di Riccardo Valla

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Il saggio di Riccardo Valla che presentiamo correderà, in una versione ridotta, il numero 20 di Urania Collezione (settembre 2004), contenente il romanzo di Alfred Elton Van Vogt Le armi di Isher.

Anche se gli esami della sua opera scarseggiano — nessun articolo dell’accademica “Science Fiction Studies” contiene il suo nome nel titolo — da qualche tempo Alfred E. van Vogt è citato sempre più spesso in riferimento all’opera di P.K. Dick, il quale, negli anni Cinquanta, ne era ammiratore e prendeva da lui ispirazione per il genere di romanzi che scriveva allora: storie di “space opera metafisica”, come le chiama Clute nell’Enciclopedia della Fantascienza. Eppure, da qualche tempo le riedizioni di van Vogt si sono rarefatte anche nella lingua originale (ma in Francia, dove fu originariamente tradotto e presentato da Boris Vian, godono sempre di un buon successo, che non si limita ai lettori abituali di fantascienza), e non è chiaro se sia cambiato il gusto del pubblico o se ci siano questioni di diritti, da quando il suo agente non è più l’appassionato direttore di “Famous Monsters of Filmland”, Forrest Ackerman.

Controllando il catalogo in linea di Amazon, tra i più di cento titoli elencati sembrano essere disponibili soltanto un e-book, un paio di raccolte rilegate e quattro tascabili. In lingua originale, i titoli più importanti si possono trovare senza grandi difficoltà nel mercato dell’usato, ma non è come averli sul bancone della libreria. Finisce che solo i vecchi lettori lo conoscono e i giovani lettori si chiedono che cosa leggere di suo e non trovano indicazioni.

1. I racconti dell’esordio. Van Vogt e Campbell

Iniziamo con alcune osservazioni sulla carriera di van Vogt. Diversamente dal tipico autore di fantascienza, van Vogt non ha frequentato l’ambiente fantascientifico americano, con le sue piccole cricche e le sue prevenzioni. Invece di scrivere da dilettante per le pubblicazioni amatoriali, s’è fatto la “gavetta” sui giornali e presso le radio, e anche se cominciò a leggere le riviste di fantascienza nel 1929 (era nato in Canada nel 1912; dal 1944 si trasferì negli Stati Uniti), l’idea di scrivere quel tipo di storie gli venne soltanto dopo avere letto una copia della rivista “Astounding”, dieci anni più tardi, e avervi trovato il racconto di John Campbell La cosa da un altro mondo. Inviò un proprio racconto alla rivista e, quando Campbell gli chiese alcuni cambiamenti, gli mandò un secondo racconto, che venne accettato senza modifiche.
In genere si include van Vogt nella “scuderia” di autori scoperti da Campbell e si fa il suo nome insieme a quelli di Asimov e Heinlein, ma c’è una certa differenza tra lui e gli altri due, così come tra loro e un altro autore “campbelliano”, Theodore Sturgeon. La caratteristica che contraddistingue il primo van Vogt è il suo scrivere storie di fantascienza che sono in realtà storie horror tradizionali, presentando però come alieni o come mutanti gli esseri sovrannaturali. Tuttavia, pare che Campbell non se ne sia mai lamentato, mentre varie volte rimproverava a Sturgeon di non essere abbastanza scientifico. Anzi, finì che sorse una sorta di emulazione tra Asimov e van Vogt: uno era famoso per i robot, l’altro per i superuomini e i “mostri”, uno aveva l’impero galattico delle storie della Fondazione, l’altro aveva l’impero di Isher e quello dell’atomo.
Forse Campbell rivedeva nelle storie di van Vogt alcuni elementi della sua produzione: a parte la disinvoltura nel prendere una storia horror e trasformarla in fantascienza (Campbell l’aveva fatto nella Cosa da un altro mondo), la dimensione “kolossal” dell’immaginazione “galattica” di van Vogt costituiva una ripresa delle “storie di super-scienza” che Campbell scriveva all’inizio degli anni Trenta a imitazione di Edward E. Smith: un crescendo di avventure e di scoperte scientifiche che portavano i protagonisti a diventare superuomini scientifici, come nei sogni inizio Novecento del Futurismo italiano.
Comunque, non bisogna pensare che prima di Campbell la rivista fosse dedita alle storie avventurose più truci e che sia stato Campbell, con l’arrivo dei “suoi” nuovi scrittori, a nobilitarla da un giorno all’altro. Campbell era subentrato al precedente direttore, F. Orlin Tremaine, col numero di gennaio del 1938, ma da anni collaborava alla rivista con articoli (firmati Campbell, mentre i racconti erano sotto pseudonimo) non molto diversi dagli editoriali di una rivista come quella. Inoltre, anche Tremaine cercava nuovi autori, diversi da quelli della generazione precedente, che potessero distinguerlo dalla concorrenza: negli ultimi tempi della sua direzione aveva lanciato un nuovo tipo di storie, chiamate “varianti di pensiero”, che prendessero i temi già noti e li sviluppassero in modo imprevedibile. La cosiddetta Età d’Oro della fantascienza comincia dunque da lui.
Qualche tempo fa c’era all’asta una sua lettera e (anche se non si dovrebbe leggere la corrispondenza altrui) è interessante riportarne il contenuto. Lettera dell’8 marzo 1937, da Tremaine a Roy A. Squires:

Caro signor Squires,
con molte delle cose da lei dette sono completamente d’accordo. Per questo ho cercato di sviluppare un gruppo di scrittori più giovani, più freschi, anche se non sono artisti rifiniti come Schachner e Fearn. Penso che in questo modo continueremo a scoprire nuovi intrecci [plot], mentre molti dei nostri più vecchi scrittori hanno raggiunto un punto in cui non vedono più nulla di nuovo su cui scrivere.

Fearn è noto in Italia con lo pseudonimo “Vargo Statten”, Schachner è uno degli autori antologizzati da Asimov nel suo volume sulla fantascienza degli anni Trenta, L’alba del domani, e la lettera sembra scritta da Campbell!
In ogni caso, perché terminasse l’influenza di Tremaine e si instaurasse completamente la nuova gestione di Campbell — caratterizzata dall’interesse per storie ricche di commenti e di spunti di riflessione, e non solo di avventure — occorre aspettare fino al 1940. Tuttavia, van Vogt rientra bene nella ricerca di novità condotta da Tremaine, anche se le sue prime storie appaiono dopo l’arrivo di Campbell. La prima ad apparire è Black Destroyer nel luglio 1939: l’episodio di Coeurl di Crociera nell’infinito. Un’astronave, chiamata Beagle come la nave di Darwin, esplora i mondi della Galassia e su un vecchio pianeta morente trova un predatore quasi invincibile. In seguito van Vogt scriverà altri incontri della nave Beagle con strani extraterrestri, e l’intera serie ha vari elementi d’interesse. Per prima cosa, e nonostante le tentazioni forti, evita la sorte di tutte quelle astronavi che nel primo episodio partivano sfruttando un’invenzione fatta in cantina dal protagonista e pian piano arrivavano a scoprire tutto lo scibile e qualcosa di più. I cicli di Smith e di Campbell e le loro imitazioni dovute a Williamson e Hamilton erano piene di simili avventure, nelle quali, per così dire, si inizia con le toppe scientifiche al culo e si finisce per rivoltare lo spazio-tempo come un calzino.
Nel viaggio, gli scienziati dell’astronave Beagle imparano plausibilmente un pochino di scienza, ma soprattutto di saggezza. Gli extraterrestri — almeno i primi — sono ben immaginati e sono presentati come frutto di esperimenti compiuti da razze estinte o come l’estremo prodotto di una specie che ha voluto rendersi immortale. Ma soprattutto sono interessanti le “scienze” che van Vogt inventa per l’occasione: il “nexianismo” (“connettivismo” nella traduzione italiana) e la teoria dei cicli storici — presa dal Tramonto dell’Occidente di Spengler — elevata a dogma. Con questo racconto compare anche il primo dei “superuomini” scientifici di van Vogt: grazie alla sua scienza, il “connettivista” è superiore al nemico e riesce ogni volta a ritorcere contro di lui la sua psicologia. Per esempio, tutti i terrestri lasciano l’astronave e l’alieno che se n’è impadronito si affretta a lasciarla a sua volta perché pensa: “Se quei pazzi hanno lasciato la nave, certo sta per esplodere!”. Si tratta di uno dei più vecchi trucchi dell’arte della guerra cinese, ma evidentemente gli alieni non leggono il Libro dei 36 stratagemmi.
Che cos’è il “connettivismo”? È la scienza di collegare insieme le conoscenze settoriali delle altre discipline, ma soprattutto è la prima delle nuove scienze inventate da van Vogt, che negli anni seguenti inventerà l’energia vibrazionale, quella temporale e la No-ologia del ciclo di Isher, la “similarizzazione” del Non-A e altre varianti della psicologia e della fisica. Per un verso, in queste “finte scienze” è il suo passato di lettore di “Amazing Stories” che ritorna: il primo a inventare scienze inesistenti fu E.E. Smith sulle pagine di quel periodico. Mentre in precedenza il direttore di quella — la prima — rivista di fantascienza, Hugo Gernsback, insisteva per pubblicare racconti “scientifici” e, obbedienti, gli scrittori di fantascienza inventavano nuovi sviluppi delle scienze vecchie, Smith, più sbrigativamente e con una sorta di uovo di Colombo, creò un’intera nuova scienza che, essendo stata inventata da lui, non richiedeva documentazioni e non dava luogo a contraddizioni. Curioso come le finte-scienze vanvogtiane siano state sempre accolte senza problemi dai lettori; l’unica che destò contestazioni fu il non-aristotelismo, che era un’esposizione concentrata della disciplina di uno psicologo degli anni Trenta, la “Nuova Semantica” di Korzybski (evidentemente, van Vogt le inventava meglio).
In sostanza però il racconto Black Destroyer è una nostra vecchia conoscenza: presenta un incontro con una di quelle forme intelligenti e inumane che caratterizzavano le storie horror (sulla rivista “Weird Tales” — oggi nota perché vi comparivano le opere di Lovecraft — Conan ne incontrava a ogni piè sospinto) e in effetti il felino Coeurl del racconto è un succhiatore di anime dotato delle irritanti caratteristiche di invincibilità che contrassegnano i vampiri, ma van Vogt riesce a nascondere la sua vera natura dietro grandi volute di fumus fantascientifico.
In dicembre, sei mesi più tardi, ossia giusto il tempo per scrivere un racconto e mandarlo, ritorna l’astronave Beagle con Discord in Scarlet, l’episodio di Ixtl, il mostro che passa attraverso i muri. Anche ora, il nemico invincibile viene vinto ritorcendo contro di lui la sua stessa psicologia, invece di mettere in campo un’escalation di armi sempre più grosse — come avrebbero fatto Hamilton o Fearn — o di inventare sul momento gli equivalenti dei paletti di legno appuntiti. È questa la differenza tra la normale space opera e la space opera metafisica: le armi che portano alla vittoria non sono fisiche, ma appartengono al campo delle idee e la lotta rappresenta due concetti conflittuali tra loro.
Campbell dirigeva anche un’altra rivista, “Unknown”, che pubblicava storie tra la fantasy e la fantascienza, e il mese dopo vi compare The Sea Thing, in cui alcuni uomini che vivono su un’isoletta e danno la caccia agli squali subiscono l’attacco di un “dio squalo”, un pescecane intelligente che quando esce dall’acqua ha la forma umana. Il racconto è una storia horror basata su una leggenda polinesiana ed è un piccolo classico delle storie di licantropia (con lo squalo mannaro invece del lupo mannaro). Come racconto, però, è anch’esso sul genere di molte storie di “Weird Tales”: avventure analoghe, ispirate a qualche leggenda — vera o presunta — ne incontrava il più noto personaggio della rivista, il detective Jules de Grandin, inventato da Seabury Quinn.
In agosto esce su “Astounding” Vault of the Beast (La torre di Kalorn) anch’esso basato sul “mostro” e su una idea scientifica: i numeri primi. Il mostro è questa volta un robot capace di assumere tutte le forme. Con una folgorante carriera nel mondo degli affari (ha ucciso e sostituito alcuni grandi finanzieri) riesce a ridurre in povertà il più grande matematico della terra e a proporgli un lavoro che lo farà ritornare ricco: aprire un antico manufatto lasciato dall’antica razza dei marziani. La serratura è basata sul più alto numero primo e van Vogt espone ingegnosamente l’argomento. Anche se è uscito dopo gli altri, questo era il primo racconto inviato da van Vogt alla rivista ed è forse quello in cui l’autore segue più fedelmente la propria teoria su come si debba scrivere narrativa: una tecnica da lui stesso descritta e consistente nel cambiare bruscamente il filo della narrazione ogni cinque o sei pagine. I risultati però non sembrano eccelsi: prima incontriamo il robot nascosto sull’astronave, poi una serie di uomini, poi l’antica civiltà marziana, poi la natura dell’edificio e infine il puzzle numerico. L’unico risultato di tutti questi salti è di abbandonare troppo presto qualche spunto che meritava di essere approfondito.

2. I primi romanzi: la società senza storia

Con la successiva apparizione di van Vogt sulla rivista di Campbell abbiamo il primo esempio di una storia più lunga, e non solo di un gruppo di racconti collegati: un romanzo che unisce tra loro vari spunti e li usa in modo diverso da quello tradizionale della fantascienza. Il primo di questi spunti è la telepatia che piaceva a E.E. Smith (passato in quegli anni dall’astronave Skylark alle storie dei “Lensmen”: superuomini dai grandi poteri mentali, ottenuti grazie alla “lente” che portano al polso), il secondo è il personaggio del giovane inventore che fa le scoperte in cantina, e il terzo è un’immagine che torna molte volte nelle opere di van Vogt: il mondo senza storia (il futuro che ha perso il ricordo del passato), cosicché vi è impossibile un’evoluzione politica. È anche il primo romanzo da lui scritto, e si tratta naturalmente del Segreto degli slan, apparso in quattro puntate a partire dal settembre 1940.
Slan è in apparenza un romanzo abbastanza unitario, anche se è diviso in tre parti staccate: la prima inizia con la “Nonnina” che salva il giovane “superuomo slan” John Cross e arriva fino a quando Cross scopre gli slan senza antenne: una società, parallela a quella poliziesca del dittatore del mondo, ma composta di mutanti che si confondono tra gli uomini “normali” e nascondono la propria scienza. Poi c’è il periodo in cui Cross si nasconde per effettuare le sue scoperte, e la terza parte con il ritrovamento delle vecchie città slan, il viaggio tra gli slan di Marte e il finale.
L’inizio del romanzo è da giallo hard-boiled — la fuga del protagonista, invano inseguito dalla polizia — e la città del futuro in cui si muove Cross è bloccata nel tempo, a una sorta di 1940: la Nonnina ha il carretto e il cavallo e fa la straccivendola, per le strade gira qualche Packard, di quelle col predellino largo. Senza necessità di fare sul romanzo un grande studio filologico, c’è il sospetto che sia un primo esempio di quei “taglia e cuci” che caratterizzeranno van Vogt verso il 1950. Basta guardare gli scompensi della trama: a volte gli slan sono dati per artificiali e a volte no, c’è una enorme organizzazione di slan senza antenne di cui nessuno s’accorge, anche se tutte le sere parte dal bel mezzo della città il loro razzo per Marte. Si ha l’impressione che in origine fosse un racconto lungo che è stato ampliato con inserimenti da un secondo racconto: forse era una storia contemporanea su scienziati hitleriani o sovietici che fabbricano una razza di mutanti telepatici. La polizia segreta (capitanata da un individuo che sembra ispirato a Lavrentij Beria) dà la caccia agli esseri artificiali che leggono nel pensiero, fino alla sorpresa finale che ricorda L’uomo che fu Giovedì e in cui si scopre che il capo del governo è uno di quegli esseri artificiali: una storia mezzo fantastica quale si poteva scrivere in quegli anni, anche se forse non il tipo che piaceva a Campbell. In questa storia iniziale, van Vogt potrebbe avere inserito tutta la parte sugli slan senza antenne, la quale, presa a sé, è un racconto su una società segreta di illuminati o scienziati o sapienti che si nascondono da un paio di secoli, hanno tenuto per sé le loro scoperte, hanno inventato le astronavi e le macchine per leggere i pensieri e colonizzato Marte. L’idea delle società segrete di scienziati (più o meno idealisti) che hanno conoscenze più progredite di quelle del resto del mondo è — citando una osservazione di Giuseppe Panella — “la conseguenza diretta del culto teosofico introdotto in Inghilterra da Madame Blavatskij e del ritorno del mito dei Maestri Rosacrociani” e la si incontra spesso nella prima fantascienza: già negli anni 1880, George Griffith aveva immaginato la società segreta degli Aeriani, che deteneva il segreto del volo e, grazie ai suoi aeroplani, dominava il mondo. Sia come sia, van Vogt ha unito due sottotrame che, prese isolatamente, non rappresentavano nulla di nuovo: una volta unite si sono rafforzate tra loro, ma i punti di sutura si notano.

3. Utopia e distopia

Nel luglio 1941 appare il racconto che sarà poi incluso come premessa nel ciclo di Isher, The Seesaw. Qui un uomo dei nostri giorni entra in un misterioso edificio comparso improvvisamente nella sua cittadina e all’interno trova gli uomini del futuro. L’edificio è un “Negozio d’Armi”, corporazione che in quel futuro è l’unica difesa dal Leviatano, la monarchia assoluta della dinastia Isher. L’uomo, dopo un breve periodo nell’epoca Isher (tra settemila anni, dice van Vogt), comincia a oscillare tra passato e futuro, in un’“altalena” sempre più ampia. Anche ora la forza del racconto sta nella mescolanza tra un tema fantastico classico e un trattamento da fantascienza avventurosa (da space opera, come in tanti racconti derivati dalla Macchina del tempo di Wells — per esempio La legione del tempo di Williamson — ma, come si è detto, quella di van Vogt è una space opera metafisica). Infatti il racconto ha una lontana origine da un vecchio tema delle fiabe già recuperato da Irving nel suo Rip Van Winkle: un uomo entra nel palazzo degli elfi e, quando ne esce, per lui è passata un’ora, ma per il mondo sono passati cent’anni. Qui non sono gli elfi ma i magici uomini del futuro e non sono i cent’anni, ma l’altalena (seesaw) tra passato e futuro.
Il contrasto che affiora dietro l’avventura del giornalista McAllister è quello metafisico tra utopia e distopia che caratterizza i due cicli di Isher e del Non-A. L’utopia è rappresentata dalla società scientifica dei Negozi d’Armi o dei “general-semantici” di Non-A, mentre ha caratteri distopici l’impero isheriano, dietro cui si può scorgere facilmente una versione dilatata della New York contemporanea: enormi grattacieli per ospitare enormi camere vuote, negozi grandi come una piccola città, totale scomparsa del tessuto sociale e la sola misura di tutte le cose è il dollaro (o meglio il “credito”). Un mondo come quello della canzonetta di Fo e Jannacci:

Si potrebbe poi sperare tutti in un mondo migliore.
Dove ognuno, sì, è già pronto a tagliarti una mano
un bel mondo sol con l’odio ma senza l’amore…

Del resto, come dice l’autore, nel mondo isheriano “si faceva quello si doveva fare” senza badare a chi si calpestava; l’utopia del pragmatismo si rivela per una distopia.

4. I romanzi isheriani

Il volume che presentiamo è il primo romanzo, The Weapon Shops of Isher, apparso nella stesura definitiva nel 1951. Si tratta però di storie scritte da van Vogt negli anni precedenti: il già citato racconto The Seesaw, poi un racconto apparso nel 1942 in cui Fara Clark inizialmente si oppone e infine accetta i negozi d’armi. L’anno dopo, nel 1943, apparve il romanzo che compone la seconda parte del ciclo: la storia dell’uomo immortale che sorveglia le sue due creazioni, l’impero e i negozi: The Weapon Makers (Hedrock l’immortale, non compreso nel presente volume di “Urania Collezione”). Infine, nel 1949, la storia di Cayle Clark e l’incontro fra Hedrock e l’imperatrice: The Weapon Shops of Isher.
Per le edizioni in volume, van Vogt fece un “collage” dei suoi tre scritti del 1941, 1942 e 1949; in seguito anche il romanzo del 1943 venne modificato per farlo divenire una continuazione del primo volume.
Complessivamente — e nonostante gli spunti distopici — è una storia caratteristica della fantascienza degli anni Quaranta per il suo ottimismo verso la scienza e il progresso. Si suppone la scoperta di nuove energie e nuove conoscenze, l’attuazione di progetti colossali come quello di riscaldare l’intero pianeta Marte; il futuro è visto in chiave positiva, così come poteva vederlo, in quegli stessi anni, la fantascienza di autori come Heinlein o in generale quella di “Astounding”. Si tratta di un fenomeno difficilmente ripetibile, legato anche alle condizioni di quegli anni, in cui gli Stati Uniti, dopo avere vinto la depressione, erano concordi nella lotta contro il nazismo. (I punti del romanzo in compare una critica contro la guerra — nel discorso tra Innelda e l’ufficiale disertore — sono apparsi nel racconto del 1949, quando si diffondeva nella fantascienza un allarme per l’enorme dimensione presa dalle attività del governo federale.) In seguito, negli anni Cinquanta, con la perdita del monopolio atomico, la caccia maccartista alle “streghe” e la mancata realizzazione delle promesse (sostanzialmente quella di una pace mondiale), la fantascienza cadde in preda al dubbio e si rivolse verso la critica della società, il ritratto di utopie negative, l’apologo ammonitore.
Nell’ottimistica stagione degli anni Quaranta, van Vogt fu uno degli autori che seppero meglio esprimere le grandi aspettative con cui si guardava al futuro: in questo senso, oggi è impossibile scrivere romanzi come quelli di van Vogt, così come in altri campi è impossibile ricreare lo spirito che accompagnava certe produzioni del passato (a esempio nell’opera lirica). Ed è entro questa fondamentale ingenuità che occorrerebbe affrontare lo studio di van Vogt, senza lasciarsi sviare dalla complicazione delle trame dei suoi romanzi. Una complicazione che in teoria prevede una “sorpresa” ogni poche pagine, ma che spesso consiste nella ripetizione: per esempio, la descrizione di come l’eccesso di sensazioni travolga la ragione compare per McAllistter che dimentica ciò che si era imposto di fare, per Cayle nella casa da gioco, per Fara nella Sala dei Nomi, per Lucy nella casa delle illusioni. La struttura delle singole opere è abbastanza semplice.
In generale, la critica su van Vogt si sofferma ad aspetti marginali di qualche romanzo. Uno studio su questo autore dovrebbe tuttavia tenere presenti due fattori: il primo è il suo rapporto con la scienza, il secondo è il contenuto “mitico” delle singole opere, il fatto che le migliori opere di van Vogt sono allegorie di alcuni processi psicologici fondamentali relativi alla conoscenza di sé (e anche in questo van Vogt precede Dick). Infatti, se ci si limita a chiedergli la verosimiglianza delle profezie, come faceva Damon Knight in un suo articolo su “van Vogt pessimo costruttore” si trova che sotto questo aspetto la sua prosa è carente.
Uno studio complessivo dell’opera di van Vogt esula da questa postfazione, ma i romanzi del ciclo isheriano permettono di isolare vari spunti meritevoli di approfondimento. Innanzitutto occorre fare una distinzione tra i due romanzi: il secondo è un’opera più compatta del primo e offre un limitato panorama critico. Infatti Hedrock l’immortale si può dividere sostanzialmente in due parti: nella prima, Hedrock incontra una serie di insuccessi che culminano in una sorta di morte: la lunga perdita di conoscenza, quando lancia alla massima velocità una navicella interstellare. Poi un interregno nel mondo illusorio ricreato dalla razza extraterrestre dei “ragni”: da quel momento in poi, la situazione si inverte e Hedrock ottiene ciò che non era riuscito a ottenere nella prima parte. La differenza tra le due parti è soprattutto nell’atteggiamento psicologico di Hedrock: inizialmente egli si affida a convinzioni fallaci (di avere ascendente sull’imperatrice, di non essere sospettato dai negozi, di poter riparare la nave in tempo), mentre nella seconda fa ricorso alla propria forza. I “ragni”, che a tutta prima potrebbero sembrare un’immagine strana e incongrua (per la trama non è essenziale che siano proprio dei ragni), trovano la loro giustificazione nel fatto che rivelano ad Hedrock come la realtà sia illusoria, sia una rete (o una ragnatela: è la rete di Maya, dio delle illusioni). Compreso questo, Hedrock si fida soltanto più delle proprie azioni.
Visto come superamento, grazie all’azione positiva, dei mali causati dal farsi troppe illusioni, il secondo romanzo viene a essere un’estensione di ciò che capita nelle Armi di Isher ai personaggi di Fara e Cayle Clark. Questo primo romanzo si presenta assai più ricco. Hedrock vi svolge una parte assai minore, e vi sono varie “storie” che si intersecano:
1) la storia di McAllister, che penetra nel negozio d’armi e inizia ad altalenare nel tempo;
2) e 3) Fara Clark e Cayle Clark: il loro incontro con le due realtà del mondo di Isher; prima vittime e poi trionfatori;
4) Hedrock (i suoi colloqui con i fabbricanti d’armi e con Innelda).
Le vicende dei due Clark, padre e figlio, sono fondamentalmente analoghe: la loro ingenuità li porta a essere ridotti al lastrico, poi decidono di far ricorso alla forza e ottengono la vittoria.
Le altre due vicende — di McAllister e di Hedrock — sono strutturalmente diverse: il solo legame sta nel fatto che è Hedrock a porre fine all’altalena di McAllister. L’intera storia ruota attorno all’altalena di McAllister e dell’edificio. Nessuna delle due parti — né i negozi né l’imperatrice — prevedeva che il fenomeno sfuggisse loro di mano: l’imperatrice ignorava il meccanismo dell’altalena, e i negozi pensavano di poter smorzare le oscillazioni. Dopo qualche tempo, la situazione diviene minacciosa: McAllister esploderà chissà dove, e l’edificio mina la stabilità economica del mondo di Isher. Soltanto l’unione di intenti tra Hedrock e Innelda potrà riportare tutto alla stabilità: realizzata l’unione, McAllister con la sua esplosione genererà i pianeti.
Intorno a queste vicende si muove il mondo di Isher: una specie di Far West o di Wall Street all’ennesima potenza, dove i pesci piccoli non hanno scampo. Le caratteristiche del mondo isheriano sono tutt’altro che accomandabili, nonostante le sue luci e il suo verde: autorità in combutta con i delinquenti, tolleranza della schiavitù, deportazione forzata, tribunali corrotti e assoluto arbitrio del potere. L’opposizione esiste, ma col contagocce: un individuo la volta, quando una persona che si senta danneggiata si reca in un negozio d’armi a comprare un’arma difensiva.
Queste peculiarità del mondo isheriano sono quelle che hanno richiamato su di sé l’attenzione dei pochi che si sono soffermati sui romanzi dei fabbricanti d’armi. Le osservazioni più frequenti riguardano:
A. Il folklore dei negozi (“Il diritto di acquistare armi è il diritto di essere liberi”).
B. La struttura politica (un governo assolutista, frenato da un’opposizione invincibile).
C. Il fatto che alla fin dei conti potere e opposizione facciano capo alle stesse persone.
Il primo punto ha sollevato vari commenti superficiali, secondo i quali van Vogt sosterrebbe un certo modo americano di farsi giustizia da sé; in questi romanzi ritornerebbe dunque il mito della frontiera, non solo, ma anche la difesa delle organizzazioni americane contrarie alla registrazione delle armi da fuoco in possesso dei cittadini. Sono osservazioni che contengono una parte di verità (e qualche volta nei due romanzi ci sono dei commenti in tal senso: nel primo si dice: “Nella nostra epoca, le energie vitali che non trovano sfogo nell’avventura si rivolgono alla corruzione”; nel secondo, Hedrock vede la conquista delle stelle come una inesauribile frontiera), e del resto, sia Hedrock (nel secondo romanzo) sia i due Clark hanno successo solo quando passano all’azione. Ma è un po’ semplicistico condensare in questi soli significati tutto il ciclo. Le pistole dei negozi d’armi sono pistole, certo, ma sono anche qualcosa d’altro: sono simboli. (Resta da scoprire di che: ma se van Vogt avesse soltanto voluto difendere il porto d’armi generalizzato, si sarebbe maggiormente diffuso su tale stato di cose; dal libro, invece, sembra potersi concludere che i proprietari di pistole dei negozi siano una parte infinitesima della popolazione.)
Osserviamo dunque le tanto decantate pistole. Si hanno due tipi di armi: quelle dell’impero, che non sono mai descritte e che si limitano a sparare, e quelle dei negozi. Queste hanno la singolare caratteristica di non sparare mai: sono descritte, minacciano, sono temute, sono ammirate, ma non usate. Inizialmente McAllister le ammira (ma non le usa), e la ragazza ne punta una contro di lui e contro il padre (e non la usa). Poi Fara Clark ne ammira una (e quella gli sguscia via di mano) e non la usa. Viene diffusa la calunnia che ne abbia acquistato una. Sul naveplano che porta Cayle Clark a Città Imperiale, i tre rapinatori si assicurano che Cayle non ne abbia una; più tardi la ragazza si rifiuta di prestare a Cayle la sua. Fara Clark ne compra una per rivolgerla contro se stesso, ma alla fine se ne servirà per spezzare un lucchetto: unica volta che una pistola dei negozi d’armi spari effettivamente. (Ed è singolare che Cayle non riesca ad avere un’arma dei negozi finché non gliela dona lo stesso Hedrock.)
Insomma: le armi imperiali sono vere armi, e quelle dei negozi sono fondamentalmente degli “status symbol”: indicano una condizione raggiunta e sono più precisamente un simbolo di virilità, di maturità maschile (oltre che un simbolo fallico). Esse servono per distinguersi dagli uomini “di lei”, e già a questo punto si ha l’impressione che dietro i conflitti del romanzo ci sia non tanto la dialettica politica, quanto una dialettica dei sessi, e che le forze in opposizione simboleggino virilità e femminilità.
Questa interpretazione trova conferma nella struttura politica del mondo di Isher: impero contro negozi, in un eterno braccio di ferro. Sembrerebbe a prima vista che Isher sia una sorta di monarchia costituzionale, ma ci sono molte differenze con le monarchie che conosciamo. Innelda è capo dello Stato e capo del governo e regge anche i vari dicasteri (non delega nulla, neppure il licenziamento della cuoca) ma si basa più sull’opinione del cugino che su quella dei consiglieri. Inoltre, è proprietaria di uno sterminato elenco di industrie, banche ecc.: facendo la somma dei suoi incarichi, non si capisce come possa fare tutto.
Anche l’opposizione politica dei negozi è abbastanza strana: a volte si afferma che la loro opposizione è soltanto indiretta, che si limitano a prendere i singoli individui e a metterli in grado di difendersi da sé; a volte fanno un’opposizione diretta. Comunque, a parole svolgono un’opposizione negativa, una difesa passiva, e non prendono per primi l’iniziativa. La loro è una posizione remissiva, “femminile”, mentre l’impero è attivo, aggressivo, “maschile”.
Su queste basi si potrebbe fare una semplice tabellina, in cui gli “strati” equivalgono a gradi di potere decrescenti:

MASCHILE FEMMINILE
I strato Hedrock Innelda
II strato Impero Negozi d’armi
III strato Sostenitori
dei Membri della po-
negozi lizia, dell’esercito,
d’armi funzionari statali

Al di sotto dei terzo strato ci sono poi quei cittadini indifferenziati che non sono né sostenitori dei negozi, né legati all’imperatrice: a esempio Fara Clark, che è un suddito fedele, ma privo della protezione imperiale (e infatti tutti i suoi guai derivano dal fatto che crede che l’imperatrice protegga i cittadini come lui). Questo strato non compare in tabellina perché corrisponde a una condizione intermedia: non è “virile” (non avendo la pistola dei negozi) e non è “effemminato” (non è “di lei”): infatti la porta, che non si apre per gli uomini di lei, si apre per Fara).
Probabilmente si otterrebbe una rappresentazione più completa se si sdoppiassero i termini “impero” e “negozi d’armi”, considerandoli una volta nei rapporti con la riga precedente, e una volta con quella seguente; comunque ci sembra di poter riconoscere un connotato “femminile” abbastanza chiaro nei negozi: oltre a essere passivi invece che attivi (almeno come intenzione), sono quelli che assegnano i simboli di virilità (le loro armi) una volta che si superi l’angoscia di evirazione di quella loro maniglia apparentemente pronta a staccarsi e la regressione uterina di quell’entrata. (Tutte le case di Isher incitano alla regressione uterina: per entrare ci sono da superare, nell’ordine, un giardinetto con erbette e fiori vari, e qualche anticamera stretta; infine si arriva in una vasta stanza comoda e poco illuminata.) Ma anche un’indagine completa su queste componenti non farebbe che aggiungere qualche dettaglio: la simbologia generale è chiara.
Dalla tabellina si nota come nelle colonne maschile e femminile compaiano elementi di entrambe le parti. Ordinando invece la tabellina secondo l’appartenenza al governo e all’opposizione si avrebbe (lasciando da parte gli strati):

GOVERNO OPPOSIZIONE
Innelda (F) Hedrock (M)
Impero (M) Negozi d’armi (F)
Membri della Sostenitori dei
polizia ecc. (F) Negozi d’armi (M)

in cui F ed M indicano maschile e femminile. Innelda (F) ha sotto di sé l’impero (M). e Hedrock (M) ha sotto di sé i negozi (F): questa struttura richiama alla mente i concetti junghiani di animus e anima, ossia la parte maschile di una personalità femminile e viceversa, ed estendendo l’analisi lungo queste linee si finirebbe probabilmente per trovare qualche variante delle “nozze regie” incontrate da Jung nei suoi studi sull’alchimia. Del resto, nel romanzo tutto verte sulla consumazione delle “nozze” simboliche tra “De Lany” e Innelda: nozze che avranno anche il loro frutto, ossia la creazione del sistema solare. (McAllister, estraneo al sistema Isher/negozi, è anche al di fuori della struttura maschile/femminile: egli è l’oggetto della contesa, non una delle parti in causa.)
Come si può vedere dagli accenni precedenti, il ciclo isheriano si presta molto bene a queste analisi della struttura simbolica. Venendo alle conclusioni, dal ciclo si traggono due concetti generali: il primo è quello della necessità di vincere le illusioni e di agire positivamente per modificare la realtà, e il secondo è una visione del mondo come dialettica tra i sessi, con la necessità di far riconoscere la propria virilità prima di poter aspirare a una sessualità matura, poiché chi non lo fa rischia di passare per effemminato (essere “un uomo di lei”) o di diventare giocattolo nelle mani dell’altro sesso (Cayle nella casa delle illusioni).
Un rito del passaggio: una fantasia pre-puberale di impotenza (i due Clark, che all’inizio non hanno né le conoscenze né i mezzi per entrare nel grande gioco di Isher) e il suo superamento tramite ordalia.

5. Rull e altri ribelli

Il successivo anno, 1942, corrisponde all’inizio del grande successo di van Vogt. Il suo primo importante racconto dell’anno è una storia sul tipo di quelle della nave Space Beagle: Co-operate–or Else!, aprile 1942. Il protagonista alieno — il “rull” — è qui una creatura con “il più perfezionato sistema nervoso dell’universo”. La storia, forse partita nelle intenzioni dell’autore come un’avventura della nave e dei suoi scienziati, finisce per svilupparsi in modo autonomo: diversamente da Coeurl e Ixtl, il rull è l’esponente di una razza altrettanto organizzata quanto quella umana e per ottenere la vittoria non bastano Grosvenor il connettivista e i suoi trucchetti psicologici. Perciò la storia descrive il tentativo di raggiungere una cooperazione che può portare alla pace tra le razze. Del resto, alcuni anni dopo, van Vogt non metterà questa storia nelle avventure della Space Beagle (magari adattandola allo scenario delle altre), ma la cucirà con altre storie per costituire uno dei suoi romanzi meno unitari (in italiano Tutto bene a Carson Planet).
Dopo la parte centrale delle Armi di Isher e il romanzo Hedrock l’immortale, già citato, escono su “Astounding” alcuni racconti che rientrano nei “cicli” precedenti, e in particolare due episodi dei Ribelli dei 50 soli (Concealment, settembre 1943, The Storm, ottobre 1943), e soprattutto viene pubblicato sulla rivista “Unknown” il romanzo fantastico di van Vogt più noto, Il libro di Ptath (ottobre 1943). Nonostante il fascino del suo tema fondamentale — il superuomo senza memoria che cerca di scoprire la propria identità — questo romanzo è abbastanza marginale rispetto alla produzione di van Vogt: in parte è una strana commistione tra remoto passato e lontanissimo futuro, e in parte è una storia di poteri extrasensoriali. L’ambientazione ha alcuni punti di contatto con quella del successivo ciclo dell’“impero dell’atomo”: facciamo la conoscenza di un paese retto da una teocrazia che fa capo ad alcuni dèi o superuomini i quali si procurano la forza attingendo energia psichica dalla popolazione, come già facevano i “vitoni” di Eric Frank Russell (anche Schiavi degli invisibili era apparso su “Unknown”), ma passando questa volta attraverso i “bastoni da preghiera”. In questo paese ritorna un dio esiliato, Ptath, e deve riconquistare il potere che gli è stato usurpato. Anche questa sembrerebbe un’opera composita, con alla base una vicenda alla maniera di quelle di Conan.
L’anno seguente, 1944, van Vogt scrive molte storie non eccessivamente impegnative di esplorazione spaziale, e occorrerà aspettare fino all’agosto del 1945 per un’altra delle sue opere principali: l’importantissimo Anno 2650, primo volume del ciclo del Non-A. Il romanzo è un’utopia basata sui principi di un pensatore polacco, Alfred Korzybski, che proponeva un sistema per ragionare in modo corretto: la “semantica generale”. Non è facile definire la semantica generale, perché si tratta di una disciplina con cui l’autore vuole arrivare a dare giudizi “veritieri” e dunque rientrerebbe nella filosofia, e infatti l’autore parla di “filosofia non aristotelica”, Non-A (con Aristotele, secondo lui, il mondo viene ricondotto a una serie di definizioni fisse; siamo abituati a ragionare mediante queste definizioni fisse e cadiamo in errore quando la realtà è diversa da quella che abbiamo incontrato in passato), ma attinge le sue idee da vari scienziati e poi prescrive appositi esercizi, perciò potrebbe essere una “psicologia”. Korzybski pubblicò la sua opera nel 1933 e nel 1938 fondò a Chicago un istituto dedicato alla sua disciplina. Van Vogt tendeva già a una prosa priva di emozioni, in cui i sentimenti dei personaggi venivano spiegati come reazioni psicologiche, e di conseguenza una psicologia come quella di Korzybski era assai vicina al suo modo di sentire. Il romanzo presenta una società del futuro in cui l’Istituto di Semantica Generale sottopone a test la maggior parte della popolazione umana e ha in corso sul pianeta Venere la creazione di una società perfetta. La selezione viene effettuata da una “macchina” (un gigantesco calcolatore, come quello che compare nel centro di documentazione dei negozi d’armi). All’inizio del romanzo, il protagonista Gosseyn scopre di trovarsi in una situazione che la semantica generale non riesce a risolvere: tutti i suoi ricordi sono falsi. Durante una fuga, Gosseyn viene ucciso. Si risveglia sul pianeta Venere e laggiù scopre l’esistenza di una grande comunità galattica che si prepara a conquistare la terra.
Il romanzo si basa su alcune efficaci immagini, sia scientifiche sia emotive: la scoperta di Gosseyn che i suoi ricordi sono falsi (è per spunti come questo che si parla di van Vogt come maestro di Dick), la sua rinascita in un corpo nuovo, i poteri mentali legati alla presenza di “un pezzo di cervello in più” (tema che compariva anche in Slan), la macchina delle selezioni, la dimensione enorme della civiltà galattica e dei suoi prodotti (navi lunghe chilometri, come nella tradizione di E. E. Smith). Il successo di questo romanzo è però legato a una considerazione di fondo che non viene detta espressamente ma è sottintesa, ossia il problema della continuità della coscienza. Si può parlare di una stessa identità quando si tratta di due corpi come in Gosseyn? È Gosseyn I che rinasce o Gosseyn II è semplicemente un altro individuo con i ricordi di Gosseyn I? Per la fantascienza, in genere, e diversamente dalla religione, il problema non sussiste: la personalità è la somma dei ricordi. Perché la fantascienza giunga a dubitarne occorrerà attendere l’arrivo di Dick.

6. I barbari e l’atomo

Con il maggio 1946 inizia un nuovo ciclo di van Vogt, quello dell’Impero dell’atomo, che sembra ispirarsi al ciclo di Asimov della Fondazione, soprattutto per la curiosa miscela di tecnologia e di barbarie (la stessa di alcuni dei primi racconti asimoviani). Dopo il crollo della civiltà che conosciamo, sulla Terra sono rimaste alcune tecniche che vengono praticate in modo artigianale, senza quelle conoscenze che noi chiamiamo scientifiche. Una è l’energia atomica, l’altra è il volo nello spazio. L’impero barbarico di Linn vola con le sue astronavi fino agli altri pianeti, ma per tutto il resto è al livello della Roma della decadenza. Per una fuga di radiazioni quando la regina va nel tempio degli dèi dell’atomo (una centrale nucleare), nella famiglia reale nasce un mutante di intelligenza superiore alla norma e le storie di van Vogt lo seguono passo passo, nella riscoperta del passato, nella riunione della terra con coloro che ancora abitano negli altri pianeti e infine nella guerra contro una razza extraterrestre. Il ciclo è una riproposizione (come per un certo aspetto lo è Fondazione) di quelle vecchie saghe di Campbell e di Smith in cui Richard Seaton o Aarn Munro inventavano una successione di macchine sempre più prodigiose e finivano (specialmente Munro) per ridurre l’intero universo a qualcosa da mettere sotto i loro microscopi o sul bancone del loro laboratorio. Anche Clane Linn, alla fine del ciclo, non ha più nulla da scoprire: tutto l’universo è davanti a lui ed è una sfera luminosa grossa come un pallone da calcio. (Se lo sapessero quelli della New Age ne farebbero uno dei loro santoni.)
Una storia molto bizzarra, nella vena dark e weird di van Vogt, è L’occhio dell’infinito (The Chronicler, “Astounding”, ottobre 1946), una storia a metà tra quelle di universi paralleli e quelle di vampirismo. Nell’universo parallelo al nostro c’è l’antichissima e decadente città di Naze, abitata da uomini con tre occhi dotati di armi del futuro e di cinture antigravità. La sua antica civiltà è decaduta a causa dell’uso delle “tazze” che trasformano il sangue in una droga irresistibile (ecco un’altra delle “macchine intelligenti” di van Vogt: i bastoni da preghiera, le macchine che leggono il pensiero in Non-A e Isher, le armi e le porte dei Negozi). Un uomo del nostro mondo, nato casualmente con tre occhi, dapprima intravede la realtà parallela e infine vi penetra e viene coinvolto nei suoi intrighi di potere. Un romanzo che contiene spunti tra il “giallo” e “Weird Tales”.
Negli anni seguenti van Vogt completa alcuni cicli e soprattutto si dedica a una lunga serie di racconti pieni di idee amare e sorprendenti, che preannunciano la grande stagione del racconto breve, quella che negli anni Cinquanta vide all’opera Brown, Sheckley, Tenn e molti altri. Il più noto di questi racconti è forse Villaggio incantato, in cui l’unico superstite di una spedizione su Marte entra in un villaggio “vivente” sopravvissuto agli antichi marziani che vi abitavano. Ma ogni aspetto del villaggio è ostile alla vita terrestre: l’acqua è corrosiva, la musica è un insopportabile stridio, il cibo è veleno…
Verso il 1950, e per una quindicina di anni, van Vogt cessa virtualmente di scrivere per dedicarsi all’organizzazione di corsi di dianetica, una terapia psicologica enunciata da un collega scrittore di fantascienza, Ron Hubbard. In seguito, e dopo le prime disavventure con il fisco americano, Hubbard trasformò la dianetica in una religione laica, la Scientologia, ma agli inizi la nuova disciplina psicologica si servì delle riviste di fantascienza come trampolino di lancio: Hubbard la presentò sulle pagine di “Astounding” e Campbell ne prese le difese. In generale la dianetica è come il poker, per vedere bisogna pagare, ma dalle notizie che trapelano risulta anch’essa un’applicazione delle idee di Korzybski. Durante questi anni, van Vogt scrisse soltanto un nuovo romanzo, il thriller The Violent Man (1962), su un tema che andava di moda in quegli anni, il lavaggio del cervello. Per il resto si limitò a unire i vecchi racconti per fare romanzi. Ritornò poi a scrivere nuovi romanzi di fantascienza dopo il 1965 e continuo fin quasi alla morte (sopraggiunta all’inizio del 2000), ma forse la troppa dimestichezza con la psicologia gli aveva tolto una parte dell’ispirazione: come commenta Clute, la troppa consapevolezza interrompe in questi nuovi romanzi il flusso onirico di eventi capaci di coinvolgere per la loro carica simbolica.

7. La traduzione

La presente traduzione era originariamente apparsa in un volume contenente i due romanzi isheriani; essendo passati ormai molti anni, è stata adeguata al gusto odierno, per esempio eliminando molti pronomi di persona e alcune costruzioni inglesi che miravano a dare un senso di straniamento. All’epoca pareva interessante presentare il testo di van Vogt con un accettabile equivalente della sua scrittura. Van Vogt varia lo stile a seconda di ciò che descrive — l’imperatrice parla in modo diverso dai personaggi comuni, il fisico si esprime come un fisico, e così via — ma c’è uno stile vanvogtiano fondamentale nelle parti descrittive, indipendente dal punto di vista momentaneo, ed è caratterizzato dall’attenzione per i meccanismi che stanno dietro le azioni. Per esempio, invece di dire semplicemente che mentre A dice una cosa, B sta già agendo, scrive che “le parole di A furono come un segnale: B passò all’azione” . Si potrà discutere sull’efficacia di questo stile di van Vogt (molte volte si potrebbe dire la stessa cosa in modo più elegante), ma è uno stile che ha una sua logica: ricondurre le azioni umane alle emozioni che le hanno messe in moto, e queste a variazioni nel sistema nervoso del personaggio. L’effetto sul lettore è di dare un senso di esattezza scientifica alla sfera delle emozioni e contribuisce a dare un ritratto di un futuro in cui anche le facoltà mentali sono misurabili con precisione. Del resto, è uno stile che van Vogt adotta intenzionalmente: quando gli serve uno stile più “poetico” riesce a scriverlo senza difficoltà.
Infine, i nomi degli oggetti. Come poi Dick, anche van Vogt amava inventare i nomi degli oggetti futuribili invece di usare quelli già impiegati da altri autori di fantascienza e termini come “carplane” e “telestat” hanno una traduzione italiana consolidata dalla tradizione: autoplano, telestato. Altri come “callidetic” o “transparency” sono inventati da lui (“transparency” in inglese corrente sono le diapositive) e l’analogo italiano si costruisce facilmente: callidetico, trasparenziatore. Nel caso di alcuni termini avevamo chiesto allo stesso autore l’origine della parola: per esempio il termine “No-Man”, che nelle prime traduzioni italiane era reso con “psicologo” oppure “intuitore” dei negozi d’armi. “Intuitore” poteva essere una buona soluzione, ma il dubbio era se significasse “numerologo” o “conoscitore”, dato che “No.” potrebbe essere l’abbreviazione di “number” ma nello stesso tempo si pronuncia come know, conoscere. Interpellato sull’origine della parola, van Vogt rispondeva:

Il termine “No-Man” è stato coniato da me. La parte “no” non deriva dall’abbreviazione di “numero”. Significa “negativo” nel seguente modo: abbiamo un uomo che può decidere che cosa una cosa non sia. Non è questo, non è quello, quello, quello… Mediante un processo di eliminazione, che si svolge nella sua testa, egli giunge a una risposta corretta, straordinariamente brillante.

Di conseguenza è stato tradotto “uomo-No”, che magari è meno immediato di “intuitore”, ma è più fedele (e permette di citare la risposta di van Vogt, a beneficio di futuri studiosi!)