di Massimiliano Di Giorgio
A quei tempi non sapevo ancora che “Un’emozione da poco” l’avesse scritta Ivano Fossati. Pensavo solo che Anna Oxa fosse piuttosto ridicola, sulla scena, con quella valigia in mano, e quell’aria da finta punk. Intendiamoci, io di punk ne sapevo ancora poco, ma quella lì sembrava saperne meno di me.
A quei tempi non sapevo neanche che “On The Road Again” non fosse dei Rockets, ma dei Canned Heat. I Rockets l’avevano rifatta, insomma, e in brutto. Beata innocenza.
In compenso, sapevo che Andy Gibb era il fratello minore dei Bee Gees.
A quei tempi non amavo gli Abba, ma gli Electric Light Orchestra, “Love Is Like Oxygen” degli Sweet, i Boston con il disegno di un’astronave a forma di chitarra sul loro primo album. E poi “Love Is In The Air” di John Paul Young, “Hold The Line” dei Toto, “Boogie Oogie Oogie” degli A Taste Of Honey, ”Best Of My Love” delle Emotions, ”You Make Me Feel” di Sylvester, ”I Miss You” dei Rolling Stones, ”Gianna” di Rino Gaetano. E, Dio mi perdoni, ”Sotto il segno dei pesci” di Antonello Venditti.
L’intero album.
”Wuthering Heights” di Kate Bush e ”It’s A Heartache” di Bonnie Tyler, però, mi lasciavano dubbioso.
Ma non volevo parlarvi delle canzoni del 1978. O almeno, non solo di quelle.
A quei tempi avevo quasi 13 anni e non mi preoccupavo per l’acne. Non ancora. Il mio problema principale, in quei giorni, in piena estate, era organizzare la festa di compleanno. Era una necessità praticamente ormonale: avevo scoperto la musica, le ragazze, le parolacce, non necessariamente in quest’ordine.
Prima, ero un ragazzino miope che ascoltava solo musica classica, che parlava un italiano ineccepibile e che al massimo, per insultare qualcuno, avrebbe potuto urlargli contro “figlio di una bagnarola”, e da lontano. Poi – non so quando esattamente il prima divenne poi – avevo comprato ”I Feel Love” di Donna Summer, avevo perso alcune inibizioni, almeno per quanto riguarda il linguaggio, la mia miopia era cresciuta ma nel frattempo ero diventato amico di Carlo.
La madre di Carlo aveva una rivendita di giornali e fumetti usati, tra cui c’erano anche parecchi di quei giornali. Ah, giocavo ancora a soldatini, ma la consideravo un’abitudine che avrei perso di lì a poco.
Il mio compleanno cade il 23 luglio, piena estate, primo giorno della prima decade del Leone.
Lati positivi di essere nati il 23 luglio quando si hanno 13 anni: fa caldo, non si va a scuola, non si fanno i compiti e dunque si può fare una festa luuunga (almeno per gli standard di un tredicenne). Lati negativi: non si va a scuola, appunto, quindi i tuoi compagni di classe sono in vacanza, e se anche restano a casa a intristirsi, tu che non li frequenti fuori da scuola non li puoi invitare e da loro non ricevi regali.
La festa, dunque. Per i quindici giorni precedenti i miei amici ed io non avevamo pensato ad altro, sulla spiaggia. Chi invitare, che musica mettere, eccetera eccetera eccetera. La festa aveva cancellato il nostro progetto precedente: affondare uno di quei barconi che arrivavano sulla spiaggia con la musica a tutto volume, ti proponevano un giro “al largo” – cioè a cento metri di distanza dall’arenile, come se lì potessi vedere i delfini, in quella melma zozza e spumosa che era il mare di Ostia, dove centinaia di migliaia di romani venivano a pisciare tutti i giorni – e ti risbattevano nello stesso posto mezz’ora dopo.
Francesco aveva da parte un po’ di polvere da sparo, rimediata chissà dove, e pensavamo di usarla mettendola dentro una specie di siluro costruito da uno di noi con della balsa. La cosa ci aveva impegnato per giorni, poi però ci eravamo arenati sul sistema di accensione della polvere, e io rimpiangevo di non essere mai stato un granché, in Applicazioni tecniche… Tutto ci era sembrato molto stupido e avevamo deciso di dimenticare gli odiati barconi.
Poi, era spuntata l’idea della festa.
Il progetto era semplice: due-tre ragazze per ognuno di noi, invertendo le tradizionali proporzioni di quelle feste dove c’è una bella ragazza, al massimo due, alcune carine, altre decisamente bruttine, e poi un gran numero di maschi allupati, e in gran parte sfigati, che al massimo arrivavano a farsi un solo ballo, e con una delle bruttine, di quelle che ridono sempre e sudano perché sono imbarazzate.
No, stavolta niente ragazze brutte. O al massimo come riserva, se qualcuna delle invitate di serie A avesse dato forfait: in fondo una femmina brutta è comunque meglio di un maschio. Mooolta musica lenta – tipo ”Just The Way You Are” di Billy Joel, ”Baby Come Back”, dei Player, e naturalmente i Bee Gees – un po’ di animazione. Unico problema, gli orari. Impossibile spuntare una festa serale, coi miei. Impossibile cacciarli di casa anche solo per un pomeriggio. Impossibile anche eliminare mio fratello, che aveva nove anni e amava stare in mezzo alle palle.
Per il mio compleanno avevo deciso di comprare un libro. Leggevo un sacco, e di tutto. Leggevo al cesso, molto; leggevo a colazione, a merenda, leggevo a letto la domenica mattina e la sera, se mio fratello non mi costringeva a spegnere la luce. L’unico posto in cui mi era proprio impossibile era in macchina, perché mi veniva – e mi viene ancora – da vomitare. Ero un secchione nell’animo, insomma, anche se ciò non modificava i miei risultati scolastici, soprattutto in matematica.
C’era questo libro che volevo comprare. Un disegno a colori in copertina, un uomo nella posizione tipica del pensatore – o di chi ha male alla testa – la mano che sostiene la fronte. Il pensiero era rappresentato sotto forma di onde, onde colorate che si amplificavano, si ingrandivano.
Il titolo non era particolarmente attraente, d’accordo: “La dinamica mentale”, o qualcosa del genere, però non mi preoccupava, tutt’altro, avevo una solida formazione di ufologo (a 13 anni? Certo: in fondo gli ufologi hanno tutti 13 anni, mentalmente), avendo già letto le opere fondamentali di Pinotti, quelle un po’ meno fondamentali, ma molto più romanzesche, di Peter Kolosimo, i deliri di Saulla Dello Strologo, gli articoli del saggio Hynek. Sapevo tutto del Triangolo delle Bermuda, dell’Area 51, degli incontri ravvicinati; compravo “il Giornale dei Misteri”; corrispondevo con gruppi di ufologi sparsi qui e lì in Italia e poi leggevo un sacco di libri di fantascienza. Dunque, perché non la “dinamica mentale”?
Si trattava di un manuale per “ampliare la propria consapevolezza”, e cose del genere, tecniche di rilassamento incluse. E fu proprio con le tecniche di rilassamento che cominciò tutta la storia. Voglio dire, la vera storia.
Non ero un tipo coraggioso. Eppure avevo fatto anche il boy scout. Tanto per cominciare, avevo paura del buio. Come tutti. Be’, magari un po’ di più. Al mare nuotavo fin dove ero sicuro di toccare il fondale, poi tornavo indietro di corsa. Dopo aver visto ”Piranha” avevo quasi paura a lavarmi i piedi nel bidet. Mi coprivo gli occhi con una mano per non vedere le scene più paurose dei film.
Ovviamente non avevo mai passato una notte all’Albero dell’Impiccato in pineta, come invece avevano fatto certi ragazzini della mia scuola. Non l’avevo neanche mai visto, quell’albero. Secondo la leggenda, ci si era impiccato un tizio in preda alla disperazione: la fidanzata lo aveva lasciato, lui si era arrampicato sulla sua Cinquecento, e op! A futura memoria era rimasta lì abbandonata, dicevano, l’auto del poveretto, e qualcuno aveva messo accanto all’albero una foto del suicida. Brrr.
Una delle cose più avventurose che avevo fatto era stata quella di andare a vedere ”La febbre del sabato sera” anche se non avevo 14 anni e mio zio aveva minacciato di dirlo al cassiere del cinema. Scherzava, ovviamente, ma temevo di vederlo spuntare davvero davanti al cinema.
Un’altra volta, avevo lanciato una gara: vediamo a chi resiste di più al più buio, chiudendomi nello sgabuzzino di casa prima con una mia amichetta, poi con un’altra. Aveva funzionato. Ma, appunto, non avevo ancora l’acne, a quei tempi.
Eppure, quando cominciammo gli “esperimenti”, come li chiamavamo, non avevo paura.
Il primo lo facemmo giusto un paio d’ore prima della mia famosa festa di compleanno. Per creare l’atmosfera adatta avevo messo un disco dei Kraftwerk, “The Man Machine”, che diffondeva le sue note spaziali nella mia stanza infuocata dal sole delle tre del pomeriggio. Carlo si era offerto come cavia, e si era sdraiato sul letto con gli occhi chiusi. Io mi ero eletto maestro di cerimonie (d’altronde era il mio libro e la mia festa di compleanno), gli altri se ne stavano zitti, chi seduto, chi appoggiato al muro.
La tecnica di rilassamento era piuttosto rudimentale: ”chiudi gli occhi”, gli sussurravo, ”chiudi gli occhi”, e poi: ”pensa a una lavagna nera, concentrati solo su questo pensiero. Intorno a te tutto è buio e calma. La tua gamba sinistra comincia a riscaldarsi. Anche il braccio sinistro è caldo. È una sensazione piacevole. La stanza attorno a te non c’è più”, e stronzate di questo genere ripetute tante volte, un’eternità di volte.
Ma non successe niente. Carlo se ne stava disteso sul letto, con gli occhi chiusi, sudato, questo sì, ma forse più per la stagione che per il mio training. Nessuno parlava, tutti gli altri guardavano verso di me, un po’ scettici, mentre i Kraftwerk suonavano tetri, metallici e in fondo un po’ ridicoli in sottofondo.
Guardai fuori dalla finestra, con le tapparelle abbassate per metà, in cerca di ispirazione, ma anche fuori tutto era sole, calore e silenzio. I miei amici si stavano annoiando. Dovevo fare qualcosa per il mio pubblico.
”Ora tutto il tuo corpo è caldo”, improvvisai, ”sei in una posizione confortevole, disteso, non c’è niente che ti possa toccare o preoccupare. Sei completamente rilassato, sei lontano, la tua mente è libera, intorno a te c’è il vuoto ma non hai paura”.
”Mi senti? ” Azzardai. Questo nel libro non c’era scritto.
Carlo mormorò qualcosa. Forse si era semplicemente addormentato.
”Dove ti trovi? ”
”Mmmmhhh, non lo so qui è tutto… tutto… calmo”, rispose Carlo, con una voce che aveva preso in prestito chissà dove.
Gli altri erano improvvisati eccitati. O impauriti. Francesco strisciò fino alla porta, mettendo la mano sulla maniglia.
”Shhhh!”, ordinai.
”Chiedigli qualche altra cosa”, sillabò Alberto.
Improvvisamente, pensai che Carlo stesse prendendoci tutti in giro, e che si sarebbe messo a ridere di lì a poco. Gli passai una mano intorno al viso, sugli occhi, per vedere se reagiva. Nulla.
Chi c’è con te?
”Sono… solo”, rispose. Faceva una gran fatica, a parlare.
Alberto prese il braccio sinistro di Carlo; lo alzò e lo fece ricadere sul letto. Evidentemente anche lui, come me, aveva pensato che forse era solo uno scherzo.
Carlo non oppose nessuna resistenza, neanche involontaria.
Francesco aveva ancora la mano sulla maniglia.
Non so perché lo feci. Forse per stupirli, per dimostrare che potevo riuscirci. È così che funziono, spesso, ancora adesso. Ho bisogno di esagerare, di arrivare al punto in cui, fesso, inevitabilmente cado, anche se lo so mentre ci sto arrivando, proprio mentre mi illudo di potermi fermare giusto un attimo prima.
E poi, fu un moto di stizza. Di cattiveria. D’arbitrio. Insomma, quella era la mia festa.
“Ti manca tuo padre?“ Chiesi a Carlo.
Gli altri mi guardarono, e Francesco abbandonò la maniglia.
“Ti manca tuo padre?“, ripetei, più per dire agli altri che avevano capito bene che per farmi sentire da Carlo.
Il padre di Carlo era morto qualche anno prima. Io non l’avevo mai conosciuto, ma sapevo che era stata una tragedia familiare. Il periodo della malattia, lunghissimo, la madre costretta a cercare un lavoro, il trasloco, eccetera eccetera eccetera.
“Mmmmhh…“ fece Carlo, ma non mi bastava.
“Tuo padre è morto, non ti manca? “ Continuai. Stavo raccogliendo tutte le nomination per l’Oscar all’infamia, presso i miei amici. Ma era troppo tardi.
Gli occhi di Carlo si stavano riempiendo di lacrime, ma non sentivo la sua voce.
“Anche tua madre sta per morire“, aggiunsi, e in quel momento, mentre dalla bocca di Carlo usciva un lamento che sembrava quello di uno sul punto di crepare lì, flebile, e ininterrotto, come se perdesse la vita dalla bocca (o così sembra, alla tv), i miei amici dissero “basta!“, sibilando, arrabbiati in quel modo comico in cui solo i bambini, e i post-bambini, sanno esserlo, tutti insieme.
Tutti insieme meno Francesco, che aveva trovato il coraggio di aprire la porta per andare a nascondersi al bagno.
Dovevo fare qualcosa.
Mia madre bussò alla porta. Una delle poche volte nella vita, perché di solito non bussava, ma si precipitava nella mia stanza, come per sorprendere chissà chi. Oppure bussava e, zacchete!, entrava in una frazione di secondo. Chi avrebbe potuto spiegarle il significato del termine “privacy”?
Mia madre bussò, e si limitò a dire: “Tutto bene?“, non molta convinta che fosse vero.
“Sssì“, dicemmo tutti.
“Calmati, sei al sicuro, disteso, non è successo niente, non c’è niente che ti possa toccare o preoccupare. Sei completamente rilassato, sei lontano, la tua mente è libera, intorno a te c’è il vuoto ma non hai paura“, dissi rivolto a Carlo, scrutando, spiando gli altri. “Ora sta tornando indietro, le tue gambe si stanno risvegliando, piano piano cominci a sentire la destra“.
“Non è successo niente“, dissi agli altri, “non se lo ricorderà. Se non glielo dite“.
“Sei sicuro?“ Chiese Enzo, impaurito.
“Sì“, risposi, “Credo“.
La festa andò bene, ma senza tutta la mia famiglia che si aggirava tra il salone e il balcone, discreta come un plotone della celere, sarebbe andata meglio. Donne – be’; dodici-quindicenni – che si aggiravano ovunque e chiaccheravano e si rinchiudevano insieme al bagno e ballavano e ridevano con quel modo di fare così carino di coprirsi poi la bocca con una mano… e panini, tramezzini, pizzette, da bere, bella musica (l’avevo scelta io, chiaro), ai miei amici luccicavano gli occhi. C’era anche una che mi filava, una più grande, amica di un’amica. Promettente. Poi ci sarei uscito, eccetera eccetera eccetera. No, non quell’eccetera. Che pensate, limonavo e basta, a quei tempi.
La festa andò bene. Ma tutte le cose finiscono, soprattutto quelle belle, no?
Il giorno dopo, eravamo ancora attorno a quel libro, invece che al mare, come la giornata avrebbe preteso, riuniti nella stanza di Massimo, che si era offerto come cavia numero due.
Ripetei tutto il cerimoniale, il letto, le tapparelle and so on, m’ero portato appresso anche il disco dei Kraftwerk.
“Ora tutto il tuo corpo è caldo“, dissi di nuovo, “sei in una posizione confortevole, disteso…“
Ma su Massimo, iperteso dalla nascita e discendente di una casata di candidati all’ictus, tutto questo non aveva effetto. Zero. Occhio sbarrato. Piedino che scalciava.
Lui si spazientì, noi lo mandammo a cacare. Carlo era la vittima ideale, decidemmo.
Gli esperimenti ripresero. Almeno una volta al giorno ci ritrovavamo al mare a bagnarci, a tirarci la sabbia e a finire per discutere sempre della stessa cosa, a fare e disfare, finché non ci toglievamo il costume, ci cambiavamo e ci spingevamo a casa, per tentare di ipnotizzarci l’un l’altro, anche se il vero “fenomeno” era sempre e solo Carlo.
Un pomeriggio, quando ormai il sole se ne stava andando sempre più presto e noi ci stavamo giocando un’altra estate senza accorgercene, riuscii a farlo piangere, Carlo, mettendo in scena la morte della madre e il tormento dei suoi fratelli, mentre lui era bloccato sul mio letto, sudato e impotente.
Un’altra volta, e fu la prima, Carlo si alzò in quello stato, e si trascinò per la stanza con gli occhi chiusi, mormorando frasi incomprensibili, tenuto a fatica da due di noi, mentre i Kraftwerk andavano e venivano e io pensavo già di comprare un altro disco, perché “The Man Machine“ mi stava uscendo dalle orecchie.
E quando un pomeriggio Carlo riconobbe a occhi chiusi la foto di un Ufo che gli mostravo da uno dei miei libri di incontri ravvicinati, di “strangeness rating” e “probability rating“, riconoscendolo come quel coso che vedeva ogni tanto di là, insomma, sì, dove andava quando facevamo i nostri esperimenti, fu allora che mi convinsi che era tutto vero.
Mi bastava ripetere le fatidiche frasi: “Ora tutto il tuo corpo è caldo, sei in una posizione confortevole, disteso, non c’è niente che ti possa toccare o preoccupare. Sei completamente rilassato, sei lontano, la tua mente è libera“.
Ma i caldi baci dell’estate, come avrebbe detto Bruno Martino, erano diventati un po’ tiepidi, ormai. E l’autunno che a un certo punto della stagione finivo per desiderare tanto, si era presentato, magari anche con un po’ d’anticipo, con le sue fregature, il buio, la scuola e l’implacabile acne.
E anche certe idee.
Prima non me n’ero mai accorto. A un certo punto, però, nei nostri pomeriggi, accanto agli esperimenti – sempre più rari – apparve d’improvviso la signora.
Lei abitava di fronte, in un vicolo cieco, all’ultimo portone. Qualcuno mi aveva anche mostrato il suo citofono, per convincermi che esisteva davvero.
Secondo la leggenda la signora – che doveva avere una trentina d ‘anni, a ripensarci ora – restava spesso sola in casa. Il marito era un pilota, e la lasciava spesso sola per volare in altri continenti, dicevano (Poi scoprii che era un semplice steward: ma il fascino della divisa…, come direbbe mia madre).
Me lo ricordo quell’uomo che aspettava di sera, con l’impermeabile scuro e una piccola valigia, sotto casa. Paziente, pensavo, fiducioso. Sicuro che il pulmino bianco sarebbe passato a prenderlo, lo avrebbe portato dritto dritto all’aeroporto, dove, immaginavo, lo attendeva un 747 col motore acceso, e poi via… (E invece quello andava a riscaldare pasti nel forno a microonde e mostrare ai passeggeri come mettersi un giubbotto di salvataggio).
La signora – continuava la leggenda – accompagnava il figlio, un bambino, da qualche parte, probabilmente a scuola o da un amichetto, poi tornava a casa e lo spettacolo, per i pochi fortunati che riuscivano ad arrampicarsi e a sbirciare tra le tende, aveva inizio.
La signora, infatti, girava nuda per casa. Nuda nel senso di nuda, senza vestiti addosso. E qualche volta si toccava (il senso di “toccarsi” non mi era ancora chiarissimo, bisogna ammetterlo), perché lei, in realtà, lo sapeva, sapeva che i ragazzi erano nascosti lì dietro per guardarla.
Bellissima, e ninfomane (parola di cui non conoscevo il significato, ma mi guardai sempre bene dal dirlo), secondo l’amico più grande di noi che ce ne aveva parlato la prima volta, e che l’aveva vista… Lo stesso amico che un pomeriggio di un altro autunno, camminando attorno all’isolato per un’ora, ci aveva spiegato tutta questa storia del sesso, e di quello che succede tra uomini e donne quando stanno nudi insieme, molto meglio di un libro, ponendo fine alle domande che alcuni di noi avevano cominciato a fare a genitori imbarazzati.
In quell’autunno crescevo, crescevamo. Soprattutto in senso fisico. Mica come le nostre compagne di classe, che nel frattempo invece diventavano più furbe e mature. Una di loro un pomeriggio, con buona pace di chi pensa che l’Italia fine Settanta fosse già un paese post-moderno, mi raccontò che non era venuta a scuola perché era diventata signorina.
Ci ho messo anni a capire cosa volesse dire, diventare signorina.
Intanto, avevo pensato e ripensato alla storia della dinamica mentale, specie quando mi annoiavo sui banchi o in macchina, coi miei, per andare a fare spesa o a trovare i nonni.
Quella cosa poteva funzionare molto meglio dei miei penosi tentativi di invocare fatture e maledizioni con l’aiuto di esoteristi e maghi da quattro soldi, come quello che teneva una rubrica sul “Giornale dei Misteri“, a cui avevo scritto un giorno, non molto tempo prima, per chiedergli di fare un bel voodoo a quell’antipatica di mia zia. Lui, che ve lo dico a fare, non mi aveva neppure degnato di una risposta.
Forse è meglio così, che il mago sia stato saggio quel tanto almeno che si chiede a un uomo di conoscenze così nobili e sovrannaturali, mi dicevo certi giorni. Il giorno dopo, però, mi svegliavo pensando: quale mago e mago, quello è solo un imbroglione. E rimpiangevo di non aver appreso da mia nonna, prima che morisse, l’arte di togliere il malocchio e altri riti magici (che certo non erano tali, ma che mi avrebbero fatto comodo, in quei momenti).
I miei già pochi accoliti mi abbandonarono a uno a uno, proprio mentre l’autunno si arrendeva all’inverno, ma Carlo e io continuammo i nostri esperimenti. Un inverno breve, come al solito a Roma, freddo e pungente per poco, giusto il tempo di rivendicare la propria presenza sul calendario. E noi lì a sperare nella neve, a guardare il cielo nei giorni più freddi, sperando che le nuvole rosa ci regalassero qualche fiocco. Macché.
Carlo camminava nel suo non-sonno, parlava, piangeva, rideva. Oppure mormorava frasi incomprensibili e sibilava.
Una volta, per provare, lo presi a schiaffi. Timidamente, perché Carlo era un ragazzino di quelli che se poco poco li provochi “ti prendo a schiaffi a due a due finché non diventano dispari” (formule che mi affascinavano, erano i fondamenti di quell’estetica del coatto mai sufficientemente celebrata). Ma non reagì, se non emettendo qualche “mmmhh”, e io mi presi una bella soddisfazione.
A convincermi a fare il gran salto fu un sogno, nitido, così reale che fui deluso quando non mi accorsi che ero sveglio. Nel sogno, impartivo ordini a quello che sembrava essere il robottone del film “Ultimatum alla terra”, che portava un corpo tra le sue braccia meccaniche.
Il corpo di una donna, e, pure senza averla mai vista, mi convinsi era la signora Ordinai al robot di gettarla nel vuoto. La donna, che fino a quel momento sembrava addormentata, aprì gli occhi e mi sorrise. Era nuda, e io sovreccitato.
Ma il sogno fece pop!, e svanì, e io mi risvegliai che fuori era ancora buio. Cercai di riaddormentarmi, ma mi scappava da pisciare.
E quando piscio, mi vengono sempre grandi idee.
Carlo sarebbe stato il mio exterminator: fu la prima decisione della mia carriera da giovane criminale psichico, da aspirante terrorista Esp. Lui sotto ipnosi, io a telecomandarlo. Era più eccitante della mia vecchia passione di dare fuoco alle formiche con l’alcol, o di staccare la coda alle lucertole. In fondo, non avevo più dieci anni.
Al pensiero di quello che avremmo potuto fare l’eccitazione mi paralizzava. Immaginavo già Carlo uccidere persone – non vere persone: un paio di professori, un ragazzino della mia scuola che un giorno mi aveva dato un pugno in faccia senza motivo, un negoziante, un paio di vicini di casa – in un tripudio di sangue, seguendo le mie istruzioni, come un assassino inflessibile ed efficiente.
Ogni tanto mi chiedevo se un ragazzino come me sarebbe stato traumatizzato da un’esperienza del genere: ma se ero abbastanza grande per farmi queste domande, non lo ero a sufficienza per trovare una risposta. Anche nel caso peggiore, non sarei andato in prigione, mi consolavo. Troppo giovane, vostro Onore.
Ma non si poteva cominciare direttamente ammazzando qualcuno, come mi suggeriva la mia nuova coscienza professionale. Meglio cominciare con le piccole cose.
Per esempio, riuscii a far compiere al mio amico ipnotizzato un’azione che all’epoca mi sembrò audacissima: pisciare sui vasi di piante di una vicina di casa rompicoglioni, che strepitava tutte le volte che giocavamo a pallone davanti alle sue finestre, perché facevamo troppo rumore, e che una volta ci aveva anche sequestrato la palla.
Arrivare alle sue piante fu facilissimo: le teneva nel terrazzo condominiale.
Io ordinai, e Carlo eseguì. Si alzò dal letto come un automa, prese le chiavi del terrazzo dove gli dissi di cercarle – i miei le tenevano vicino alla porta – salì le scale, mentre io gli stavo dietro. Armeggiò un po’ penosamente con la porta del terrazzo, che era difettosa, ed entrò nella stanza quasi buia dove c’erano le fontane condominiali, e le piante. Si aprì la cerniera lampo e pisciò una bella pisciata calda, che innaffiò le piante rilasciando una nuvoletta di vapore.
Cercai di guardare se stava sghignazzando, o se almeno sembrasse soddisfatto, ma non c’era abbastanza luce.
Nel frattempo, avevamo cominciato, Carlo e io, ad andare a catechismo, per la cresima. Non con grande entusiasmo, a dire il vero, anche se a spingerci era stato il fatto che una tipa carina della nostra scuola si era iscritta al corso. E dunque perché non noi? In fondo, fare la cresima poteva sempre tornare utile.
Con noi c’era anche un’altra ragazzina, non bella ma simpatica. E a cui pensavo di essere simpatico anch’io. Non ne fui più tanto sicuro quando una sera, a fine corso, trovai fuori dalla chiesa ad aspettarci suo fratello maggiore, e la fidanzata di quest’ultimo.
Ce l’aveva con me, perché la volta precedente avevo disegnato delle svastichette sul quaderno di cresima della sorella. E lei, la stronza, era corsa a fargliele vedere. Scemenze da ragazzini, poco più che ghirigori, decorazioni. C’è chi fa le stelline, i quadretti, i cerchietti, e chi fa le svastiche. Cercai di spiegarglielo, ma la sua ragazza mi attaccò quasi al muro, e mi gridò nelle orecchie almeno 130 volte: “Stai attento, hai capito?, stai attento”.
I due non dovevano avere più di diciotto anni, a pensarci ora, ma mi fecero cacare sotto lo stesso. Quasi quanto, anni dopo, i fascistelli che venivano a cercare me e i miei amici al liceo.
Occorreva una vendetta, era chiaro. Oltre che mettermi paura, i due mi avevano fatto fare anche brutta figura con la mia classe di cresima. Soprattutto la bastarda, che mi aveva sbattuto al muro come un bamboccio e urlato nelle orecchie.
Non mi fu difficile scoprire dove abitava. Ricordavo di averla vista dalle parti di casa mia. La settimana successiva, quando tornai in chiesa, dissi alla mia compagna di corso che ero pentito, avevo capito di aver sbagliato, avevano ragione loro e via via mentendo.
Volevo scusarmi con il fratello e la sua ragazza, a proposito come si chiamava? Cognome alla mano, presi l’elenco del telefono e trovai l’indirizzo della nostra vittima. O forse è meglio dire della mia vittima, perché a Carlo non avevo mai raccontato molte delle cose che gli facevo fare nelle nostre sedute.
Nei giorni seguenti, dopo la scuola, mi appostai davanti alla casa di Katia, così si chiamava l’arpia. La vidi rientrare da sola o col fidanzato, oppure uscire con la madre. Un paio di volte, Katia scese ad accompagnare in giardino il suo gatto, un mezzo siamese, con la stessa faccia da deficiente il miagolio lagnoso della specie a cui apparteneva almeno in parte.
Fino ad allora non avevo ancora deciso esattamente quale sarebbe stata la mia punizione. Fantasticavo di dare fuoco alla porta di casa della tipa, e trovavo molto buffa l’immagine della madre in mutande che usciva correndo con i bigodini in fiamme.
Oppure, mi immaginavo la scena in cui il padre trovava tutte le gomme dell’auto bucate, e il parabrezza sfondato. O, più originale, un agguato vero e proprio, con Carlo che usciva da dietro l’angolo con un cappuccio nero in testa e un coltellaccio.
Ora però ne ero sicuro: le avremmo fatto trovare il gattaccio spiaccicato davanti alla porta, alla stronza. Ovviamente, non mi passava neanche per l’anticamera del cervello, come direbbe mia madre, di ammazzare io stesso il micio. Anzi, la cosa mi terrorizzava. Se ne sarebbe occupato l’exterminator.
Ma prima bisognava prendere il gatto, perché sarebbe stato molto più facile, così, lasciare a Carlo il compito di ucciderlo. Cosa che feci, un pomeriggio, aiutandomi con una scatola, dopo averlo individuato nel giardino di Katia. Attirai la bestia con un biscotto, la presi per le zampe e la ficcai nella scatola. Il gatto cominciò a fare la lagna, ma presi la scatola e me la filai. Uscendo dall’androne incrociai una signora, che – lo sentii nettamente – mi appiccicò sulla schiena uno sguardo interrogativo.
A Carlo dissi del gatto solo dopo averlo sottoposto alla seduta. Per sicurezza, ci eravamo trasferiti a casa sua, dato che la madre passava quasi tutta la giornata al negozio. Avevo trasportato la scatola in una busta di plastica, e quando ero arrivato avevo chiesto subito di andare in bagno, lasciandola lì.
“Nel bagno c’è una scatola, e dentro la scatola c’è un gatto”, dissi a Carlo, quando fu sotto ipnosi . “Devi ammazzare il gatto, devi ammazzare il gatto“, ripetei, “lo puoi ammazzare come vuoi, ma non fare troppo rumore, e poi ti darò altri ordini“.
Lui si alzò, con quell’espressione sul viso che aveva sempre quand’era in seduta, come se sentisse il peso di un certo sforzo, e andò in bagno. Lo seguii, e chiusi la porta. Non volevo assistere allo spettacolo della morte del gatto, anche se ero curioso.
Una volta, qualche anno prima, mio padre e mio nonno avevano scannato un coniglio nel bagno di casa – come se fossimo in campagna, e non in un appartamento al primo piano di un palazzo nel quartiere di una grande città Un innocuo coniglio che avevamo tenuto sul balcone per una settimana.
Io e mio fratello, ignari della fine che attendeva il coniglietto, gli avevamo dato da mangiare e ci avevamo giocato. Alla fine della settimana, l’animale era passato dal balcone alla tavola, in un piatto fumante.
Ora, nel bagno, il gatto stava andando incontro a una fine forse più cruenta di quel coniglio. Non ce lo vedevo, Carlo, a tagliare la gola alla bestia con destrezza con un coltello affilato, senza farlo soffrire, lasciandolo poi sanguinare nella busta.
Non mi sbagliavo.
Sentii dei rumori strani, e non resistetti. Aprì di poco la porta. Carlo aveva preso la prima cosa che gli era capitata a tiro, un grosso asciugacapelli di metallo di quelli che usavano i parrucchieri, e lo stava sbattendo sulla testa del gatto, mentre con l’altra cercava di tenere ferma la bestia.
Colpi tirati con la mano di un tredicenne, ma dei quali almeno uno era andato a segno. L’animale smise di urlare e miagolare. Ora si sentiva solo un lamento flebile.
Il mio amico lasciò il fono, da cui cadde una gocciolina di sangue, e prese il gatto per la coda. Mi coprii gli occhi con una mano. Il gatto lanciò di nuovo un urlo, ma Carlo fu più veloce, sbattendogli due o tre volte la testa contro la parete di piastrelle di maiolica. Almeno sarà più facile far scomparire le tracce di sangue, pensai.
La bestia, stesa a terra, si lamentava ancora. Carlo rimase immobile un attimo, come un robot senza batterie, poi alzò un piede e cominciò a calpestare la testa del gatto, o quel che ne rimaneva. Alla fine, andò a stendersi sul letto. Dopo due minuti, russava.
Mi ricordo di aver confusamente pulito le macchie di sangue con la carta igienica, e con uno straccio, che gettai poi nei rifiuti; di aver messo il gatto nella scatola, dopo averlo raccolto con la pattumiera, e di aver chiuso la scatola con lo scotch. Avevo già preparato un bigliettino con su scritto, con lettere ritagliate da giornale, “per Katia”.
Non ho mai saputo quale sia stata la reazione della ragazza nel trovare quel pacco fuori dalla porta di casa.
Vedevo la fine del 1978 vicina, sempre più vicina, come uno legato a un palo che vede arrivargli addosso una mandria di bufali, e non può fare niente, se non urlare. E io, dentro di me, urlavo. Con il 1979 sarebbero arrivati la licenza media, i miei 14 anni, l’iscrizione al liceo, un altro passo deciso verso l’università, il militare, il lavoro, i figli, la pensione e la morte.
Intendiamoci, non è che vedessi sempre la vita come una valle di lacrime, ma quando mi svegliavo, nel giorno di un compito in classe di matematica, be’, non trovavo tante ragioni per gioire. Se non forse che le vacanze di Natale erano ormai prossime.
La storia del gatto aveva pesato un po’ sui nostri esperimenti. Vedevo Carlo strano, scostante. Forse era soltanto il mio senso di colpa, per averlo usato come un manichino omicida, senza avergli mai raccontato il minimo particolare.
O forse gli restava addosso qualcosa, di quel che facevamo con quel libretto, con la musica (dai Kraftwerk ero passato dritto dritto alla classica, riciclando “I pini e le fontane di Roma”, di Respighi), e con le formule per indurre la trance che ormai recitavo a memoria.
Incredibilmente, sua madre non s’era accorta di nulla in bagno, e anche Carlo non aveva prestato più di tanto attenzione, dopo essersi risvegliato, alla scatola – anzi, alla bara – del gatto che avevo nascosto alla bell’e meglio. Sembrava non aver fatto caso neanche ai graffi che aveva sulle mani.
Gli avevo vagamente spiegato che si era fatto male da solo, che si trattava di un episodio di autolesionismo sotto ipnosi, comune, quasi banale, in questi casi…
Ci trascinavamo stancamente verso Natale, e le nostre sedute erano sempre più brevi e rarefatte. Unico momento eccitante, il furto di un panettone che avevo commissionato a Carlo, in trance, dal negozio di alimentari sotto casa, e che era andato in porto senza problemi.
Poi, qualcuno tornò a parlarmi di lei, della signora. Era apparsa, come una peccaminosa Madonna di Fatima, a un gruppo di ragazzetti che, in preda alla noia, erano andati a verificare la leggenda locale.
I nostri “pastorelli” s’erano arrampicati su una scaletta, quatti quatti, fin a un piccolo giardino, e da dietro una vetrata s’erano goduti lo spettacolo della signora che si aggirava per casa. Nuda? No, quella volta portava una vestaglia, un po’ scollata, e le si vedevano bene le gambe. Ma non era nuda, no, m’aveva detto il ragazzino che a scuola, all’intervallo, m’aveva raccontato la storia, con ancora negli occhi il riflesso della visione celestiale.
Adrenalinico, misi da parte tutti i miei abituali imbarazzi e decisi di andare anch’io a dare una guardata. Tutto solo.
Nel pomeriggio, freddo e insolitamente deserto, imboccai la stradina dove abitava la signora. Mi guardai attorno, andai verso il muretto, misi il piede sul parafanghi di una 127, poi mi guardai di nuovo attorno, misi l’altro piede sul cofano slanciandomi per scavalcare. M’ero dato una spinta eccessiva, e per poco non caddi. Tenni duro, però, e riuscii a issarmi nell’unico punto del muro non coperto da cocci di bottiglia. Per un momento pensai con qualche preoccupazione a come sarei tornato indietro. Come c’erano riusciti gli altri, ce l’avrei fatta anch’io, cercai di convincermi.
Il muro dall’altra parte era più basso, e scesi senza problemi. Vidi la scaletta, a cui si accedeva da un cancelletto chiuso. Scavalcai anche quello e salii i gradini, piegato praticamente in due per paura che qualcuno mi vedesse. C’era qualche finestra illuminata, in alto.
In cima c’era un altro cancelletto, e dietro un fazzoletto di giardino. Intravedevo la porta-finestra, e dietro una luce. Tutto attorno ai pochi metri quadrati di terreno c’era un davanzale in muratura, e qualche grande vaso di piante. Con qualche difficoltà, visto che ero abbastanza alto e grosso per la mia età, potevo nascondermici dietro, facendo attenzione a non cadere nel cortiletto del garage.
Arrivato davanti al piccolo cancello, però, scoprii che spettacolo del giorno sarebbe stato un altro. Al posto della madonna desnuda c’era infatti il marito, vestito con la sua bella uniforme abbottonata, e una busta nelle mani. Per una frazione di secondo l’uomo guardò verso di me, e non mi vide. Poi, però, il suo cervello gli disse di guardare una seconda volta nella stessa direzione, tanto per sicurezza. Mise a fuoco, e questa volta incontestabilmente vide che fuori c’era una figura, anzi una figuretta. Cioè io.
Mi paralizzai in una posizione ridicola, con le braccia protese verso destra, in cerca di rifugio dietro il davanzale. Vidi che stava dicendo qualcosa, e mentre lo diceva avanzava verso la vetrata, cercando di aprirla. E allora, mentre la mia paralisi svaniva, scivolai malamente giù per la scaletta.
Sentii il tonfo della porta d’ingresso che si apriva, e la sua voce dire “Fermo, fermo, vieni qua, a’ ladro, fermati, dove stai“, ma ormai stavo già scavalcando il cancello in basso, pronto a risalire il muretto. Se ci ripenso, oggi, mi sembra di aver fatto tutto il percorso a ritroso, come un nastro in rewind.
Appoggiai i piedi sulla 127 scendendo, e partii a razzo com’ero verso casa.
La notte, rifeci quel sogno. La signora, nuda, mi sorrideva nella braccia del robot, che indossava un’uniforme da pilota.
Mi svegliai, e rimasi a guardare le luci dei fari delle auto che scorrevano sul soffitto della stanza dove dormivamo io e mio fratello. I disgraziati che andavano al lavoro alle 5 di mattina erano già in pieno movimento.
Nella mia testa l’idea girava come il motorino di avviamento di una Prinz. La signora sarebbe stata il nostro prossimo esperimento.
Fu il giorno dopo, sbirciando annoiato dalla finestra mentre facevo i compiti, che vidi il pilota, fermo all’incrocio, con un giornale in mano e la valigia accanto. Era in partenza. Qualche minuto dopo un pulmino si fermò, l’autista scese, aprì lo sportellone posteriore e caricò il bagaglio. Restai a guardare finché non fui sicuro che il marito della signora fosse partito, poi andai a cercare Carlo, al negozio della madre.
Non aveva voglia di sottoporsi di nuovo alla seduta, ma lo convinsi con un po’ di chiacchiere e la promessa che dopo saremmo andati a comprare una cassetta di Battisti alle bancarelle. Mi faceva sempre due palle, con Battisti.
“Devi entrare in casa, devi chiedere un bicchiere d’acqua, devi andare in cucina, devi prendere un coltello, devi uccidere la signora. Se non trovi un coltello, prendi qualcosa di pesante, devi ucciderla“, ripetei a Carlo almeno dieci volte, mentre era nel solito stato di non-sonno.
“Devi ucciderla, deve morire“, dissi, pensando al suo sorriso nel sogno.
Carlo si alzò dal letto nella mia stanza, e camminò col solito passo da automa in corridoio. Mia madre aveva acceso la luce in cucina. “Tra un po’ torno, ma’“, dissi, spingendo Carlo fuori dalla porta.
Seguivo il mio amico come un’ombra. Giù dalle scale, attraverso il cortile, continua sul marciapiedi a sinistra, lo telecomandavo. Attento ad attraversare la strada, attento a quella macchina. Non volevo che niente ci fermasse. Il mio cuore andava a 150mila. Mi chiesi se un ragazzino potesse avere un infarto, oppure un ictus.
Giungemmo davanti al muretto. La 127 era parcheggiata ancora lì. Sali, dissi a Carlo, adesso. Vai.
Cominciava a fare buio. Carlo iniziò ad arrampicarsi sulla macchina. Poi esitò. “Sali, devi andare”, strillai sottovoce. “Devi ucciderla, lei ha ucciso tuo padre. È stata lei!”
Per un attimo, mentre cercava di scavalcare, vidi il volto di Carlo prendere un’espressione incerta. Ha paura, cazzo, pensai. Mi era sembrato che si fosse guardato in giro impaurito. Forse si è risvegliato, pensai ancora, più arrabbiato che preoccupato.
Poi, successe tutto in fretta. Non so se perse la presa sul muro o scivolò sulla macchina, con l’umidità che c’era. O se lo fece apposta. Ma cadde. Carlo cadde sul cofano della 127, con un bom!, bello forte. Cazzo cazzo cazzo!
“Che fate voi due lì?“, disse una voce dietro di noi, proprio mentre il mio amico rotolava in terra.
È il padrone della macchina?, pensai con terrore. Ma no, era solo il vecchio scemo che abitava nel mio palazzo, povero disgraziato taciturno che si aggirava per le strade lì attorno. Mia madre diceva che aveva avuto un esaurimento nervoso per colpa della moglie. Va a sapere se è vero, con tutta la gente che aveva avuto esaurimenti. Mica erano tutti così strani. Nessuno che conoscessi ci aveva mai parlato, e passarono anni da allora senza che lo sentissi dire una parola. “Porca puttana!“, disse, una volta che per sbaglio uno di noi gli tirò una pallonata. Poi stop. Forse non aveva niente da dire.
Il vecchio scemo non era manco rimasto ad aspettare la mia risposta. Aveva fatto marcia indietro, e ripreso la sua passeggiata.
Carlo, intanto, si lamentava. Si era strappato i pantaloni della sua amata tuta Lotto. Magari si è rotto una gamba, pensai. E mi vennero in mente immagini di pronto soccorso, dottori, ambulanza, sangue, gesso. Magari ci avremmo fatto qualche scritta, su quel gesso, cercai di rincuorarmi.
Ma c’era una cosa che dovevo fare prima, prima di inventarmi una storia plausibile e accompagnare quel ragazzino da qualche parte.
Mi arrampicai io sull’auto — che in effetti adesso aveva un bel bozzo sul cofano — scavalcai, andai verso la scaletta, scavalcai il primo cancello, salii rapido i gradini arrivai al secondo cancelletto e… scoprii che la porta a vetri era nascosta dietro una serranda! E dentro non si vedeva neanche una luce accesa.
Era stato tutto inutile.
Alla fine, accompagnai Carlo dalla madre, al negozio. Inventammo una storia. Lui si pulì il sangue, ma non voleva andare al pronto soccorso. La madre non insistette, e lui non ci andò Non sembrava neanche troppo dispiaciuto per la tuta strappata. Pareva solo ansioso di vedermi andare via.
Il giorno dopo, seppi poi, la gamba gli aveva fatto male, a scuola, e il professore di ginnastica lo aveva accompagnato all’ospedale. Se l’era rotta la gamba, come pensavo. Lo vidi col gesso, pieno di scritte. Eravamo imbarazzati, e parlammo di niente. Non comunque di quel pomeriggio.
Io smisi di chiedermi se Carlo quel giorno era davvero sotto ipnosi – o se c’era mai stato – la piantai con gli esperimenti, e mi scordai anche del libro. E mentre pensavo di più alle ragazze, e sempre meno alla signora, i brufoli presero possesso della mia faccia, nonostante i bombardamenti massicci di Clear, sapone allo zolfo e lozioni puzzolenti.
Il 1978 era ormai lontano.