di Raùl Zecca Castel
La storia è vera e ormai nota. Siamo nel 1841, Stato di New York. Solomon Northup è un affermato violinista che conduce una vita agiata e confortevole insieme alla moglie Anne e ai suoi due figli Margaret e Alonzo. Ma soprattutto, Solomon è un uomo nero, merce assai preziosa negli Stati del Sud, dove la schiavitù è un affare a dir poco redditizio. Per questo viene rapito con l’inganno, trafugato e venduto come schiavo al proprietario di una piantagione della Louisiana, dove trascorrerà dodici terribili lunghi anni, tagliando canna da zucchero, disboscando e raccogliendo fiocchi di cotone, il tutto tra schioccar di fruste, impiccagioni, stupri e altre atrocità. Solo grazie al provvidenziale intervento di un convinto abolizionista bianco la vicenda di Solomon trova il felice epilogo della libertà riconquistata, ma il prezzo per la trasposizione cinematografica della sua autobiografia è davvero troppo alto. E purtroppo non si ferma al costo del biglietto.
Un film attesissimo, già vincitore di un Golden Globe e candidato a nove premi Oscar. E la cosa non stupisce affatto, poiché si tratta di un film squisitamente, visceralmente e a tratti perfino noiosamente americano, del tutto in linea con lo spirito autocelebrativo caratteristico del cinema – e non solo – statunitense. Diversamente da ciò che forse vorrebbe essere, 12 anni schiavo è un film di bianchi, per bianchi, sui bianchi. Il vero protagonista, come aveva ben inteso la BIM – la casa di distribuzione italiana -, è l’abolizionista Samuel Bass, interpretato da Brad Pitt e finito in primo piano sui poster pubblicitari della pellicola.
“Abbiamo sbagliato e chiediamo scusa, è stato un errore di valutazione”, ha poi dichiarato il direttore generale della BIM Antonio Medici. Ma il dubbio è che l’affermazione sia stata espressa solo per placare le polemiche, dal momento che la valutazione pareva invece molto appropriata. Sebbene canadese, Samuel Bass incarna alla perfezione quell’America saggia perché consapevole delle proprie debolezze, capace di riconoscere gli errori commessi e di riparare il debito. È quello di Samuel Bass il volto vincente, sano e riappacificante del lieto fine. Ma il conto, dice il proverbio, si fa con l’oste e Steve McQueen è sembrato dimenticarsene. Troppo comodo pensare che una nazione possa sbarazzarsi del senso di colpa storico contratto con la schiavitù e il razzismo attraverso l’idea che, per dirla ancora una volta con un altro proverbio, tutto è bene quel che finisce bene. Senza considerare, inoltre, la sospetta sensazione, che si insinua poco alla volta in chi assiste al film, di percepire un messaggio quantomeno imbarazzante, vale a dire che, in fondo, questi neri non stavano poi così male nelle piantagioni sudiste, sempre che fossero buoni lavoratori.
Certo che vi erano padroni sadici e spietati, ma era davvero la regola generale? E la loro frusta non puniva solo gli indomiti? Le immagini quasi idilliache delle belle casette adibite agli schiavi neri, così come quelle che si soffermano sui momenti di meritato riposo e sulla irrealisticamente conviviale raccolta del cotone stridono e feriscono ben più dei ripetuti colpi di frusta che la povera Patsey (Lupita Nyong’o) ha dovuto subire durante una delle scene più impattanti del film, cruenta quanto basta per far tornare alla memoria La passione di Cristo nella versione splatter di Mel Gibson. Eppure la schiena suppliziata di Patsey, al di là dell’orrore e del disagio fisico che suscita, non denuncia la sofferenza peggiore: la vergogna e l’abiezione del razzismo e della schiavitù.
Ma non è tutto. Per entrare nel merito della critica cinematografica, dato per assunto il privilegio che la regia conferisce all’estetica (sacrificandone l’etica), resta il fatto che le interpretazioni degli attori non sono affatto magistrali, complice una dimensione a tratti caricaturale dei personaggi, specie in Edwin Epps (Michael Fassbender), il bianco cattivo, così come in Samuel Bass (Pitt), il salvifico bianco buono. Per quanto riguarda il ruolo del protagonista, Solomon, risulta discutibile la stessa scelta di Chiwetel Ejifor, incapace persino di essere inespressivo.
Concludendo, un’occasione mancata. 12 anni schiavo è un film debole, freddo e piatto, che non coinvolge e non emoziona, perché evita la complessità e la profondità della riflessione a favore di una sceneggiatura semplicisticamente lineare in cui alcuni dialoghi risultano talmente didascalici da sfiorare la banalità. Uniche note positive quelle della colonna sonora (per cui non è candidato all’ambita statuetta dorata) ed, evidentemente, la scenografia. Non dubitate, dunque. Il film sarà un successo agli Academy Awards, ma noi potremo consolarci con il pensiero che Queimada, nel lontano 1969, non ottenne nemmeno una candidatura agli Oscar.