non soffermarsi a quel post festum che la dialettica hegeliana aveva riconosciuto come limite insormontabile della conoscenza del divenire ma di saper cogliere la tendenza. Esattamente dentro questa relazione, lettura dialettico–materialista della storia e la totalità degli eventi storici che si stanno concretamente evidenziando, Lenin coglie il senso dell’epoca, ovvero l’attualità della rivoluzione. Può farlo solo perché, a differenza dei più, è in grado di maneggiare sino in fondo la scienza storica marxiana. A partire da questa indispensabile premessa si snoda l’intero testo lukácsiano. La capacità di cogliere, in ogni circostanza, la totalità del processo in corso è quanto nelle pagine del Lenin verrà continuamente posto in evidenza. Perché battere così tanto su questa premessa filosofica, perché partire dalla necessità di ribadire la totalità come questione centrale della filosofia della prassi e quindi strumento indispensabile alla messa in forma della tattica di partito? Perché è solo questa che consente a Lenin di sovrastare tutti gli altri socialdemocratici i quali, per un verso o per l’altro, avevano amputato il marxismo proprio della totalità.

Scindere il marxismo in più ambiti disciplinari ha comportato perdere di vista il quadro d’insieme e, con questa, la possibilità di cogliere la tendenza. Scindere il marxismo in tanti particolari ha comportato l’impossibilità di leggere i fatti nella loro totalità, di legarli tra loro e comprenderne ciò che è in loro oltre il puro aspetto fenomenico. In questo modo il marxismo da scienza della rivoluzione diventa una delle tante scienze politiche e sociali le quali, a partire dalla loro particolarità, analizzano dei singoli fatti senza essere in grado di legarli tra loro. Un sociologo analizza il conflitto di una lotta ma, se rimane un sociologo, non è in grado di leggere che cosa, in potenza, quella lotta cela; un economista analizza una crisi ma non ne coglie la relazione con gli effetti politici che questa comporta; un politico osserva la guerra dal punto di vista della geopolitica ma non ne vede le forze sociali che quella guerra è in grado di determinare e mettere in movimento e così via. L’ostilità che la Seconda Internazionale nutre verso la rivoluzione è esattamente il frutto dell’impotenza teorica propria del riformismo. Per i più Lenin è solo un visionario e forse non sbagliano poiché lui è il solo ad avere una visione marxiana della realtà storica e quindi la capacità di leggere i fatti nel loro insieme invece che tenerli rigidamente separati. Al riformismo così attento ai fatti, così pragmatico e realista questi finiscono con il non raccontare nulla mentre, alla visionaria totalità leniniana, i fatti raccontano per intero il loro segreto: l’attualità della rivoluzione.

Al proposito non vi è molto da chiosare se non che oggi è proprio questa incapacità nel saper cogliere la totalità che si mostra come grande limite del movimento rivoluzionario. Senza teoria rivoluzionaria, niente movimento rivoluzionario, in fondo si torna sempre lì e quanto invece la teoria rivoluzionaria fosse costantemente a mente nell’agire di Lenin l’esposizione dei paragrafi del pamphlet ne offrirà una felice constatazione. A noi non resta che, sulla scia del Lenin di Lukács, cercare di riappropriarci della totalità ma ciò non fa che confermare quanto l’inattualità di questo testo sia drasticamente attuale e come risulti impossibile archiviarlo come altri hanno pensato di fare7, forse per non dover fare nuovamente i conti con l’attualità della rivoluzione, nel polveroso museo della storia comunista.

(2continua)


  1. Ciò è molto ben argomentato in, C., Schmitt, Teoria del partigiano, Adelphi, Milano 2005.  

  2. Su ciò si veda in particolare, A. V. Tiskov, Dzerzinskij, Il giacobino proletario di Lenin. Una vita per il comunismo, Editore Zambon, Milano 2012.  

  3. Eppure, questo è il solo e vero Marx del quale si possa parlare. Marx è la politica della rivoluzione che non può essere scomposta dentro gli ordinamenti e le classificazioni del sapere borghese. La stessa filosofia marxiana è tutto tranne che una filosofia bensì il superamento stesso di questa.  

  4. Tutto ciò e molto ben descritto dal grande storico controrivoluzionario H. Taine, Le origini della Francia contemporanea. L’antico regime, Adelphi, Milano 2008.  

  5. Non è certo un caso che per il marxismo ortodosso e scientista ne Il capitale la dialettica occupi uno spazio estremamente limitato ossia quel paragrafo relativo al carattere di feticcio della merce dove, in una sorta di sfizio intellettuale, Marx avrebbe preso gusto a civettare con Hegel.  

  6. F. Engels, K. Marx, L’ideologia tedesca, Editori Riuniti, Roma 2018.  

  7. Significativa al proposito l’Introduzione attraverso la quale viene presentato questo testo nell’edizione dei tipi della Pgreco del 2017. Qua il testo lukacsiano è ridotto a puro cimelio storico una sorta di avventura del pensiero senza alcuna ricaduta concreta sul presente.  

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Il più grande falò di libri che la Storia abbia mai conosciuto https://www.carmillaonline.com/2024/11/15/il-piu-grande-falo-di-libri-che-la-storia-abbia-mai-conosciuto/ Fri, 15 Nov 2024 06:00:37 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=85197 di Marco Sommariva

Nel libro Le avventure di Pinocchio. Storia di un burattino, romanzo di Carlo Collodi del 1881, si racconta di un ragazzo che scappa, che si lascia abbagliare dagli incanti e crede alle illusioni; pagine non accomodanti che, attraverso il protagonista, ci preparano alle miserie e alle difficoltà della vita, checché ci racconti la Disney.

Quello che accade a Pinocchio e a chi l’ha messo al mondo, Geppetto, è terrificante; per esempio, entrambi finiscono in prigione seppur innocenti: prima il falegname – “il povero Geppetto era condotto senza sua colpa in prigione” – e poi il burattino: “Il giudice [...]]]> di Marco Sommariva

Nel libro Le avventure di Pinocchio. Storia di un burattino, romanzo di Carlo Collodi del 1881, si racconta di un ragazzo che scappa, che si lascia abbagliare dagli incanti e crede alle illusioni; pagine non accomodanti che, attraverso il protagonista, ci preparano alle miserie e alle difficoltà della vita, checché ci racconti la Disney.

Quello che accade a Pinocchio e a chi l’ha messo al mondo, Geppetto, è terrificante; per esempio, entrambi finiscono in prigione seppur innocenti: prima il falegname – “il povero Geppetto era condotto senza sua colpa in prigione” – e poi il burattino: “Il giudice era uno scimmione della razza dei Gorilla (…). Pinocchio, alla presenza del giudice, raccontò per filo e per segno l’iniqua frode, di cui era stato vittima; dette il nome, il cognome e i connotati dei malandrini, e finì col chiedere giustizia. Il giudice lo ascoltò con molta benignità: prese vivissima parte al racconto; s’intenerì, si commosse: e quando il burattino non ebbe più nulla da dire, allungò la mano e suonò il campanello. A quella scampanellata comparvero subito due can mastini vestiti da gendarmi. Allora il giudice, accennando Pinocchio ai gendarmi, disse loro: – Quel povero diavolo è stato derubato di quattro monete d’oro: pigliatelo dunque e mettetelo subito in prigione. Il burattino, sentendosi dare questa sentenza fra capo e collo, rimase di princisbecco e voleva protestare: ma i gendarmi, a scanso di perditempi inutili, gli tapparono la bocca e lo condussero in gattabuia”.

Passaggi che, a distanza di quasi un secolo e mezzo, continuano a parlare di noi, di quello che ci sta intorno: è di qualche mese fa la notizia della liberazione di un uomo della provincia di Cagliari di cinquantotto anni – trentadue passati dietro le sbarre –, condannato all’ergastolo perché accusato di triplice omicidio grazie a un testimone che mentì su istigazione di un agente. E non è un episodio: in Italia, nel 2022 sono stati più di cinquecento i casi di ingiuste detenzioni ed errori giudiziari, mentre dal 1991 al 2022 gli errori giudiziari hanno coinvolto ben trentamila persone,

E chissà che mentre si sbattono in cella migliaia di innocenti, non si lascino in giro volpi, gazze ladre e uccellacci di rapina: “arrivarono a una città che aveva nome “Acchiappacitrulli”. Appena entrato in città, Pinocchio vide tutte le strade popolate di cani spelacchiati, che sbadigliavano dall’appetito, di pecore tosate che tremavano dal freddo, di galline rimaste senza cresta e senza bargigli, che chiedevano l’elemosina d’un chicco di granoturco, di grosse farfalle, che non potevano più volare, perché avevano venduto le loro bellissime ali colorate, di pavoni tutti scodati, che si vergognavano di farsi vedere, e di fagiani che zampettavano cheti cheti, rimpiangendo le loro scintillanti penne d’oro e d’argento, ormai perdute per sempre. In mezzo a questa folla di accattoni e di poveri vergognosi passavano di tanto in tanto alcune carrozze signorili con dentro o qualche volpe, o qualche gazza ladra o qualche uccellaccio di rapina”.

Le avventure di Pinocchio. Storia di un burattino non è un romanzo ubbidiente, addomesticato, quindi non è un libro noioso. Dà ottimi spunti di riflessione: “non è il vestito bello che fa il signore, ma è piuttosto il vestito pulito. Oppure Chi ruba il mantello al suo prossimo, per il solito muore senza camicia”. Offre persino uno slogan su cui, magari, si potrebbe anche iniziare a costruire la nostra ribellione quotidiana: “quando si nasce Tonni, c’è più dignità a morir sott’acqua che sott’olio!…”

In un Paese come il nostro, pieno di centri commerciali e supermercati, i cui abitanti preferiscono di gran lunga spendere cinquanta euro in un pranzo che non cinque per un libro, dove ogni canale televisivo ha nel proprio palinsesto almeno un programma dedicato alla cucina, Collodi ci ricorda chi eravamo, da dove veniamo: “Il povero Pinocchio corse subito al focolare, dove c’era una padella che bolliva e fece l’atto di scoperchiarla, per vedere che cosa ci fosse dentro, ma la pentola era dipinta sul muro. Figuratevi come restò. (…) Allora si dette a correre per la stanza e a frugare per tutte le cassette e per tutti i ripostigli in cerca di un po’ di pane, magari di un po’ di pan secco, d’un crosterello, d’un osso avanzato al cane, d’un po’ di polenta muffita, d’una lisca di pesce, d’un nocciolo di ciliegia, insomma di qualche cosa da masticare: ma non trovò nulla, il gran nulla, proprio nulla. E intanto la fame cresceva, e cresceva sempre: e il povero Pinocchio non aveva altro sollievo che quello di sbadigliare: e faceva degli sbadigli così lunghi, che qualche volta la bocca gli arrivava fino agli orecchi. E dopo avere sbadigliato, sputava: e sentiva che lo stomaco gli andava via. (…) Oh! che brutta malattia che è la fame!”

Fame dettata dalla miseria. Quella miseria palpabile anche ai bambini, quella che percepivi in casa quando, tra la fine degli anni Sessanta e la metà dei Settanta, si lasciava da pagare nei negozi di alimentari e si comprava a rate il giubbotto che ti avrebbe riparato dal freddo per almeno i dieci anni seguenti, sempre ammesso non ti fosse toccato quello dismesso da tuo fratello più grande.

“soggiunse il burattino […]
– Mi manca l’Abbecedario.
– Hai ragione: ma come si fa per averlo?
– È facilissimo: si va da un libraio e lo si compra.
– E i quattrini?…– Io non ce l’ho.
– Nemmeno io – soggiunse il buon vecchio, facendosi triste.

E Pinocchio, sebbene fosse un ragazzo allegrissimo, si fece triste anche lui: perché la miseria, quando è miseria davvero, la intendono tutti: anche i ragazzi”.

Quella miseria che tra la fine degli anni Sessanta e la metà dei Settanta abbiamo vissuto in tanti, era frutto di un sistema che riusciva a far lavorare sedici, diciotto ore al giorno moglie e marito – lei correndo da una conca di bucato lavato a mano al rammendo di qualsivoglia indumento o tessuto di casa; lui spaccandosi la schiena con due giornate consecutive di lavoro, solitamente la seconda in nero –, ma senza mai permettere loro d’aver in tasca un quattrino da spendere per un cinema o un giro di giostra.

“Mangiafuoco chiamò in disparte Pinocchio e gli domandò:
– Come si chiama tuo padre?
– Geppetto.
– E che mestiere fa?
– Il povero.
– Guadagna molto?
– Guadagna tanto, quanto ci vuole per non aver mai un centesimo in tasca”.

Altro romanzo italiano datato, non accomodante, imperdibile, capace di prepararci alle miserie e alle difficoltà della vita è Sull’oceano di Edmondo De Amicis: “Quando arrivai, verso sera, l’imbarco degli emigranti era già cominciato da un’ora […]. La maggior parte, avendo passato una o due notti all’aria aperta, accucciati come cani per le strade di Genova, erano stanchi e pieni di sonno. Operai, contadini, donne con bambini alla mammella, ragazzetti […] passavano, portando quasi tutti una seggiola pieghevole sotto il braccio, sacche e valigie d’ogni forma alla mano o sul capo, bracciate di materasse e di coperte, e il biglietto col numero della cuccetta stretto fra le labbra. Delle povere donne che avevano un bambino da ciascuna mano, reggevano i loro grossi fagotti coi denti […] molti erano scalzi, e portavan le scarpe appese al collo. Di tratto in tratto passavano tra quella miseria signori vestiti di spolverine eleganti, preti, signore con grandi cappelli piumati, che tenevano in mano o un cagnolino, o una cappelliera, o un fascio di romanzi francesi illustrati, dell’antica edizione Lévy”.

Questo romanzo, edito nel 1889, ha l’ambizione di raccontare le violenze e le ingiustizie della vita affrontando il tema dell’emigrazione dall’Italia – sì, avete letto bene, dall’Italia – un fenomeno di dimensioni tali da incidere profondamente, tra Ottocento e Novecento, sulle sorti demografiche ed economiche del nostro Paese.

Ditemi voi se non riconoscete in questo passaggio ciò che quotidianamente vediamo alla televisione, mentre ci gustiamo il piatto suggerito il giorno prima dal nostro MasterChef preferito: “lo spettacolo eran le terze classi, dove la maggior parte degli emigranti, presi dal mal di mare, giacevano alla rinfusa, buttati a traverso alle panche, in atteggiamenti di malati o di morti, coi visi sudici e i capelli rabbuffati, in mezzo a un grande arruffio di coperte e di stracci. Si vedevan delle famiglie strette in gruppi compassionevoli, con quell’aria d’abbandono e di smarrimento, che è propria della famiglia senza tetto […]. Oppure: […] il peggio era sotto, nel grande dormitorio, di cui s’apriva la boccaporta vicino al cassero di poppa: affacciandovisi, si vedevano nella mezza oscurità corpi sopra corpi, come nei bastimenti che riportano in patria le salme degli emigrati chinesi; e veniva su di là, come da uno spedale sotterraneo, un concerto di lamenti, di rantoli e di tossi, da metter la tentazione di sbarcare a Marsiglia”.

Sull’oceano è un libro feroce, indomabile: “Il prete lungo era un napoletano, stabilito da circa trent’anni nell’Argentina, dove ritornava dopo un breve viaggio in Italia, fatto, diceva (ma era dubbio), per vedere il Papa. […] Si capiva che doveva aver curato altrettanto la borsa propria che l’anima altrui, facendosi pagar matrimoni e sepolture a prezzi d’affezione, tant’è vero che si vantava francamente d’aver messo insieme un buon gruzzolo, e non parlava d’altro che di pesos […]”.

Un libro nient’affatto consolatorio visto che ci ricorda che, quasi un secolo e mezzo prima, già esistevano esseri che s’arricchivano su miserie e disperazioni altrui: Non mi potevo levar dal cuore che ci avevano pure una gran parte di colpa, in quella miseria, la malvagità e l’egoismo umano: […] tanta caterva d’impresari e di trafficanti, che voglion far quattrini a ogni patto, non sacrificando nulla e calpestando tutto, dispregiatori feroci degli istrumenti di cui si servono, e la cui fortuna non è dovuta ad altro che a una infaticata successione di lesinerie, di durezze, di piccoli ladrocini e di piccoli inganni, di briciole di pane e di centesimi disputati da cento parti, per trent’anni continui, a chi non ha abbastanza da mangiare. E poi mi venivano in mente i mille altri, che, empitisi di cotone gli orecchi, si fregan le mani, e canticchiano; e pensavo che c’è qualche cosa di peggio che sfruttar la miseria e sprezzarla: ed è il negare che esista, mentre ci urla e ci singhiozza alla porta. Oppure: […] pensavo ai molti altri che, imbarcati per l’America da agenzie infami, erano stati sbarcati a tradimento in un porto d’Europa, dove avevan dovuto tender la mano per le vie; o avendo pagato per viaggiare in un piroscafo, erano stati cacciati in un legno a vela, e tenuti in mare sei mesi; o credendo di esser condotti al Plata, dove li aspettavano i parenti e il clima del loro paese, erano stati gittati sulla costa del Brasile, dove li avevan decimati il clima torrido e la febbre gialla.

Questa era la nostra miseria. Miseria italiana: “tutta questa miseria è italiana! – pensavo ritornando a poppa. E ogni piroscafo che parte da Genova n’è pieno, e ne parton da Napoli, da Messina, da Venezia, […] ogni settimana, tutto l’anno, da decine d’anni! E ancora si potevan chiamare fortunati, per il viaggio almeno, quegli emigranti [di questo piroscafo], in confronto ai tanti altri che, negli anni andati, per mancanza di posti in stiva, erano stati accampati come bestiame sopra coperta, dove avevan vissuto per settimane inzuppati d’acqua e patito un freddo di morte; e agli altri moltissimi che avevan rischiato di crepar di fame e di sete in bastimenti sprovvisti di tutto, o di morir avvelenati dal merluzzo avariato o dall’acqua corrotta. E n’erano morti”.

Dato che si parla di miseria italiana, potreste pensare che De Amicis ci stia parlando dei “soliti” meridionali. Non è così: “La maggior parte degli emigranti, come sempre, provenivano dall’Italia alta, e otto su dieci dalla campagna. […] A tutti questi italiani eran mescolati degli Svizzeri, qualche Austriaco, pochi Francesi di Provenza. Quasi tutti avevan per meta l’Argentina, un piccolo numero l’Uruguay […]”.

Oppure potreste pensare quello che dicono sempre più italiani quando commentano uno sbarco di migranti sulle nostre coste, che De Amicis ci stia raccontando di bastimenti stipati unicamente da pelandroni e mezzi delinquenti. Non è così: “Certo, in quel gran numero, ci saranno stati molti che avrebbero potuto campare onestamente in patria, e che non emigravano se non per uscire da una mediocrità, di cui avevano torto di non contentarsi; ed anche molti altri che, lasciati a casa dei debiti dolosi e la reputazione perduta, non andavano in America per lavorare, ma per vedere se vi fosse miglior aria che in Italia per l’ozio e la furfanteria. Ma la maggior parte, bisognava riconoscerlo, eran gente costretta a emigrare dalla fame, dopo essersi dibattuta inutilmente, per anni, sotto l’artiglio della miseria. […] Tutti costoro non emigravano per spirito d’avventura. Per accertarsene bastava vedere quanti corpi di solida ossatura v’erano in quella folla, ai quali le privazioni avevano strappata la carne, e quanti visi fieri che dicevano d’aver lungamente combattuto e sanguinato prima di disertare il campo di battaglia”.

L’autore non parla per sentito dire, racconta ciò che vede coi propri occhi quando, nel 1884, decide d’imbarcarsi sul piroscafo Nord-America – tratta Genova-Buenos Aires – apposta per vivere di persona la traversata atlantica dei nostri connazionali e poi descriverla.

De Amicis non ci va molto per il sottile con le considerazioni sociali: “Una politica disposta sempre a leccar la mano al più potente, chiunque fosse; uno scetticismo tormentato dal terrore segreto del prete; una filantropia non ispirata da sentimenti generosi degli individui, ma da interessi paurosi di classe. […] Una passione furiosa in tutti d’arrivare, non alla gloria, ma alla fortuna; l’educazione della gioventù non rivolta ad altro; ciascuna famiglia mutata in una ditta senza scrupoli, che batterebbe moneta falsa per far strada ai figliuoli. […] Metà degli uomini che avevan data la vita per la redenzione dell’Italia, se fossero risuscitati, si sarebbero fatti saltare le cervella. Oppure: […] si spende tutto a mantener soldati, milioni a mucchi in cannoni e in bastimenti, […] e alla povera gente nessuno ci pensa […]”.

Sono circa quarant’anni che leggo, in media, cinquanta libri l’anno, e spesso mi son domandato quanto son stato sfortunato nell’aver trovato con troppa difficoltà in questi circa duemila volumi, pagine capaci di raccontare i nostri tempi con la stessa energia di Collodi e De Amicis, con la stessa crudeltà; pagine con gli stessi lampi di verità, la stessa capacità di frugarmi dentro, farmi saltare sulla sedia, togliermi il fiato, prive di accomodamenti e passaggi costruiti a tavolino e, quindi, bugiardi e noiosi. Però poi mi sono anche chiesto se davvero queste pagine non vengono più scritte perché magari gli stessi autori si autocensurano o se, “per caso”, sono gli editori a non pubblicarle più, forse perché neanche le ricevono: potrebbe essere che siano gli agenti letterari a scartarle prima? Chissà. Nel dubbio, rivolgo un appello a coloro che sanno d’avere delle responsabilità in questo senso: smettetela, per piacere. Perché dovreste smetterla? Perché potrebbe succedere che un giorno – azzerate in qualche modo queste pagine, cancellate definitivamente dalla faccia della Terra – passi la voglia di cercarle o, in crisi d’astinenza, si scambi della scialba mercanzia per dei capolavori e, delle due, non so davvero quale sia la conseguenza peggiore.

Un’ultima cosa, nel caso passasse la voglia di cercare queste pagine entusiasmanti, folgoranti, potrebbe anche passar la voglia di leggerle e poi, chissà, di leggere in generale, e questo è tremendo perché, si sa, i libri esisteranno sino a quando avremo voglia di leggerli, e allora mi domando: non sarà che è già in atto il più grande falò di libri che la Storia abbia mai conosciuto e per di più senza che nessuno abbia innescato questo gigantesco rogo con una vera fiamma? Non sarà che stanno andando in fumo anche le nostre anime?

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György Lukács, un’eresia ortodossa / 1 — L’attualità dell’inattuale https://www.carmillaonline.com/2024/11/06/gyorgy-lukacs-uneresia-ortodossa-1-lattualita-dellinattuale/ Wed, 06 Nov 2024 21:00:03 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=85172 di Emilio Quadrelli

[Inizia oggi la pubblicazione di un lungo saggio di Emilio Quadrelli che il medesimo avrebbe volentieri visto pubblicato su Carmilla. Un modo per ricordare e valorizzare lo strenuo lavoro di rielaborazione teorica condotta da un militante instancabile, ricercatore appassionato e grande collaboratore e amico della nostra testata – Sandro Moiso]

“È più piacevole e più utile partecipare alle esperienze della rivoluzione che scrivere su di essa.” (V. I. Lenin, Stato e rivoluzione)

La decisione del Governo ungherese di chiudere l’Archivio Lukács è un indicatore dei tempi. Un indicatore che rimanda a quell’ora più buia già tristemente conosciuta [...]]]> di Emilio Quadrelli

[Inizia oggi la pubblicazione di un lungo saggio di Emilio Quadrelli che il medesimo avrebbe volentieri visto pubblicato su Carmilla. Un modo per ricordare e valorizzare lo strenuo lavoro di rielaborazione teorica condotta da un militante instancabile, ricercatore appassionato e grande collaboratore e amico della nostra testata – Sandro Moiso]

“È più piacevole e più utile partecipare alle esperienze della rivoluzione che scrivere su di essa.” (V. I. Lenin, Stato e rivoluzione)

La decisione del Governo ungherese di chiudere l’Archivio Lukács è un indicatore dei tempi.
Un indicatore che rimanda a quell’ora più buia già tristemente conosciuta dall’Europa. Riproporre Lukács allora è anche un atto, per quanto limitato, di resistenza. Limitato ma non inutile. La resistenza non nasce dal nulla ma da idee–forza in grado di armarla. Lukács è un’arma utile e attuale. Si tratta di imparare a maneggiarla.

Nel febbraio del 1924, a poche settimane dalla morte di Lenin, György Lukács dà alle stampe il pamphlet Lenin. Teoria e prassi nella personalità di un rivoluzionario. Un centinaio di pagine scritte di getto che, come proveremo ad argomentare, si mostrano uno dei testi più ricchi e densi della teoria politica marxiana dell’intero novecento. La sua complessità e ricchezza è tale da rivestire ancora nel presente molto di più di una semplice curiosità e ancor meno l’ennesimo omaggio malinconico al mondo di ieri. Se c’è una cosa che nel testo di Lukács sorprende e assieme stupisce è la sua attualità. Comunque prima di immergerci nell’esposizione del saggio lukácsiano è necessario dire qualcosa sull’autore: György Lukács è tutto tranne che una figura semplice, la sua condizione di militante costretto alla autocritica in permanenza racconta già qualcosa di non proprio irrilevante. In continuazione, e a questo destino non sfugge neppure il Lenin, Lukács deve far ricorso, per poter essere letto e pubblicato, a una qualche forma di ammenda. Paradossalmente ogni ortodossia instauratasi nel santuario comunista si è sentita in dovere di criticare Lukács almeno un poco, lasciandogli però sempre aperto lo spiraglio dell’autocritica. Figura intellettuale di prim’ordine cresciuto in quella fucina culturale, forse irripetibile, che è stata la crisi intellettuale del primo novecento europeo, ha una formazione ben poco in linea con ciò che diventerà l’ortodossia comunista1.

Weber e Simmel possono, a ragione, essere annoverati tra i suoi padri intellettuali tanto che non saranno pochi gli echi di questi autori che rimarranno presenti nelle sue opere2. A Marx giunge attraverso Hegel nei confronti del quale, anche nei momenti in cui lo stesso movimento comunista tratta il medesimo come un cane morto, continua a rivendicarne il tratto profondamente sovversivo racchiuso nelle sue opere, sottolineando in continuazione il debito contratto dalla teoria marxiana con la dialettica hegeliana3; del resto lo stesso Lenin rivolse qualcosa di più che un semplice apprezzamento alla hegeliana Scienza della logica, apprezzamento che gli epigoni fecero presto a riporre nell’oblio4.

L’oggettivismo e il determinismo, che iniziarono a farsi strada all’interno del movimento comunista, hanno il loro incipit proprio con la messa al bando della dialettica hegeliana che, ben presto, si mutuò in una messa al bando della dialettica tout court. Con questa, l’intera dimensione della soggettività di classe finì con l’essere crocefissa e sepolta nel folto mondo dell’eresia e, con lei, il partito dell’insurrezione normalizzato dentro la classica sociologia politica michelsiana5.

Paradossalmente l’ortodossia comunista, sempre prona a cercare influenze borghesi tra le righe dei pensatori scomodi, finì con l’assumere, proprio dentro il partito rivoluzionario, quel destino che non senza sofferenza Weber aveva profetizzato per il mondo moderno. Anche su questo Lenin, nella sua nota battaglia contro l’irrompere del dominio burocratico nei Soviet e nel partito, aveva avuto parole estremamente chiare. Come aveva ampiamente argomentato in Stato e rivoluzione, e su questo ci soffermeremo molto in seguito, compito della rivoluzione proletaria era, in primo luogo, spezzare la macchina statuale borghese, non riprodurla o addirittura ampliarla. Tra proletariato e borghesia vi è un salto storico, non un passaggio di consegne. Nella cuoca di Stato e rivoluzione Lenin sintetizzava al meglio l’essenza stessa della rottura rivoluzionaria. Cuore di questa rottura non può che essere la soggettività di classe. Il delinearsi e il rafforzarsi della gabbia d’acciaio non è un fatto tecnico ma politico. Non riconoscerlo significa negare alla classe il suo ruolo strategico e far riemergere e recuperare, sotto le spoglie della necessità oggettiva, l’apparato statuale tradizionale. In tale ottica, ovviamente, non vi può essere spazio alcuno per quel: “Bisogna sognare!” sul quale Lenin costruisce il programma rivoluzionario e che, nonostante le immani difficoltà che lo circondano, continua a far suo. L’ottobre è un cominciamento, “On s’engage…. puis on voit!”, qui è per intero Lenin. “Poi si vede!” ma dentro l’orizzonte della dialettica storica. In ogni cominciamento vi è solo una certezza, quella della radicale rottura. Questo, in fondo, è il Lenin che Lukács coglie e ci restituisce 6.

Autore difficilmente addomesticabile è stato costretto a vivere in una sorta di semi-clandestinità politica e intellettuale, trovando nel volontario confino dell’erudizione l’escamotage per poter continuare a scrivere e pensare, allontanando in tal modo da sé l’occhio vigile ma poco sveglio dei vari censori che si sono susseguiti nel vaglio dei suoi testi. Costretto, come si è detto, a criticare le proprie opere ogni qualvolta queste venivano nuovamente edite in realtà, tra le righe e le pieghe di ogni sua autocritica, vi è sempre la conservazione e la difesa del nocciolo duro di quanto sostenuto. Nella stessa introduzione a Storia e coscienza di classe del 1967, il testo nei confronti del quale, almeno in apparenza, sembra prendere con maggiore decisione la distanza, archiviandola come passaggio formativo dell’epoca giovanile, una lettura minimamente attenta mostra come gran parte delle tesi sostenute più che rinnegate vengano, per quanto in parte smussate, sostanzialmente riconfermate7. In ciò, inoltre, vi è una non secondaria finezza che sfugge per intero alle pletore dei censori. Nel legare Storia e coscienza di classe alla fase giovanile, avendo a mente quanto in quel testo Lukács civetti con Hegel, costruisce l’immagine di un giovane Lukács non poco affine al giovane Marx, quel giovane Marx che, dopo la scoperta e la pubblicazione dei noti Manoscritti insieme a tutta la sua opera giovanile, non pochi problemi stava dando alla teoria politica comunista mainstream. Il giovane Lukács, sembra dire il Lukács maturo, compie gli stessi errori del giovane Marx lasciando in sospeso, tra le righe, la domanda: ma questi sono stati veramente degli errori? In qualche modo, quindi, l’impressione è che Lukács rimodelli, nella forma voluta dai censori dell’epoca i suoi testi, continuando a mormorare eppur si muove.

Come tutti i pensatori di razza è rimasto pressoché immune alle insidie del tempo mentre, dei suoi solerti censori, se ne sono perse abbondantemente le tracce. Se già il nome di Zinoviev8, il grande accusatore di Storia e coscienza di classe, è forse ancora noto ai residui cultori della tradizione comunista, personaggi quali Deborin e Rudas9, grandi pubblici ministeri dell’ortodossia dell’epoca, difficilmente sono in grado di far sorgere un qualche ricordo mentre del grande ortodosso Ždanov tutti ricorderanno il valore militare mostrato a Leningrado, mentre stenderanno un pietoso velo di silenzio su tutto ciò che concerne teoria politica, arte, letteratura e filosofia10. Se il tempo del presente è spesso magnanimo con gli yes man, il filo del tempo è fortunatamente uso a parametri diversi. Al pari dei suoi vari maestri Lukács e i suoi scritti continuano a essere fonte non di risposte certe, bensì di continui interrogativi che, nella loro inattualità, continuano a mostrarsi attuali.

Con la rottura imposta dal ’68 Lukács conosce una non secondaria e profonda reinassance, le sue opere, dentro un movimento che non poteva che assumere le vesti dell’eresia, tornano attuali. Quell’Angelus Novus che è sempre alla base di tutte le insorgenze proletarie si scagliava, e non poteva essere altrimenti, equamente contro tutte le vestali dello status quo11, del quale il movimento operaio e il movimento comunista erano una componente non secondaria. Con il ’68 il tema dell’alienazione diventa centrale12, ma al contempo riaffiora prepotentemente, e ciò sarà particolarmente vero nel nostro paese, la questione della guerra di movimento che il movimento operaio ufficiale aveva, da tempo, riposto nell’archivio polveroso della storia di ieri13. L’attualità della rivoluzione torna a essere il qui e ora della lotta di classe. In tale contesto, l’autore che intorno alla attualità della rivoluzione aveva, al banco della storia, puntato tutto non poteva che ritornare attuale. Una attualità che non nasce in un qualche seminario, o tra le ristrette schiere dell’erudizione ma nell’insorgenza delle colonie interne occidentali, nella critica al socialismo reale, sulle barricate parigine per approdare e soffermarsi a lungo nelle lotte operaie e proletarie italiane, senza dimenticare l’apparire di quel soggetto, il colonizzato, che irrompe prepotentemente sulla scena storica ponendo questioni che il movimento operaio e comunista ufficiale è ben distante dal comprendere e ancor meno dall’accettare così come, a irrompere prepotentemente sulla scena politica, è la questione femminile e la critica al patriarcato, del quale l’ortodossia comunista rappresenta un pilastro non secondario. Proprio razza e genere saranno gli elementi che metteranno principalmente in crisi le retoriche dominanti all’interno dell’ortodossia comunista e che la renderanno del tutto estranea al riapparire prepotente dell’Angelo della storia. Non per caso tutti i partiti comunisti europei, e in special modo quelli di maggior peso politico come quello italiano e francese, si schierano apertamente contro il movimento e a difesa dello status quo. Puntualizzato ciò, riprendiamo il filo del nostro discorso.

(1continua)


  1. Per una buona esposizione della complessa figura intellettuale di Lukács si veda, G. Bedeschi, Introduzione a Lukács, Laterza, Roma–Bari 1971. Sulla formazione di Lukács il bel lavoro di, F. Fortini, Lukács giovane, in Id., Saggi ed epigrammi, Mondadori, Milano 2003. Per un buon dibattito sulla figura intellettuale di Lukács e l’insieme di tradizioni filosofiche che precipitano nella sua elaborazione si possono vedere i saggi compresi in, AA. VV., Letteratura, storia, coscienza di classe. Contributi per Lukács, Liguori, Napoli 1977; T. Perlini, Utopia e prospettiva in György Lukács, Edizioni Dedalo, Bari 1968.  

  2. Basti pensare al classico, G. Lukács, L’anima e le forme, SE, Bellaria (Rimini) 2012. Per una discussione su questi aspetti per nulla secondari della formazione intellettuale di Lukács si veda, A. De Simone, Lukács e Simmel. Il disincanto della modernità e le antinomie della ragione dialettica, Milella, Bari 1985.  

  3. L’incontro con Hegel insieme all’influenza che questi esercitò costantemente nei suoi confronti è retrodatabile sin da quel, G. Lukács, Teoria del romanzo. Saggio storico–filosofico sulle forme della grande epica, SE, Bellaria (Rimini) 2015, iniziato nel 1914 e pubblicato nel 1920. L’interesse per la filosofia hegeliana rimase una costante dell’attività intellettuale di Lukács che lo accompagnò praticamente per tutta la vita. A Hegel e all’interpretazione della sua filosofia, e in particolare alle ricadute che La fenomenologia dello spirito, G. W. F. Hegel, 2 Vol., La Nuova Italia, Firenze 1973, avrebbero avuto per il materialismo storico – dialettico consacrò uno dei suoi lavori più importanti e significativi, G. Lukács, Il giovane Hegel e i problemi della società capitalista, 2 Vol., Einaudi, Torino 1975  

  4. Cfr. V. I. Lenin, Quaderni filosofici, Editori Riuniti, Roma 1971  

  5. R. Michels, La sociologia del partito politico, Il Mulino, Bologna 1966. In questo testo Michels descrive il funzionamento del partito politico, indipendentemente dai suoi orientamenti ideologici, nelle società moderne. Una modellistica alla quale non sfugge alcuna forma politica organizzata la quale è del tutto interna alle retoriche proprie del mondo borghese. In ciò Michels ha sicuramente ragione. Tutti i partiti interni all’ordinamento borghese non possono fare altro che uniformarsi a questo ordinamento ma è esattamente qui che si situa la differenza e la rottura tra tutti i partiti della borghesia e il partito dell’insurrezione. Questi non è un altro partito che si presenta sulla scena della competizione borghese bensì il partito che si propone di affossare la borghesia, per questo la sua strutturazione non è commensurabile con quella degli altri partiti. Del resto, questo partito mira a spezzare la macchina statuale non a impossessarsene. La differenza con tutti gli altri partiti si colloca sul piano della rottura storico–politica con un’intera epoca, non con un programma di governo in competizione con altri programmi di governo. Il partito dell’insurrezione incarna la relazione classe contro classe e non, come solitamente avviene tra i partiti borghesi, quella tra ceti politici momentaneamente avversi. Prendendo a prestito Schmitt si può asserire che, mentre la relazione tra i partiti borghesi è riconducibile alla dimensione dell’inimicus, quella tra il partito dell’insurrezione e tutti gli altri partiti è contrassegnata dalla relazione amico/nemico in senso esistenziale.  

  6. Questo è ciò che M., Cacciari, nella sua corposa introduzione ai testi lukacsiani pubblicati sulla rivista Kommunismus, Sul problema dell’organizzazione. Germania 1917–1921, in G. Lukács, Kommunismus 1920–1921, Editore Marsilio, Padova 1972, sembra non cogliere. Cacciari, infatti, considera il destino weberiano come qualcosa di ineludibile e insuperabile per cui non può che ascrivere Lukács tra gli utopisti di ispirazione escatologica e millenarista. Ciò che sembra sfuggire a Cacciari è proprio quel cominciamento che la rivoluzione proletaria si porta appresso insieme a tutte le possibilità che un’era nuova, frutto di una rivoluzione di classe, apre. Cacciari rimane prigioniero del tempo del presente dimenticando che, quel tempo, non è un tempo impolitico ma è il tempo e lo spazio sedimentato dal capitale. Sfugge, ad esempio, a Cacciari, che la metodicità dei tempi, lo sfruttamento maniacale di questi non appartengono indistintamente alla società ma sono il frutto di una modellistica storico–politica che si è imposta attraverso quella religione, il protestantesimo, che, come ben argomenta M. Weber nell’Etica protestante e lo spirito del capitalismo, Rizzoli, Milano 1991, meglio di altre incarnava lo spirito del capitalismo. In sostanza ciò che Cacciari nella sua critica a Lukács rimprovera è l’adesione incondizionata alle possibilità che la dialettica storica offre e, con ciò, il legame di Lukács con Marx. Non stupisce che, a partire da questi presupposti, Cacciari, con il suo realismo pragmatico, sia diventato uno dei principali alfieri delle società neoliberiste e se, tra le sue vene, scorre una qualche goccia di sangue hegeliano è quello dell’Hegel politicamente prono allo status quo e non l’Hegel dal quale Marx ricavò la possibilità dell’utopia comunista.  

  7. Su questo aspetto si veda la bella introduzione di M. Spinelli, Storia e coscienza di classe cinquanta anni dopo, in G. Lukács, Storia e coscienza di classe, Mondadori, Milano 1973.  

  8. G. E. Zinoviev diresse l’Internazionale comunista sino al 1925. Da quella postazione non irrilevante bollò di eresia Storia e coscienza di classe.  

  9. A. B. Deborin filosofo e militante menscevico aderì al bolscevismo nel 1928 e divenne, anche se solo per breve tempo, un fanatico cacciatore di eresie. L. Rudas dirigente del partito comunista ungherese insieme al sopra ricordato Deborin fu tra i più accaniti avversari di Lukács e della sua eresia filosofica. Per una puntigliosa e anche ironica critica del loro operato si veda, G. Lukács, Coscienza di classe e storia. Codismo e dialettica, Edizioni Alegre, Roma 2007.  

  10. A. A. Ždanov, vestale della cultura sovietica si mostrò, in realtà, assai prono a una cultura nazionalista e conservatrice. Intellettuale per nulla brillante si rivelò, invece, un organizzatore politico e militare di primordine dirigendo, con grande successo, le difese e la resistenza di Leningrado per tutto il suo lungo assedio sino alla liberazione.  

  11. Il ’68 fu senza ombra di dubbio un momento di rottura storica che coinvolse tutti i sistemi politici. Oriente e Occidente furono scossi da un moto sovversivo dove il treno contro la storia sembrava nuovamente essersi messo in moto. Per una concettualizzazione di questa asserzione si veda il bel lavoro di G. Roggero, Il treno contro la storia. Considerazioni inattuali sul ’17, Derive Approdi, Roma 2018. La pubblicistica sul ’68 è sterminata e di difficile catalogazione per una sua ampia panoramica si può vedere, P. Ortoleva, I movimenti del Sessantotto in Europa e in America, Editori Riuniti, Roma 1988; volendo scegliere un paio di testi in grado di, in senso ampio, fornire l’humus culturale ed esistenziale del movimento occorre indicare in, H. Marcuse, L’uomo a una dimensione, Einaudi, Torino 1999 il libro che ha sicuramente maggiormente segnato e influenzato tutta una generazione e F. Fanon, I dannati della terra, Einaudi, Torino 2007 che ha contribuito non poco a rompere con i dogmatismi in cui era precipitato il movimento comunista e a ridare fiato e respiro all’idea di rivoluzione totale che l’ortodossia comunista aveva da tempo seppellito dentro il pragmatismo imperante. Sia Marcuse che Fanon rilanciarono quel tratto escatologico che la stessa idea di rivoluzione si porta appresso. In questo senso non è neppure inessenziale ricordare, dentro il ’68, la scoperta di un autore come E. Bloch e i suoi, Thomas Munzer teologo della rivoluzione, Feltrinelli, Milano 2010 e ancor più, Ateismo nel cristianesimo, Feltrinelli, Milano 2005, edito proprio nel 1968, che ribadivano la necessità di pensare e praticare l’utopia marxiana del passaggio dalla preistoria alla storia. Fanon, inoltre, immetteva prepotentemente dentro il panorama politico occidentale il costante rimosso della “questione coloniale” un aspetto che, soprattutto in Germania, ebbe ricadute considerevoli, cfr. G. Bausano, E. Quadrelli, Ulrike Meinhof, Una vita per la rivoluzione, Interno 4 Edizioni, Rimini 2021. Infine, ma non per ultimo, va ricordato come proprio dentro il ’68 iniziò a imporsi prepotentemente il tema della questione di genere, sostanzialmente estranea alle retoriche del movimento comunista ufficiale, e come questo tema, nelle sue articolazioni più radicali, finì con il legarsi alle tematiche della razza scoprendo così il vaso di Pandora del colonialismo come non secondaria articolazione del dominio patriarcale. Patriarcato e colonialismo irruppero dentro il movimento del’68 creando non pochi problemi all’insieme della sinistra il cui volto bianco e maschilista, tanto che la famiglia ancorché in versione proletaria rimaneva un suo totem inamovibile, non la distingueva di molto dal mondo e dalla cultura borghese. Su questi aspetti si veda il bel saggio di A. Davis, Donne, razza e classe, Edizioni Alegre, Roma 2018.  

  12. Di qua la renaissance di Lukács il quale, proprio intorno al tema dell’alienazione nella società capitalista, aveva incentrato parte delle sue opere giovanili e, conseguentemente a ciò, la ripresa di interesse per quell’umanesimo marxiano che, soprattutto le opere del giovane Marx, facevano albeggiare così come, l’aspetto etico dell’agire politico rivoluzionario, un tema che in Lukács compare in gran parte della sua elaborazione teorica, si impose come una vera e propria linea di condotta del ’68. Sotto questo aspetto, almeno come arco di senso, un’importanza sicuramente determinante lo rivestono i saggi lukacsiani raccolti in, G. Lukács, Scritti politici giovanili 1919–1928, Editore Laterza, Bari 1972. Quanto la renaissance di Lukács influenzò il ’68 è ben sintetizzabile in un testo, H. J. Krahl, Costituzione e lotta di classe, Jaca Book, Milano 1983, una delle più importanti produzioni teoriche del ’68, il quale, proprio dai temi lukacsiani, prende le mosse. 

  13. Al proposito si vedano, A. Gramsci, Note sul Machiavelli sulla politica e sullo Stato moderno, Editori Riuniti, Roma 1994; P. Togliatti, La guerra di posizione in Italia. Epistolario 1944–1964, Einaudi, Torino 2014. Con Gramsci, che non a caso era stato posto ai margini dell’Internazionale comunista e dentro lo stesso partito comunista italiano viveva in una condizione di sostanziale isolamento politico, si fa strada l’idea che nei paesi a capitalismo avanzato la guerra di movimento, ossia la lotta rivoluzionaria violenta e insurrezionale, non potesse darsi e che, pertanto, il partito si dovesse attrezzare per una lunga guerra di posizione al fine di conseguire una egemonia culturale dentro la società civile. Di qui la teorizzazione dell’edificazione delle casematte della cultura che sarebbero diventate il cuneo attraverso il quale fare breccia nella società borghese. Un’ipotesi che Togliatti fece interamente sua dopo il suo ritorno in Italia nel 1944. Con ciò il movimento comunista rinunciava, per decreto, a qualunque possibilità rivoluzionaria imbracciando la mesta e fallimentare via del parlamentarismo. La deriva prima opportunista e poi apertamente collaborazionista e controrivoluzionaria che il PCI mostrò apertamente nell’era Berlinguer non è altro che il naturale approdo dell’assunzione della guerra di posizione come progetto strategico del movimento proletario. Una scelta che non ebbe sullo sfondo alcuna furberia tattica ma la reale e, occorre riconoscerlo, onesta rinuncia, in piena tradizione socialdemocratica, alla rivoluzione comunista. Un abbaglio e un malinteso, quello della furberia tattica, coltivato da molti sia nell’ambito della borghesia che in quello proletario. Su ciò si creò il mito della doppiezza di Togliatti il quale avrebbe ufficialmente optato per questa ipotesi continuando però a coltivare progetti rivoluzionari. Sull’inconsistenza di questo aspetto, diventato un luogo comune anche se del tutto privo di un qualche fondamento, si possono vedere, R. Gualtieri, Togliatti e la politica estera italiana. Dalla Resistenza al trattato di pace 1943–1947, Editori Riuniti, Roma 1995; G. Bocca, Togliatti, Feltrinelli, Milano 2014.  

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Fahrenheit 451: molto prima del fuoco https://www.carmillaonline.com/2024/04/13/fahrenheit-451-molto-prima-del-fuoco/ Fri, 12 Apr 2024 22:01:28 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=81981 di Sergio Cimino

Ray Bradbury, Fahrenheit 451, Mondadori, 2023, pp. 180, € 12,50.

“Era una gioia appiccare il fuoco”, pensa Montag, nel noto incipit del romanzo di Ray Bradbury. E quel fuoco non ha smesso di dardeggiare negli oltre settant’anni di vita di questo capolavoro. Il corpo dei vigili, che nella realtà futura immaginata dallo scrittore americano, non si occupa più di spegnere gli incendi ma ha il compito di bruciare i libri, irradia la sua potente deflagrazione simbolica non solo in chi ha letto il romanzo, ma anche in coloro che ne hanno solo sentito parlare. La suggestione si alimenta delle [...]]]> di Sergio Cimino

Ray Bradbury, Fahrenheit 451, Mondadori, 2023, pp. 180, € 12,50.

“Era una gioia appiccare il fuoco”, pensa Montag, nel noto incipit del romanzo di Ray Bradbury.
E quel fuoco non ha smesso di dardeggiare negli oltre settant’anni di vita di questo capolavoro.
Il corpo dei vigili, che nella realtà futura immaginata dallo scrittore americano, non si occupa più di spegnere gli incendi ma ha il compito di bruciare i libri, irradia la sua potente deflagrazione simbolica non solo in chi ha letto il romanzo, ma anche in coloro che ne hanno solo sentito parlare. La suggestione si alimenta delle immagini forti evocate dall’invenzione letteraria, prime fra tutte quelle degli storici roghi dei libri appiccati dai nazisti.

Nella parte di mondo autoproclamatasi Regno della libertà, lo schiacciamento interpretativo del romanzo su una chiave di lettura liberaldemocratica non stupisce.
Certo, in questi decenni, tra le analisi di Fahrenheit non sono mancate quelle che attraverso l’estremizzazione tipica delle distopie, hanno evidenziato gli aspetti maggiormente critici delle società capitalistiche occidentali. È il caso, ad esempio, del conformismo indotto dai sempre più pervasivi programmi televisivi. Nel romanzo, la televisione diviene una presenza costante nelle case, fino ad occupare intere pareti. L’ambizione più grande è quella di poter installare anche la quarta parete, creando nella propria abitazione qualcosa che si avvicina alla realtà virtuale. Attraverso un convertitore di frequenza, infatti, i personaggi televisivi si rivolgono direttamente al telespettatore, chiamandolo per nome. Le presenze sullo schermo divengono propri familiari, di cui si condividono senza sosta e senza fine, le vicissitudini più varie, dalle quali però è bandito qualsiasi senso compiuto. È l’intrattenimento totalizzante, qualcosa che, presente solo in germe al tempo di stesura dell’opera, va ascritta alla capacità predittiva di Bradbury.
Se l’analisi del romanzo viene allargata non solo al presente narrativo in cui sono collocati i personaggi, ma anche alle dinamiche storiche che lo hanno preparato, il risultato in termini di significanza politica dell’opera diviene molto più complesso, sia della sintesi liberal di facile presa, di cui si diceva al principio, sia di una disamina frammentaria dei singoli aspetti deteriori delle democrazie occidentali ad economia capitalistica, la cui carica critica potrebbe facilmente essere disinnescata nel considerare tali aspetti come elementi accidentali e quindi emendabili, di un sistema socioeconomico del quale non viene messo in discussione il primato.

Per procedere all’analisi larga di cui si diceva, punto centrale del dispositivo politico del romanzo è il lungo discorso che il capitano dei vigili del fuoco, Beatty, pronuncia in casa di Montag, cercando di fornirgli una base ideologica che prevenga quello che il suo superiore ha già subodorato come lo sviluppo di un pensiero critico foriero di una possibile ribellione.
Per raggiungere questo scopo il capitano Beatty è disposto a rischiare quello che normalmente non deve essere fatto: narrare la storia della loro professione, cosa che solo i capi ancora ricordano. Ma l’evoluzione della milizia, fino al compito istituzionale di distruggere i libri esistenti, è così connaturata con la storia tout court, che il passaggio a quest’ultima avviene senza soluzione di continuità.
Scopriamo così che il progresso tecnologico ha impresso una maggiore velocità ai processi sociali. Tutto ha cominciato ad andare più veloce. Il turbine, partito dai mezzi di trasporto e dai processi produttivi, si è esteso ai tempi di vita. I libri, le riviste, tutto ciò che richiede applicazione, viene ridotto a sintesi. Gli articoli ai soli titoli. Il condensato di opere complesse le ha rese accessibili democraticamente alla massa. Ciò aumenta anche la portata quantitativa delle informazioni a disposizione di ciascuno con il risultato che sotto la spinta di tutte queste sollecitazioni il pensiero viene disperso. A ciò si accompagna un progressivo discredito dell’attività intellettuale, che diviene solo un peso capace di far perdere tempo inutilmente. Gli studi divengono sempre più brevi e, quel che più conta, devono essere funzionali ai processi produttivi. Per marginalizzare l’attività intellettuale, un ruolo importante è svolto dal tempo libero, durante il quale tutto deve distrarre il pensiero. Diviene importante un costante stimolo a fare qualcosa. Assumono rilevanza le attività sportive, i consumi, l’ossessione degli spostamenti incessanti con le auto.
Un punto importante del racconto del capitano Beatty è quello relativo alla tutela delle minoranze. La strumentalizzazione della questione conduce a depotenziare qualsiasi posizione critica che possa condurre ad un turbamento sociale. Sembra di vedere l’uso cloroformizzante che viene fatto del politically correct ai nostri giorni.

E l’arte? La musica, la letteratura, il cinema, in un quadro siffatto, devono suscitare solo riflessi condizionati, “una reazione tattile alla vibrazione”.
Nella costante ricerca di non lasciare spazio al pensiero, persino eventi naturali come la morte devono essere occultati, con l’eliminazione dei riti funebri e la loro sostituzione con procedure industrializzate di polverizzazione dei corpi, affinché anche in quel caso sia allontanato ciò che potrebbe produrre angoscia.
Ecco perché al termine del racconto del capitano Beatty, la realtà in cui i vigili del fuoco hanno il compito di bruciare i libri, che è poi l’elemento maggiormente iconico del romanzo, viene ridotto ad un fatto quasi irrilevante.
Scopriamo infatti, che non vi è stato bisogno di alcuna legge liberticida per condurre alla proibizione dei libri. Ma che è stato lo svilimento dei libri e delle attività intellettuali su cui si è incentrata la narrazione del capitano, a renderli privi di importanza, detestati dalle masse. Solo dopo è intervenuta la legge, che ha ratificato una situazione di fatto.
Se la gran parte dei singoli punti toccati dal racconto del capitano Beatty agghiaccia per la familiarità con analoghi aspetti del nostro presente, quello che colpisce ancor più, è proprio la lucida consapevolezza della rilevanza che assumono le sotterranee (e sotterrate, dai mezzi di propagazione ideologica nelle mani della classe dominante…) dinamiche sociali nella spiegazione dei processi storici.
Ed in fondo, il mondo di Fahrenheit 451, cosa configura se non un quasi perfetto Regno della libertà?
Beatty ci fa sapere che persino un libro nelle mani di un vigile del fuoco può essere ammissibile. Almeno una volta nella vita, succede ad ogni milite del fuoco di sentire un certo prurito, che gli fa venire voglia di sapere cosa dicono i libri. Che si gratti allora. E scopra da solo che i libri non hanno proprio nulla da dire. Di modo che dopo questa scoperta, possa tornare ad essere uno dei custodi della pace spirituale. Uno di quelli che evitano di divenire come la famiglia di Clarissa McClellan. Eccentrici, che invece di chiedersi come una cosa sia fatta, si attardano ancora a chiedersi il perché venga fatta.

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Esperienze estetiche fondamentali / 12: Dostioffsky e Solzenicyn https://www.carmillaonline.com/2023/12/29/esperienze-estetiche-fondamentali-12-dostioffsky-e-solzenicyn/ Fri, 29 Dec 2023 21:00:12 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=80260 di Diego Gabutti

Ma ha mai assassinato qualcuno, Dostoevskij? Dei suoi romanzi, tutti quelli che conosco potrebbero intitolarsi Storia di un Delitto. È un’ossessione, in lui; non è naturale che parli sempre di questo». «So poco della sua vita, mia cara Albertine. Sicuramente, come tutti, Dostoevskij ha conosciuto il peccato, in una forma o nell’altra, e probabilmente in una forma proibita dalle leggi. In questo senso doveva essere un po’ criminale, come i suoi eroi. (Marcel Proust, La prigioniera)

Sembra impossibile poter parlare del genio di Dostoevskij senza che la parola criminale ci si affacci dinanzi imperiosa. (Thomas Mann, Dostoevskij, [...]]]> di Diego Gabutti

Ma ha mai assassinato qualcuno, Dostoevskij? Dei suoi romanzi, tutti quelli che conosco potrebbero intitolarsi Storia di un Delitto. È un’ossessione, in lui; non è naturale che parli sempre di questo». «So poco della sua vita, mia cara Albertine. Sicuramente, come tutti, Dostoevskij ha conosciuto il peccato, in una forma o nell’altra, e probabilmente in una forma proibita dalle leggi. In questo senso doveva essere un po’ criminale, come i suoi eroi. (Marcel Proust, La prigioniera)

Sembra impossibile poter parlare del genio di Dostoevskij senza che la parola criminale ci si affacci dinanzi imperiosa. (Thomas Mann, Dostoevskij, con misura)

«Come si chiama quello scrittore russo di cui parli sempre… quello che si riempiva le scarpe di carta di giornale e andava in giro con un cappello a cilindro che aveva trovato in un bidone della spazzatura?» Era un’esagerazione di quello che gli avevo raccontato di Dostoevskij. «Ah sì, ecco, ecco… Dostioffski. [Ci sono facce che possono] chiamarsi soltanto in un modo…Dostioffski. (Jack Kerouac – On the Road)

Dostoevskij e Solženicyn

Dov’eri quando hai letto per la prima volta la storia dell’usuraia, dell’assassino cervellotico e della puttana prossima alla santità, per non parlare di Porfirij Petrovič, il poliziotto «in vestaglia, biancheria pulitissima e vecchie pantofole» o di Marmeladov, il padre alcolista e snaturato? E la storia degli zeck, dei campi di lavoro, delle persecuzioni, delle torture e delle rivolte? Dov’ero io? Facile. Non mi serve una madeleine per ricordarlo (è già tanto una mentina).

È come chiedere a un pellegrino della mia età dov’era quando Neil Armstrong e Buzz Aldrin sbarcarono sulla Luna il 20 luglio del 1969. Tutti ce lo ricordiamo. Tanto più, nel mio caso, perché il 21 luglio, il giorno dopo lo sbarco, cioè il giorno della passeggiata lunare, era il mio compleanno. Ero nel giardino di casa, caldo afoso, caffè freddo, dove con mio padre avevo trasportato il televisore del salotto e ce ne stavamo tutti lì, eccitati e contenti, a fissare un po’ lo schermo, un po’ «la luna in ciel, silenziosa luna». Notte stellata. C’era qualcosa di Star Trek e di 2001 nell’aria. In studio, a Roma, Enzo Jannacci cantava La Luna è una lampadina.

La luna l’è ona lampadina tacata in sul plafun
E i stell paren limon traa in dell’acqua
E mi sont chi, ‘nsul marciapeé
Che cammini avanti e indreé, Lina
E me fann mal i peé, Lina!

Allo stesso modo non c’è lettore dei «russi» – specie di Dostoevskij, il «russo» supremo – che non sappia rispondere alla domanda: «Dov’eri quando hai letto per la prima volta Delitto e castigo?» Io ero in una casa senza ascensore di Via Verolengo, a Torino, Borgo Dora, ai tempi una periferia operaia, oggi la Casbah. Quarto piano. Una tromba delle scale così vasta e spaventosa che mi muovevo rasente le pareti, lo sguardo al muro, mentre salivo da un piano all’altro e gli scalini sembravano non finire mai, come in un incubo. Era dicembre, le nove o dieci di sera. Fuori (forse) nevicava. Niente riscaldamento centrale: una stufa elettrica. Avevo cenato in una trattoria chiassosa lì nei pressi, e adesso sedevo davanti alla stufa con questo libro in mano. Indossavo tutti i maglioni del nonno trovati nell’armadio.

Avevo le chiavi della minuscola casa torinese dei miei nonni, che vivevano al mare e a Torino si vedevano raramente. Mi ero rifugiato lì, in solitudine, con una copia di Delitto e castigo. Non ricordo il preciso perché di quell’esilio volontario. Forse c’entrava qualcosa Wakefield, «il fuorilegge dell’universo» di Nathaniel Hawthorne. Ma più che altro era un modo che avevo io, da giovanissimo, di scacciare la malinconia e di regolare la circolazione (chiamatemi Ismaele). Quanto a Delitto e castigo, era l’edizione NUE, una splendida collana Einaudi.

C’era una sovra copertina bianca con quattro strisce rosse in bell’evidenza, lo struzzo in fondo pagina e quella che pareva la fototessera di Dostoesvkij sopra il titolo. «Introduzione di Leoníd Grossman, traduzione d’Alfredo Polledro», si leggeva a metà della copertina, tra lo struzzo e il titolo in caratteri maiuscoli. M’ero preparato il caffè. Era bollente e, sorbendolo a piccoli sorsi, cominciai da Grossman. Già quello mi sembrò un mezzo romanzo.

Questo per collocare nel tempo e nello spazio la prima lettura di Delitto e castigo. Via Verolengo, la stufa elettrica e (forse) la neve. E fin qui ci siamo. Però non ricordo dove precisamente ero, sempre in fatto di «russi» da leggere e patire, quando capitai per la prima volta su Arcipelago Gulag. In compenso so esattamente «quand’ero» nel momento in cui me ne punse repentina e indifferibile vaghezza: primavera del 1978, il giorno del rapimento Moro. Fu allora che decisi di leggere l’Arcipelago e di cambiar cavallo.

Avevo sentito del rapimento il pomeriggio del 16 marzo, quando le Bierre avevano abbattuto come animali al macello cinque figli di mamma e sequestrato il presidente della Dc, al quale avrebbero poi fatto fare la stessa fine, anzi una fine peggiore, potenziata da 40 giorni d’agonia: una piccola sala-torture della Lubianka fatta in casa. Con Paolo Pianarosa eravamo finiti nella sede delle edizioni Area (o Libri Rossi, non ricordo più la precisa ragion sociale, ma era un network goscista, al quale facevano capo riviste, piccole case editrici, minuscole etichette discografiche). Un tiepido pomeriggio milanese. C’erano Nanni Balestrini e altri gabibbi – forse Elvio Fachinelli, forse Oreste Del Buono – e tutti schiamazzavano e festeggiavano la bell’impresa, ma che bravi questi pistoleros qua, minchia che efficienza, che coraggio, e che geometrica potenza.
Tirava una brutta aria.

Anni prima, nella sede sabauda del Partito comunista d’Italia (marxleninista) avevo conosciuto uno di questi tagliagole da action film, tale Rocco Micaletto, membro all’epoca del sequestro Moro della Direzione strategica bierre. Una volta Micaletto mi accusò d’aver rubato cinque o sei chili di monetine da cinquanta, dieci e cinque lire raccolte dagli strilloni maò-maò addetti alla vendita militante di Nuova Unità, il giornale del gruppuscolo. Prove non ce ne sono, ma sospetto che le avesse rubate lui allo scopo d’accusarmi, chissà cosa gli avevo fatto, ma soprattutto chissà in che modo pensava che farmi pesare sulla reputazione, oltre che sulla gobba, mia o di chiunque altro, il peso di tutte quelle monetine potesse aiutare la causa del proletariato, che pareva stargli molto a cuore. Naturalmente nessuno prese sul serio la sua denuncia, e la cosa finì lì. Micaletto era uno strano personaggio. Qualunque cosa facesse, tipo prendere un caffè, salire sul tram, salutare un conoscente per strada, lui la faceva con aria losca e circospetta, come Parker, nei romanzi di Richard Stark, quando studiava un colpo alla banca e perlustrava la location della rapina fingendosi un cliente distratto o un passante bighellone. Micaletto camminava guardingo, a passi veloci, poi lenti, poi di nuovo veloci, gli occhi che guizzavano da destra a sinistra. Chissà cosa gli passava per la testa. Sembrava sempre impegnato in un’impresa criminale nota a lui solo. Col tempo, a giudicare dall’agguato di Via Fani, non era migliorato.

A Milano, dunque, quel 16 marzo 1978 si schiamazzava. Coriandoli, triccheballacche, putipù. Paolo e io ce ne tornammo a casa presto. Nemmeno ricordo perché (o da chi, e quando) fossimo stati invitati alla festa (ma dovevano entrarci le edizioni L’erba Voglio di Fachinelli, dove l’anno prima avevamo pubblicato Adorno sorride). Personalmente leggevo volentieri memoir di rivoluzionari e storie del comunismo, che collezionavo e schedavo come schedavo e collezionavo romanzi sugli universi paralleli, ma del comunismo pratico e delle utopie a randellate, calci, pugni e paroloni non ne potevo più da un pezzo. Quanto ai comunisti, poi, meno se ne frequentano, pensavo già da tempo, e più ne guadagna la qualità della vita. Adesso, poi, dopo quel ridicolo pomeriggio milanese, la misura era colma.

Fu allora, in ogni modo, che mi decisi finalmente a comprare i primi due volumi, passati in Italia sotto silenzio, di Arcipelago Gulag, che Mondadori aveva tradotto e pubblicato nel 1974. Fu una lettura emozionante. Giovannino Guareschi avrebbe detto: «Utile e istruttiva». Sa il cielo perché non l’avessi letto prima. M’ero imbattuto, prima di leggerlo, come devo avere già detto qualche capitolo fa, ma repetita juvant, in una pacata riflessione d’Umberto Eco sull’opera e sulla figura di Solženicyn: «Un Dostoevkij da strapazzo».

Qui, con permesso, una parentesi.
Ero un grande fan di Solženicyn, quando mi capitò di lavorare con Giancarlo Vigorelli, nei primi anni novanta. Di Vigorelli non sapevo nulla, e ancora ne so poco, salvo che s’occupava di letteratura e che aveva scritto qualche libro, tra cui una biografia di Teilhard de Chardin, Il gesuita proibito, che ho lì dal tempo dei tempi e non ho mai letto.

Era una persona simpatica e gentile, cosa che mi stupì, perché prima di conoscerlo ero fortemente prevenuto. Era stato Solženicyn, citandolo con disprezzo nella sua autobiografia dei primi settanta, La quercia e il vitello, a mettermi in guardia contro di lui. Vigorelli, raccontava Solženicyn, aveva rilasciato una fantasiosa intervista a un giornale italiano nella quale millantava, di ritorno dall’Urss, d’aver parlato con l’autore dell’Ivan Denisovič, che la stampa borghese diceva oppresso dalle autorità, addirittura sul punto di finire di nuovo nei campi, mentre lui l’aveva trovato d’umore tranquillo, in buoni rapporti con l’Unione Scrittori, col partito, financo col Kgb. Vergogna, commentava Solženicyn, che non aveva mai incontrato Vigorelli, e nemmeno sapeva chi fosse. Per arruffianarsi gli altissimi papaveri sovietici, s’indignava il dissidente russo, Vigorelli aveva mentito alla stampa, prodigandosi per i persecutori e beffando le vittime. Ero indignato anch’io, finché non mi capitò di lavorarci insieme nella redazione del Giorno e, da lettore inesausto di spy stories, non capii cos’era quasi certamente successo: il dipartimento trucco e parrucco del Kgb aveva gabellato per Solženicyn uno dei suoi mutaforma (bastava poco per somigliare a Solženicyn: colbacco, barba finta, pelliccia, cartella dei manoscritti e croce ortodossa con tre barre traversali al collo). Come in Intrigo a Stoccolma, il grande film di Mark Robson, 1963, dove un sosia di Edward G. Robinson, qui nella parte d’un fisico occidentale premiato col Nobel, prende il suo posto e annuncia di volersi trasferire in Unione sovietica per mettersi al servizio della pace, gli «organi» sovietici avevano molto probabilmente fatto incontrare Vigorelli con una specie di malvagio sosia dostoevskiano di Solženicyn e quel povero merlo del biografo di Teilhard de Chardin c’era cascato (be’, ci sarei cascato anch’io).
Signori, i Dostoevskij da strapazzo del Kgb.

E per questa via – chiusa la parentesi – torniamo alla vecchia usuraia, a Raskol’nikov e Marmeladov, alla stufa elettrica, e soprattutto a Leoníd Grossman.
Saggista col passo del narratore, un po’ come Viktor Šklovskij, ma di gran lunga meno bravo e stuzzicante, Grossman per un po’ fu tra le mie letture preferite. C’erano soltanto due suoi libri tradotti in italiano: Dostoevskij artista (Bompiani 1961) e Dostoevskij (Samonà e Savelli 1968). Quest’ultimo, quando mi baloccai per la prima volta con Delitto e castigo, non era ancora uscito; dal primo, che sfoggiava ben «9 illustrazioni fuori testo», ritagliai con cura l’immagine black & white su carta lucida di Raskol’nikov, il nichilista originario, che brandisce l’ascia e intanto contempla le carcasse, ai suoi piedi, delle sue due vittime: la malvagia usuraia, e sua sorella, «una donna mite». Appesi l’illustrazione al muro, sopra la scrivania, e così – ogni volta che alzavo gli occhi dalla macchina da scrivere, un’Olivetti 44, roba vintage – mi ritrovavo a fissare Raskol’nikov che fissava i cadaveri straziati delle sue vittime.

Non sembra vero. Dico Micaletto, ma ero strano anch’io. Avrei potuto appiccicare al muro una pin-up con grandi poppe ritagliata da Playmen o da Le Ore, da Supersex, come facevano più dignitosamente i camionisti. O un poster del Presidente Mao, come forse facevano Micaletto e soci. C’era solo l’imbarazzo della scelta: la locandina di C’era una volta il West, una veduta del Grand Canyon, la faccia giuliva del Dalai Lama, una foto di famiglia, una Crying Girl di Roy Lichtenstein. E invece eccomi lì a contemplare, tra tutti i possibili soggetti che avrei potuto appendere al muro e guardare sorridendo beato ogni volta che alzavo gli occhi dalla macchina da scrivere, proprio l’immagine di Rodiòn Romànovič Raskol’nikov, l’Ur-nichilista («se l’ha fatto Napoleone, e tutti giù il cappello, potrò ben farlo anch’io, cazzo!») con l’accetta grondante sangue in mano. Ne avessi parlato con uno psicoanalista, per esempio Fachinelli, chissà le risate, seguite da una ricetta per il Valium e il consiglio di fare lunghe passeggiate, ma non ne parlai con nessuno: il nichilismo ebbe la meglio, come la Nutella su qualsivoglia dieta, e Raskol’nikov rimase appiccicato al muro, tipo un Elvis Presley satanico.

Dico nichilismo, ma intendo Dostoevskij, naturalmente. Egli denunciò l’inumanesimo nichilista a gran voce, ma ne era incantato, e invece di dissolverlo, come si proponeva, con argomenti vuoi razionali vuoi mistici, lo esaltò e lo spettacolarizzò, passandone la fiaccola prima a Nietzsche, quindi ai fascisti e ai bolscevichi, infine ai «malamente» religiosi, «pazzi di Dio» come lui (nell’Inferno a rovescio, in originale Inside Outside, un romanzo di Philip Josè Farmer, Dostoevskij è noto, tra i dannati, appunto come «Fëdor pazzo di Dio», e una ragione c’è: l’infatuazione nichilista). C’è più Raskol’nikov che Muḥammad nella jihad, e più Raskol’nikov che Kim Jong-un a Pyongyang. Vi stupireste se – incorniciata, sulle scrivanie di Putin e Trump, o di Osama bin Laden prima che gli saldassero il conto, accanto alle foto dei figli e di mammà – comparisse la stessa illustrazione stile Dracula che io avevo appiccicato al muro di casa mia un’era geologica fa, quando la parola «Islam» non faceva ancora pensare all’11 settembre e ai tagliatori di teste, come nel nuovo millennio, ma a Anthony Quinn, che nel 1962 aveva interpretato la parte di Awda Abu Tayi, sceicco e guerrigliero, in Lawrence d’Arabia di David Lean (un film semplicemente geniale, senza neppure l’ombra d’un difetto)? Intanto che elaborava trame astrattiste nelle quali i suoi eroi e antieroi, gli ossessi, i santi, gl’idioti, si muovevano come nei labirinti impossibili di M.C. Escher, Dostoevskij portò anche la morale della favola dove nessun moralista s’era mai spinto prima: fino a negarla con l’aria di volerla salvare dalla rovina. Tirò la volata al nichilismo, come i gregari, pompando sui pedali, la tiravano a Coppi e Bartali al Giro d’Italia.
Guai a dirlo, però. Anche pensarlo è male.

Oggi, con la Russia all’attacco dell’Ucraina e delle società aperte, Dostoevskij è diventato ancor più intoccabile del solito. Accennare al suo debole per l’Apocalisse, al suo fanatismo zarista, alla sua idea di Terza Roma, al suo ossessivo clericalismo, alla sua sperticata passione per modelli sociali autoritari è Verboten, vietato, politicamente scorretto. Eppure non sono opinioni stravaganti, o mai sentite prima. Sono piene le biblioteche di riflessioni sul lato oscuro di Dostoevskij. È proprio per il suo lato oscuro che l’autore di Delitto e castigo figura tra i più grandi romanzieri d’ogni tempo insieme a Melville, Dickens, Tolkien, Balzac, nessuno dei quali è però andato così vicino a capitombolare nell’abisso come lui.

Per Dostoevskij il Male è un’esperienza complessa, prismatica, e persino coraggiosa, come testimoniano i suoi demoni, i suoi Karamazov, i suoi adolescenti, i suoi epilettici e (aritanga) i suoi idioti, tutti meno innocui e meno santi di quanto si sforzino d’apparire. Fare il Male, nell’opera di Dostoevskij, è un tentativo d’esplorare, al sinistro scopo di conoscerle, le regioni estreme della natura dell’uomo e dell’universo. Agl’indemoniati Dostoevskij – che da giovane fu un utopista e che dopo la katorga (o casa dei morti, come lui chiamò la galera siberiana) tornò a sognare una società perfettamente conciliata – accorda lo status d’idealisti e di visionari o di criminali complicati. Non è una dichiarazione d’amore, ma poco ci manca. Sognatori, i demoni sbagliano a sognare le libertà occidentali, l’eguaglianza, la libertà di stampa e d’opinione, i diritti. Dovrebbero sognare, piuttosto, la sottomissione a un re clericale, e dunque anche un po’ filosofo, lo zar onnipotente, unto del Signore.

Dostoevskij evoca e invoca una sorta d’Islam ortodosso, che non vieta le immagini ma smania per le icone (ai santi ortodossi seguiranno i mammasanta del comunismo con monumenti, ritratti, agiografie, film e città chiamate col loro nome). Ciò che evoca c’è già, è la Russia, ma a lui ancora non sembra abbastanza, ne vuole di più, più Russia, più zar, più Chiesa ortodossa, più monaci e asceti, vuole che il russianesimo dilaghi nel mondo e lo raddrizzi, come dopo gli zar si proporranno anche Lenin, Stalin e Putin. Dostoevskij non si limita a denunciare, in anticipo sui tempi, lo scandalo universale del bolscevismo a venire, come gli sarà riconosciuto, ma con la sua opera lo annuncia e insieme lo fraintende: anziché la negazione dell’ortodossia, della Terza Roma, ne sarà il compimento. È nei «cantucci», dove gli uomini del sottosuolo e gli studenti radicali impegnati nella cospirazione, covano i loro rancori, che prende forma la Santa Russia sovietica dei nuovi re-imperatori, degli «intelligent» che leggono, interpretano, commentano e ritoccano Marx, dei pianificatori invasati che tifano per l’industria pesante e si proclamano seguaci del socialismo scientifico ma odiano la scienza, dei riformatori che detestano il contadiname e che, quale sia il delitto, conoscono un solo castigo: la morte.

«È possibile che io abbia letto troppo Dostoevskij», scrive Viktor Erofeev nel suo Il buon Stalin (Einaudi 2008). «Egli era effettivamente un figlio del secolo della miscredenza e ha portato alla rovina molte anime russe. Ha caricato sulle spalle dei lettori il suo classico abbandono di Dio, il suo vuoto, la sua impotente via crucis alla ricerca del senso. Ha trascinato la croce stramazzando lungo la via. C’era chi deplorava Gogol’ perché aveva scortato i russi in un oscuro bosco d’anime morte e li aveva abbandonati senza un barlume di speranza. Ma Gogol’ si reggeva a galla sulla sua lingua geniale come un nuotatore sul Mar Morto. Dostoevskij ha trascinato tutti a fondo. Pochi sono riemersi».

Ma all’epoca, in Via Verolengo, quattro maglioni, un caffè dopo l’altro, mentre fuori (forse) nevicava e io ero intrigato più dal delitto che dal castigo e le ore si facevano piccole senza che mi venisse sonno, di Dostoevskij sapevo ben poco. Avevo visto qualche sceneggiato in tv. Tutto qui, o poco più. Avevo forse qualche vago ricordo, ma non ci giurerei, dell’Idiota che Giorgio Albertazzi, nel 1959, aveva ridotto per il piccolo schermo e interpretato: un Principe Myskin giocondo e una San Pietroburgo di cartapesta. C’era stata, nel 1963, anche una riduzione televisiva di Delitto e castigo, ma mi era sfuggita, vai a capire perché. Più avanti, nel 1969, ci sarebbe stata una memorabile versione dei Fratelli Karamazov, che si può ancora vedere su RayPlay. Richard Brooks, regista del Seme della violenza (da Evan Hunter, cioè Ed McBain) e dei Professionisti, uno dei primi western «adulti», aveva diretto nel 1958 un Karamazov cinematografico con William Shatner (il Capitano Kirk di Star Trek) nella parte di Alëša e Yul Brinner nella parte di Dmitrij (un Dmitrij calvo circondato da suonatori di balalaika).

Per il momento c’era il libro che stavo leggendo. Avvinazzati sentimentali, aristocratici al di là del bene e del male, prostitute virtuose e pure, casi umani, famiglie in rovina, poliziotti che anticipano i grandi detective novecenteschi, assassini in preda a «febbri cerebrali». Che cosa sia una febbre cerebrale, e come questa febbre si distingua da una normale febbre batterica, non è ben chiaro, ma nei romanzi di Dostoevskij, al primo inciampo o saltabecco nichilistico, ne soffrono tutti. Da una parola in su, eccoli colti da «una specie di turbamento cerebrale». Raskol’nikov, in particolare, è sempre affetto da attacchi più o meno gravi di febbre cerebrale. Si guarda intorno, sospettoso, smarrito, e non è mai certo se quel che vede sta accadendo realmente o non si tratta piuttosto di un’allucinazione. Le allucinazioni sono un classico sintomo di febbre cerebrale dostoevskiana. Ma anche gl’incubi, le allucinazioni e persino le novelle fantasy-horror, tipo La leggenda del Grande Inquisitore, che Ivan Karamazov legge al fratello baciapile, a loro modo accadono davvero (Dio esiste, racconta Ivan, ma è un pasticcione, se non peggio, e dunque le sue opere vanno corrette, perfezionate, tanto che Egli stesso, alla fine della predica dell’Inquisitore, accetta di lasciare il governo degli uomini ai preti, ai funzionari sadomaso, ai teologi in stato d’ebbrezza e, alla lunga, ai bolscevichi).

Allegoricamente parlando, è attraverso la fiction che s’afferma il vero. Quindi è inutile star lì a chiedersi se Ivan Karamazov, sempre lui, sta davvero parlando con il demonio, che lo visita ogni notte tentandolo e coglionandolo, o se sta avendo un brutto sogno dopo un’indigestione di borsch con barbabietole, manzo, maiale e panna acida. «Disinvolto e amichevole», un «ospite inatteso», il diavolo di Ivan Karamazov, «non porta l’orologio, ma un occhialino di tartaruga raccomandato a un cordoncino scuro», ed è dotato d’un intelletto sottile, da sofista, un maestro della «vera causistica gesuitica». Dice cose «ragionevoli». Non parla male. Come contraddirlo, per dire, quando lamenta che non ci sono più i tormenti d’una volta, signora cara: «Prima ce n’era per ogni gusto, ma ora stanno diventando sempre più morali, “rimorsi di coscienza” e sciocchezze di questo genere». Come in Delitto e castigo, potrebbe aggiungere. (È per inciso lo stesso demòne che qualche decade più avanti incontra Adrian Leverkuhn nel Doctor Faustus di Mann).

A fare un brutto sogno, in Delitto e castigo, è Svidrigajlov, ricco e pervertito, forse anche lui un assassino, di certo un nichilista, e per di più uno stalker (molesta la sorella di Raskol’nikov, Avdot’ja Romànovna, che vuole assolutamente spulzellare).

Svidrigajlov era pensieroso. «E se là ci fossero solo ragni o qualcosa del genere?» disse a un tratto. «È pazzo», pensò Raskol’nikov. «Ecco, noi ci immaginiamo sempre l’eternità come un’idea che non si può comprendere, qualcosa d’immenso, immenso! Ma perché per forza immenso? E se invece, pensi un po’, ci fosse solo una stanzetta, sì, una specie di bagno di campagna, sporco di fuliggine, e ragni in ogni angolo, e l’eternità fosse tutta qui? A volte, sa, me la figuro cosí». «E davvero, davvero non immagina niente di piú consolante e piú giusto di questo?» esclamò Raskol’nikov con un senso di sofferenza. «Piú giusto? Ma chi può saperlo, forse proprio questo è giusto, e sa, io lo farei apposta cosí, assolutamente!» rispose Svidrigajlov, con un sorriso vago.

Dostoevskij, per costruire le sue trame metafisiche, dove ciascuno compie o fantastica un’azione e poi ci ricama sopra, usa il normale materiale da romanzo: amori contorti, tradimenti, intrighi familiari, passioni politiche, coincidenze, fatalità. Da queste trame, semplicemente dotando i personaggi d’un fioretto o d’un tomahawk, si potrebbe benissimo ricavare un romanzo di James Fenimore Cooper o di Dumas père. Per questo i suoi romanzi sono così belli. Nietzsche e Kafka – entrambi folgorati da Dostoevskij – non saranno altrettanto bravi né altrettanto profondi.

Ogni mossa dei personaggi di Dostoevskij, senza che le sue trame rocambolesche e concitate rallentino o ne risentano, è un puntaspilli di note a margine, d’incisi metafisici, di curve e spigoli filosofici. Abbondano gli aforismi e le frasi da citare. Solženicyn, invece, nessuna deviazione, non un inciso, zero note a margine. E mai una concessione alla trama: la febbre cerebrale comunista, parla da sé, forte e chiaro, inconfondibile, senza bisogno di protesi e bellurie.

Solženicyn non scrive romanzi neppure quando scrive romanzi. È uno storico e un memorialista, come Senofonte, e proprio come accade con Senofonte i personaggi più riusciti delle sue storie sono i fuggiaschi, gli zeck in fuga dal Gulag. Protagonisti d’evasioni destinate al fallimento, sono non di meno «fuggiaschi convinti», come li ha battezzati lui in Arcipelago. A differenza di Dostoevskij, che invoca l’etica senza crederci davvero, l’autore del Primo cerchio, di Divisione Cancro, di Lenin a Zurigo e dell’Ivan Denisovič è un sincero moralista, un nemico del totalitarismo comunista, almeno finché non si gratta la sua anima russa e non ne salta fuori un altro tartaro. Nessuno, escluso naturalmente Varlam Šalamov, autore dei Racconti di Kolyma, ha mai scritto memorie efficaci come Arcipelago Gulag e La quercia e il vitello. Solženicyn non perde tempo con la filosofia. Dieci volte più mistico e clericale di Dostoeskij, è cento volte più pratico e concreto di lui. Racconta quel che è capitato a lui, al suo paese, al popolo russo. Niente arzigogoli. Fatti, fatti, fatti.

Pochi libri, nella storia della letteratura universale, hanno cambiato il mondo. Per lo più si è trattato di buone novelle, d’annunci religiosi, di vangeli, bibbie e corani. Ma Arcipelago Gulag, che ha cambiato il mondo più di qualunque altro libro negli ultimi secoli, tutto è tranne che una buona novella. Non è nemmeno letteratura, come I demoni di Dostoevskij, del quale è tuttavia il capitolo finale, o Una giornata di Ivan Denisovič, il romanzo breve che mostrò anche ai russi sotto incantesimo di che materia sono fatti i sogni del comunismo (e gli abiti nuovi dei commissari del popolo). Arcipelago Gulag è un terrificante e straordinario pamphlet. È l’Inferno di Dante in forma di reportage. Come nella Divina Commedia, anche in Arcipelago Gulag è tutto vero e indubitabile (solo che Dante collocò la sua galleria di santi, mostri e peccatori all’interno d’una variopinta cornice fantasy, mentre in Arcipelago Gulag la cornice horror è vera quanto ogni singolo personaggio al suo interno, e i gironi infernali non sono metaforici).

Quel che si racconta in Arcipelago è così vero e così intollerabile che il mondo non poté adeguarvisi e ne fu trasfigurato. Era il 1974 quando il libro evase dalla Russia brezneviana e apparve in Occidente; il comunismo non gli sopravvisse a lungo. Rimase in coma ancora quindici anni, fino al 1989, poi furono gli stessi stalinosauri a decretare la propria estinzione.

Aleksandr Isaevič Solženicyn, con la sua barba incolta e la sua prosa ispirata, ricca d’anatemi e ammonizioni, aveva l’aspetto, la vocazione e forse anche la stoffa del profeta biblico. Perciò, anche se non furono una buona novella, le sue memorie dallo sprofondo dei campi di lavoro e sterminio sovietici furono egualmente testi religiosi: altrettanti capitoli d’una moderna Apocalisse. Furono i suoi reportage dal finimondo a trasformare i maoisti francesi, una delle peggiori ghenghe gosciste su piazza, in nouveaux philosophes e a privare il comunismo, in un lampo, d’ogni residuo appeal. Solženicyn era il profeta che invece d’annunciare future catastrofi ne raccontava una già avvenuta e irreparabile.

Parlava da un mondo postatomico, devastato dal fallout e da virus mutanti (come quelli delle storie di fantascienza, o come La strada lungo la quale s’incamminano il padre e il figlio senza nome di Cormac McCarthy). Esortò nel suo discorso più noto a «vivere senza menzogna». Chi decide di vivere senza menzogna «non scriverà più né firmerà o pubblicherà una sola frase che a suo parere distorca la verità. Abbandonerà qualsiasi seduta, lezione, riunione, spettacolo, proiezione cinematografica non appena oda una falsità, un’assurdità ideologica o frasi di sfacciata propaganda». Erano regole da sopravvissuti alla Bomba: il codice di chi è scampato alla morte nelle miniere di Kolyma, nei campi hitleriani, nelle guerre globali combattute in nome di razze, classi e Libri sacri.

Ma se il bolscevismo, che quando uscì Arcipelago Gulag dominava oltre la metà del mondo, non sopravvisse al libro che aprì gli occhi di chi fino a quel momento aveva finto di non sapere, non vedere e neppure immaginare, Solženicyn non sopravvisse al successo della sua missione. Esule in America, dopo il Premio Nobel e l’epulsione dall’Urss, continuò a indossare panni profetici, con l’aggravante del grottesco, come quando prese la parola ad Harvard per spiegare che «l’anima umana anela a cose più alte, e più calde, e più pure di quelle offerte oggi dall’esistenza massificata d’Occidente, annunciata dalla rivoltante invasione della pubblicità, dall’abbrutimento della televisione e dal frastuono di una musica insopportabile».

Erano parole da filisteo. Solženicyn, con la sua barba incolta, la sua camicia extralarge da mugicco e la sua voce tonante da pulpito, s’era ridotto a parlare come un Rasputin da Saturday Night Live. Sembrava John Belushi che faceva l’imitazione di Solženicyn. Dedicò più di trent’anni a scrivere La Ruota rossa, opera monumentale ma minore (nemmeno io, che tracanno praticamente ogni cosa, non importa quanto lunga e narcotica, sono mai riuscito a leggerla per intero). Scrisse anche un libro vergognoso sul rapporto tra russi ed ebrei (indovinate chi aveva ragione, o «non così torto», tra i «giudei» e i sobillatori dei pogrom). Tornò in Russia nei primi novanta. Accolto dapprincipio con grandi festeggiamenti, fu presto dimenticato e quando morì novantenne, nel 2008, il suo più caro amico era Vladimir Putin, al quale l’autore d’Arcipelago Gulag chiese – nel nome santissimo del Cristo Pantocratore, che nell’iconografia ortodossa saluta con le tre dita alzate della mano destra – di reintrodurre in Russia la pena di morte, «almeno» per i reati di terrorismo. Putin (che è Putin) rifiutò.

Sbaglierò, ma avrebbe rifiutato anche Sauron, l’Oscuro Signore, il super villain d’un altro libro che ha cambiato, a modo suo, la storia del mondo. Erano i primi mesi del 1968. Pentendomene quasi subito, mi ero appena sbarazzato, svendendola ai bancarellai, della mia vasta collezione di fantascienza, faticosamente accumulata negli anni. Avevo deciso che, passato da A.E. van Vogt e Philip Josè Farmer al marxismo, quella era roba per me troppo frivola. Qualche mese fa, quando cominciarono a uscire in edicola, allegati al Corriere dello sport, i fumetti di Flash Gordon nella geniale versione di Dan Barry di cui mi ero stupidamente privato in gioventù, tornai a ripetermi, per l’ennesima volta, d’aver sbagliato tutto, come capita sempre quando si fanno mosse avventate.

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C’era una volta l’America di Georges Simenon https://www.carmillaonline.com/2023/12/20/cera-una-volta-lamerica-di-simenon/ Wed, 20 Dec 2023 21:00:32 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=80422 di Sandro Moiso

Georges Simenon, L’America in automobile, Adelphi Edizioni, Milano 2023, pp. 187, 16 euro

Perché partire? Non lo so. Per dove? Lo ignoro. C’è da credere che il mio destino sia di andare sempre in cerca di qualcosa. Ma di che cosa? (Georges Simenon – Memorie intime)

Nell’ottobre del 1945 Georges Simenon sbarca a New York, dopo essere sostanzialmente fuggito dalla Francia, dove pesavano su di lui le accuse di collaborazionismo e le minacce di epurazione dovute al contratto firmato, fin dal 1941, con la Continental Films, società a capitale tedesco diretta dal produttore Alfred Greven, che durante [...]]]> di Sandro Moiso

Georges Simenon, L’America in automobile, Adelphi Edizioni, Milano 2023, pp. 187, 16 euro

Perché partire? Non lo so. Per dove? Lo ignoro. C’è da credere che il mio destino sia di andare sempre in cerca di qualcosa. Ma di che cosa? (Georges Simenon – Memorie intime)

Nell’ottobre del 1945 Georges Simenon sbarca a New York, dopo essere sostanzialmente fuggito dalla Francia, dove pesavano su di lui le accuse di collaborazionismo e le minacce di epurazione dovute al contratto firmato, fin dal 1941, con la Continental Films, società a capitale tedesco diretta dal produttore Alfred Greven, che durante l’occupazione aveva realizzato e distribuito nove film tratti dai suoi romanzi.

Con la moglie Tigy e il figlio Marc, per conoscere meglio il paese dove pensa di iniziare una nuova vita, parte al volante di una Chevrolet per un viaggio di migliaia di chilometri, che dal Maine lo porterà sino a Sarasota, sul Golfo del Messico. Ad attirarlo, come sempre, sono la gente e «i piccoli particolari della quotidianità ».

Così, colui che aveva sempre captato, ovunque nel mondo, un disperato e insoddisfatto bisogno di dignità, finirà per essere conquistato dalla «forte tensione verso l’allegria e la gioia di vivere» che sprigionano le semplici ed essenziali case americane, dalla cordialità che regola i rapporti di lavoro, dalla fiducia in sé stessi che le scuole sanno inculcare negli studenti, dalla squisita cortesia degli abitanti del Sud e scoprirà che proprio nella sua nuova patria, vige «un tipo di vita che … tiene conto più di qualsiasi altro della dignità dell’uomo».

Detto ciò si potrebbe affermare che lo sguardo di Simenon, di solito sempre così attento al dissidio permanente tra realtà vissuta e immagine che della stessa vorrebbe dare il perbenismo borghese, si sia appannato di fronte all’American Way of Life. Uno sguardo in cui difficilmente entrano le differenze sociali legate alla linea del colore e altre disparità economiche e politiche della Land of the Free.

Anzi, all’interno del reportage appena pubblicato da Adelphi nel volume 797 della «Piccola Biblioteca», l’autore sembra decisamente propendere per l’opposto, ad esempio là dove afferma che le casette degli afro-americani, da lui osservate in qualche sobborgo del Sud, susciterebbero l’invidia di qualsiasi operaio francese. Ma per comprendere queste “sviste”, queste “anomalie” nel discorso di Simenon sulla realtà in cui stava cercando di inserirsi occorre, come è sempre doveroso, contestualizzarlo.

Nel 2020, sempre per le edizioni Adelphi e nella stessa collana con il numero 758, era uscita una raccolta di reportage dello stesso Simenon che raccontavano i viaggi dello stesso in un’Europa già cupa e in cui si respirava già aria di guerra sia a centro che nelle periferie orientali1. Un’Europa per certi versi somigliante, soprattutto nei fattori politici di divisione che correvano lungo le sue frontiere, in particolare a Est e Nord-est, a quella odierna. Un’Europa caratterizzata dai piccoli egoismi nazionalistici e da una miseria crescente tra le classi medie e meno abbienti.

E’ un quadro triste e meschino quello che viene dipinto in quelle pagine, in particolar modo nel reportage che ha ispirato il titolo del volumetto2. Meschineria che attraversa sia la mente degli abitanti delle regioni visitate che quella dei governi locali oppure delle potenze europee maggiori. Una meschinità senza altra visione che quella del revanscismo nazionalista, di tutti contro tutti e di ogni singolo paese rispetto a quello più vicino, che oltre a preparare il terreno per il futuro macello imperialista scatenatosi a partire dal 1939, in qualche modo spiega la visone dell’unità “politica” europea che, nel confino di Ventotene, avrebbero avuto Altiero Spinelli, Ernesto Rossi e Eugenio Colorni nel 1941 come proposta per un “manifesto un’Europa libera e unita”. Poi tradita nella sua concreta realizzazione dalla scelta di unificare l’Europa più dal punto di vista finanziario che politico.

Ma anche l’esplorazione della novella patria del socialismo in un solo paese3, vista attraverso le difficoltà burocratiche opposte ad ogni passo dello scrittore, o di qualsiasi altro visitatore nella terra dei soviet già stalinizzata, oppure l’ossessione governativa per il controllo e della lunga mano della Ghepeù o, ancora, della miseria diffusa e visibilissima non aiuta Simenon a dipingere un quadro meno fosco o più speranzoso per il futuro dell’Europa o del mondo. Quadro che non viene affatto migliorato dalla visita che lo scrittore compie a Prinkipo, isola del Mar di Marmara nelle vicinanze di Istanbul o Costantinopoli, per intervistare un isolato e, tutto sommato, aristocratico Trockij, già esiliato dal paese che aveva contribuito a “rivoluzionare” soltanto qualche anno prima4.

Tra questi “tristi” viaggi e il dossier americano scorrono una dozzina d’anni quasi tutti, però, segnati, prima, dalla guerra civile in Spagna e successivamente dalla vera e propria guerra mondiale, in cui la Francia, per non parlar del Belgio di cui Simenon era originario, perde del tutto la sua centralità e miserabile grandeur; ed ecco allora delinearsi come sia stato possibile che, così come fu per molti nel secondo dopoguerra occidentale, che anche per un occhio fino come quello dell’implacabile osservatore del male di vivere delle classi borghesi e piccolo borghesi, gli Stati Uniti, al colmo della loro potenza post-bellica, potessero illudere il visitatore di essere arrivato in una specie di nuovo e più felice mondo, apparentemente molto diverso dal quadro di rovine economiche, politiche, morali e sociali che caratterizzavano l’Europa del secondo dopoguerra5. Però la ragione non risiede soltanto in questo. Infatti, come scrive Ena Marchi nel saggio in coda al reportage simenoniano:

Sono anni che l’America attrae Simenon; e già prima dello scoppio del conflitto era stato tentato di trasferirvisi. Sicché, all’arrivo a New York, il 5 ottobre 1945, dopo dodici giorni di navigazione, prova, così racconta nelle Memorie intime, «una soddisfazione profonda …come quando alla fine si arriva a casa e ci si rilassa con voluttà. E anche una sorta di allegria»: allo stesso modo in cui, ventitré anni prima, era sbarcato alla Gare du Nord deciso a conquistare Parigi, infatti, lo scrittore intende non soltanto iniziare una nuova vita, ma soprattutto ingaggiare, lancia in resta, la sua «battaglia americana». E questo significa, tanto per cominciare: acquisire, grazie ai romanzi e al cinema, quella notorietà che oltreoceano ancora gli sfugge – e, ancor più importante: guadagnare un sacco di soldi6.

Simenon rimarrà negli States per dieci anni e non conseguirà tutti i risultati sperati, soprattutto con Hollywood, ma tra le cause dei suoi diversi spostamenti da una parte del continente, prima del definitivo ritorno in Europa, ci sarà soprattutto l’intima irrequietezza che l’ha accompagnato per tutta la vita. Come ci ricorda ancora l’autrice della postfazione, attraverso le parole dello stesso Simenon.

«Ho passato la vita a viaggiare, a traslocare, a cambiare contesto, abitudini (tranne quelle che hanno a che fare con il mio lavoro). Eppure non esco volentieri dal mio guscio». Era così a Lakeville, a Carmel, a Tucson, in Florida. «Mi scavo una tana, mi ci sistemo con i miei e non ho nessuna voglia di uscirne fino al giorno in cui, senza sapere perché, non mi sento più a casa e riparto con tutta la mia famiglia per ricominciare altrove». Ma qual è la ragione di questa irrequietezza, di questo bisogno di cambiare aria?| «Il fatto che il reale non dura a lungo, per esempio? Intendo dire il tempo nel quale consideri come reali, importanti, personali, certe pareti, certi mobili, il colore delle tende, la strada che va in città… Sì, dev’essere qualcosa del genere, dal momento che ogni volta che trasloco mi libero del mobilio e della maggior parte degli oggetti per ripartire praticamente da zero. Ricominciare ogni volta la vita da zero!»7.

In realtà c’è in quell’irrequietezza l’inconsapevole coscienza del fatto che non esiste davvero un luogo o un paese “ideale” in cui vivere tutta una vita. Lo si avverte già nel primo (1946) e più lungo dei tre reportage americani contenuti nell’America in automobile, che proprio da quello prende il titolo. Quando l’autore giudica sinteticamente la capitale di quello che dovrebbe essere il nuovo paese in cui vivere per il resto della vita.

Tutto è così armonioso, così ricco, così signorile da darvi l’impressione che ogni mattina qualcuno passi l’aspirapolvere nell’intera città. Stesso discorso per gli abitanti. Non sono uomini come voi e me. Né gli americani né gli stranieri che risiedono lì. Sono tutti funzionari. Ahimè, a loro probabilmente non piacerà questa parola! Diciamo che sono i nuovi re, la nuova aristocrazia, quella delle persone che occupano un posto più o meno rilevante in una delegazione o in un office. Gli uni sollecitano risorse da distribuire in patria, gli altri distribuiscono risorse o valutano se farlo, ma in fondo è lo stesso. Sono persone che vivono in un mondo a parte, che si ritrovano nelle stesse ambasciate, agli stessi ricevimenti, negli stessi ristoranti, insieme alle mogli, e che poi di notte riappaiono nei night dei dintorni in compagnia delle dattilografe. [In] questa piccola società in cui ognuno dirige qualcosa e in cui i problemi umani vengono considerati solo dal punto di vista delle statistiche […] avrete l’impressione di leggere la Vita segreta della Corte di Francia. Washington è una grande capitale e al tempo stesso una cittadina di provincia in cui si sa tutto di tutti. Anzi, non è neanche una città: è la Corte. Una Corte democratica, il cui onnipotente presidente abita in una casa bianca non molto più grande delle altre, con intorno un parco circondato da inferriate. Ma pur sempre una Corte, dove il nuovo cappello della moglie dell’ambasciatore tal dei tali diventa il centro della conversazione e dove ogni occasione è buona per ostentare i propri gioielli. L’aspetto esteriore? Ricorda un po’ certi angoli di Neuilly. È bella e noiosa da morire (« barbosa al massimo », come dice la mia segretaria canadese). È l’unico posto negli Stati Uniti in cui si trovano ancora uomini che paiono figurini e riescono, non si sa come, a restare impeccabili dalla mattina alla sera8.

La noia, come sempre, sembra costituire alla fine il minimo comune denominatore delle partenze improvvise, degli amori fugaci, dei tradimenti coniugali e delle mai soddisfatte esigenze sessuali e affettive di Simenon. Anche in America, dove giungerà quando i rapporti tra lui e la prima moglie Tigy sono ormai ridotti alla pacifica convivenza, anche se rimangono uniti per amore del figlio, e dove Simenon, cercando una nuova segretaria, conosce Denyse Ouimet, che diverrà la sua seconda moglie e la madre di altri tre figli.

Una storia che verrà raccontata dallo stesso Simenon in quella che sembra costituire la sua ultima opera e, allo stesso tempo, la sua personalissima autobiografia “adulta”, scritta a Losanna tra il febbraio e il novembre del 1980 e pubblicata nell’ottobre dell’anno successivo: Memorie intime9. Memorie in cui l’esperienza americana occupa 400 pagine sulle 1030 dedicate all’intera vita dell’autore, dal suo trasferimento da Liegi a Parigi, intorno agli anni Venti del XX secolo fino al suicidio della figlia Marie-Jo, avvenuto il 19 maggio 1978.

Scritto apparentemente per commemorare la figlia, in realtà costituisce un tentativo di Simenon per placare il dolore e i sensi di colpa e in questo modo dà vita, rivolgendosi direttamente al primo figlio Marc preso a testimone, a una sorta di grande affresco, in appendice al quale l’autore ha voluto aggiungere tutti gli scritti della figlia suicida, come omaggio alla stessa. Vittima prima e addolorata dell’irrequietezza paterna.

Da quella irrequietezza e da quella esperienza in America nasceranno alcuni dei romanzi più conosciuti di Simenon come La morte di Belle, Il ranch della giumenta perduta, Luci nella notte, Il fondo della bottiglia, L’orologiaio di Everton, Maigret va dal coroner e l’ambientazione della seconda parte di Delitto impunito. Tutti segnati, come sempre dal male di vivere e infinitamente distanti da quella “innocente” visione del nuovo mondo e della sua vitalità che sembrano caratterizzare gran parte del reportage appena pubblicato in Italia.

Viaggio che lo aveva condotto prima in Florida e in Texas, poi successivamente in California e infine nel Connecticut, dove a Lakeville avrebbe trascorso gli ultimi anni prima di ripartire definitivamente per l’Europa il 19 marzo 1955. Durante queste diverse tappe erano nati i figli, John e Marie-Jo. di Simenon e Denyse Ouimet, della quale parla, nelle Memorie intime, senza mai pronunciare il suo vero nome, in sostituzione del quale utilizza l’iniziale D.

Pierre Assouline, uno dei suoi maggior biografi, ha affermato:

Separare l’uomo Georges dallo scrittore Simenon sarebbe assurdo almeno quanto cercare di separare il contenuto dalla forma: sarebbe altrettanto assurdo non considerare i testi di Simenon come documenti di riferimento, col pretesto che la sua opera, poiché presumibilmente immune al Tempo e alla Storia, sia altrettanto refrattaria alla biografia. L’intero vissuto di Simenon riaffiora nei suoi lavori, per quanto trasfigurato e trasposto. Senza il dono inspiegabile dell’assimilazione, l’alchimista Simenon non avrebbe potuto trasformare il piombo della vita di Georges nell’oro della finzione letteraria10.

E su questa base è possibile concludere che L’America in automobile, diventa un viatico straordinario per comprendere le delusioni successive dell’autore, l’amarezza e l’irrequietezza che ne accompagnarono la vita e la scrittura fino a quel colpo di pistola al cuore con cui la figlia Marie-Jo avrebbe posto fine alla propria vita, a soli venticinque anni, nel 1978.

«Save me Daddy – I’m dying – I’m nothing more, I don’t see my place – I’m lost in the space, the silence of death. Forget my tears but please, believe in my smile, when I was your little girl, many years ago. Be happy for me – Remember my Love, even if it was crazy. That’s for what I’ve lived and for what I die now» (Marie-Jo Simenon, 1978)


  1. Si tratta di Georges Simenon, Europa 33, dove 33 sta per 1933  

  2. G. Simenon, Europa 33 ora in G. Simenon, op. cit, pp, 11-126.  

  3. G. Simenon, Popoli che hanno fame (1934) in G. Simenon op.cit., pp 188-370.  

  4. G. Simenon, Una visita a Trockij (1933) in op.cit., pp. 163-187.  

  5. In merito alla miseria e alla devastazione, anche morale, che caratterizzarono l’Europa dopo la seconda guerra mondiale può essere utile la lettura di K. Lowe, Il continente selvaggio. L’Europa alla fine della seconda guerra mondiale, Editori Laterza, Roma-Bari 2013 oppure, per l’Italia meridionale, N. Lewis, Napoli ‘44, Edizioni Adelphi, 1993 o, ancora, in forma romanzata, C. Malaparte, La pelle (prima edizione 1949) , Adelphi 2010.  

  6. E. Marchi, Il viaggiatore incantato in G. Simenon, L’America in automobile, cit,, p. 153.  

  7. E. Marchi, op.cit., pp. 154-155  

  8. G. Simenon, L’America in automobile, cit., pp. 84-85.  

  9. G. Simenon, Memorie intime. Seguite dal “Libro di Marie-Jo”, Adelphi Edizioni, Milano 2003  

  10. P. Assouline, Georges Simenon. Una biografia, Casa editrice Odoya, Bologna 2014, p. 11.  

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