di Giuseppe Genna

baldoni2.jpgfeltri100.jpgPer tre volte, nella mia vita, sono incappato nelle liste di proscrizione stilate da Vittorio Feltri.
La prima capitò quando ero ventenne. Allora abitavo nell’alloggio popolare intestato ai miei nonni, a Calvairate, quartiere periferico e malfamato di Milano. Ero lì per impedire che gli abusivi, saputo del ricovero definitivo dei miei parenti, irrompessero nella casa che aveva fatto da scena primaria alla mia famiglia. Quell’alloggio era occupato dai Genna sino dal 1923. Mio nonno aveva atteso fuori Milano, con la moglie e mio zio Gino in fasce, che venissero terminati i finimenti – quando era giunto dalla Sicilia, via Veneto, la casa di via Etruschi 5 era ancora inagibile. Lì accaddero varie cose. Nacque mio padre, quinto figlio, nel ’39. Nel ’44 irruppero le SS: cercavano Gino, reduce dalla Russia, partigiano, datosi alla macchia. Nascite e morti ebbero quell’appartamente come teatro privilegiato. Quando ci entrai, era un disastro. Il mio amico Bruno disse: “Qui possono girarci una fiction sul Ventennio”. Non c’era acqua calda. Niente doccia. Uno stato disperante di prostrazione edilizia. A fine ’93, il mio nome campeggiava nella lista di proscrizione allestita da Feltri sul Giornale, che allora dirigeva.

Si trattava proprio di gogna. Feltri, che cavalcava il reazionariato leghista, come da allora non ha smesso di fare, decise che era bene mostrare ai buoni borghesi di Milano i nomi e i cognomi di coloro che non pagavano l’affitto all’Istituto delle Case Popolari, o che occupavano abusivamente gli alloggi. Fottendosene se la gente non pagava quelle trecentomila lire perché non sapeva dove andarle a prendere: in quella lista ci finirono povere vecchiette, vedove, senza la pensione minima. Feltri si fotté pure delle storie disperanti – la mia meno di altre – che conducevano a occupare gli appartamenti. Denunciava la presenza irregolare di extracomunitari. Poche notti prima, qualcuno (che si sa bene chi fosse) aveva attaccato manifesti di propaganda oscura alle mura dei casamenti della zona: “Via gli allogeni extraeuropei”. Allogeni extraeuropei.
Io, che ai tempi ero a tutti gli effetti un allogeno italiano, mi chiesi cosa fare a fronte di un’iniziativa pseudogiornalistica e veracemente fascista come quella allestita dal Giornale. Rinunciai, pensando che la storia dei reazionari è sempre fastidiosamente intensa ma breve: certo, passato un Feltri ne fanno un altro. Ma intanto Feltri se ne sarebbe andato. E così fu.
Peccato, però, che, dopo il Giornale, Feltri non abbandonò né troni né scranni e travasò la sua raffinata esperienza codina in quel gorgo meglio identificato col nome di Libero. farina.jpgSi portò dietro, a fargli da vicedirettore, Renato Farina, giornalista polinsaturo, che potremmo definire di “tipo 00” o “sacco di”, perennemente alla ricerca di una poltrona da direttore, legato ad ambienti ciellini, abitante a Desio in un vastissimo appartamento arredato maluccio, da cui gode un’immensa vista su ciminiere e snodi stradali – la vista che si cerca un cultore dell’estetica briantea. In casa di Farina campeggiano i titoli dostoevskiani, giussani e poco altro. La moglie è una signora timida e carina, i figli sono molti, bisogna sfamarli. Così Renato si presta a pratiche ambigue, come quella di accompagnare Feltri stesso di fronte all’ingresso del montanelliano La Voce, che Vittorio teme quale rivale editoriale, e lì si mette a fare col suo capo le cuorna e le biscuorna in segreto, senza farsi vedere dai passanti, perché potrebbero pensare male, e Farina e Feltri odiano i malpensanti, amando i benpensanti.
Fatto sta che, sotto la conduzione di queste due stelle del giornalismo nostrano, Libero riesce a vendere qualche centinaio di copie in meno dell’indimenticato L’Occhio, il suo antenato naturale. Poco importa se Feltri non dòta la redazione di servizi Ansa, perché costano: nel frattempo è arrivata la Rete, si può sempre pescare da lì. Poi, ci sono grandi battaglie ideali da fare, e per quelle non c’è agenzia che tenga. Gli scoop, anche quelli, non passano per le agenzie – e di scoop se ne vogliono fare tanti, a Libero. Sempre dello stesso tipo: la lista di delazione, su cui bisognerebbe indagare se Feltri ha posto il copyright. Nasce così il più prestigioso tra i risultati inanellati dal giornale feltrino (si dice feltrino, come quelle pezzette che si mettono sotto le sedie per preservare le mattonelle o il parquet? O feltriano? Non è da scoop, non occupiamocene…): la lista di nominativi e identificativi di supposti pedofili, ottenuta chissà come – ungendo, si ottengono cose untuose, si può fare gli untori. Poco importa, poi, se quegli indagati saranno in gran parte prosciolti o non erano affatto indagati. Poco importa se si viene espulsi dall’Ordine dei Giornalisti e si continua a dirigere un giornale. Così come poco importava, ai tempi di via Negri, se lo studio Dotti, che si occupava delle cause di diffamazione contro Feltri, impazziva per il superlavoro, soprattutto grazie al compagnone di Feltri, quel sapido corsivista che va sotto, ma solo sotto il nome, di Giancarlo Perna.
Passano gli anni e io non perdo né il pelo né il vizio. Qualche mese fa, insieme a colleghi scrittori, finisco in una nuova lista delatoria fatta stilare da Feltri: sono la quinta colonna del comunismo all’interno di Mondadori. Insieme a me e agli altri colleghi scrittori, vengono esposti i nomi di redattori e impiegati, editor e quant’altri, nessuno dei quali è organico a nessuna organizzazione di nessuna sinistra. Coi colleghi, ce la spassiamo. Io, particolarmente: tengo molto all’odio perpetrato nei miei confronti da gente come Feltri.
Qualche giorno fa, Feltri riprende l’appello in sostegno di Cesare Battisti, scruta i nomi e li denuncia come difensori del pluriassassino, secondo il mandato linguistico dell’ingegner Castelli: e siamo ancora io e i miei colleghi, paro paro. Questa volta mi diverto meno, soprattutto per la qualifica indegna conferita all’uomo per sostenere il quale ho firmato. Si dà il caso che ci siamo letti parte degli atti del processo, abbiamo intervistato l’avvocato che difese quell’uomo, ci siamo pagati il viaggio per Parigi al fine di conoscere di persona quell’uomo, abbiamo studiato i testi che trattano dei Settanta in Italia, abbiamo scritto un libro a più mani. Abbiamo cioè, ampiamente esorbitato le competenze di qualunque giornalista e l’abbiamo fatto ben sapendo di che pasta è fatto il giornalismo contemporaneo e quale sarebbe stata la sentenza sommaria che avrebbe pronunciato contro Cesare Battisti. I giornalisti di Libero, tra i quali campeggia uno che fu espulso dall’Ordine, quel lavoro infatti non lo fanno: si limitano a stilare la sentenza sommaria con tanto di proscrizione.
Mi sono detto: vabbè, passi. Neanche mi sono dato la pena di avvertire i colleghi scrittori che erano stati inculsi nella lista dell’infamia pubblicata da Feltri. Tanto la mia strategia ce l’ho: ho le quinte colonne, io, praticamente all’interno di tutte le redazioni più reazionarie d’Italia! So tutto di loro! E’ bellissimo! Mi piace un sacco conoscere il dietro le quinte di luoghi per me infrequentabili!
Però, tra ieri e oggi, Feltri e Farina hanno realizzato una doppietta di rara infamia, che grida vendetta al cospetto di dio e di Enzo Baldoni. Per cui, siccome sono più filologo di Feltri e Farina messi insieme ed elevati alla decima potenza, anziché la lista di proscrizione, pubblico qui cos’ha scritto Feltri alla vigilia dell’uccisione di Baldoni e cosa Farina ha avuto il coraggio di pubblicare oggi, a cadavere ancora caldo. Poi, le somme, tiratele voi, ché quelli di Libero tireranno le loro: cioè il passivo in bilancio del loro foglio.

IL PACIFISTA COL KALASHNIKOV
di VITTORIO FELTRI
feltri.jpgSe esaminata cinicamente, cioè con lucidità, la disavventura di Enzo Baldoni sconfina nella commedia all’Italiana. Già ieri abbiamo scritto: un uomo della sua età, moglie e due figli a carico, avrebbe fatto meglio a farsi consigliare da Alpitour, anziché dal Diario, la località dove trascorrere vacanze sia pure estreme (si dice così?). Evidentemente, da buon giornalista della domenica egli ha preferito cedere all’impulso delle proprie passioni insane per l’Iraq piuttosto che adattarsi al senso comune. Ciascuno fa come gli garba. E se a lui garbava di mettere a repentaglio la ghirba allo scopo di essere la caricatura dell’inviato speciale, forse sognando di diventare un Oriano Fallaci o un Ettore Mo, c’è poco da obiettare. Molto da obiettare invece c’è sul fatto che adesso tocchi allo Stato italiano di toglierlo dalle pettole (dal milanese: peste). Vabbè. Non facciamoci guardar dietro spendiamo quanto c’è da spendere per riportarlo a casa, questo bauscia simile a certi tizi i quali, durante il week end, indossano la tuta mimetica e giocano ai soldatini nelle brughiere del Varesotto.

COLPO IN TESTA A BALDONI
di RENATO FARINA
farina100.jpgNon c’è rimedio. Non sono serviti i sorrisi suoi e quelli dei suoi cari. Quella è gente che mantiene le promesse: ammazzato. Una consolazione all’orrore: non gli hanno tagliato la testa. E’ stato assassinato come Fabrizio Quattrocchi, con proiettili di piombo in testa. Enzo Baldoni è morto alla stessa maniera del suo nemico ideologico. Quattrocchi, nel momento in cui aveva compreso la sua sorte, ha cercato di togliersi la benda nera. E poi, con un’aria di sfida tranquilla, ha detto all’uomo che parlava italiano: «Ti faccio vedere come muore un italiano ». I no globan avevano scritto proprio sul sito di Baldoni il loro schifo per una morte da mercenario. Negli ambienti no global e del Diario si era sussurrato: «Ha detto: “Vi faccio vedere come muore un camerata”». Una menzogna. Ed ora è toccato ad un altro nostro fratello italiano, battezzato. Le idee politiche erano diverse da quelle dei primi sequestrati. Ai terroristi islamici non importa delle nostre opinioni politiche, dei nostri sentimenti sul mondo.