di Sandro Moiso

Diego Gabutti, Nel West con Sergio Leone. Dollari, armoniche e pistole a Cinelandia, Giulio Perrone Editore, Roma 2024, pp. 146, 16 euro

Be’, c’è un film che ho visto una volta / su di un uomo che cavalcava nel deserto, l’attore era Gregory Peck. / Veniva ucciso da un ragazzino affamato che bramava di farsi un nome. / Gli abitanti della cittadina volevano prendere il ragazzo e appenderlo per il collo. / Be’, lo sceriffo lo pestò per bene / mentre il pistolero morente era sotto il sole ed esalava l’ultimo respiro. / «Lasciatelo libero, lasciatelo andare, lasciategli dire che mi ha sconfitto con lealtà. / Voglio che sappia che cosa si prova ad affrontare la morte in ogni momento.» (Bob Dylan, Brownsville Girl)

A partire da C’era una volta il West, il film di Sergio Leone del 1968, Diego Gabutti ci consegna ancora una volta un’opera-mondo, definizione certamente usata a sproposito al giorno d’oggi per troppi romanzi e saggi, ma che serve perfettamente a riassumere il lavoro del saggista e giornalista torinese appena pubblicato da Perrone Editore nella collana Passaggi di dogana.

Come ogni opera realmente degna di questa definizione, a partire dal quarto film western realizzato da Leone, il sintetico saggio di Gabutti mette a fuoco ed esplora, aprendosi a riflessioni che procedono per cerchi concentrici, sia lo storia del cinema western che quella del regista italiano, allargandosi progressivamente a tutto l’immaginario cinematografico, hollywoodiano e non, e pop del secolo appena trascorso, con qualche puntata anche negli anni più recenti, per poi tornare alle origini e al suo centro reale: la novità rappresentata dal regista stesso e dal suo cinema.

Cinema innovativo che ha anticipato, si scusi ancora l’utilizzo di un altro termine fin troppo abusato, tutto ciò che è stato definito postmoderno, sia nella letteratura che nell’arte e nel cinema, nei decenni successivi. Un cinema totale, ma non reale o realistico, in cui tutto l’immaginario, popolare e dotto, a partire da Omero fino a Popeye passando per la letteratura picaresca e il vaudeville oppure Tex Willer e John Ford e dalla commedia dell’arte alla commedia all’italiana, ma l’elenco potrebbe continuare all’infinito, è stato riassunto, sintetizzato e magnificamente portato sugli schermi con un successo di pubblico, anche se non sempre di critica, enorme e, probabilmente, mai raggiunto da tutto il cinema italiano precedente e successivo. Con buona pace di tutti gli estimatori, spesso sfegatati e immotivati, del neorealismo.

E proprio su questo punto è giusto sottolineare le pagine autobiografiche in cui l’autore ricorda, con la sua solita ironia, un esame di Storia del cinema sostenuto col vate del realismo “critico” e dell’intellighenzia cinematografica italiana di un tempo ormai lontano: Guido Aristarco. Critico cinematografico e docente universitario, fondatore della rivista “Cinema Nuovo”, esponente della critica materialista e avverso al cinema di Leone, ma i cui dettami della sua idea di cinema sono probabilmente rappresentati ancora oggi da film assolutamente improponibili e inguardabili di molto cinema italiano e da un’erronea concezione di ciò che dovrebbe essere considerato cinema d’autore (con tutte le ambiguità e le pretese intellettualistiche che tale definizione reca con sé). D’altra parte, come avrebbe avuto modo di affermare lo stesso Gabutti in un’intervista rilasciata diversi anni or sono:

Non c’è mai stata un’influenza dei film di Leone sul cinema italiano, tranne che al tempo degli spaghetti-western, quando i suoi film erano banalizzati e fraintesi da una pletora d’imitatori. Leone è stato un esempio per il giovane cinema americano degli anni sessanta e settanta. Era il regista preferito di Coppola, di Scorsese, di Lucas e di Spielberg. Chi ne apprezzava l’umorismo, chi l’arte di dirigere gli attori, chi gli eleganti e solenni movimenti di macchina, chi la natura aforistica dei dialoghi. Clint Eastwood, che gli deve tutto anche come regista, non è tra i suoi ammiratori dichiarati, anche se in ogni suo film, naturalmente, c’è qualcosa di Leone (a cominciare dalla sua faccia, dai suoi primi piani). In Italia – anche dopo C’era una volta in America, che non è il suo film migliore (il miglior film di Leone è senza discussioni C’era una volta il west) ma che è il suo solo film esaltato dai nostri critici parrucconi – è stato sempre amato dal pubblico e detestato dal milieu cinematografico. Critici che considerano Pasolini un regista cosa possono capire di Leone? (E di letteratura, e di politica, e di qualunque altra cosa?)

Ma ritorniamo alla tesi e al tema centrale del testo, da cui poi si diramano tutte le altre riflessioni: C’era una volta il West come ultima, unica e potentissima espressione del western classico e della sua fine. Dopo il quale non solo Leone non realizzerà più film alla stessa altezza, pur rimanendo fino all’ultimo uno dei registi dell’Olimpo della storia del cinema, non solo italiano, ma non sarà più possibile realizzare film western dello stesso livello, esclusi forse i due capolavori di Sam Peckimpakh: Il Mucchio Selvaggio e Pat Garrett e Billy the Kid.

Tutti e tre, anche se il film di Leone del 1968 rimane il più innovativo e il più radicale dal punto di vista della riscrittura delle saghe western, parlano della fine del West e del western tradizionale allo stesso tempo. Ferrovie, automobili, filo spinato per dividere le proprietà, grande finanza (non le banche che comunque si potevano ancora tranquillamente rapinare fuggendo a cavallo oppure con l’auto come avrebbe fatto la banda Cavallero proprio negli anni della leoniana Trilogia del Dollaro1 ), avevano finito per chiudere definitivamente gli spazi dei cavalieri, degli sceriffi e dei banditi romantici. La ferrovia sarebbe arrivata fino all’Oceano Pacifico finendo di unificare l’unica potenza che si sarebbe potuta affacciare contemporaneamente sui due Oceani maggiori, rendendo meno ”avventuroso” e quindi niente affatto mitico quel «Go West, Young Boy!» da cui la leggenda aveva avuto inizio. Almeno sugli schermi e nella narrativa popolare.

Ancora una volta la lettura del testo di Gabutti si presenta come una cavalcata, e in nessuna altra occasione il paragone potrebbe essere più adatto, attraverso la storia del cinema western, da The Great Train Robbery (film della durata di 11 minuti realizzato nel 1903) fino a Quentin Tarantino, ma anche attraverso la vita dello stesso Leone, che l’autore ebbe modo di conoscere ed intervistare più volte e sul quale aveva già pubblicato quarant’anni prima un altro libro altrettanto bello e importante: C’era una volta in America2.

Nello specifico vanno comunque segnalate le pagine dedicate alle superbe intepretazioni di Charles Bronson (Armonica), che mai avrebbe più raggiunto tale intensità espressiva; Henry Fonda (Frank) nella sua forse unica e credibilissima interpretazione del villain di turno; Jason Robards (Cheyenne), il più bravo tra i protagonisti e il più romantico dei banditi e, infine, di Claudia Cardinale (Jill), all’apice della sua bravura, bellezza e sensualità istintiva.

Cinema e volti di un tempo che fu e che, nonostante gli sforzi successivi, non sarebbero mai più tornati ad essere visti sugli schermi, considerato anche che, come afferma Gabutti, quel film aveva di fatto «esaurito il genere» e, aggiunge chi scrive, il cinema del mito. Quello di Hollywood o comunque ispirato dagli studios dell’epoca d’oro che, come aveva scritto da qualche parte Amadeo Bordiga in una frase raccolta in epigrafe dall’autore torinese, copiava «dal paradiso terrestre».

E’ giusto, però, far scorrere i titoli di coda di un libro che ogni amante del cinema dovrebbe leggere accompagnandoli con le chitarre distorte e l’armonica minacciosa del tema dell’uomo dell’armonica o da quello romantico di Jill oppure, ancora, dalle note della marcetta dedicata a Cheyenne o quelle tristi che accompagnano la sua morte. Autentici capolavori di un compositore, Ennio Morricone, che legò indissolubilmente il suo nome a quello di Leone, conosciuto ancora sui banchi di scuola, e al successo planetario dei suoi film.


  1. Sostanzialmente composta dai primi tre film del regista: Per un pugno di dollari (1964), Per qualche dollaro in più (1965) e Il buono, il brutto e il cattivo (1966)  

  2. D. Gabutti, C’era una volta in America. Dollari, cowboys, whisky, donne, oppio, gangster e pistole… Un’avventura al saloon con Sergio Leone, Rizzoli Editore, Milano 19844.