di Franco Pezzini
ELLEN
You cannot love.
ORLOK
I cannot. Yet, I cannot be sated without you.
L’impressionante successo di cassetta del Nosferatu di Robert Eggers, 2024, è testimoniato dalla serie diluviale di recensioni, commenti e pareri a firma praticamente di chiunque (non solo i recensori e commentatori usuali, non solo gli esperti di cinema e/o di horror) fioriti sul web e nei social: in sé un benvenuto sintomo di vitalità, anche considerando che nel mucchio si trovano spesso riflessioni d’interesse. Quanto alle critiche, al di là di chi sbarella (qualcuno c’è sempre, come chi per esempio attacca a muzzo il capolavoro di Herzog) esse pure in genere fotografano aspetti interessanti e meritevoli almeno di riflessione.
Il problema maggiore può emergere a fronte del continuo ritorno – in sé sensato e anzi inevitabile – della comparazione con i precedenti omonimi di Murnau e di Herzog e con il Dracula di Coppola (ma vorrei citare anche Shadow of the Vampire di E. Elias Merhige, 2000, film trattato spesso malissimo dalla critica). Sensato e inevitabile, perché si tratta di riferimenti lucidamente considerati da Eggers. Il problema sta però nel comparare senza distinguo un eccellente prodotto di genere (di un elegante specialista dell’horror) come questo, con opere d’arte – due nate con l’occhio al mainstream, la terza come scampagnata d’occasione (per molti critici il Dracula non fa parte della produzione “seria” di Coppola) – di registi che nel resto della produzione si sono occupati di tutt’altro. E i cui nomi tanto eminenti hanno attratto sulle loro letture vampiresche monumenta di riflessioni critiche sofisticate, una lunghissima storia interpretativa e una pluridecennale mitopoiesi nell’ambito dell’immaginario collettivo. Chiaro che il paragone resti inevitabilmente sbilanciato, e la sensazione di tedio lamentata da alcuni spettatori anche eccellenti al film di Eggers fa i conti con la scommessa, rischiosa in partenza ma legata a istanze personalissime (e dunque da difendersi), di riprendere una trama più o meno arcinota.
Il tentativo di parlare del film consisterà a questo punto nel cercare di evitare per quanto possibile il già detto, e provare (sulla base delle letture a monte ricche e varie di Eggers) a individuare altri percorsi: non alternativi, beninteso, ma di arricchimento del quadro d’analisi.
L’anno della storia è il 1838: un anno liminare, prescelto già da Murnau ed Herzog, che guarda insieme al primo ottocento delle visioni tedesche di Hoffmann (1776-1822) e di Caspar David Friedrich (1774-1840) ma già idealmente all’età vittoriana (è quello di incoronazione della regina Vittoria). Fin dall’inizio ci rendiamo conto che la povera Ellen (Lily-Rose Depp) è un elemento di alterità e disturbo nella Wisburg (Wisborg in Murnau) città degli affari: i suoi incubi, gli tsunami sciamanici della sua interiorità, il suo bisogno di cura – forse più che di cure –, emergeranno come potenziale ostacolo alla carriera del giovane marito Thomas Hutter (Nicholas Hoult) e come elemento perturbante a casa degli amici Harding. Ellen è troppo sensibile e spezzata per la borsa d’interessi di una città commerciale che punta alla roba, alla reificazione economicistica e all’efficacia sociale (persino più che il profilo del faustiano Knock di Simon McBurney, emblematico è qui quello di Friedrich Harding, amico di Thomas interpretato da Aaron Taylor-Johnson): una città che sembra richiamare la Corinto descritta da John Keats in Lamia (1819, pubbl. 1820), altro dramma vampiresco di inquietudini femminili e violenze interpretative. Impacchettare Ellen con tutte le brutalità di certe cure ottocentesche all’isteria è insomma una risposta che va oltre le soluzioni della medicina d’epoca, guarda all’urgenza di contenere la scomodità dell’outsider e insomma di “risolvere” pragmaticamente un problema. Al punto che la morte di Ellen verrà accolta sì con strazio ma insieme con rassegnazione persino dall’innamorato giovane marito: non è lui ad aver “ceduto” la compagna al Conte, come lei a un tratto gli rinfaccia – la firma di Thomas sull’atto in una lingua che non comprende è frutto di un inganno del vampiro – ma il giovane appare travolto dagli incubi di Ellen, che nessuno riesce a supportare/sopportare.
I nomi dicono qualcosa: se in Herzog l’eroina verrà chiamata Lucy (la vittima del romanzo, per l’inversione già nota a teatro con la versione teatrale Balderston e poi nel Dracula 1931 e seguiti, che vede in pratica invertire i ruoli di Mina e Lucy) la conservazione del nome Ellen di Murnau – tranne che nella versione della pellicola che le cambia nome in Nina – richiama il nome dell’eroina mitica che pone in pericolo l’intera città commerciale Wisburg/Troia per amore. Del resto in Eggers la venuta del mostro è causata non tanto da Thomas con il tema del fatale ritratto di lei, ma dalla stessa Ellen in grazia di un antico patto con un’entità umbratile del proprio profondo.
Come to me. Come to me: A guardian angel, a spirit of comfort – spirit of any celestial sphere – anything – hear my call.
In questa versione, persino più che nelle altre, il patto/contratto mostra tutta la sua diffusiva fatalità. Ciò in fondo spinge tutti i personaggi ad accettare con un relativo sollievo il sacrificio di Hellen: non solo Hutter e il medico Wilhelm Sievers (un bravissimo Ralph Ineson) ma persino il paracelsiano professor Albin Eberhart Von Franz (Willem Dafoe, già non-morto in Shadow of the Vampire) che pure ripudia i trattamenti coercitivi della medicina della città e con la ragazza solidarizza – non foss’altro per il fatto di essere un altro outsider. Come commenta, ascoltando le intenzioni di lei,
In heathen times you might have been a great priestess of Isis. Yet, in this
strange and modern world your purpose is of greater worth.
In un’epoca antica sarebbe stata una magnifica sacerdotessa di Iside, la dea che rimette insieme i pezzi dell’assassinato Osiride. A sua volta Ellen dovrà fare i conti con i pezzi di un altro frequentatore d’oltretomba dal corpo devastato, il putrescente Orlok…
Nei commenti web si è enfatizzata la dimensione erotica e sessuale nel film, molto più esplicita che in Murnau ed Herzog, come se il sesso fosse una chiave banalizzante o un tributo modaiolo: ma il tema va correttamente impostato. Per Ellen, Orlok non è soltanto un erogatore di sesso vivace, una risposta fallica freudiana: fin dall’inizio la ragazza troppo sola ha evocato qualcuno (come Laura in Le Fanu fa con Carmilla) che rispondesse al suo bisogno d’amore e di identità sessuale, al suo desiderio molto più intenso, selvaggio ed estatico di quanto il perbenino Hutter, privo di ombre ma forse anche di passione, riesca da solo a garantire. Non a caso, in un momento in cui presenta stigmi di possessione, Ellen gli rinfaccia “Non potresti mai soddisfarmi come ha fatto lui”.
È questo che Orlok ha fiutato, una specie di grido interiore di chi non vuole reprimere o nascondere i propri desideri sessuali di definizione identitaria e legati a bisogni profondi, nonostante le istanze di vergogna e di punizione di un certo contesto sociale: Eggers ha bene in mente la critica letteraria anni Ottanta sulle eroine create da autori maschi vittoriani che vengono punite e uccise per questo, ma insieme – possiamo oggi aggiungere – arrivano nella loro oscurità a comprendere profondità sconosciute. Perché quel che Ellen cerca non è banalmente sesso, ma amore realizzante, esistenzialmente ricco e pieno fino a scuotere il corpo: peccato che a fronte di Thomas che offre solo tenerezza – e lei dovrà estorcergli una performance di maggiore vivacità, per essere anche solo vagamente competitivo con quelle dell’incursore sovrannaturale – il vampiro, che si definisce “un appetito. Nulla di più” mostrerà voracità sessuale e pretese manipolatorie da incel nei confronti di Ellen (“incantatrice […] Tu sei la mia afflizione”) ma ovviamente non l’amore di cui ha bisogno lei. Che deciderà in proprio del suo corpo, fuori dal controllo di marito e medico curante (e con la solidarietà dell’illuminato Von Franz): si lascerà violare da Orlok e ne morirà, con qualche soddisfazione fisica e riuscendo a salvare la città – sia pure senza aver ottenuto ciò che nel profondo cercava, cioè semplicemente amore. Insomma una storia d’eros frustrato, senza neppure la tragedia romantica di Mina che nel film di Coppola è almeno vedova cosciente di un amore speciale da un’altra vita. A Ellen neanche ciò è concesso, e qui sta forse la sua vera tragedia – e il fallimento di una società virile di affari & predazione.
D’altronde quello che Eggers presenta non è il vampiro della letteratura romantica a cui Coppola guarda, ma è molto più simile ai suoi fratelli folklorici (che per inciso, come qui, mordono il petto e mirano al respiro-vita): una figura sfuggente, che apre da un lato all’incubus violentatore, dall’altro al demone possessore. Per dire, come le isteriche di Charcot e della Salpêtrière, ma anche come le possedute di secoli d’esorcismi, eccola inarcare il corpo, roteare gli occhi all’indietro, contorcersi e assumere pose impossibili… e non perché infettata da un fantomatico morbo vampiresco, ma per la reazione esplosiva tra un bisogno personale profondo e uno stalking feroce che tenta, preme e ossessiona. Il regista racconta di essersi voluto smarcare dai tropi filmici sul tema, cercando nelle fonti e meravigliandosi di trovare vampiri che “Non stanno nemmeno bevendo sangue, stanno solo strangolando le persone, o soffocando le persone, o fottendole a morte” (Antonia Blyth, Nosferatu: Writer-Director Robert Eggers, Lily-Rose Depp, Nicholas Hoult & Cast Reveal Their Vampire Dream, “Deadline”, 2 dicembre 2024).
I do not believe. I know. I have seen things in this world that would have made Isaac Newton crawl back into his mother’s womb. We have not become so much enlightened as we have been blinded by the gaseous light of science. I have wrestled with the Devil as Jacob wrestled the angel in Peniel and I tell you, if we are to tame darkness,we must first face that it exists. Meine Herren, we are here encountering the un-dead plague carrier… the Vampyr… Nosferatu!
Non siamo qui nelle dotte speculazioni del professor Van Helsing di Stoker, che coordina, riordina e armonizza intere biblioteche di creature vampiresche di ogni tempo e luogo in un canone sul vampiro poi ulteriormente irrigidito dalle produzioni pop: e il dotto Von Franz, più simile in questo al ben più inefficace Bulwer di Murnau, deve ammettere di sapere ben poco sulla creatura piombata in città. Una creatura che flirta con le oscurità dell’inconscio, dove i confini valgono quel che valgono: ed Ellen ha lanciato una chiamata in quell’abisso senza sapere cosa ne sarebbe emerso.
Certo, il volto di Orlok non è quello da Urlo di Munch delle prima versione (1893 – l’anno in cui potrebbe ambientarsi il Dracula di Stoker), e richiama piuttosto Vlad III l’Impalatore; mentre accantonata la polverosa redingote stile Biedermeier impostagli da Murnau, il vampiro appare qui vestito dalla costumista Linda Muir con richiami all’abbigliamento dell’esercito transilvano 1560-1650. Interessante è poi la dimensione linguistica del film, dove il conte parla una forma ricostruita della lingua dacia, in mezzo a conterranei che si esprimono (in modo corretto, e senza sbavature americane) in rumeno e romanì. Ma la definizione della creatura resta a lungo sfuggente, e solo nel raggelante finale il corpo cereo prende definizione.
Il vampiro si collega comunque qui alla tradizione dei Solomonari, gli stregoni cavalcadraghi della Solomonărie o Şolomanţă, la “scuola di Salomone” in Transilvania germanizzata da Stoker in Scolomanza (Scholomance): come viene sintetizzato dalle monache che soccorrono Thomas fuggito dal castello,
A black enchanter he [Orlok] was in life. Şolomanari. The Devil preserved his soul that his corpse may walk again in blaspheme.
E anche il suo castello conosce le sbavature e le incertezze dei sogni.
Qualcosa merita di dire sul professore svizzero Albin Eberhart Von Franz, metafisico e studioso dell’occulto: dove il primo nome richiama Albin Grau (1884-1971), produttore, scenografo e progettista di produzione del film di Murnau, nonché occultista e membro della Fraternitas Saturni, mentre il cognome richiama quello della brillante psicoterapeuta Marie-Louise von Franz (1915-1998), allieva di Jung studiosa di strutture archetipiche del mito, della fiaba e di testi alchemici. In merito trovo su FB un commento interessante di una spettatrice intelligente, Apollonie Sabatier, che pur avendo amato molto questo film ravvisa un limite. Con il suo permesso, riproduco uno stralcio della sua riflessione (scritta ovviamente con il linguaggio dei social, non era un saggio – si può condividere o meno nello specifico, ma resta una provocazione acuta su cui meditare).
A distanza di due settimane ho identificato con soggettiva certezza ciò che non mi è piaciuto del Nosferatu di Eggers. La cosa che ho sempre adorato del genere horror e del racconto gotico è la presenza di simboli capaci di parlare di cose scomode per la mente umana. […] Non a caso il personaggio di Von Franz (cognome di una delle più grandi allieve e collaboratrici di Jung), a mio parere, è palesemente Jung. Lo psicoanalista che svela i significati. Il film riprende letteralmente sue citazioni, come: “Io non credo, io so”. Il ruolo del personaggio è quello di spiegare agli spaventati borghesi cosa sia il male e la passione, come interpretarli e sconfiggerli. Da fan di Jung avrei potuto esserne felice. Invece il personaggio mi ha convinto poco. Mi è sembrato che il suo ruolo fosse quello di rendere noto un simbolo il cui potere catartico richiede proprio che sia lo spettatore a scoprire la dinamica dentro il suo inconscio. Questa è per me materia da saggista, non da narratore. Mi sento sempre idiota quando uno sceneggiatore mi spiega le cose, e a me non piace essere trattata da idiota. Tra una figata e l’altra in questo film mi sono spesso ritrovata a pensare: “ma perché me lo dici?”.
Eggers, lascia che il perbenista borghese dentro di noi venga divorato dal vampiro della Transilvania, non toglierci da quella ambiguità che dovremmo risolverci da soli.
Qualcosa che beninteso non inficia la valutazione su un’alta qualità della prova – del resto sottolineata da Sabatier nel prosieguo della riflessione – e sulla forza anche visiva e l’estrema godibilità del film. Con buona pace di critici troppo severi, un’opera di questo tipo evidenzia tutta la ricchezza e le fertili potenzialità del retelling – un narrare vampiro che ci accompagna in fondo fin dai racconti nelle grotte della preistoria.