di Jack Orlando

Anton Jager; Iperpolitica. Politicizzazione senza politica; Nero Edizioni; Roma 2024; 15€ 158 pp.

Tre proiettili alle spalle e Brian Thompson, il CEO della United Healthcare, cade freddato a terra.
Non si fa in tempo a avere l’identità dell’attentatore che già inizia il vociare di internet.
Sui social si brinda alla morte del capo dell’assicurazione sanitaria, si moltiplicano le testimonianze di cure rifiutate per le politiche aziendali dell’assicurazione guidata da Thompson; rifiuti che hanno determinato morti evitabili e dolori inutili, che hanno stabilito il valore della vita di ciascuno sulla base della sua affidabilità economica.
L’empatia è un ingrediente che manca totalmente nella reazione generale e questo nonostante i canali mainstream si prodighino in avvisi allarmati e condoglianze contrite, nonostante soprattutto i megainfluencer politici, Musk tra tutti, che improvvisamente cambiano registro: da commentatori spietati e virulenti, aizzatori di folle, si riscoprono moderati e ragionevoli “epperò signora mia… uccidere qualcuno non è mica una bella cosa”. Rapidamente si allarga uno spazio dove le posizioni sono molto nette, al di là di qualsiasi posizionamento ideologico.

Spazio che si fa rapidamente abisso quando diventa pubblica l’identità dell’attentatore, Luigi Mangione: italoamericano, studente brillante di buona famiglia, fisico atletico e bel viso.
Non è incasellabile politicamente, non appartiene ad alcuna organizzazione, ha idee confuse e ha letto il manifesto di Unabomber (come lo hanno letto milioni di suoi coetanei d’altronde), soffriva di mal di schiena e odiava profondamente i parassiti delle compagnie assicurative. Non ci ha messo due ore a diventare un’icona internazionale. Il volto e il nome di Mangione invadono i social network replicandosi in una turbolenza di meme, fanart, cosplay che subissano qualsiasi critica.
Con rapidità estrema assistiamo alla canonizzazione di un santo laico, dispensatore di giustizia sociale. La verticalizzazione dell’odio non necessita di spiegazioni scientifiche per darsi, né di successi politici o traduzioni pratiche prima di rifluire.
È la guerra di classe che torna senza mettere radici, è la politica del XXI secolo.

Ecco, nessuna immagine più di Mangione che spara in testa a Thompson (per poi assumere le fattezze memetiche del fratello di Super Mario) rappresenta meglio l’essenza del politico nell’Occidente al tramonto. Una modalità schizoide di interazione con la realtà, dove sono preponderanti immedesimazione e spinta emotiva più che l’appartenenza sociale, dove la consapevolezza esplicita è opzionale. È tutto un gran parlare di politica: sui social, al bar, in famiglia; ma latita la capacità di tradurre la parola in azione, la mobilitazione rimane uno strumento residuale che esplode in dati momenti per poi inabissarsi fino al ciclo seguente, senza mai sedimentare uno strumento collettivo reale. L’enigma dei nostri tempi: tutto è politica, ma la politica è nulla.

Questo paradosso sta alla base anche del lavoro del giovane filosofo Anton Jager: come è possibile avere allo stesso tempo una società che produce proteste come mai prima nella storia, ed allo stesso tempo rimane disgregata, incapace di porre in atto qualsivoglia forma di volontà collettiva?
In un denso pamphlet, Jager passa in rassegna l’evolvere della politica e della storia nell’ultimo mezzo secolo per trovare un punto d’appoggio da cui ricominciare a comprendere e dare una forma ai fenomeni che ci ruotano attorno a velocità vertiginosa.

1989, il funerale della politica di massa dopo il suo ultimo sussulto dei ’70. Crolla il muro e crolla l’idea di un futuro, di una Storia. Il secolo delle guerre civili si congeda con una festa edonistica e permanente dove l’individuo è centro e punto di fuga. Il funerale del ‘900 balla in una discoteca di Londra, canta di un mondo leggero, libero dalla disciplina delle ideologie, dai catenacci del pensiero forte. La Storia è finita, si è nel dopo, nell’era dei post; della postpolitica, appunto.
Un’illusione che dura finchè le modalità del consumo di massa sono garantite a quell’ipertrofica classe media euroatlantica tutelata dalla stabilita economica e lo stato sociale venuti fuori dalla ristrutturazione del mondo successiva alla Seconda Guerra Mondiale (e di cui il resto del globo sotto sfruttamento coatto è stato maggior contribuente).
Lo smantellamento progressivo delle forme di organizzazione collettiva, quali partiti e sindacati, ha proceduto pari passo con lo smantellamento delle forme di tutela statale dei cittadini.
Un lento processo di impoverimento economico e disgregamento sociale era l’ospite silenzioso della festa del mondo liberale globalizzato. Non era la Storia ad essere morta, ma il futuro.

L’illusione dura almeno fino al 2008, alla crisi dei subprime che si schianta sui sogni di gloria della middle class. Qualcosa si rimette in moto, i primi nuovi passi della Storia dopo la fine di sé stessa, ma non siamo più in grado di riconoscerla.
Tornano a essere battute le strade dai cortei, tornano i picchetti che bloccano le merci e gli scontri con la polizia. Battono i tamburi le primavere arabe e piazza Syntagma.
Un sussulto che si voleva relegato al passato. Que se vayan todos.
È il rifiuto di un’intera classe dirigente vista come principale responsabile del disastro, il rifiuto di pagare i costi della crisi, rifiuto delle promesse fatte e tradite. È il momento dell’antipolitica: il ritorno sghembo di istanze collettive ancora troppo vaghe, di alleanze sociali incapaci di riconoscersi in qualche forma di classe.
Non è un caso che chi provi a capitalizzare il dissenso dirottandolo verso le urne finisca per accendere grandi aspettative e poi, rapidissimamente, spegnerle contro i dispositivi politici di Stati la cui sovranità è meramente formale. Il grande bluff dei cosiddetti populismi, sulla cui carcassa ha fermentato il ritorno dell’ultranazionalismo.
E così gli anni dieci volgono al tramonto con una pandemia globale, una radicalizzazione sociale senza sbocchi e alcuno strumento per interpretare ciò che gli sta arrivando davanti.

Gli anni venti del ‘900 furono un’epifania di ferro e fuoco, zenit dello scontro per decidere quale specie umana avesse diritto a determinare il mondo. Vinse il Capitale, grazie alla carneficina della guerra mondiale, ma i socialisti non se ne accorsero e si trovarono a fargli da garzoni di bottega.
Un lungo processo di sussunzione che ha fatto della sinistra un amministratore della miseria, reso antipatico da un’irrefrenabile cipiglio moralista, pallido residuo di quel che un tempo si definiva coscienza.
Ad un secolo di distanza, con un globo che brucia tra i fuochi del mutamento climatico e i razzi ipersonici della guerra mondiale che viene, le condizioni per un nuovo slancio di rottura sarebbero ottimali. Ma a differire rispetto a quei ’20 furiosi è l’assenza sociale generalizzata.
Si è detto che non esistevano più le classi, ed in parte è stato vero; ma non in senso puramente tecnico-economico. Non esistono più le sue forme di potenza: il partito comunista, la chiesa, la parata delle camicie nere. Tutte le modalità con cui comunità umane hanno costruito propri mondi, portato avanti verità di parte e assunto un senso collettivo hanno ceduto sotto l’irresistibile ascesa del mercato.
La sconfitta di ogni forma di incompatibilità capitalistica, che aveva come presupposto la smobilitazione sociale e il ripiego nel privato più misero, ha privato gli umani delle loro armi di difesa e del loro senso di esistere e così ha compromesso la capacità di intere società di pensare sé stesse. È un mondo di bolle, sacche d’incomunicabilità che rasentano l’autismo, nessun istituto in grado di fare universo è rimasto in piedi.

La Storia ha ripreso il suo posto, anche gli idioti hanno dovuto riconoscerlo. E la politica, sua figlia stronza, è tornata con lei ma non ha trovato l’unica cosa in grado di farla germogliare: le collettività umane.
Eccola qui l’Iperpolitica di Jager, la necessità bruciante di rimettere mano a un presente insostenibile e ingiustificabile, ma senza la capacità di immaginarne uno alternativo o, quantomeno, nell’incapacità di tradurre il desiderio in pratica. E soprattutto senza un attore collettivo in grado di darsi come forza.
La politica di oggi è la scadente sottomarca di quel che era un tempo. Negazione senza costruzione, mobilitazione senza organizzazione, ideologismo senza prassi, moralismo senza norma.
È la politica individualistica che cavilla sulle identità, buona per esser consumata e spammata ma refrattaria a qualsiasi disciplinamento (congenito a qualsiasi progetto) e che proprio per questo necessita di essere continuamente esposta al pubblico per esistere.

Triste storia, ma è già qualcosa. Un segno che le crepe del dominio occidentale hanno dato ossigeno a spinte centrifughe rompendo l’illusione della pace perpetua neoliberale.
Ancora troppo poco per poter sperare in un’inversione di rotta: si festeggia Luigi Mangione che spara ma si rifiuta qualsiasi militanza reale; abitiamo un’umanità instupidita e depressa che si accontenta dei simulacri della politica più che della sua sostanza. Ma la rabbia fermenta, i fenomeni mutano e maturano, e quel che solo ieri era impensabile oggi è banale.
Se osserviamo i piccoli smottamenti del nostro tempo, nascosti sotto una coltre impressionante di macrofenomeni, possiamo iniziare a teorizzare la frana.

Non è detto che Iperpolitica sia una definizione in grado di cogliere davvero l’essenza del nostro tempo, ma di sicuro la genealogia che la sorregge permette di guardarsi alle spalle con meno nebbia attorno; si fa i conti con i limiti di schemi di pensiero, tanto radicali quanto liberali, che hanno ormai fatto il loro tempo e girano a vuoto.
Ma non si tratta di semplicistiche rottamazioni quanto di allargare maglie, aggiornare modelli, tagliar via inutili orpelli, riprendere la misura di quel che è.
È un modo per aprire una pista, via d’uscita dalla gabbia di un pensiero atrofizzato; e nei tempi cupi che viviamo nulla è più essenziale delle vie di fuga.

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