di Saul Bellow
Più di sessant’anni fa, grazie al mio
professore di inglese del liceo, ho imparato a
memoria lunghi passi della Ballata del
Vecchio Marinaio di Coleridge. Il marinaio,
come ricorderete, ferma un invitato che sta
andando a un matrimonio e lo costringe ad
ascoltare la sua storia.
L’invitato, offeso, grida:
“Smettila!Via la mano, vecchio pazzo!”
Subito la sua mano lo lasciò.
Egli lo tiene con l’occhio scintillante…
Coleridge ci racconta che il banchetto è cominciato, i
musicisti stanno già suonando, la sposa è bella come
una rosa, eppure il marinaio non ha intenzione di lasciar
andare il proprio ascoltatore:
L’ospite nuziale si batte il petto,
Non ha scelta, può soltanto ascoltare…
Questi versi mi tornano spesso alla mente quando
penso alla possibilità che un narratore ottenga
attenzione, perché i marinai di oggi e di ieri, anche
ammesso che la loro richiesta sia sempre così intensa e
inesorabile, non riescono certo a impedirci di andare a
tutti i banchetti nuziali che ci vengono imbanditi.
Non è
semplice far sì che la gente ascolti, e una volta ascoltato
presti anche attenzione e infine si persuada. Queste
difficoltà sono radicate nel cuore stesso della
condizione dell’uomo contemporaneo, perché ormai
abbiamo imparato ad ascoltare e non ascoltare, a essere
presenti e assenti allo stesso tempo.
Ci sono centinaia di modi per parlare della
condizione moderna, definizioni come “nuovo universo
urbano” o “trasformazione della coscienza umana”.
Marx, Kierkegaard, Nietzsche e i loro epigoni e
interpreti ci hanno consegnato un lessico per descrivere
questi fenomeni “moderni” o “postmoderni” o “postpostmoderni”.
Io preferisco mantenere la prospettiva di
uno scrittore, un romanziere. Gli scrittori sono inclini a
sottrarsi a espressioni come “alienazione”, “ultimo
uomo”, “ribellione delle masse”, perché limitano la loro
personale disamina delle cose umane. Formulazioni del
genere tendono a essere d’impaccio per uno scrittore.
Lo distraggono, e distrazione è appunto il termine con il
quale io designo la più grave delle nostre difficoltà. Noi
ci troviamo in un insopportabile stato di distrazione.
Quando si fa un mestiere che si fonda sulla capacità
personale di ottenere e mantenere attenzione, la
distrazione, compatta e diffusa com’è a livello
planetario, è precisamente la condizione ostile contro la
quale si è chiamati a combattere. La distrazione, alla
quale mi capita spesso di pensare come a un fortissimo
rumore di fondo, è la barriera attraverso la quale lo
scrittore, il pittore, il musicista e il pensatore devono
aprirsi un varco. La distrazione è il confine entro il
quale opera il difficile tentativo di indurre gli altri a
prestare attenzione all’essenziale, nel momento in cui
questa attenzione è sollecitata da ogni parte. Uno
scrittore, dunque, si trova a competere non tanto con
altri scrittori quanto con tutti i grandi poteri politici e
sociali, ciascuno dei quali reclama incessantemente una
porzione della nostra mente.
Visto che ho cominciato con Coleridge, posso ora
rifarmi al suo amico Wordsworth e rammentarvi il suo
celebre aforisma secondo il quale la poesia nasce da
“un’emozione ricreata in tranquillità”. Ma in questo
vasto terreno comune di turbolenza la mente è obbligata
a volare molto lontano per poter trovare un posto
davvero tranquillo dove fermarsi. L’emozione diviene
instabile, là dove la distrazione è così diffusa. Vasti
progetti e imprese vivono della nostra attenzione e
fanno di tutto per ottenerla, spesso con mezzi più
ingannevoli che corretti. Ogni giorno siamo spinti a
comprare automobili, cosmetici, pillole per tenerci in
buona salute, antidolorifici, sonniferi, siamo invitati ad
aprire conti in banca, a fare investimenti, a soddisfare i
nostri capricci, a finanziare iniziative, a entrare in club,
a fare vacanze all’estero, ad acquistare computer
dell’ultima generazione. Con questo non voglio mettere
sotto accusa il marketing e la società dei consumi, ma
accumulare prove che servano a interpretare gli effetti
di queste attività commerciali, nonché di altre attività,
sulla nostra mentalità e cultura.
Un professore di un’università californiana (che a
quanto sembra non aveva niente di meglio da fare) ha
calcolato che in un qualsiasi giorno della settimana il
New York Times contiene più informazioni di quante
un contemporaneo di Shakespeare avrebbe potuto
raccogliere nell’arco di una vita intera. Sono pronto ad
ammettere che questo possa essere più o meno vero,
anche se ho il sospetto che le informazioni in possesso
di un elisabettiano di buona cultura fossero meglio
organizzate rispetto a quelle dei lettori del Times. Non
riesco a immaginare che qualcuno sia disposto a leggere
da cima a fondo tutte le pagine di un quotidiano. Vi
assicuro che anche un lettore ossessivo, che si fosse
messo in pensione o fosse ricoverato in ospedale o in
preda alla disperazione, arriverebbe al massimo a poter
fare in una giornata solo questo e nient’altro. Con
l’edizione domenicale del Times, poi, ciò sarebbe
assolutamente impossibile, e se qualcuno riuscisse a
farlo il risultato sarebbe un ingolfamento
dell’intelligenza per parecchio tempo a venire.
Dobbiamo presumere quindi che il giornale sia letto
in modo selettivo, e che i principi di questa selezione, se
ben fondati, ci spingerebbero ad avanzare dubbi
sull’oggettività dei fatti riportati, a sollevare questioni
sulla politica del giornale, sull’onestà dei cronisti, sulle
opinioni espresse dai commentatori e dai columnist. Ci
sono persone convinte che la pletora di informazioni
contenute nel Times o in qualsiasi altro quotidiano o
rivista abbia in realtà poco valore. Ci sono anche
osservatori autorevoli che sostengono la tesi secondo
cui i giornali non danno affatto agli americani una
rappresentazione reale del mondo, e che al massimo essi
forniscono soltanto quella versione parziale del mondo
che viene offerta al pubblico.
Quanto allo schermo televisivo, devo dire che sono
preoccupato per l’influenza complessiva della Tv sugli
americani, non per via di ciò che essa li induce a
comprare, ma perché non indirizza la loro attenzione su
alcunché in particolare. La televisione immette individui
isolati in un ambiente formato da milioni di altri
individui, e consente loro di partecipare alla vita
dell’intero paese. Restituisce le coscienze atomizzate
alla totalità – non a una vera comunità, ma a un attraente
simulacro di comunità – e introduce, attraverso il
magnetismo di una promessa di unità, differenziazioni
selvagge. Forse ciò che noi cerchiamo attualmente nella
televisione è distrazione sotto forma di realtà. Ci
aggiriamo barcollando in un mondo che è soltanto
simile al mondo reale. Siamo in preda a un’eccitazione
insensata ma violenta, uno stimolante efficace ma di
breve durata.
Le funzioni del telecomando ci consentono di saltare
avanti e indietro, di mescolare insieme inizi, svolgimenti
e conclusioni. Nulla di ciò che accade segue un ordine
di qualche tipo. La pratica dello zapping può essere
intesa come un’asserzione di indipendenza o di
superiorità o di controllo portato all’estremo, una
dichiarazione di autonomia. È come se un individuo
dichiarasse che egli non è da annoverare fra coloro che
si lasciano davvero influenzare da qualcosa, e
rivendicasse non solo l’intenzione di non lasciarsi mai
intrappolare dalle reti televisive, ma anche l’orgoglio di
essere libero da ogni influenza, di condurre un’esistenza
sovrana e autodeterminata.
Supremamente inattaccabile, egli è il folletto che
nessuno può catturare – ma dietro l’angolo c’è sempre in
attesa la più astuta delle volpi. Alla fine la distrazione ci
cattura tutti, e annienta la nostra capacità di attenzione.
Per quale motivo nell’edizione feriale del Times il
cruciverba si trova nella pagina culturale? Perché menti
farcite di nozioni superflue e male assortite possano
mettersi alla prova, sforzandosi di ricordare fatti che in
realtà non avrebbero alcun particolare bisogno di
conoscere. Molto probabilmente il lettore colto prima
leggerà le recensioni dei libri e poi si svagherà con le
parole crociate. La gente è fiera della propria capacità di
“far torn are tutto” a dispetto della confusione che ci
circonda. Molto tempo fa ho scritto che quello di cui
aveva bisogno questo paese era una buona sintesi al
prezzo di cinque cent. Ma che sarà di coloro che a
nessun prezzo sono in grado di venire a capo di una
sintesi, che sono travolti e sommersi dall’incoerenza,
dallo squilibrio, dal delirio?
Mentre cercavo di trarre un senso dalle discussioni in
Tv sul problema della droga, mi è venuto da pensare
che forse è la televisione stessa a spingere la gente a
fumare crack o ad assumere cocaina. La partita per
l’autodeterminazione e la sovranità individuale sta
diventando ingiocabile, e i contendenti sconfitti cercano
nei narcotici una manifestazione estrema di
individualità. Nelle ultime settimane, l’accostamento di
due argomenti tipici della stampa e della televisione,
droga e scuola, suggeriscono un’analogia e
potenzialmente perfino un’identità di cause.
I media, con la loro misteriosa tecnologia, possono
fare ben poco per insegnarci a leggere nei fatti. Fanno
parte anch’essi dell’eccitazione che generano. Non sono
in grado di fare luce sulle enormità che riferiscono.
Quando ci scuotono i nervi non sembrano fare altro che
rispondere a una domanda diffusa, perfino universale, a
una ben individuabile richiesta di orrori. Sembra che
non possiamo mai saziarci di omicidi politici, ecatombi
per fame in Etiopia, sequestri di ostaggi, aerei che
esplodono in volo, guerre per la droga, città in preda
all’anarchia, genocidi cambogiani, tragedie di boat
people, soldati cinesi che sparano sulla folla.
Naturalmente gli eventi in sé non sono imputabili ai
media, anche se talvolta i media giocano effettivamente
un ruolo negli eventi, e possono venire manipolati dai
terroristi o dai governi e sedotti per diffondere
disinformazione e propaganda.
Questi terribili eventi sono presentati altresì in forma
di intrattenimento, e devono lasciare spazio agli
obiettivi primari delle reti televisive. In un medium che
ha come fine l’intrattenimento, non ci si può soffermare
troppo a lungo su di essi. Divengono rapidamente
obsoleti. Nelle cronache, qual è la permanenza media di
un disastro? Qual è il ritmo del turnover per quanto
concerne gli scandali governativi o le attività illecite a
Wall Street? Chi si ricorda ancora dell’affare dei
documenti del Pentagono? Dopo avere avuto il loro
momento di notorietà, gli scandali devono farsi da parte.
Noi non siamo stimolati o incoraggiati a trarre da essi
alcun significato, e non possiamo aspettarci che i media
educhino il pubblico seguendo fino in fondo gli sviluppi
di queste vicende.
Non tutti gli orrori possono trovare un posto nella
galleria degli orrori. Negli anni 1932-33, Stalin decise
di annientare il popolo ucraino. I suoi agenti
sequestrarono e portarono via qualsiasi genere
commestibile. Ci furono come minimo sette milioni di
morti; alcune stime salgono fino a quindici milioni.
Tutto questo è affermato da ricerche condotte qui a
Harvard su iniziativa del programma di studi ucraini.
Ebbene, il New York Times degli anni 1932-33 non dà
alcuna notizia di questo sterminio per fame. E dal
momento che il nostro principale registro dei fatti non
dà notizia del genocidio, esso non occupa alcun posto
nella galleria americana degli orrori. Sono stati compiuti
dei tentativi per mettercelo, ma i nostri media perlopiù li
hanno ostacolati. Ho letto di recente che un
documentario su questo assassinio di massa venne
rifiutato dalla maggior parte delle stazioni televisive
pubbliche del nostro paese, e che quando il film fu
finalmente proiettato al New York Film Festival venne
criticato dal Times come “decisamente non obiettivo”.
Nell’articolo che ho letto ci si domandava come avesse
potuto Mosca imbavagliare i media occidentali,
asservire gli intellettuali occidentali e ipnotizzare i
governi occidentali. Per mezzo secolo la vicenda è
rimasta affossata. Quando infine lo studio condotto in
una delle più importanti università e un film premiato
hanno portato alla luce il genocidio e il suo
occultamento, i media statunitensi non si sono
giustificati. Perché?
Una risposta possibile è che questo crimine è già
vecchio di cinquant’anni. Che ce ne facciamo di un
crimine vecchio di cinquant’anni, anche se di simili
dimensioni? Inoltre le relazioni fra le superpotenze
stanno migliorando, perciò i giornali non vogliono
mettere le mani in un vecchio genocidio. Nel sistema
d’informazione più intrattenimento dei media, così
come nella versione politicamente corretta della storia
del ventesimo secolo, non c’è posto per lo sterminio per
fame degli Ucraini. Un’altra spiegazione possibile è c he
il livello di eccitazione del pubblico è già molto alto.
Quale sarebbe la reazione davanti a un altro orrendo
crimine? A che scopo iscrivere l’olocausto degli Ucraini
sulla mutevole superficie della memoria collettiva?
Forse le generazioni future vorranno studiare la
documentazione storica; ma noi non possiamo farci
granché.
Qualcuno di voi dirà: “Abbiamo sentito questo
autore descrivere una condizione atroce. Cosa propone
di fare al riguardo?”. Io non propongo assolutamente
niente. Il mio unico compito è descrivere. I problemi
sollevati sono di ordine psicologico, religioso e –
pesantemente – politico. Se noi non fossimo un pubblico
mediatico governato da politici mediatici, il volume
della distrazione forse potrebbe in qualche modo
diminuire. Non spetta a scrittori o pittori salvare la
civiltà, ed è uno sciocco errore il supporre che essi
possano o debbano fare alcunché di diverso da ciò che
riesce loro meglio di ogni altra cosa. Il marinaio
impedisce all’invitato di farsi distrarre dal matrimonio.
Lo costringe a fermarsi con lo scintillio del suo sguardo.
L’invitato alle nozze ascolta, pur controvoglia, e quando
il mattino dopo si sveglierà sarà un uomo più triste e più
saggio. Ecco un efficace paradigma del potere del poeta.
Lo scrittore non può fermare nel cielo il sole della
distrazione, né dividere i suoi mari, né colpire la roccia
finché ne zampilli acqua. Può però, in determinati casi,
interporsi tra i folli distratti e le loro distrazioni, e può
farlo spalancando un altro mondo davanti ai loro occhi;
perché compito dell’arte è la creazione di un nuovo
mondo.