Non ho fatto nulla. Non ho favorito e non ho finanziato, non ho diretto, promosso, organizzato la strage, ma devo chiedere scusa. Chiedo perdono al popolo americano: non ho fatto nulla per evitare la morte di migliaia di uomini e di donne. Chiedo perdono e allo stesso tempo, ancora una volta, non manco di esprimere la mia gratitudine all’America e agli americani. Se l’America non fosse stata conquistata dagli europei, non avremmo il pomodoro e quindi la pizza, la vera pizza, di cui si nutre l’identità della nazione italiana. Se non vi fosse stata la migrazione forzata degli africani in America, e quindi il meticciato afroamericano, non avremmo la musica blues, jazz, rock, soul, rap, che hanno plasmato l’immaginario di generazioni di terrestri. Questa, se permettete, è dialettica al cento per cento. Ma non devo indugiare: chi intenda fare autocritica, senza peraltro rischiare il carcere e i lavori forzati, chi chieda indulgenza e perdono, non può abusare del tempo e della pazienza altrui.
Ero a casa di mio zio, una domenica pomeriggio di qualche anno fa. Ero seduto davanti a uno schermo, accanto a mio cugino, in camera sua. Poteva essere il giorno di Pasqua del 2000 o del 2001. Mio cugino, come sempre, mi mostrava siti della rete, foto e programmi informatici. Quel giorno sciorinò un vasto assortimento di videogiochi nuovissimi e antichi. I videogiochi non mi divertono, anzi di solito mi irritano, ma quel giorno non fu così, perché grazie a mio cugino ritrovai un reperto della mia infanzia. Era quello che io chiamo un pitale etrusco, una di quelle vecchie cose quotidiane che il tempo rende preziose e commoventi. Insomma, per farla breve, giocai per la prima volta dopo vent’anni a Invasori Alieni.
In questo gioco gli alieni, masse sterminate di alieni, tentano di invadere la Terra. Assaltano le nostre fortezze con tattica prevedibile ma strategia inesorabile. Avanzano lenti come buoi che arano la terra. Muoiono come disciplinate schiere di un esercito settecentesco, o come fanti ubriachi della Grande guerra usciti in frotta dalla trincea. Gli invasori alieni però non indugiano a riflettere, non disertano e non fanno rivoluzioni. Sparano di rado, ma non indietreggiano mai. La loro forza è il numero. Sembrano felici di consumare le munizioni e i nervi del nemico. La morale del gioco è: se non li uccidi tutti, prima o poi arrivano. Ma si può uccidere chi è numeroso come i morti? Come i morti da Caino in poi?
Ancora una volta sperimentai che in questi giochi sono un inetto. A dire la verità non mi sono mai applicato con metodo e serietà. Mi irritavano, questi giochi, e non volevo spendere la mia paghetta. Non investivo sul mio futuro. Non capivo che sono giochi formativi, per chi voglia fare certi lavori. Ma non indugiamo. La maggior parte dei videogiochi di mio cugino consisteva nell’eliminazione di un nemico o in gare di velocità e destrezza: sparare e annientare, correre in auto o in moto, fuggire in un labirinto da chi ti vuol divorare e poi inseguirlo a tua volta per divorarlo, correre su di un nastro trasportatore come l’omino di Tempi moderni e saltare e schivare e arrampicarsi e salire in cima. C’era però un gioco che mi piaceva più degli altri, che senza dubbio valeva la pena di provare. Era Flight Simulator 98, un simulatore di volo, un programma della multinazionale di Bill Gates.
Così, per la prima volta in vita mia, pilotai un aereo. Che differenza fa per voi se io, Giorgio Macchia, piloto davvero un aereo per finta, o se fingo di essere un eroe che pilota un aereo davvero? Con un certo impaccio afferrai a due mani una piccola cloche e cercai di farlo atterrare. Mio cugino era decollato dall’aeroporto di Londra, o di Tokyo, con un aereo da turismo, ma lo aveva trasformato, prima di passarmi i comandi, in un velivolo a elica, di quelli che guidavano il Barone Rosso o Gabriele D’Annunzio. Si poteva infatti scegliere l’aereo, la pista, le condizioni atmosferiche, l’ora della giornata. Bisognava regolare la velocità, l’assetto e l’altitudine dell’aereo. Si potevano fare picchiate, impennate repentine, rollii, giri della morte, senza alcun rischio e senza paura – quella che prende le viscere e fa tremare le ginocchia – come i lettori di un romanzo di avventure: senza che nulla ci potesse accadere. Queste evoluzioni, a dire la verità, le faceva soprattutto mio cugino, che nel mondo di fango e di sabbia, con la sua moto, se la cava bene quanto in un’asettica palestra virtuale.
L’aereo diventò, come si legge sulle tavole illustrate di un famoso vocabolario, «un aviogetto a lungo raggio». Ma se proprio non potete fare a meno, e magari ci tenete, a nominare le cose con il marchio di fabbrica, vi dirò che era proprio un Boeing e col numero di matricola giusto. Non c’è bisogno di dirlo. Comparve all’orizzonte Manhattan. Guidavo un aereo, di notte, verso la città più importante del mondo. Verso il centro economico del mondo. Come potevo resistere al piccolo demone che mi sussurrava di tentare un passaggio tra le Torri Gemelle? Il demone e mio cugino dicevano le stesse parole. Scommisi che se mai fossi passato, di sbieco, con le ali quasi verticali, tra le Twin Towers, accanto all’unico grattacielo di New York di cui ho raggiunto la cima, nel giro di dieci anni una rivoluzione, o il Messia, avrebbe trasformato il mondo e cambiato la vita di tutti, anche la mia. Dovete darmi atto che, al contrario di un banale nevrotico ossessivo, ebbi il merito di non giocare d’azzardo con la vita di un parente o di un mio vicino di casa. Scommisi sulle sorti del mondo intero. Provai, ma non ci riuscii. Non ci riusciva neanche mio cugino: entrambi ci schiantammo. Ci schiantammo così tante volte, che alla fine si cominciò a farlo di proposito e a sghignazzare giulivi. Non è per questo che chiedo scusa al popolo americano. Potrei dire che il mio errore fu di non prevedere l’orrenda, l’imminente carneficina. Ma mentirei, perché invece mi venne in mente che qualcosa del genere poteva davvero accadere. Non potevo evitare, non potevo impedire a me stesso di pensarlo. Si poteva fare, si poteva fare per gioco senza lutti e rimorsi, ed era possibile, era senz’altro possibile anche nel mondo, nel mondo di Newton. Non mi presi sul serio, questo è certo, e tantomeno mi presi la briga di fare una telefonata o di inviare una lettera per avvertire, come sarebbe stato mio preciso dovere, le autorità competenti.
Il 4 luglio del 2001 mi trovavo in zona universitaria, in una sala studio, davanti a un terminale della vasta rete infotelematica mondiale. Lo dico con una certa enfasi nella mia lingua perché in quel momento mi sentivo un neurone soddisfatto e a proprio agio, o meglio una felice comunità di neuroni bene accolti, inclusi, inseriti, integrati, con piena cittadinanza, in un sistema nervoso globale. Visto che ricorreva l’anniversario della Dichiarazione d’Indipendenza degli Stati Uniti d’America decisi di visitare il sito della CIA. Mi soffermai a leggere una pagina che riguardava i concorsi e i requisiti per essere assunti da quell’ente pubblico. Pensai che come straniero forse avrei avuto più possibilità di lavorarvi in nero o come collaboratore occasionale. Presto voltai pagina e approdai al porto dell’FBI – come un lettore di romanzi, e come membro della rete, d’identità mutevole o incerta, per quasi mezzo minuto mi finsi un corsaro delle Isole Cayman. Che cosa potevo fare da quelle parti? In quel porto non si trovavano bettole, così andai subito a consultare la lista dei maggiori ricercati. Il primo della lista, il ricercato più famoso, di cui già conoscevo il nome, non ero io; era, non c’è bisogno di dirlo, Osama bin Laden. Guardai bene la sua foto. Non l’avevo mai incontrato per strada, questo è certo, ma l’avevo visto più di una volta in televisione. Mi piaceva il suono, l’ambiguità di quella parola: Osama… Mi sembrava un nome femminile, misterioso, una formula magica.
Mi resi conto che con le tredici lettere del nome Osama bin Laden potevo comporre anche il nome della mia ragazza. Potevo formare decine e decine, forse centinaia, di brevi frasi, più o meno sensate, con in mezzo parole d’ogni sorta come “e-mail”, “Medina”, “linda”, “Losanna”, “andino”, “anodina”, “sondai”, “amando”, “alieno”, “domani”, “balena”, “osannai”, o anche il nome ebraico di Colui che invano non si nomina. Provai ad anagrammare l’intero nome del ricercato. “Ma di albe non sa”, “Seminando alba”, “Alba, semi d’Onan”, “Semina al bando”, “Non biade ma sal”, “Salme, non biada”, “Salme non badai”, “Noi: banda salme”, “Salmo di banane”, “Badi, non salame”, “Banane ma soldi”, “Se l’abominanda”… Mi fermai a riflettere. “Salme non badai” sembrava esprimere disprezzo per il corpo e indifferenza per la morte. “Noi: banda salme” forse poteva alludere a una banda di uomini votati alla morte. “Salme, non biada” palesava senza dubbio una cultura luttuosa e cruenta, evocava messi e pastura di cadaveri. E queste mie ipotesi, per quanto assai bizzarre, sembravano confermate da “Se Libano manda”, “Da Libano a mens” e “Mensa da Libano”.
Forse ero sulla strada giusta, anche se rischiavo di smarrire la pista, di perdere la traccia che tentavo di annusare. I nonsensi e le facezie di dubbio gusto potevano dirottarmi dall’intimo significato di quel nome, un significato latente che forse cominciavo a intuire. Dovevo essere più serio e metodico. Io, mi dicono gli amici e i colleghi, che spesso non distinguo quando uno scherza o dice sul serio, che fatico a vestirmi in modo appropriato ai luoghi e alle circostanze, che dico sempre nel momento più sbagliato quello che sarebbe meglio tacere, sono però capace di ricordare parola per parola un manuale intero, comprese le tavole illustrate e le note. Senza staccare lo sguardo dallo schermo per un solo istante, disegnai nella mia mente la facciata di un grattacielo, una facciata con cento finestre, che una dopo l’altra si accesero nella notte. A ogni finestra illuminata si sporgeva il viso di un anagramma.
Quando la facciata del palazzo fu quasi del tutto illuminata, cominciai a rileggere. Leggevo e poi oscuravo ad una ad una le finestre. Oscuravo le finestre e quasi cancellavo dalla memoria gli anagrammi che mi distraevano dall’intima verità di quel nome: “Non biade! L’asma!”, “Balsamo Nadine”, “L’Ade non mi basa”, “Manola si benda”, “Mandela Bosnia”, “Ibsen o mandala?”, “Made in NSA labo”, “Sadam? Non abile”, “Bile non a Sadam”, “Né d’anima bolsa”, “N.B. Loda l’amnesia”, “Saba non maledì”, “L’oda Sabin. Amen”, “Lana, se ami Bond…”, “Lesbo damn naia”, “Bi sad man alone”, “Mi badan al seno”, “Bada al nano, Sem”, “Bea non mi salda”, “Bia da me non sal”, “La mia donna è S. B.”, “Simona è blanda”, “Se blinda a mano”, “Anelano Simbad”, “Bando l’amnesia”, “Blonda amnesia”, “Bold anamnesia”, “Blod anamnesia”… A pensarci bene anche questa babele, questo delirio, questi anagrammi zoppi e balbuzienti, sembravano talora racchiudere una profezia. Non volevano forse suggerire che quell’uomo audace e maligno avrebbe sparso del sangue, avrebbe destato l’Occidente dal torpore e dall’oblio? L’anagramma “L’Ade non biasma” mi confermava il tristo connubio tra Osama e la Morte. L’Ade non biasimava Osama e Osama non bestemmiava l’Ade. Della Morte, non certo del Misericordioso, Osama sarebbe stato profeta e servitore. “Sbandano lamie” forse ribadiva che bande di terroristi, torme di lamie, di creature assetate di sangue, avrebbero presto compiuto le loro esecrande imprese. Le creature avrebbero deviato da una lettura corretta della Scrittura, si sarebbero disperse e sparpagliate per il mondo, avrebbero avanzato serpeggiando verso i loro obiettivi. “Mal bande siano” e “le basi mandano”, infine, mi diede la certezza che si erano formati piccoli nuclei di terroristi, che da qualche parte del mondo era stata intrapresa una missione, che un attentato sarebbe stato imminente.
La mia certezza venne meno quando cessai di sentirmi una comunità di neuroni in sintonia con la rete infotelematica mondiale. Mentre tornavo a casa e riadattavo i sensi al sole di luglio, mi resi conto che, come spesso mi accade, avevo solo giocato con la fantasia, che sul ricercato non sapevo nulla di nuovo, che ignoravo dove, come e quando i terroristi avrebbero compiuto l’attentato. Quello che avevo creduto di scoprire dagli anagrammi era risaputo, forse anche scritto nel sito che avevo appena visitato. Forse, in uno stato di trance, come si vede in tanti filmacci, avevo memorizzato quelle pagine.
Stordito dalla realtà, la realtà dell’estate, la stagione più reale e inconsapevole, dimenticavo che da qualche parte della mia mente potevo trovare una risposta alle mie domande: una risposta parziale, è vero, ma pur sempre una risposta. Non ricordavo quel pomeriggio di Pasqua a casa di mio cugino. Non ricordavo di sapere come e dove sarebbe avvenuto l’attentato. Nessuna parte della mia mente prevedeva il giorno della strage, ma io, da qualche parte di me, già sapevo che prima o poi un aereo, guidato da uomini votati alla morte, si sarebbe schiantato contro i grattacieli del World Trade Center.
Ci pensai, ne fui consapevole, più tardi, alla fine di luglio, al mare, una notte, prima di dormire. Pensai che se lo avessi detto in giro non mi avrebbero preso sul serio. Era un’ipotesi, non potevo dare certezze. Se ci avevo pensato io, in fondo, potevano pensarci anche uomini più autorevoli e competenti. Che cosa potevo fare? Non sapevo né il giorno dell’attentato, né i nomi dei terroristi. Con questi argomenti tacitai la mia coscienza. Mi addormentai. Per più di un mese non ci pensai più. Non ci pensai in vacanza, ma nemmeno quando tornai in città. Perciò chiedo scusa al popolo degli Stati Uniti d’America. Chiedo scusa, ma questa non fu la mia peggiore e la mia ultima colpa.
La mattina dell’11 settembre io e la mia ragazza finivamo d’imbiancare i muri di casa. D’inverno sulle pareti meno esposte al sole si era formata della muffa. Lo dico perché non è escluso che questi particolari abbiano ispirato la mia premonizione. Quella mattina ci eravamo svegliati presto e senz’altro quel pomeriggio avremmo finito. Era caldo, eravamo piuttosto stanchi e affamati. Decidemmo di pranzare prima dell’una.
Siamo seduti a tavola, l’uno di fronte all’altra. La guardo in viso e la apostrofo con un nomignolo affettuoso, così credevo, inventato al momento. Di solito, per stuzzicarla, le storpio o le cambio il nome con una parola appena letta o sentita per caso, ma quel giorno no: le imposi un nome che da almeno un mese non avevo pronunciato né ascoltato. La chiamai Osama.
Prima di ripetere quella parola misteriosa, quella formula magica, non ricordavo che parte delle tredici lettere di “Osama bin Laden” possono comporre il nome della mia ragazza: questa consapevolezza, a lungo sommersa, tornò ad affiorare solo allora, come la faccia scialba di un annegato. A pancia piena, mentre bevevo il caffè, pensai che l’attentato fosse imminente. Mi dissi che i terroristi avrebbero colpito nel giro di poche ore. Non proferii parola, non mossi un dito per scongiurare l’orrenda strage. Non mi presi sul serio. Il mio presagio restò un gioco fine a se stesso. La profezia, lungamente maturata, restò un frutto senza semi, una consapevolezza individuale e inoperosa.
La mia vergogna e la mia colpa ora sono davanti a tutti. Il simulatore di volo, il sito della Polizia Federale degli Stati Uniti, il nome del ricercato… Non era un enigma, un mosaico incompleto, un dispaccio segreto da decriptare. Era una notizia da prima pagina già stampata, strillata, urlata in anticipo.
Io, Giorgio Macchia, mi accuso. Sono responsabile. Chiedo perdono ai familiari delle vittime. Chiedo perdono al popolo americano.
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