di Sandro Moiso

Chiara Sasso, In Rosa, prima edizione 1986, Edit. Tipolito Melli, Susa; seconda edizione 2024, pp. 124, 12 euro

Un anno fa Stefanino o “Steu” Milanesi ha abbandonato questo pianeta alla ricerca di un luogo migliore in cui continuare a vivere, lasciandoci tutti più soli. Accompagnati, però, dal ricordo e dall’esempio di un militante coraggioso e lottatore instancabile, dalle esperienze degli anni Settanta fino alle vicende della lotta contro il TAV in Valsusa.

Ma chi ha conosciuto Stefano ha sicuramente conosciuto anche la madre Rosa, instancabile come il figlio nel supportarlo anche nei momenti più difficili della lotta e della carcerazione. Donna di carattere in cui l’amore materno non si è mai abbandonato all’accettazione passiva e addolorata o alla semplice rassegnazione sia nei confronti di tutto quanto colpiva Stefano per opera della repressione statuale, sia nel confronto con le idee e della scelte che avevano portato il figlio a trascorrere diversi anni in prigione e, successivamente, ad essere in prima linea nel circuito dei centri sociali, in particolare Askatasuna, e nel movimento No Tav.

Il libro di Chiara Sasso, edito per la prima volta nel 1986, allora con una meditata prefazione di Giorgio Bocca, riportata anche in quello successivamente ristampato lo scorso anno in occasione della morte di Stefano1, ci dona uno sguardo in profondità su un rapporto madre-figlio fatto non solo di sentimenti ed emozioni, ma anche di confronto, spesso epistolare, anche se Rosa, per anni, accettò di intraprendere lunghe e scomode trasferte in giro per l’Italia per incontrare il figlio detenuto e sostenerlo moralmente.

Una storia narrata in prima persona da Rosa stessa2 e filtrata soltanto dalla scrittura di Chiara che diventa in qualche modo quella non solo di Stefano e Rosa, ma quella di un’intera generazione imprigionata e dei famigliari della stessa. In un contesto in cui, non dimentichiamolo mai, ad aver voce sono quasi sempre solo quelli delle “vittime” della stagione della lotta armata, di Pl e Br.

Nella Introduzione alla attuale edizione l’autrice ci ricorda che:

La ristampa di questa testimonianza, In Rosa, la devo a Mariagrazia e a Luigi che si sono messi in testa di “ripescare” il libro per ricordare Stefano che ci aveva lasciato il mattino di un lunedì di marzo. Era sempre un lunedì mattina, a Bussoleno, giorno di mercato, quando nel 1977 la vicina di casa aveva bussato alla porta di Rosa per chiederle di non uscire quella mattina. La spesa l’avrebbe fatta lei per tutte e due. Rosa non capiva. Stefano era a Napoli in vacanza. Si ripete di lunedì (11 marzo 2024), lo scampanellio alla porta. Per uno di quei casi strani della vita, sul pianerottolo c’è proprio un’amica conosciuta in quei periodi a Napoli. “Io non ero pronta”.
“Ho aperto la porta, non avevo neppure messo le calze, non capivo. Non ero pronta. L’avevo sentito la sera prima, come sempre”. Le stavano dicendo che Stefano non c’era più.
[…] Era maggio (1985) quando Stefano ha lasciato il carcere, per tre giorni non ha dormito. Aveva trascorso quasi otto anni in un carcere duro, negli anni importanti della sua giovinezza, ma non è stato piegato alle brutture, alla violenza di quella reclusione. Rosa aveva fatto di tutto per legarlo al fuori, alla bellezza. Fiori appiccicati su fogli di carta, indumenti colorati. “Quando vieni portami più lavanda che puoi non dovrebbero fare storie”. (Il suo profumo mi salva, diceva). Oggi come allora aggrappato alla Madre Terra, alla natura, ad ogni filo d’erba. Alla ricerca di giustizia. È stato normale impegnarsi anima e corpo nel movimento No Tav. La resistenza contro la speculazione, la distruzione della valle. Sempre presente, sorridente disponibile (Con un piano separato, intimo, nascosto ai più)3.

Subito dopo Gioacchino Criaco può aggiungere:

Per otto anni Rosa ha vissuto un giorno al mese, sentendosi viva solo la mezzora o l’ora in cui poteva abbracciare Stefano, il tempo in mezzo è stato solo un intervallo fra un abbraccio e l’altro, spesso solo tra uno sguardo e l’altro, perché la galera italiana […] è stata merda, una deiezione puzzolente di circuiti carcerari speciali, di terrore che prima di diventare 41bis era art. 90. I detenuti politici hanno assaggiato tutto il sadismo di cui è capace il potere.
Il giro di Rosa attraverso i penitenziari italiani, a sud, al centro, al nord, è la drammatica cronaca di un circuito dell’orrore che della Costituzione più bella del mondo non ha mai annusato l’odore, non ne ha mai sentito nemmeno la puzza. E da colpevoli sono stati trattati i colpevoli veri e quelli presunti, e da colpevoli sono stati trattati coloro che per amore vero non li hanno abbandonati, facendosi unico trattamento costituzionale vero. Essere trattati da colpevoli non è stato essere sottoposti al percorso trattamentale previsto dalla Legge, solo rimanere in balia alle emergenze di un potere convinto che la propria sopravvivenza passasse dall’annientamento4.

E’ una narrazione “fresca” e diretta quella di Rosa cui fanno da contrappunto le lettere di Stefano dal carcere e estratti dalle denunce per i maltrattamenti, per dirla con un eufemismo, subiti dai detenuti. Un dialogo a distanza in cui amore materno e figliale si mescolano alle diverse interpretazioni su tutto ciò che stava accadendo, soprattutto nel circuito delle carceri speciali, ed era accaduto precedentemente. In cui il reciproco rispetto si accompagna a considerazioni spesso di carattere famigliare, ma ancor di più politico e/o morale. Ma per comprendere meglio il clima politico, carcerario e famigliare che circondava sia Stefano che Rosa, vale la pena di iniziare da due lettre del 1978:

Napoli, 28/2/78
Cara mamma, ti scrivo questa lettera un po’ per completare la risposta alla tua, un po’ per parlarti dei miei problemi. Forse ho bisogno di sfogarmi, anzi, senz’altro… […] Io non voglio, non voglio, conoscere solo l’odio, non voglio diventare una macchina, non voglio essere distrutto nelle mie cose, non voglio impazzire.
Cerca di capire il senso di queste parole, sono in galera, posso cavarmela, ma posso anche passare gli anni più belli in galera, le probabilità sono pari, per il momento io di qua voglio uscire integro, di questo ne sono certo; se vuoi è la mia forza di lotta qua dentro, quella di non lasciarmi distruggere, quella di uscire immune.
Non è facile per niente, non è facile ambientarsi in una stanza 10 x 4 da dividere con otto persone, con queste mura e sbarre opprimenti, e guardare in alto per vedere un pezzetto di cielo o leggere il giornale e guardare la tele per sentire che “ fuori” la vita continua, che esiste ancora un mondo. E questo giorno dopo giorno, notte dopo notte. Non sei un uomo, sei una bestia.
Ed allora ti estranei da questa realtà, pensi al fuori, a tutto quello che hai lasciato, a quello che troverai a quello che farai. È l’unica cosa che ti può far sentire vivo, che ti aiuta a sopportare tutto, l’unica cosa che per il momento rimane impenetrabile, il pensare a tutti i momenti belli che ho avuto…

Con la successiva, però, inizia quel dialogo sulle differenti visioni del mondo e del modo di stare nel mondo che caratterizzerà poi il confronto madre-figlio.

Napoli, 14/3/78
Cara mamma, ho ricevuto la tua lettera in risposta alla mia e ti ringrazio di essermi vicina e di cercare di capire i miei problemi. L’unica cosa di cui non ti vuoi ancora convincere è che non sono più un bambino o se preferisci, un ragazzo immaturo.
Forse la risposta è che a te piace pensarmi ancora così, rifiutando in questo modo quella parte che non condividi di me, che però è la più vera. Non te ne voglio fare però una critica, voglio solo che possiamo chiarirci e capirci nella massima serenità.
Secondo me non ti vuoi arrendere alla realtà e non dirmi che non è vero. Queste cose si capiscono subito, io ho “tradito” quello che tu volevi diventassi, tu oggi mi vorresti vedere diplomato, con un buon lavoro, un po’ se vuoi come Paola, e invece no, sono in galera, accusato di essere un terrorista, che, a quanto pare, è la peggior cosa del mondo, e con un futuro incerto.
Quello che però dovresti chiederti è se a me sarebbe piaciuto fare un certo tipo di vita. Certo adesso potrei essere più o meno sistemato, con un po’ di fortuna, magari con qualche calcetto, avere così una vita cosiddetta tranquilla.
Ma non hai pensato che forse quella sarebbe stata la peggiore delle galere. Essere schiavi del lavoro, del padrone, dei soldi, della preoccupazione di dover vivere…ma non era quella la mia vita.

Rosa allora si interroga sulle eventuali responsabilità famigliari per la scelta fatta da Stefano che, comunque, non poteva condividere, anche se le successive vicende carcerarie, fatte di pestaggi e torture la avvicineranno ancora di più a quel figlio ribelle.

Fossombrone, 8/3/80
Carissimi, come vedete ho cambiato di nuovo residenza, il pellegrinaggio nelle patrie galere continua, anche se nel circuito degli speciali.
Cara mamma, le cose che mi dici e mi riferisco alla tua lettera, non sono “prediche” né io le prendo come tali, sono soltanto due concezioni di vita differenti, diametralmente opposte se vuoi, comunque ti assicuro che in ciò che credo c’è molta poca ideologia.
Mi parli di alberi, di gemme, fiori, di vita, mi chiedo se questo è valido anche per Seveso, e non per sottolineare certi recenti fatti, ma soltanto per farti capire che “vita” rischia di essere una parola vuota, un concetto astratto, quando c’è chi cerca di distruggerla costantemente perseverando nel più efferato dei crimini, lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo.
Io non dico che quello che facciamo noi sia bello, sono convinto che in tutto questo c’è qualcosa di tragico e triste, dico soltanto che è giusto, necessario, è l’unico percorso – quello della guerra – che vale la pena di essere vissuto a meno di non essere complici, anche se involontari, di questa società e dei suoi meccanismi perversi.
Sicuramente è meglio essere qua “bollati” con tutti i titoli che ogni giorno TV e giornali ci dedicano, che non ad esempio, in uno dei tanti posti dove si producono prodotti chimici o altro, quando la gente è disposta a prendersi il cancro o malattie simili per poter campare, ti rendi conto che questa società è marcia.

Un’attenzione per l’ambiente e la sua devastazione che Stefano si porterà sempre dietro, come la sua militanza nel movimento NO Tav dimostrerà in seguito. Ma il “giro” delle carceri cui accenna Stefano rivelerà ben presto il suo truce volto persecutorio che spingerà Rosa a scrivere una lettera al quotidiano «La Stampa».

Egregio Direttore,
sono una mamma così disperata, perché non avendo trovato una risposta da altre fonti, spero di trovarla attraverso il suo giornale e con la sua comprensione, anche perché questo è un problema molto spinoso.
Da due anni e nove mesi mio figlio si trova in carcere perché definito terrorista (militava nella sinistra extraparlamentare, aveva appena compiuto venti anni) con l’accusa di banda armata e la pena di cinque anni e sei mesi ancora appellabili. Ora succede questo: in questo periodo di detenzione, il ragazzo ha già fatto il giro di ben otto carceri tra normali e maggiormente speciali, con l’ultimo approdo a Pianosa.
Ora le chiedo; con quale criterio il ministro di Grazia e Giustizia fa questi spostamenti visto che nessuno è riuscito a spiegarmelo e che non dipende dal carcere o dal comportamento del ragazzo? Può immaginare per noi genitori (non li abbiamo certo voluti così) che abbiamo già questo grande dispiacere, quando succedono questi spostamenti cosa voglia dire, dobbiamo riprendere da capo tutta la trafila con conseguenze di ogni genere, sia morali che materiali, con il dilemma: abbandonarli o aiutarli? Poi prevale sempre il cuore di genitore e si pensa che cambino, ma così quale recupero si può avere quando fanno questa scuola?
Ecco, per questo mi sono rivolta a lei per un aiuto e per un invito a tutti i genitori che si trovano nelle mie stesse condizioni a unirsi perché queste cose non succedano.
Nella speranza di trovare un piccolo spazio nel suo giornale e perché non siano calpestati i diritti umani la saluto caramente.
Rosa Milanesi e le altre mamme dei detenuti della Valle di Susa

I continui trasferimenti avrebbero ben presto rivelato di costituire soltanto l’antipasto dell’autentico inferno che si sarebbe abbattuto sui detenuti politici. Come rivelano alcuni estratti dalle denunce presentate in quei giorni al Ministero di “Grazia e Giustizia”. Soprattutto dopo l’autentico massacro avvenuto all’interno del carcere di Pianosa nella primavera del 1981.

Dalla denuncia al Ministero di Grazia e Giustizia del 22/04/ 81:
“…L’operazione descritta appariva preordinata; alcuni agenti, durante il pestaggio, ripetevano le seguenti frasi: l’Asinara l’avete chiusa voi, Pianosa la chiudiamo noi. Alcuni agenti, a suon di botte, pretendevano che i detenuti gridassero: Viva il corpo agenti di custodia! Altri sembravano in possesso di indicazioni relative a detenuti nominalmente indicati, da picchiare con intensità particolare. Ciò è tanto vero che, alcuni detenuti (due o tre) che versavano in condizioni di salute precaria, sono stati risparmiati. Erano presenti anche carabinieri e agenti di polizia, i quali assistevano al pestaggio ed intervenivano quando a loro parere poteva essere letale…”
“…In seguito ad una cosiddetta perquisizione, gli effetti personali degli internati (radio, occhiali, libri, abbigliamento, foto ecc.) sono stati frantumati, strappati, danneggiati o distrutti.
Per i tredici, quattordici giorni successivi, i detenuti rinchiusi nelle celle di isolamento, ciascuna delle quali capace di ospitare una sola persona, in un primo tempo in sette per cella, poi in tre per cella, sono stati costretti a dormire sul pavimento, privi persino di un materasso e dotati soltanto di una coperta a persona …”.
“…il 10/04/81 alle ore 12 circa è avvenuto il secondo pestaggio, non si sa bene da quale occasione determinato; anche in questo caso la solita squadretta di agenti incappucciati ha estratto dalle celle un certo numero di detenuti e li ha trascinati in cortile picchiandoli nel modo che si è detto.
In seguito ad una serie di provvedimenti non si sa bene da chi ordinati e che trascendono qualsiasi logica, anche primitive, oggi, i detenuti della sezione speciale Agrippa versano in condizioni subumane; ad un trattamento umiliante, protervo ed arbitrario, vengono sottoposti, ovviamente con le dovute differenze, anche i familiari, che hanno ricevuto il consenso, dopo diverso tempo, di visitare i propri cari…’’

Fatti che, dopo un colloquio con Stefano, spingono Rosa a ricordare: «Stefano era riuscito a farmi capire con pochissime parole tutto quello che era accaduto e, del resto, bastava che lo guardassi per rendermene conto; continuava a ripetermi, come pure gli altri compagni e gli altri parenti, di far sapere fuori che cosa era successo; avevano un’ansia spaventosa di essere ricacciati in quella tomba e coperti di silenzio per settimane, qualunque cosa fosse successa. Di quei pochi effetti personali che aveva non possedeva più niente,»

Anche se pochi mesi dopo Stefano avrebbe scritto:

Pianosa 14/6/81
…ho letto la tua intervista a Luna Nuova e non è che mi sia piaciuta molto, soprattutto nelle conclusioni che traggono. È già una faticaccia tenere salda la propria identità e non è proprio il caso che la sua messa in discussione venga anche da persone che dicono di esserci vicine. I ‘duri’, è proprio ora di finirla con queste puttanate, con queste semplificazioni delle nostre vite e storie, c’è già lo Stato che ci pensa, come sai bene anche tu.

Per poi giungere però, dopo qualche anno, alle seguenti conclusioni:

Rebibbia 10/4/84
…guarda che ormai è da un pezzo che ho smesso di guardare a mia madre con la ‘velina’, insomma il nostro rapporto, madre-figlio, è quello che ho sempre messo in discussione.
Amo molto Rosa, per me è la mia migliore amica.
Non pensare che rivendichi qualcosa per questa sua crescita, in fondo ha fatto tutto da sola.
Ti dirò di più, una volta fuori da qui, è una delle persone che voglio frequentare di più e non certo perché glielo devo, ma proprio per la sua compagnia mi stimola un casino.
Insomma, con lei ci sto bene… Stefano

Dialettica conclusione di un rapporto che era andato crescendo e rafforzandosi negli anni e di cui Stefano avrebbe mantenuto memoria e impegno. Ma vale la pena di concludere questa riflessione con le parole della stessa Rosa, dettate alla prima uscita del libro, ma sicuramente ancora valide oggi, dopo la scomparsa di Steu.

Quasi otto anni nelle supercarceri sono un tempo infinito, un’esperienza bestiale, tanto più fatta a vent’anni. Se ci sono state delle aperture comunque i problemi grandi rimangono. Non mi sono mai nascosta dietro alle loro scelte, alle loro responsabilità, ma non posso neppure evitare di pensare che si è trattato di un percorso che ha travolto un’intera generazione. Mi sveglio la notte e mi alzo per pensare a tutte queste cose. […] Mi alzo non riesco più a dormire. Accendo la stufa in questi giorni piove sento il freddo. Ma sai quante volte ci penso a queste cose?

Come acquistare il libro:

È possibile inviare una donazione – contributo proposto 12 euro (spedizione inclusa) – con causale In Rosa con un bonifico sul c/c bancario dell’associazione Persone comuni (Iban IT17A0501803200000011641644);

Appena inviata la donazione scrivete a info@comune-info.net indicando Nome, Cognome e Indirizzo per ricevere il libro.


  1. Stefano Milanesi residente a Bussoleno, dove è deceduto l’11 marzo 2024. Arrestato a Napoli il 16 dicembre 1977, è stato condannato per partecipazione a Prima Linea e
    scarcerato per decorrenza termine il 2 maggio 1985. In seguito poi ancora inseguito da denunce e condanne agli arresti domiciliari per la sua appartenenza al movimento No Tav.  

  2. Rosa Peruch Milanesi vive e abita a Bussoleno dal 1958 Nata in Friuli il 5 maggio 1932. E’ stata presidente dell’associazione parenti detenuti nel 1980 a Torino.  

  3. C. Sasso, In Rosa, p. 3.  

  4. G. Criaco, Una donna a motore in C. Sasso, op. cit., pp. 5-6.