di Valerio Cuccaroni
Geraldina Colotti, Talpe a Caracas. Cose viste in Venezuela, Jaca Book, 2012, pp. 181, € 16,00
Con la morte di Chávez, il 5 marzo scorso, il reportage di Geraldina Colotti Talpe a Caracas, pubblicato ad agosto 2012 da Jaca Book e dedicato proprio al Venezuela chavista, avrebbe dovuto perdere di attualità. La lettura dei tredici capitoli che compongono il libro è, invece, la prova provata del contrario, perché, innanzitutto, il protagonista dell’opera non è Chávez, che, anzi, di persona, dopo le primissime pagine a lui consacrate, appare poco e di sfuggita, sebbene il suo apporto alla storia recente del Venezuela sia ricostruito minuziosamente e il suo spirito aleggi come quello di un nume tutelare, ovunque.
Il vero protagonista di Talpe a Caracas è il popolo venezuelano, o meglio gli attivisti coinvolti in quel proceso bolivariano, con cui, per impulso dello stesso Chávez ma sull’onda lunga della guerriglia degli anni Sessanta e Settanta e del Caracazo (la ribellione popolare del 1989 che mise in crisi il sistema democratico puntofijista, al potere da trent’anni), si è inteso riprendere e portare a termine quanto iniziato ai primi dell’Ottocento dal libertador Símon Bolívar, contribuendo in maniera decisiva all’indipendenza di Bolivia, Colombia, Ecuador, Panama, Perù e Venezuela. Il vero protagonista di Talpe a Caracas, insomma, è il movimento dal basso che prima ha ispirato, poi sostenuto e ora alimenta la svolta socialista del Venezuela.
Eroine ed eroi del Venezuela bolivariano
Le prime eroine, che incontriamo in questo reportage autenticamente epico sono le femministe del collettivo Ana Soto, che nel 2011 hanno organizzato la Conferencia Mundial de Mujeres de Base Revolucionaria, offrendo la prima occasione a Colotti per visitare il paese, con un viaggio finanziato da «molte strutture, associazioni, centri sociali, raccogliendo soldi per i biglietti e organizzando iniziative: dal circolo ARCI di Imperia al Guernica, al 32 di Roma, alla Casa Internazionale delle Donne» (p. 57). Poi ci sono i combattenti, come Bernardo Borges, guerrigliero negli anni ’60-’70, quindi console del Venezuela a Napoli; i militanti del Partito Socialista Unito del Venezuela (PSUV), come Josephina, che, reggendo con una mano il passeggino e con l’altra la bandiera rossa del partito, dichiara che Chávez «ha ridato dignità e coscienza» (p. 16) ai poveri e ai senza-potere, ovvero all’80% dei popolo bolivariano. Appaiono, inoltre, molti attivisti dell’Associazione nazionale delle reti e delle organizzazioni sociali (Anros), che agiscono nella società per la formazione politica e culturale dei movimenti di base venezuelani, nella convinzione che alla “competenza” della politica professionale si contrapponga «l’esperienza empirica che deriva dal conflitto sociale e che dà forza alle proprie opinioni», nota Colotti, con accenti postnovecenteschi, i quali, «riflettono il diverso rapporto con le rappresentanze politiche, la sfiducia nello schema e nelle sfere separate», in direzione di quella «democrazia partecipativa e protagonica» che dovrebbe superare i limiti di quella rappresentativa e su cui si basa la Costituzione bolivariana» (pp. 136-137).
La Storia della rivoluzione bolivariana e le storie dei senza-volto
Il libro, in effetti, è pieno della grande Storia della rivoluzione bolivariana di Chávez, ma anche di piccole storie dei «senza voce», o meglio dei «senza-volto», come el pescador, un «piccoletto», fondatore della cooperativa di pescatori e pescivendoli “Maremar per…”, che, durante la visita di Chávez a Roma del 2005, gli si era accostato mostrandogli il passamontagna dei disobbedienti zapatisti (p. 13). Nel Venezuela bolìvariano questo popolo ha trovato, non solo una voce, ma anche uno spazio, come, per esempio, nella «Casa Bicentenaria»: uno stanzone grigio, allietato dai murales e dai poster che raffigurano grandi padri e grandi madri del socialismo; «una casa occupata, uno spazio pubblico per tutta la comunità del Petare (barrio di Caracas, ndr)», spiega all’autrice Jasmi Jiménez, coordinatrice della Casa.
«A partire dal 1999 – ci ricorda Colotti – il governo bolivariano ha promesso di risarcire il “debito sociale” accumulato dallo stato nei confronti degli esclusi dalla ricchezza. In tredici anni, non solo si è sconfitto l’analfabetismo, ma si sono aperte le porte all’istruzione superiore gratuita e a quella universitaria. I programmi sociali – le misiones – sono state le leve per far crescere la “coscienza delle masse”, come avremmo detto una volta. Una strategia di self-empowernment rivolta agli ultimi della catena, oggi soggetti a pieno titolo di questa società in cammino» (p. 137).
La questione di genere
Colotti sottolinea spesso che la maggioranza delle persone che si sono impegnate e continuano a impegnarsi in questa svolta socialista del Venezuela è costituita da donne, anzi, a dar retta a Jiménez, il Venezuela bolivariano è «donna: una donna che lotta, che ama il suo compagno e si occupa dei panni, ma si occupa anche del paese» (p. 17). Non a caso, la questione di genere è uno degli assi portanti su cui ruota Talpe a Caracas: emblematico, da questo punto di vista, è l’incontro con Viki Ferrara-Bardile, vicepresidentessa della Comisión de Estilo de la Asamblea Nacional Constituyente, che ricorda come il lavoro della sua commissione consista nel declinare gli articoli della magna charta anche al femminile, fatica non da poco e che ha richiesto fervida inventiva, «perché spesso – sottolinea Viki – l’accezione di genere costituisce una diminuzione, come nel caso di poetessa, avvocatessa… La parola uomo, sia quello delle caverne che quello di oggi, quando viene usata come sinonimo di genere umano, ci rende invisibili. Il linguaggio, come sappiamo, è uno strumento di potere. Non a caso, se è corrente dire la segretaria, non lo è altrettanto dire segretaria esecutiva» (p. 58).
Inizialmente Viki, come molti altri venezuelani, non erano entusiasti di Chávez, perché era un militare, poi, però, la realtà si è rivelata «per quella che è: le donne sono le principali beneficiarie delle politiche messe in campo da questo governo. In primo luogo nel lavoro» (p. 59).
Gli apostoli della rivoluzione e il cristianesimo sociale
Molto resta da fare, tuttavia, visto che in Venezuela la società è ancora fortemente maschilista e manca una legge sull’aborto. La figura della donna, in questo stato profondamente cattolico, è ricalcata su quella, remissiva, di Maria. Il cambiamento, anche in questo caso, dovrà venire dal basso, per opera delle donne stesse che dovranno liberarsi della doppia morale di cui sono schiave (si condanna l’aborto a parola ma poi lo si pratica di nascosto) e dall’interno della religione cristiana, con il recupero della carica rivoluzionaria di Cristo. Perché il socialismo a cui si richiama il Venezuela è quello di Marx e Rosa Luxemburg, che richiama il messaggio del Cristo «originario», appunto, il «primo martire antimperialista» (p. 13). Un cristianesimo sociale che dice: «Non si viene alla luce quando si nasce, ma quando quella luce la si diffonde agli altri» (ibidem).
Così, capita a Colotti di fermarsi davanti alla comune autogestita Panal 2021 di Caracas per ammirare un «gigantesco murale che rappresenta a suo modo l’Ultima Cena: intorno a Gesù ci sono gli “apostoli della rivoluzione”. Un pantheon che va da Marx a Marulanda (il defunto dirigente guerrigliero delle Forze Armate Rivoluzionarie Colombiane), passando per Bolívar, fino ad arrivare a Chávez» (p. 52). In effetti, la vera inconciliabilità non è tra cristianesimo e rivoluzione, ma, come emerge in un colloquio con suor Chiara nel monastero di clausura Nostra Signora di Coromoto, tra «Chiesa dei poveri» e «Chiesa istituzionale», perché, fa notare l’autrice alla suora, «il messaggio originario di Cristo, proprio nel concreto del bisogno sociale, sceglie da che parte stare, raggiungendo quello del comunismo», sebbene, secondo la religiosa, sia Comunismo che Chiesa «hanno bisogno di essere purificati, mettendosi continuamente alla prova della realtà» (pp. 95-96).
Pur di mantenere buoni rapporti con la Chiesa cattolica locale, Chávez, come ricorda Colotti, ha immolato «sull’altare del dialogo l’autodeterminazione femminile», escludendo dalla Costituzione aborto ed eutanasia: ciononostante la Chiesa ha respinto il progetto costituzionale, approvato nel 1999, attirandosi le ire del Presidente. Eppure, ci sono vescovi, come monsignor Nelson Torrealba, consigliere ecclesiastico per il Venezuela presso la Santa Sede nel 2007 e ora tornato nell’arcidiocesi di Barquisimeto, che «rimangono a fianco dei poveri, nonostante le minacce della Curia» (p. 97); e ci sono sacerdoti, come padre Vidal Enrique Atencio dell’arcidiocesi di Maracaibo, che sostengono apertamente il governo di Chávez, finendo per essere trasferiti in zone residenziali, abitate dalla classe media, ostile a Chávez.
Infine, c’è un’altra Chiesa, quella evangelica, che è molto meno titubante nel sostenere il proceso bolivariano e forse anche per questo è sempre più diffusa in Venezuela.
Formare per trasformare, ovvero: rovesciare il problema della sicurezza
Un altro elemento critico, nel paese di Chávez, è rappresentato dalla violenza e dalla corruzione: «Come mai – si chiede Colotti –, nonostante una evidente politica di giustizia sociale che ha drasticamente ridotto il livello di povertà estrema, il tasso di omicidi rimane ancora così elevato? Perché, in un governo che mette in avanti i valori del socialismo, il tasso di corruzione rimane così alto?» (p. 81). I segnali di controtendenza, certo, non mancano e l’autrice ce li ricorda: con l’incremento delle grandi misiones sociali, rivolte agli strati più umili della società, tra il 2006 e il 2011 sono diminuiti anche i reati contro la proprietà, essendo aumentati i posti di lavoro e migliorata la qualità della vita. Tuttavia, sottolinea Colotti, «benché i salari siano stati aumentati per decreto e i prezzi degli alimenti principali siano stati abbassati per decisione governativa, l’inflazione (che pure ha subito una evidente riduzione) rimane comunque alta. E, in un paese abituato a trarre la propria ricchezza dalla rendita, l’invito al consumismo è altissimo (soprattutto per gli adolescenti), mentre l’idea che si debba contribuire alla qualità dei servizi con un ritorno retributivo resta molto distante prima di tutto dai settori sociali che potrebbero farlo» (ibidem). Inoltre, come ha spiegato bene un reportage di Maurice Lemoine su «Le Monde Diplomatique» (Caracas brucia?, settembre 2010), interessi oscuri alimentano il flusso di droga e violenza per disinnescare un cambiamento che nuoce agli interessi dei poteri forti.
Qualcosa si è mosso, tuttavia. Visto che la corruzione è alta soprattutto fra i poliziotti, tra il 2006 e il 2008 il governo ha cercato di operare un rovesciamento del problema, disegnando un nuovo modello di sicurezza: in seguito a un processo di consultazione popolare, da cui è emerso il quadro di una polizia violenta, corrotta, razzista, classista e inefficiente, con la conseguente necessità di lavorare sul rispetto dei diritti e sulla formazione della polizia era ricorrente, si è fatta largo, sulla scorta della pedagogia degli oppressi del brasiliano Paulo Freire, la strategia del «formare per trasformare» (p. 74), si è creata la Universidad Nacional Experimental de la Seguridad (UNES), un’università sperimentale per la polizia, e si sono riconvertite società illegali parallele, cresciute nelle carceri abbandonate a se stesse, come, per esempio, la rete di famigliari e detenuti, cresciuta spontaneamente nel carcere Retén de Catia trent’anni fa e trasformata nel 2008 nella fondazione Tren del Sur, che i detenuti hanno legalmente registrato con l’aiuto dei loro avvocati (p. 87).
Parlando di carceri, la storia personale di Colotti si intreccia con l’esperienza vissuta in Venezuela, perché, come noto, l’autrice ha passato oltre vent’anni dietro le sbarre, a causa della sua militanza nelle Brigate Rosse e la prima visita compiuta in un carcere venezuelano, quello di La Planta, ha coinciso anche con il primo ingresso, in assoluto, da visitatrice in un penitenziario, dopo la lunga detenzione: «Mi sembra così strano potervi accedere con questa facilità, andando a trovare il detenuto “Tal dei Tali”», annota l’ex brigatista (p. 83). E la realtà che si trova davanti è quella di una « città dei bassifondi, cresciuta nell’abbandono per anni», che è in contraddizione evidente con quanto affermato da Chávez: «Storicamente il sistema penale e penitenziario nacque con una vocazione meramente punitiva. Questa è una visione capitalista. Ora si tratta di sostituire questo sistema punitivo con uno umanista» (p. 85). Il cammino da compiere, anche in questo caso, è ancora lungo.
Conclusioni
Da Talpe a Caracas, nonostante l’autrice cerchi, da buona cronista, di far parlare i fatti e i protagonisti, senza trionfalismi, spira un soffio di speranza nel proceso bolivariano, alimentato dalla constatazione che nel paese vi è una « straordinaria partecipazione popolare alla vita politica», che «si percepisce nelle strade e ha il suo perno nella cultura, nel grande sforzo di alfabetizzazione generale condotto dal governo. Agili e colorati, i libretti della Biblioteca Basica Tematica, ognuno affidato alla penna di un esperto, affrontano il tema del lavoro, della terra, del conflitto di genere, dello stato…» (p. 114). E l’essenza del Venezuela bolivariano, secondo Colotti, sta proprio qui, «nell’aver rimesso in moto una straordinaria partecipazione popolare» (p. 10).
Dopo i viaggi del febbraio-marzo 2011 e del gennaio-febbraio 2012, in cui l’autrice ha raccolto i materiali confluiti in Talpe a Caracas, opera che, peraltro, vale la pena segnalare, ha riscosso successo anche in Venezuela, grazie alla traduzione in spagnolo della casa editrice Vadell Hermanos, Colotti è tornata nel paese latinoamericano tra ottobre e dicembre 2012, per seguire la malattia di Chávez e le elezioni, poi i funerali del presidente, a marzo di quest’anno: da questi e ulteriori viaggi, oltre che dalle cronache scritte per «Il manifesto», nascerà un nuovo libro, dal titolo provvisorio Dopo Chávez, tra la gente, con cui potremo riprendere a scavare nella rivoluzione bolvariana.