Trovando intollerabile la maggior parte dei commenti di stampa seguiti alla sentenza di estradizione pronunciata dalla Corte d’Appello di Parigi il 30 giugno 2004, Cesare Battisti riafferma formalmente di non avere ucciso e di essere innocente dei crimini che gli sono stati attribuiti.
Cesare Battisti ricorda di essere protetto da due sentenze di non estradizione rese dalla Corte d’Appello di Parigi nel 1991 e dalla parola di François Mitterrand, rispettata per diciannove anni da nove governi consecutivi, di destra come di sinistra.
Indignato dalla decisione ingiusta del 30 giugno, che consegna un innocente alla prigione a vita senza che alcun ricorso sia possibile, chiede il beneficio di un processo equo in Italia, alla presenza di osservatori internazionali.
Commento. Assassinio sull’Orient Express
di Valerio Evangelisti
Fin qui il comunicato. Ora proviamo a fare il punto sulla situazione.
Su quali basi la Corte d’Appello di Parigi modifica, su pressione del ministro della giustizia francese Perben, a sua volta premuto dal collega italiano Castelli, le due decisioni del 1991 contrarie all’estradizione di Cesare Battisti?
Anzitutto sulla base di una scappatoia giuridica. Si tratta di aggirare un fondamento del diritto, il ne bis in idem. Nessuno può essere giudicato due volte sugli stessi fatti. Il modo lo aveva suggerito, in Italia, il procuratore aggiunto milanese Armando Spataro, già protagonista dei processi contro Cesare Battisti. Dialogando con i colleghi del suo Movimento per la Giustizia, questi asseriva di avere “effettuato una ricerca più approfondita”, fino ad appurare che le decisioni del 1991 erano state prese in assenza di sentenza definitiva, adottata solo nel 1993.
Tale “scoperta”, che si ritrova pari pari sia nella requisitoria del pubblico ministero francese, sia nella sentenza del 30 giugno 2004, è una semplice castroneria. La sentenza definitiva della Cassazione italiana contro Battisti è del 1991, ed era nota ai magistrati francesi che si pronunciarono alcuni mesi dopo, tanto è vero che fu allegata alla pronuncia sfavorevole all’estradizione. Nel 1993 la Cassazione italiana riaprì il fascicolo, però solo per esaminare questioni non riguardanti Battisti (per inciso, ciò portò all’assoluzione di una donna accusata di omicidio, una decina di anni prima, dal pentito Pietro Mutti).
La sostanza delle pronunce italiane contro Battisti — sia quella del 1991 che le precedenti – rimase intatta.
Prima di procedere oltre (i bizantinismi sono solo all’inizio) mi si consenta un lunghissimo inciso. L’ostilità di alcuni settori della magistratura italiana, e in particolare di quella di Milano, nei riguardi di Berlusconi, ha indotto parte della sinistra a scambiarla per un baluardo da difendere sempre e comunque. Salvo dimostrare sorpresa e un velo di indignazione quando la procura di Milano rigetta le domande di grazia prima di Ovidio Bompressi e poi, la settimana scorsa, di Adriano Sofri. A giudizio dei magistrati mancherebbe il requisito del pentimento. Poco importa, ai loro occhi, che i due imputati si dichiarino innocenti, per cui non si vede di cosa dovrebbero pentirsi.
Per l’opinione pubblica più avvertita (ahimé, ridotta al lumicino), l’ultimo dettaglio è rivelatore delle distorsioni provocate nella giurisprudenza italiana da quegli stessi magistrati, una volta introdotte le nozioni inquisitoriali di delazione, di pentimento, di “concorso morale” ecc. Non a partire da “Mani pulite”, bensì a partire dai processi “d’emergenza” della fine degli anni ’70 e degli anni ’80.
Di tali distorsioni Armando Spataro, il persecutore di Battisti, è stato ed è tra i massimi fautori. Significativo è l’esito del processo agli assassini di Walter Tobagi, forse il più importante del periodo, gestito da Spataro. L’esecutore materiale dell’omicidio, Marco Barbone, si “pente” (cioè accetta di farsi delatore), viene condannato a otto anni con la condizionale ed è subito scarcerato. Prosciolta anche la sua ragazza, che aveva indicato la vittima da colpire, e messo in libertà un altro componente del commando, il “dissociato” Morandini. Invece membri anonimi e secondari del gruppo ricevono condanne a trent’anni di carcere: non si erano pentiti e non si erano trasformati in delatori. Poco importava che le loro colpe fossero lievi.
L’onorevole socialista Ugo Intini, dalle colonne dell’Avanti!, denuncia lo scandalo e l’assurdità della sentenza. Spataro lo trascina in giudizio (ehm, nel calcio si direbbe che “gioca in casa”) e lo fa condannare per diffamazione. Da quel momento Marco Barbone, l’assassino in libertà, viene trascinato come testimone da un processo all’altro. In quello del “caso 7 aprile” assicura che gli autonomi altro non sono che il braccio politico delle Brigate Rosse (una tesi pienamente confutata sul piano storiografico, ma che condurrà all’arresto di oltre 150 persone); in ulteriori processi accusa una folla di altri imputati, poi risultati quasi tutti innocenti.
Compagno di viaggio di Barbone è il pentito Pietro Mutti. Figura spettrale, eternamente prossima al collasso nervoso, effettua a sua volta decine di riconoscimenti sballati. Nel corso del processo d’appello per l’omicidio Torregiani e per le azioni dei Proletari Armati per il Comunismo, lo stesso procuratore della Repubblica lo definirà uno specialista nell’attribuire ad altri crimini propri. Numerose volte Mutti chiama in causa Cesare Battisti, salvo ritrattare non appena emergono fatti che negano la circostanza. Si giustificherà dicendo che Battisti era il più giovane del gruppo, che era in salvo all’estero, ecc.: il capro espiatorio ideale. Sta di fatto che Battisti, grazie a Mutti, si ritroverà addosso quasi tutti i delitti attribuiti ai PAC. Inutile dire che Mutti, unico partecipante certo ad alcuni dei fatti di sangue più gravi, sarà scarcerato. Eppure i “parenti delle vittime”, nell’osceno défilé televisivo dei mesi scorsi, non faranno mai il suo nome, né reclameranno la sua punizione.
Da quel momento Mutti parteciperà agli stessi tours di Barbone e accuserà decine di innocenti, salvo deragliare clamorosamente allorché accuserà Yasser Arafat di armare BR e altri gruppi terroristici.
E’ questo il “metodo” di Armando Spataro. Comunque lo si giudichi, riesce arduo attribuirgli una connotazione di sinistra, a meno che non si collochino a sinistra anche Vishinskij e Fouquier-Tinville.
E il temutissimo Spataro ha la memoria lunga. Nel 2000, all’interno del CSM, si oppone all’affidamento a un altro giudice milanese, Amedeo Santosuosso, di un incarico di formazione dei magistrati. Il motivo? Nel 1984 Santosuosso aveva criticato i processi “d’emergenza”. Sedici anni dopo Spataro se ne ricorda ancora e consuma la sua vendetta.
(Per ci voglia saperne di più, raccomando l’articolo di Luigi Oreste Rintallo 28 maggio 1980: il delitto Tobagi, apparso su Quaderni Radicali n. 44 / 45).
Del resto, solo due mesi fa Spataro, nel corso di un dibattito con Giorgio Galli, ha preso le difese di alcuni colleghi, tra cui Pomarici (l’accusatore di Sofri) e Calogero (l’architetto del processo 7 aprile). Più volte, in altre occasioni, ha lasciato trapelare la sua condanna del “trattamento di favore” riservato a Silvia Baraldini.
Che razza di “sinistra” è quella che elegge uno Spataro a proprio esponente, magari contro le intenzioni dell’interessato? Diciamolo pure: non è una sinistra. E aggiungiamo che, se di “sinistra” si tratta, fa alquanto ribrezzo. Quasi quanto la destra.
Torniamo ai bizantinismi adottati dai magistrati francesi per adeguarsi alle richieste del loro ministro e di Castelli. Sostengono anzitutto che è vero, Battisti non ha mai preso parte ai processi in cui la pena iniziale (dodici anni per partecipazione a banda armata) è stata tramutata, grazie a Pietro Mutti, in ergastolo per due omicidi commessi direttamente (Santoro, Campagna), la partecipazione indiretta a un terzo (Sabbadin), il “concorso morale” in un quarto (Torregiani). Ma la colpa è sua, visto che alla fine del 1981 era evaso e si era rifugiato in Messico.
Peccato che la Corte europea dei diritti dell’uomo abbia più volte statuito che il contumace, se catturato, ha comunque diritto a un nuovo processo, e che la presenza in udienza di un difensore non sostituisce quella dell’imputato, e comunque presuppone uno scambio costante tra i due.
L’ultima circostanza non si applica di sicuro a Battisti. Assiste solo al processo Torregiani del 1981; anzi, “assiste” per modo di dire, visto che fin dalle prime sedute è espulso dalle udienze per condotta indisciplinata. I suoi due avvocati difensori, Fuga e Spazzali, sono arrestati subito dopo. E’ tipico dei tempi (come già all’epoca del Santo Uffizio) l’arresto degli avvocati della difesa quali complici degli imputati. Viene sottoposta a Battisti un lista di difensori embedded (si direbbe oggi) tra cui scegliere. Lui preferisce invece un avvocato giovanissimo, Giuseppe Pelazza. Dopo l’evasione non lo vedrà più per un decennio. Pelazza cercherà di difenderlo nel processo d’appello iniziato nel 1986, sebbene il suo mandato sia scaduto l’anno prima.
Tutto ciò è perfettamente valido alla luce delle leggi italiane modellate nell’ambito dell’ “emergenza”. Non lo è per il resto dell’Europa e del mondo. Pur sapendolo, i magistrati della Corte d’Appello francese, e dopo di loro Chirac in persona, evocano la possibilità di un nuovo processo a Battisti, alla luce della nuova legge italiana sulla contumacia varata nel 1999. Barzellette. Nessun nuovo processo è possibile (come afferma lo stesso Spataro sul canale FR3, il 12 luglio 2004), e nessuno intende intraprenderlo. Le sentenze sono più che definitive, malgrado l’assenza dell’imputato. Recuperare i testimoni (di prove non ce ne sono) di fatti avvenuti 25 anni fa è impensabile. E chi mai riporterebbe alla ribalta il pentito Mutti, ammesso che sia ancora vivo? Chissà dove abita e cosa fa, sotto la nuova identità accordatagli dalle “leggi sui pentiti”. Salvo Mutti, contro Battisti non esiste niente di niente.
La tesi della ripetizione del processo è puro fumo negli occhi. Riaprendo quel caso, quanti altri bisognerebbe riaprirne, in Italia?
Si dovrebbe tornare a parlare di questioni troppo scottanti. Delle vittime innocenti del 7 aprile (inclusa la più innocente di tutte, Pietro Maria Greco detto “Pedro”, ucciso a freddo dalle forze dell’ordine appena rientrato dalla Francia), dei poveri stracci condannati a trent’anni nel processo Tobagi mentre gli esecutori del delitto se ne andavano a spasso, di tutti coloro che dovettero farsi anni di carcere preventivo (cinque e mezzo nel caso di Emilio Vesce!) prima di essere riconosciuti non colpevoli delle accuse lanciate loro a casaccio dai pentiti Barbone, Mutti, Sandalo, Savasta ecc.
Chi mai rimetterebbe in questione, oggi, le carriere onorate dei Violante, degli Spataro, dei Pomarici, dei Calogero e così via? Chi lo facesse verrebbe trascinato in tribunale davanti a colleghi di costoro, con probabilità di farsi ascoltare pari a una contro mille. O farebbe la fine meno drammatica, ma altrettanto scandalosa, di un giudice onesto come Amedeo Santosuosso.
Non è stato così facile arrestare Battisti. Per riuscirci Perben, il compagnone di Castelli, ha dovuto inventarsi di sana pianta la querela di un vicino dello stabile in cui Battisti (presentato dalla nostra stampa come un uomo di successo e quasi miliardario) lavorava come portinaio. Ha dovuto falsificare grossolanamente un atto destinato alla polizia, in modo da farlo apparire ricercato. I giudici d’Appello francesi hanno avuto in mano tutto ciò, ma non è stato sufficiente a suscitare il loro qualche dubbio sulla legittimità dell’intera procedura.
Non ne ha suscitati nemmeno il fatto che a Battisti fosse stato appena rinnovato il permesso di soggiorno, che — dopo un’inchiesta durata due anni — gli fosse stata concessa la naturalizzazione e fosse imminente la pubblicazione del decreto sulla gazzetta ufficiale, che solo un anno prima il loro stesso ufficio avesse respinto per l’ennesima volta una domanda di estradizione.
Pur di compiacere la volontà governativa, tutto è diventato lecito. Dire, per esempio, sulla scorta di Spataro, che la pronuncia del 1991 (in realtà si tratta di due pronunce, ma il dettaglio è sfuggito ai solerti magistrati) era emessa a titolo provvisorio, in attesa di una nuova richiesta italiana di estradizione fondata sulla condanna definitiva. Già una simile lettura si fonda su una cattiva interpretazione del testo, forse giustificabile in un magistrato o in un funzionario ministeriale italiani, ma non nei loro omologhi francesi. Se poi si pensa che tale nuova richiesta tarda tredici anni ad arrivare, viene il dubbio che il suo inoltro sia legato a cambiamenti di governo e di clima politico sia in Italia che in Francia. Dubbio che non sfiora certo i magistrati francesi: loro lo sanno benissimo.
E’ una trappola mostruosa quella che si serra su Battisti, e che vede tutti complici, come in Assassinio sull’Orient Express di Agata Christie. I giudici italiani, quelli francesi, quasi tutta la sinistra e la destra italiane, la destra francese, con la ciliegina sulla torta rappresentata dalla stampa e dagli altri media. Il ruolo svolto da questi ultimi è fondamentale: una canea che ricorda i “bei tempi” di Vermicino e del “caso Valpreda”.
Non è un caso se, per inchiodare Battisti, diventa centrale l’omicidio Torregiani, vale a dire quello in cui il ruolo dello scrittore fuggiasco risulta più marginale. L’episodio si presta alla spettacolarizzazione. Il gioielliere Torregiani ha lasciato un figlio che si muove su una sedia a rotelle, in quanto ferito accidentalmente dal padre. L’ultima circostanza è taciuta da tutti. L’invalido diventa l’emblema stesso delle “vittime di Battisti”, sebbene Battisti non abbia preso parte all’agguato, e nessuna sentenza affermi questo.
La storica vigliaccheria degli intellettuali italiani a questo punto si manifesta tutta. Fanno pompose ramanzine ai colleghi francesi, evocando accorati il paraplegico “da lui” ferito; ridisegnano a modo loro gli “anni di piombo”, con l’implicito sottinteso che, pur di uscirne, tutto era lecito; discettano su delitti e su processi di cui non sanno nulla. Le pagine di Le Monde si aprono alla sfilata di improbabili testimoni d’accusa pescati nelle patrie lettere o nelle patrie gazzette, del tutto ignari del tema che trattano. I più vigliacchi tra i vigliacchi se la prendono addirittura con i romanzi di Battisti (talora ammettendo che non li hanno letti), giudicandoli “brutti”, scandagliandoli per trovarvi ammissioni di colpa o addirittura, tanto per scoraggiare gli editori, classificandoli “difficili da correggere” e deprecando che li si ristampi.
E’ la solita fiera ignobile della codardia, di destra e di sinistra, a cui siamo abituati. Questa volta non rimane confinata all’Italia, ma dilaga anche in Francia. Pure oltralpe, dopo un’esitazione iniziale, la marea di liquame dilaga. Le Figaro asserisce tranquillamente che, per evadere, Battisti avrebbe pugnalato i suoi carcerieri. Le Monde, che sulle prime si era schierato contro l’estradizione, muta bruscamente linea grazie al nuovo direttore Jean-Marie Colombani. Questi scrive che non si possono eludere le richieste di un paese democratico e amico come l’Italia. Poche settimane dopo, il figlio di origine indiana di Colombani viene maltrattato all’aeroporto di Venezia in quanto “negro”. Colombani scrive un pacato articolo di protesta. Il ministro Castelli si scaglia contro Colombani e, citando un intervento non suo, lo tratta da… protettore di Battisti! Colombani china la testa e incassa. Ultimamente era riuscito a fare schierare contro Battisti anche il settimanale Telerama, di recente entrato a far parte del gruppo di Le Monde.
Ma ormai la canea si è spenta, siamo agli ultimi latrati. In mezzo a tanto fracasso, nessuno che si chieda: ma Battisti è davvero colpevole?
Troppo tardi, almeno per l’Italia. Esistono sentenze che lo condannano, e tanto basta. Non è interesse di nessuno rivangare l’iter di quelle sentenze, o chiedersi come mai i soli assassini accertati siano in libertà. O perché Battisti evase. O se durante l’istruttoria si ricorse alla tortura. O perché, dopo l’evasione, si arrestò l’intera famiglia Battisti, e si cercò di fare deporre una madre contro la figlia, e viceversa. Pratiche ben note sotto il Santo Uffizio, e rispolverate da magistrati italiani (oggi magari a capo di gruppi parlamentari “di sinistra”, oppure collaboratori de L’Unità) che ritenevano, e ritengono, che il fine giustifichi qualsiasi mezzo. Senza considerare che i mezzi finiscono sempre per modellare i fini.
I magistrati francesi hanno ragione. Non esiste, nel diritto, un principio chiamato ne tris in idem, e dunque loro non hanno violato alcuna regola fondamentale. I due rifiuti di estradizione del 1991, il non luogo a procedere del 2003, la sentenza di segno contrario del 2004. Tra Italia e Francia, è dal 1979 che Battisti viene inquisito e processato per fatti dubbi e variabili, con il ricorso a tutti gli espedienti, da quelli legali a quelli illegali, utili a farlo apparire colpevole. In tutti questi anni, una sola volta ha avuto possibilità di difendersi. Fu in occasione della sentenza di Cassazione del 1993, che peraltro non lo riguardava. Gli furono accordati tre giorni di tempo per ricorrere, dalla data della notifica. Tre giorni, quando la Corte d’Appello francese si è riservata un mese e mezzo per stilare una decisione di due paginette. Battisti non fece in tempo. Cazzi suoi.
Non so come finirà Cesare Battisti: se riuscirà a strappare alla Cassazione francese un barlume di coscienza o se lo si seppellirà come Paolo Persichetti in una qualche galera, di cui poi si getterà la chiave.
Una cosa però la so. Il nome di un giornalista di fama viene normalmente dimenticato pochi anni dopo la sua morte, quello di un magistrato lo si scorda pochi anni dopo che è andato in pensione. Si è molto ironizzato sul fatto che centinaia di scrittori di tutto il mondo abbiano preso posizione per lo scrittore Battisti. Si è parlato di connivenza di categoria, addirittura di “mafia editoriale”. Be’, il vantaggio di un buon numero di scrittori, rispetto a magistrati e giornalisti, è la longevità. Buoni o mediocri che siano, ciò che hanno scritto continua a essere ristampato per decenni, a volte addirittura per secoli.
Ricordo di avere visto nel 1999, nel cimitero parigino del Père Lachaise, la tomba di uno degli ufficiali che accusarono Dreyfus. La lapide era tutta scrostata, non c’era traccia di fiori. Eppure vi si scorgevano i segni di uno sputo recente. Qualcuno che ignorava gli articoli apparsi a suo tempo sul caso, ma aveva letto i libri che lo riguardavano, aveva ritenuto, quasi un secolo dopo, di esprimere a un vile il proprio disprezzo.
Consiglierei ai molti assassini dell’Orient Express di pensare fin d’ora a quale memoria rimarrà di loro, se il crimine sarà in effetti consumato fino in fondo.