di Cesare Battisti
da Paris Match del 22 luglio 2004
Sono arrivato proveniente dal Messico, munito di un passaporto falso intestato a un mio antico compagno di classe, Ezio De Santis. Mia moglie, rientrata otto mesi prima, mi attendeva all’aeroporto. Posato il piede allo Charles de Gaulle, ho saputo che ero seguito da poliziotti. Su di me pendeva un mandato di cattura internazionale. Gli italiani mi accusavano di aiutare a finanziare la guerriglia nel Salvador. In pratica, della prima cosa che era passata loro per la mente. Ma io me ne infischiavo. Niente poteva colpirmi, a quell’epoca. Ero venuto per consegnarmi e recuperare finalmente la mia identità. Cosa che i poliziotti francesi hanno compreso in fretta.
La prima sera sono andato ad alloggiare presso mia moglie, che abitava con sua mamma in un piccolo appartamento del XIII, rue de l’Amiral-Mouchez. Mia suocera aveva organizzato una bicchierata, una cosa simpatica. I miei fratelli, che mi avevano accompagnato sull’aereo del ritorno, erano presenti. Ero felice, anche se sapevo che il mio arresto era inevitabile. Passeggiavo, andavo a prendere a scuola Valentina, la mia bambina di sei anni, mi godevo Parigi.
Siamo rimasti una quindicina di giorni da mia suocera, prima di passare da un albergo all’altro, in attesa di trovare un alloggio. Con la bambina e senza libretto degli assegni non era così facile, ma per me resta un buon ricordo. Un giorno, mentre facevo visita a un ex compagno rifugiato a Malkoff e osservavo la distesa sconfinata di tetti da un appartamento cadente, all’ultimo piano, mi sono sorpreso a dire questa idiozia: “Quanto è bello!”. Ero contento. Stavo terminando un romanzo, ritrovavo i vecchi amici del mio primo soggiorno a Parigi, nel 1981, quando ero fuggito dall’Italia a piedi, attraverso le Alpi. Trenta giorni di cammino!
Fu durante quel primo anno di clandestinità a Parigi che incontrai la giovane francese che sarebbe diventata mia moglie. Laurence lasciò poi tutto per seguirmi nella mia fuga in Messico, dove avremmo trascorso nove anni e dove sarebbe nata Valentina. Oggi, anche se siamo separati, la nostra complicità resta intatta ed educhiamo assieme Charlena, la nostra piccola di dieci anni, mentre la grande, Valentina, abita con lei. Con Valentina parlo solo francese…
Dunque, nel 1990, come nel 1981, passeggiavo per la Butte-aux-Cailles, anche se in dieci anni il quartiere era cambiato e si era riempito di bar alla moda. Mi sono fatto degli amici. Tra loro, il gestore del bar di place Jeanne d’Arc, un caffè minuscolo chiamato Le Bistro de la Poste: lui e sua moglie erano due personaggi! Mi piaceva anche aggirarmi per l’antica piccola cinta del XIII e del XIV: nessuno in giro, solo vegetazione e gatti abbandonati nutriti da vecchiette. E poi facevo la spesa. Si realizzava finalmente un sogno coltivato per nove anni: mangiare del buon camembert al latte non pastorizzato. Naturalmente, il formaggiaio è divenuto per me un amico. Ricordo anche Valentina che mi diceva, durante quei giri: “Papà, ecco il tuo piccolo vinaio!”
Sono tanti i ricordi che mi riportano a lei. Avevo lasciato l’esilio in America Latina perché non sopportavo più di starle lontano. I rapporti tra me e mia moglie erano entrati in crisi, e Valentina era tornata in Francia con lei. Per di più il mio migliore amico, quasi un fratello, mi aveva tradito facendo pubblicare col suo nome il mio primo romanzo. Ero completamente distrutto ma non potevo fare niente, né citarlo in giudizio, né lamentarmi, perché non avevo documenti. Non ero più nulla.
La mia ultima risorsa era la Francia, dopo la dichiarazione di Mitterrand del 1985, in cui si era detto pronto ad accoglierci anche se fossimo imputati di fatti di sangue. In ogni caso, non ho mai pensato di andare in altro luogo che a Parigi. Nel mio immaginario significava la Comune, il maggio ’68, la Rivoluzione francese. Michel Foucault era stato il guru della mia militanza giovanile, così come Deleuze, Baudrillard o Guattari.. Erano questi i nostri maestri. Pur provenendo da una famiglia “religiosamente comunista”, appartenevo a un gruppo antistalinista, anti-organizzazione, e dunque opposto alle Brigate rosse, la cui base militante era reclutata nel PCI staliniano. Non ci vestivamo come loro, non ascoltavamo la stessa musica, non compravamo gli stessi libri. Mi chiedo anche se capitasse ai brigatisti di leggere dei romanzi! Ci separava un universo intero. Ciò spiega l’odio di certe personalità dell’ex PCI nei nostri confronti, ancora oggi.
E’ grazie alla scrittura che ho potuto sopravvivere. Traducevo in italiano dei racconti di Didier Daeninckx, di Manchette. Ma facevo fatica a riadattarmi alla civiltà europea, alle sue norme, alle sue regole. Qui la burocrazia occupa il 50% della vita di un uomo. Io non vi badavo, sebbene mia moglie mi ripetesse di continuo: “Bada che non sei più in Messico”. Me lo ha detto miliardi di volte.
Di colpo, nell’aprile 1991, dopo che sono stato rilasciato dal carcere di Fresnes, in cui avevo trascorso quattro mesi dietro le sbarre, e sono tornato a essere ufficialmente Cesare Battisti, ho capito che bisognava pure che mi mettessi a lavorare. Alla ricerca di un lavoro che mi lasciasse il tempo per scrivere, mi sono trovato alla testa di una lavanderia automatica, acquistata con l’aiuto della mia famiglia, in una zona “difficile” di porte de Vanves. Andavo tutte le sere a vuotare gli essiccatoi, ma naturalmente ho fatto fallimento. Tuttavia non ho incrociato le braccia. C’erano Valentina e Charlena…
(a cura di Aurélie Raya – Trad. di Valerio Evangelisti)