Per celebrare un evento tra i più importanti degli ultimi anni — la schiacciante vittoria del presidente del Venezuela Hugo Chavez nel referendum preteso dalle forze di opposizione — riproponiamo un illuminante articolo di Maurice Lemoine, apparso sul numero di maggio 2002 dell’edizione italiana di Le Monde Diplomatique.
Che ora l’opposizione a Chavez parli di brogli non meraviglia. Già prima delle elezioni, con perfetta stupidità, aveva annunciato che lo avrebbe fatto, nel caso che Chavez avesse vinto. Gli osservatori internazionali, da Jimmy Carter ai delegati dell’Organizzazione degli Stati Americani, hanno da parte loro attestato la correttezza del processo elettorale. Sono già otto le elezioni vinte da Chavez a furor di popolo, sebbene i suoi avversari esercitino, in virtù del loro denaro, un controllo pressoché totale sui media.
Vi è chi attribuisce a Chavez comportamenti bonaparisti. Possono esistere in taluni suoi atteggiamenti, però non esistono nei fatti. Finora non si è mai scostato dalla legalità: né quando ha messo a riposo il vecchio sistema politico fondato sul privilegio familiare e sulla corruzione, né quando ha reagito con mano leggera al golpe tentato contro di lui l’11 aprile 2002. Non esistono prigionieri politici in Venezuela. La stessa Amnesty International denuncia violenze, però le attribuisce alla polizia, il corpo dello Stato più ostile a Chavez e più condizionato dall’opposizione. Del resto, quest’ultima attribuì al governo l’omicidio di alcuni dimostranti, che poi risultarono invece essere sostenitori di Chavez. Chi possiede i media crede spesso di potersi permettere tutto, salvo poi scoprire che la gente sa distinguere la moneta falsa dalla vera.
Rispetto all’articolo che segue, va detto che la passività di Chavez sul piano delle misure sociali è tramontata non appena il suo governo ne ha avuto i mezzi. I benefici degli introiti petroliferi non sono andati a rimpinguare le tasche dei più abbienti, come accade in Arabia Saudita e in tanti altri paesi graditi al cosiddetto Occidente. Sono stati invece finalizzati a programmi efficaci di risanamento, quale primo passo per lenire una miseria diffusa in stridente contrasto con la ricchezza del paese e della sua borghesia.
Adesso è facile che l’esempio venga imitato, che Lula sia spronato ad abbandonare la propria timidezza, che Argentina ed Ecuador riprendano con più decisione la via delle riforme strutturali. Chavez trae la sua forza non dall’autoritarismo e dalla repressione, bensì dal sostegno di classi umili che in lui si riconoscono. Tutto ciò comporta un aspro scontro sociale. Ebbene? Dove sta il problema? Se per garantire una vita decente agli strati subalterni bisogna svuotare un poco le tasche dei “ceti medi” (come si definiscono loro: in realtà, in una situazione come quella venezuelana, si tratta di ceti che si crogiolano nel privilegio), che lo si faccia senza remore. Che strillino pure. Non strillano già abbastanza per l’insicurezza delle loro strade, minacciate da poveri che essi stessi creano di giorno in giorno, per cinismo e avidità?
E’ un discorso facile da proiettare su scala mondiale. L’Occidente si sente assediato dalle reazioni selvagge di popoli ridotti alla miseria e alla disperazione, eppure non fa nulla per esportare anche una quota minima del proprio benessere, anzi, della propria opulenza ai limiti dello spreco. Attraverso gli organismi che controlla — FMI, Banca Mondiale, ecc. — impone ricette neoliberiste a paesi sull’orlo del collasso, e guarda le cifre del debito senza interessarsi del numero degli affamati. Tanto, se la protesta degenera in violenza, c’è sempre l’uso della forza quale risorsa armata a disposizione della politica e dell’economia. Come insegnarono Margaret Thatcher, Ronald Reagan, Augusto Pinochet e altri maestri, ispirati da quell’economista di merda che fu Milton Friedman
Chavez, piaccia o no la sua indole populista, incarna una ribellione di massa contro il neoliberismo. Non è marxista, non è comunista, non è nemmeno socialista. Però sa — contrariamente alla nuova destra mascherata da sinistra, che in Italia ha in La Repubblica il proprio organo ufficiale (non cito Il Riformista perché non lo legge nessuno) e in Tony Blair il proprio modello — che, contrariamente al dogma liberale per cui l’arricchimento di una minoranza crea ricchezza per tutti, è la lotta per l’eguaglianza la base di un benessere non effimero. E se c’è da pestare i “ceti medi”, che li si pesti, per Dio! (VE)
Hugo Chávez salvato dal popolo
di Michel Lemoine
È sufficiente che una minoranza si ribattezzi «società civile» per pretendere di rovesciare un presidente democraticamente eletto? È quello che in Venezuela hanno creduto di poter fare il padronato, un sindacato corrotto, la Chiesa, le classi medie e i mass media, che l’11 aprile, aiutati da generali traditori, hanno compiuto un colpo di stato contro Hugo Chávez. L’amministrazione di George W. Bush, i cui alti funzionari avevano ricevuto a Washington le delegazioni dei futuri golpisti civili e militari, si è immediatamente congratulata per quella che considerava la definitiva defenestrazione di un dirigente insopportabile per la sua indipendenza. Il primo gesto del governo spagnolo, che presiede l’Unione europea , non è stato quello di condannare l’atto, ma di pubblicare – il 12 aprile – a Washington una dichiarazione congiunta con il governo americano che richiedeva ai golpisti di creare «un quadro democratico stabile»! Ma non si era tenuto conto della reazione del popolo che, insieme a militari rimasti fedeli, ha ristabilito la legalità a Caracas.
Ben puntate sul presentatore, le telecamere inquadrano anche Caracas, che si estende ai piedi di El Avila, la montagna sul cui pendio è stato installato lo studio improvvisato. Il conduttore dello show ha appena fatto ridere il pubblico ricordando come sia riuscito a far cantare Fidel Castro – «stonato come una campana!» – in una delle sue precedenti trasmissioni. Parla in modo poetico del Guatemala, poi del libertador Simón Bolivar, canticchia, interroga i suoi ospiti – tra i quali un gruppo di ministri – dialoga con una semplice telespettatrice dalla quale si congeda con un affettuoso «Hola, tesoro, ti mando un bacio». La sua disinvoltura farebbe invidia a qualunque star del piccolo schermo. Ma il presentatore non è un professionista. Si chiama Hugo Chávez ed è il presidente della Repubblica bolivariana del Venezuela.
Quel 17 marzo, per la sua centesima trasmissione domenicale di «Aló, Presidente!» superava se stesso: collegamento via satellite con i presidenti guatemalteco, domenicano e cubano – «Ciao Fidel, se uno di questi giorni non ci vediamo, ci sentiamo al telefono. Hasta la victoria, siempre!». Poi avvertiva la stampa, prima di terminare con un minaccioso: «E do un consiglio a quelli che vogliono destabilizzarmi: so quanti sono e quanto pesano dopo aver mangiato!» Dalle file di un pubblico completamente incantato si alza un’ovazione: «Non torneranno! Viva il nostro comandante!».
Il «comandante» forse esagera: 6 ore e 35 minuti davanti alle telecamere, senza interruzioni. Ma è convinto che queste grandi manifestazioni mediatiche siano necessarie per mantenere un rapporto diretto con gli emarginati, i poveri e le forze di sinistra che rappresentano la sua maggioranza.
«La sola cosa che so fare è rubare» Tra gli escuálidos(1) di La Castellana, di Altamira, di Palos Grandes, di Las Mercedes – i quartieri residenziali caracegni – la rabbia è grande. «Quest’uomo è un demagogo, un populista, un pazzo furioso!» Nel migliore dei casi gli si concede che coloro che lo hanno preceduto non erano molto meglio di lui. «Ma sta portando il paese alla rovina».
Per poi condannarlo definitivamente: «In ogni modo il suo posto non è alla testa del paese. Un militare sa fare solo due cose: obbedire e comandare!» Nella casta rappresentata dall’oligarchia, dalla finanza e dalle classi medie, questo intruso è detestato. Con la sua pelle scura e con il suo tono scanzonato assomiglia a un tassista, a un portiere d’albergo, a un diseredato dei ranchos, a un buhonero(2).
Ma è proprio perché assomiglia alla popolazione più umile che si trova a Miraflores (il palazzo presidenziale).
Nel febbraio 1992 questo tenente colonnello dei paracadutisti cercò con un colpo di stato di mettere fine a trent’anni di egemonia del partito Azione democratica (Ad, socialdemocratico) e del Copei (democristiano).
Erano stati loro ad aver portato, in un paese produttore di petrolio, l’80% dei venezuelani sotto la soglia di povertà. Imprigionato e poi liberato, il ribelle è arrivato democraticamente al potere nel dicembre 1998. Una profonda riforma della costituzione, approvata con referendum nel dicembre 1999, ha preceduto la sua rielezione, il 30 luglio 2000 (3). Insomma Chávez ha trionfato e il Venezuela, pacificamente, ha cambiato di mano.
Da allora il governo conduce una rivoluzione atipica: «Non è né socialista né comunista, poiché rimane nel quadro del capitalismo, ma è radicale e provoca profondi cambiamenti delle struttura economica», spiega il ministro della presidenza Rafael Vargas. Causando grande preoccupazione a Washington, Caracas vuole anche promuovere una politica petrolifera che permetta di mantenere il prezzo del greggio sopra i 22 dollari al barile, attraverso la rivitalizzazione dell’Organizzazione dei paesi esportatori di petrolio (Opec). E moltiplica le dichiarazioni contro la globalizzazione neoliberale e in favore di un mondo multipolare, in opposizione alla pretesa egemonica degli Stati uniti.
Ma una cosa è annunciare la nascita di un nuovo paese, un’altra procedere a veri cambiamenti. «Non c’è lavoro, non c’è progresso», si lamenta a Valencia un emarginato, osservando che la disoccupazione non è diminuita. In una bidonville battezzata Marizabel de Chávez (dal nome della moglie del presidente), uno spilungone dice malinconicamente: «La sola cosa che so fare è rubare. Ma qui non saprei proprio che rubare».
Barrio Alicia Pietri de Caldera (dal nome della moglie del presidente precedente!): i privilegiati guadagnano 84.000 bolivar ogni due settimane (84 euro) come guardie private, l’unica attività in espansione. Come dappertutto, lo stipendio minimo rimane a 158 euro, quando per sfamare una famiglia di cinque persone ne sono necessari 240 (4). E anche le iniziative più generose del governo sembrano segnare il passo.
«La scuola bolivariana funziona – testimonia una madre di famiglia – c’è anche una mensa gratuita, come previsto, per i tre pasti dei bambini. Ma l’hanno chiusa perché non avevano più denaro per pagare i fornitori».
Spesso il re Chávez è nudo. Creato in tutta fretta per vincere le elezioni, il Movimento per la quinta repubblica (Mvr) non dispone di strutture forti. Vi si ritrovano «chavisti» convinti, rivoluzionari, ma anche – con la speranza di qualche prebenda – membri di vecchie formazioni politiche e opportunisti di tutte le risme. Lo stesso discorso vale per i partiti alleati – Movimento verso il socialismo (Mas), Causa R, Movimiento 1° de Mayo, i maoisti di Bandeja Roja o il leader di Patria per tutti (Ppt) Pablo Medina (5). Un giorno o l’altro presenteranno al presidente il conto della loro collaborazione.
Da ciò derivano i numerosi rovesciamenti di fronte, le rotture di alleanze, le dimissioni, i licenziamenti seguiti dal passaggio al nemico, che danno l’impressione di un potere fondato sull’improvvisazione permanente.
Una corsa a ostacoli analoga si osserva negli apparati di stato e nella pubblica amministrazione, corrotti da quarant’anni di clientelismo.
Per portare a termine le riforme i ministri o i quattordici governatori «chavisti» possono contare all’interno delle loro istituzioni solo su qualche funzionario di grado elevato. «Non abbiamo fatto una caccia alle streghe, noi garantiamo il cambiamento con la gente del passato, per lo più militanti di Ad o del Copei». Questo esercito di quadri intermedi e di dipendenti frena i programmi, blocca i progetti, paralizza il trasferimento delle risorse nei municipios. «La modifica di queste strutture richiede tempo e non possiamo cacciare tutti», dice nel caldo torrido di Puerto Ayacucho (Amazonas) Diogenes Palau, segretario generale del governo locale, messo di fronte alle stesse difficoltà.
«Questo processo può essere fatto solo gradualmente».
Sono quindi due i pilastri su cui Chávez deve appoggiarsi per aggirare le strutture che gli rimangono ostili: l’esercito da cui proviene, colonna vertebrale dello stato, e la popolazione non organizzata che lo ha portato al potere. Nell’aprile 2001, quando chiede la formazione di «un milione di Circoli bolivariani» per sostenerlo, decine di migliaia di venezuelani, ognuno nella sua via, nel suo quartiere, nella sua barriada(6), rispondono con entusiasmo. In gruppi di 7-15 persone discutono sul futuro, sui bisogni più importanti, immediatamente comunicati alle autorità interessate. «È un mezzo per fare in modo che arrivino le risorse nei settori interessati», spiegano al centro di coordinamento dei Circoli bolivariani del municipio di Sucre, nella parte orientale di Caracas, «prima il destino della comunità era nelle mani di una minoranza di politici».
Attraverso la presentazione dei progetti e con gli organismi adeguati – Banca del popolo, Banca delle donne, Fondo di sviluppo della microimpresa, Fondo intergovernativo per il decentramento (Fides), – lo stato ha cominciato a dotare queste strutture di mezzi non trascurabili. Ma l’opposizione si scatena, accusandole di essere «forza d’urto» al servizio di un progetto totalitario, covi di «taliban» che bolas (voci) insistenti dicono armati fino ai denti dal governo. Gli interessati alzano le spalle: «guardi, qui ci sono solo persone pacifiche che si danno da fare per la comunità». Anche se alcuni militanti radicali si mostrano meno accomodanti: «Bisogna essere chiari. Gli uomini e le donne di questo processo di cambiamento sono decisi a difenderlo.
Pacificamente. Ma se necessario anche in altro modo».
Destabilizzazione economica Concentrati sui loro meschini interessi, gli escuálidos sono rimasti senza parole quando, il 13 novembre 2001, Chávez ha radicalizzato la rivoluzione firmando la legge delle terre, la legge sulla pesca e la legge sugli idrocarburi (si legga il box nella pagina a fianco).
Il 10 dicembre, per protestare contro queste «minacce al libero mercato», l’organizzazione imprenditoriale Fedecámaras, diretta da Pedro Carmona, organizza uno sciopero generale sostenuto dai media e dalla Confederazione dei lavoratori del Venezuela (Ctv). Organizzazione corrotta, cinghia di trasmissione di Azione democratica, la Ctv ha negoziato per anni i contratti collettivi con gli imprenditori, vendendo l’anima e gli iscritti in cambio di qualche compenso per i suoi dirigenti. Il governo nega ogni rappresentatività al suo segretario generale, il socialdemocratico Carlos Ortega, che lo scorso 25 ottobre si è proclamato vincitore delle elezioni destinate a rinnovare la direzione sindacale dopo uno scrutinio contrassegnato da violenza e da irregolarità.
Il 5 marzo 2002 questo «dirigente operaio» stringe la mano a Carmona e, alla presenza della chiesa cattolica, firma con lui un Patto nazionale di governabilità che ha l’obiettivo di ottenere «l’allontanamento democratico e costituzionale» del presidente.
Senza programma, senza progetto, autoproclamatisi «società civile» ignorando cinicamente la maggioranza, che continua a sostenere il capo dello stato, i quattro protagonisti – Fedecámaras, Ctv, chiesa e classi medie – alle quali si uniscono i media riconvertiti in partito politico, cercano di creare artificialmente una situazione di ingovernabilità.
Questa intolleranza totalitaria fa esplodere la rabbia di una popolazione unita nella «propria» rivoluzione Petroléos di Venezuela Spa: «Ci escludono e pretendono, da soli, di rappresentare la società civile.
Ma siamo noi il popolo! E se per un qualunque motivo la legalità costituzionale fosse messa in discussione dalla campagna di destabilizzazione, noi la difenderemo con la nostra vita, con il nostro sangue!».
Le continue dichiarazioni estremiste, le marce di protesta (seguite da contromanifestazioni ancora più massicce di sostenitori del governo) e la comparsa di quattro militari dissidenti che rifiutano pubblicamente l’autorità del capo dello stato (7) non riescono a far vacillare il potere. Ma quando si ricorre alla carta della destabilizzazione economica, la tensione cresce. Il petrolio rappresenta il 70% delle esportazioni e il 50% dei redditi dello stato. Dopo il crollo del suo prezzo per gli attentati dell’11 settembre 2001, i viaggi di Chávez in Europa, in Algeria, in Libia, in Arabia saudita, in Iran, in Russia, in Iraq e l’azione di Alí Rodríguez, segretario generale venezuelano dell’Opec, hanno permesso di stabilizzare i corsi del greggio attraverso una riduzione concertata della produzione (8).
Società per azioni che ha come solo azionista lo stato, la Petroleós de Venezuela Sa (Pdvsa) è controllata da un gruppo di una quarantina di dirigenti. Questi «generali del petrolio» dettano legge, applicano la «loro» politica, privilegiano gli interessi stranieri, violano le norme dell’Opec aumentando la produzione, vendono in perdita, indeboliscono l’impresa e ne preparano attivamente la privatizzazione.
Desideroso di rimettere la Pdvsa al servizio di un progetto collettivo, l’esecutivo vuole riprendere il controllo di questo settore strategico caratterizzato da un sistema fiscale alla deriva: rispetto a vent’anni fa, quando il 75% dei profitti era riversato allo stato (il 25% rimaneva all’impresa), si è passati oggi al 70% per la società (e il 30% al fisco). Così il capo dello stato nomina un nuovo presidente, Gastón Parra, e un’équipe dirigente. In nome della promettenti carriere per i migliori, di una gestione più efficiente, della produttività, della redditività, dell’indipendenza di fronte alla «politicizzazione» imposta dal governo, i tecnocrati parlano di una «meritocrazia» che hanno escogitato per rifiutare queste nomine e invitano alla rivolta.
In qualunque paese del mondo lo stato azionista nomina la direzione delle imprese nazionali e comunica loro i suoi orientamenti – cosa che del resto tutti i governi venezuelani precedenti avevano fatto.
D’altra parte i contestatori, tutti dirigenti di alto livello che occupano posti di fiducia, non possono per la natura del loro incarico invocare lo sciopero. Ma la «società civile» si schiera con loro.
Istigata dai giornali, dalla televisione e dalla radio, spinge alla paralisi del cuore economico del paese. Che partecipa, anche se in modo parziale (una parte importante degli operai rifiuta infatti di interrompere il lavoro).
Sullo sfondo gli stretti rapporti tra Caracas e Washington. Dalla capitale Usa l’amministrazione di George W. Bush moltiplica gli attacchi verbali nei confronti del presidente «bolivariano». La sua freddezza nell’accettare la «lotta al terrorismo», in particolare contro la guerriglia colombiana, i suoi accordi militari con la Cina e la Russia, il discorso antiglobalizzazione e la sua rivoluzione irritano sempre di più. Il 6 febbraio 2002 il segretario di Stato americano Colin Powell, in un discorso al Senato, mette in dubbio «che Chávez creda realmente alla democrazia» e critica le sue visite «a governanti ostili agli Stati uniti e sospettati di sostenere il terrorismo, come Saddam Hussein o Muammar Gheddafi» (9).
Preoccupati dai disordini che scuotono il loro terzo fornitore di petrolio, gli Stati uniti temono un’interruzione delle esportazioni se il paese dovesse diventare ingovernabile. Ufficialmente quindi si cerca di non gettare olio sul fuoco. Ma il 25 marzo Alfredo Peña, sindaco di Caracas e oppositore forsennato del presidente, incontra di nascosto le autorità americane e Otto Reich, contestatissimo sottosegretario per gli Affari interamericani (10). Qualche giorno dopo nel suo ufficio passano il presidente di Fedecámaras Pedro Carmona e il vicesegretario generale della Ctv Manuel Cova, che a sua volta incontra i rappresentanti dell’Istituto repubblicano internazionale, tutti interlocutori ben noti per la difesa degli interessi dei lavoratori! L’ombra del Cile sembra calare sul Venezuela, se non fosse per un elemento principale: l’esercito, che il presidente Chávez dice di conoscere come le sue tasche. Tuttavia varie voci mettono ne fanno dubitare. Il generale responsabile del comando sud dell’esercito degli Stati uniti (il Southcom) ha affermato di recente: «Il Venezuela è il paese con il più alto numero di ufficiali che hanno studiato da noi, per questo motivo siamo sicuri di questo paese». Quando il 14 marzo chiediamo conto dei quattro ufficiali che, poco prima, si erano schierati contro il presidente, Francisco Ameliach, presidente della Commissione di difesa del parlamento, ci risponde: «Quando un ufficiale si pronuncia pubblicamente vuol dire che non ha l’appoggio dell’esercito. Noi abbiamo cospirato [Ameliach ha partecipato al golpe del tenente colonnello Chávez] e sappiamo che un colonnello impegnato in un’operazione del genere non lo va a dire pubblicamente».
Per «difendere» la Pdvsa, dove 7 dirigenti sono stati licenziati e altri 12 messi in pensione, è indetto uno sciopero dalla Ctv e dalla Fedecámaras, con un successo modesto su scala nazionale. Lanciata in una folle corsa in avanti (o in un piano premeditato che è ormai impossibile fermare), l’opposizione rincara la dose e, con il pretesto che il governo potrebbe decretare lo stato di emergenza (anche se non ne ha alcuna intenzione) fa appello a partire dall’11 aprile allo sciopero generale a tempo indeterminato. Segnale preoccupante, i militari dissidenti si fanno rivedere attraverso il generale Nestor González (destituito nel dicembre 2001) che, alla televisione, accusa il presidente Chávez di tradimento e chiede all’alto comando di agire.
L’11 aprile più di 300.000 oppositori marciano pacificamente verso la sede della Pdvsa-Chuao, situata nella parte orientale della capitale.
È qui che si compirà il misfatto, in un clima di crescente eccitazione che facilita il progetto. E per accreditare l’idea di una «società civile» che affronta una dittatura si fa ricorso ai «martiri». Alle ore 13, a ovest della capitale, nel palazzo presidenziale il ministro della presidenza Rafael Vargas, pallido, irrompe nell’ufficio dei suoi collaboratori. «Il resto del paese è calmo, ma Carlos Ortega, ripreso dalla televisione ha chiesto di marciare su Miraflores. È una cospirazione». Alle 13,40 alcuni funzionari di secondo piano anticipano, senza conoscerlo, il seguito degli eventi: «Avanzano sull’autostrada. Bisogna lasciarli manifestare, ma fermarli prima che arrivino qui. Altrimenti i Circoli bolivariani si mobiliteranno e sarà un disastro».
Gli uomini in uniforme sanno essere machiavellici. L’alto comando della Guardia nazionale non ordina alcuna manovra per prevenire l’inevitabile.
L’opposizione arriva a meno di 100 metri da Miraflores e da decine di migliaia di «chavisti», alcuni armati di bastoni e di pietre, scesi in piazza per proteggere con il loro corpo il presidente. Quindici guardie nazionali, non una di più, si interpongono per impedire lo scontro. Scena surreale, il più alto in grado si volta verso i fotografi e chiede angosciato: «Qualcuno mi può prestare un cellulare per chiamare rinforzi?» Usando gas lacrimogeni i suoi uomini riescono comunque a stabilizzare la situazione.
I 15 morti e 350 feriti (di cui 157 per ferite da arma da fuoco) di questi giorni saranno attribuiti ai Circoli bolivariani, i cui membri avrebbero freddamente sparato su una manifestazione pacifica.
È falso. Misteriosi cecchini appostati sui tetti di alcuni edifici di una decina di piani hanno fatto le prime quattro vittime tra gli stessi poliziotti. In seguito, dopo aver fatto salire la tensione, si sono accaniti sull’opposizione con mortale precisione. La confusione è totale. Vicino alla stazione della metropolitana El Silencio, una squadra della Guardia nazionale risponde al lancio di sassi della «società civile» con una serie di candelotti lacrimogeni e con armi da guerra ad altezza d’uomo. Piccoli gruppi della polizia metropolitana del sindaco di opposizione Alfredo Peña sparano su tutto ciò che si muove (anche se altri poliziotti si comportano correttamente).
La Guardia d’onore del presidente «avrebbe arrestato tre cecchini, tra cui due agenti della polizia di Chacao [quartiere a est della capitale] e uno della polizia metropolitana» (11). Nella concitazione degli scontri un ragazzo, disorientato, testimonia: «Ne ho visti due, erano in uniforme». Il giorno dopo sugli schermi di Venevisión il viceammiraglio ribelle Vicente Ramírez Pérez confida: «Avevamo il controllo di tutte le telefonate del presidente ai comandanti di unità. Ci siamo riuniti alle 10 del mattino per pianificare l’operazione».
Ma quale operazione? A quell’ora ufficialmente la grande massa dei manifestanti non era ancora stata dirottata su Miraflores.
Lo scopo voluto è raggiunto. Alle 18 «sconvolto dal numero di vittime», il generale Efraín Vasquez Velasco annuncia che l’esercito non obbedirà più al presidente Chávez. Qualche ora prima la quasi totalità del comando della Guardia nazionale ha fatto altrettanto. Alle 3,15 del mattino il generale Lucas Rincón legge un ultimo comunicato: «Di fronte a tali avvenimenti sono state sollecitate le dimissioni del presidente della repubblica. Che ha accettato». Nel corso delle trentasei ore successive questo messaggio passerà ogni venti minuti alla televisione.
Nominato il 12 aprile alla presidenza, il capo degli imprenditori Carmona scioglie l’Assemblea nazionale, tutti i corpi costituiti, destituisce i governatori e i sindaci provenienti dalle urne. Assunti tutti i poteri ha modo di ascoltare il portavoce della Casa bianca Ari Fleisher congratularsi con l’esercito e con la polizia venezuelana «per aver rifiutato di sparare contro manifestanti pacifici» e concludere: «Alcuni simpatizzanti di Chávez hanno sparato contro queste persone e ciò ha rapidamente portato a una situazione che ha provocato le sue dimissioni». Mentre l’Organizzazione degli stati americani (Oea) si prepara a condannare il colpo di stato, gli ambasciatori degli Stati uniti e della Spagna a Caracas si affrettano a salutare il nuovo presidente.
Nel frattempo in questo paese che per tre anni non ha conosciuto né assassini né rapimenti né incarcerazioni politiche, la repressione si abbatte sui ministri, sui deputati, sui militanti; decine di locali e di abitazioni sono perquisiti, centoventi «chavisti» imprigionati.
Alla Venevisión, dove è intervistato dalla giornalista Ibeyssa Pacheco, il colonnello Julio Rodriguez Salas, conclude con un grande sorriso il suo intervento: «Abbiamo avuto una grande arma: i media! E poiché se ne presenta l’occasione, vorrei congratularmi con voi». Così, in nome della democrazia, la «società civile» instaura una dittatura.
Toccherà al popolo restaurare la democrazia.
Il seguito è noto. Arrendendosi senza opporre resistenza per evitare un bagno di sangue, Chávez non si era affatto dimesso. Il 13 aprile i suoi sostenitori, centinaia di migliaia, occupano le strade e le piazze di tutto il paese. Nel pomeriggio la sua Guardia d’onore torna a Miraflores e aiuta alcuni ministri a rioccupare l’ufficio presidenziale.
Seguendo l’esempio del generale Raúl Baduel, capo della 42° brigata dei paracadutisti di Maracay, alcuni comandanti fedeli alla costituzione riprendono il controllo di tutte le guarnigioni. Diviso, senza prospettive chiare, temendo una reazione incontrollabile della popolazione e scontri tra militari, l’alto comando è in difficoltà. Nella notte il presidente legittimo della repubblica bolivariana del Venezuela è restituito al suo popolo.
Qualche giorno dopo l’opposizione, dimostrando di non aver imparato nulla da questi tragici avvenimenti, si appresta a far risalire la tensione. Tuttavia un militante, parlando dell’aria nuova che da tre anni spira sul paese, avverte: «Che non si facciano illusioni.
Con o senza Chávez il Venezuela non sarà mai più come prima».
note:
(1) Nome dispregiativo dato dal presidente ai suoi oppositori (e di cui essi si sono impadroniti con orgoglio), corrispondente al nostro: squallidi, macilenti.
(2) Venditore ambulante.
(3) Si legga Ignacio Ramonet, «Chávez», e Pablo Aiquel, «Per il Venezuela, «neobolivarismo» alla Chávez», Le Monde diplomatique/il manifesto, rispettivamente dell’ottobre 1999 e del novembre 2000.
(4) Datanálisis, in El Universal, Caracas, 14 marzo 2002.
(5) Dopo aver rotto i legami, ma senza mai stringere alleanza con l’opposizione, il Ppt si è riunito a Chávez. Anche una parte del Mas gli è rimasta fedele.
(6) Bidonville.
(7) Il colonnello Pedro Soto, il contrammiraglio Carlos Molina, il capitano Pedro Flores e il comandante Hugo Sanchéz.
(8) Anche la crisi in Medioriente ha avuto un ruolo in questa stabilizzazione.
(9) Miami Herald, 7 febbraio 2002.
(10) Coinvolto nell’Iran-gate negli anni ’80, strettamente legato alla lobby cubano-americana, la sua nomina è stata a lungo bloccata dal Congresso.
(11) El Nacional, Caracas, 13 aprile.
(Traduzione di A.D.R.)