di Giovanni Iozzoli

Succede in un malinconico giorno di fine 2024. C’è un freddo cane, qualche luminaria triste sulle vetrine dei negozi, niente neve. La periferia consuma i suoi piccoli rituali natalizi senza frenesia, in un tempo vagamente sospeso. E succede che sei al bar, a berti il primo caffè di questa mattinata gelida – il bar dei cinesi, col calendario New Fava Motors e la tele sempre accesa su MTV dalle sei del mattino. E succede che entra una signora anziana, piccola come un elfo rotondetto, caracollante, che saluta gentilmente a destra e sinistra, evidentemente conosciuta dai pochi avventori e dalla barista. Approfitta per scaldarsi un po’ e prendersi anche lei un caffettino. Intanto chiacchiera con un altro anziano che era già dentro, un vicino, suppongo. Io non le presto molta attenzione, sto leggendo sulla Gazzetta dello Sport del mistero di Douglas Luiz. Mia moglie invece ascolta quello che la signora sta dicendo, lì nel tavolino a fianco al nostro e ogni tanto mi guarda un po’ perplessa. Io sono sempre concentrato sui cinquantadue milioni spesi per Douglas Luiz. Cinquantadue milioni in panchina. Minchia, Elkann: noi gli paghiamo la cassa eterna a Mirafiori e lui butta i soldi così.

Mia moglie allora mi allunga una gomitata – di quelle leggere, per attirare l’attenzione e mi dice:
– le diamo un passaggio?
– Per dove? A chi?
– La signora, quella lì bassina. Deve andare al cimitero.

Boh, va bene. Non abbiamo urgenze, sono le otto di mattina di un giorno festivo. Il cimitero è lungo la strada di casa. In macchina ci si mette cinque minuti, ma a piedi la signora, con le gambette corte e storte e questo freddo fetente, impiegherebbe tre quarti d’ora. Allora mia moglie, che con gli anziani e i cani è sempre molto premurosa, si avvicina alla donna-elfo e le chiede se vuole un passaggio verso il camposanto. Temo che lei declini l’invito, per la paura di salire in macchina con due sconosciuti in questi brutti tempi. Ma in realtà – me lo spiegherà dopo la mia signora – mia moglie e l’anziana si conoscono già, anche se solo di vista.

Perché mia moglie l’ha incontrata dalle parti nostre diverse volte, negli anni, che girava con un cane bianco bello grosso e un marito più vecchio di lei, zoppicante, un po’ scalcagnato, ma grosso pure lui. Portavano il loro cane nel nostro parchetto a fare il suo giro quotidiano e mia moglie li vedeva da lontano, tutt’e tre. Poi un bel giorno non ha visto più il cane; e qualche mese dopo non ha visto più neanche il marito. Lei ha continuato per un po’ di tempo a gironzolare da sola lungo lo stesso tragitto che prima facevano in tre.

– Signora, noi andiamo verso il cimitero, le diamo un passaggio? – fa mia moglie con la voce più gentile e rassicurante possibile.
L’anziana accetta subito – Grazzie, grazzie assai.
Paghiamo e usciamo verso la macchina.

La facciamo accomodare davanti e adesso che ce l’ho vicino la guardo bene. I capelli bianchi bianchi sono ricci, curati. La pelle ricorda un po’ il cuoio, ma non è incartapecorita; ha un viso proporzionato e un aspetto inequivocabilmente contadino e meridiano, come la parlata. E’ una bella anziana – penso – dalla faccia simpatica e pulita. Non è intimidita, parla con naturalezza, risponde alle domande di cortesia che le facciamo. Ci dice che abita là in zona, e che si: come aveva intuito mia moglie, è rimasta vedova da poco; prima le è morto il cane e poi il marito. Non ha un tono lagnoso. Ne parla come chi ha definitivamente capito che così vanno le cose, si viene al mondo e si va, non ci sono trucchi, misteri e scappatoie.
– Si era ammalato, era anziano pure lui, poverino. Ormai era solo sofferenza.
Io non so se sta parlando del cane, del marito o di tutt’e due.

Mia moglie non vuole intristirla con l’argomento vedovanza, quindi le chiede del cane, se era affezionata, se era buono, quelle cose così che si dicono quando si parla di bestie.
– Sì era un bravo cagnolone, di cumpagnia. Però era ladro. Non potevi lasciare niente sulla tavola. Un giorno avevo preparato tre belle cotolette e le avevo messe in tavola, mi giro un attimo e ne vedo solo due; allora sono andata da mio marito e ci ho chiesto: te la sei mangiata tu la cutuletta? E invece era stato il cane, zitto zitto. Era ladro.
– Da dove venite signora?
– Sono calabrese – e adesso a guardarla mi sembra proprio che la faccia e la provenienza coincidano: potrebbe essere solo calabrese, non siciliana o altro –, perché i lineamenti hanno qualcosa di minerale, di carbonico, come di asprezza appenninica.
– Sono tanti anni che siamo a Modena, siamo venuti nel ‘72. Io, mio marito e mia suocera.
– Dove lavorava vostro marito?
– Alla Fiat Trattori.

Una storia comune a migliaia di altri anziani cittadini modenesi giunti in quegli anni da ogni mezzogiorno possibile. Il mio quartiere è pieno. Molti finirono proprio alla Fiat, che aveva dei canali privilegiati di assunzione che agivano proprio dai paesini del sud. Si cercavano bravi campagnoli obbedienti e rispettosi, magari con la garanzia dei parroci o dei patronati bianchi. Poi quando arrivavano sulla linea di produzione le cose cambiavano, ci si sindacalizzava e del parroco ti dimenticavi presto. Il signor Tonino (non so perché immagino che il defunto marito si chiamasse così) sbarca a Modena nel ‘72, dopo aver viaggiato tutta la notte su qualche lurido accelerato partito da Reggio Calabria; la sua storia sarà stata simile a quella di tutti gli altri di quella generazione; appena arrivato sistema precariamente la vecchia mamma e la moglie in qualche stamberga o presso parenti e comincia a montare motori e scocche di trattori, in un fabbricone freddo, pieno di morchia e fumi di saldatura. Intanto bisogna imparare a parlare italiano decentemente, se no il capo turno non ti capisce; bisogna imparare a muoversi in città (in bicicletta, in mezzo alle nebbie) e piano piano cercare anche la fatica alla signora, perché con uno stipendio solo non ci campi e far lavorare la moglie qui non è vergogna.

– Signora, voi dove lavoravate (mi comincio ad appassionare)?
– Io? Eh, figlio mio. Quello che non ho fatto io. Tutto ho fatto. All’inizio andavo a casa delle signore modenesi, la mattina, cu la bicicletta. Dove mi chiamavano là andavo, pulivo, lavavo, stiravo, mi guadagnavo i miei soldini. Poi dopo sono passata “sotto al Comune”, sempre pulizzie. Poi dopo “sotto al Policlinico”, sempre pulizzie. Anni e anni.

Qui il racconto si fa un po’ ingarbugliato. La signora parla quasi tra sé: ricorda una polemica col direttore del Policlinico (così mi pare) che la giudicava troppo bassina per pulire le ragnatele in alto e lei che lo tranquillizzava, gli diceva di non preoccuparsi perché il mestiere suo lo sapeva fare. Le pulizzie.
Penso con tenerezza che quella vecchia ha pulito con scrupolo migliaia di cessi emiliani, pubblici e privati, nella sua instancabile biografia operaia.

– Andate a trovare vostro marito al cimitero?
– Eh… non solo mio marito. Anche mia figlia. Mia figlia femmina.

Mia moglie si rabbuia. Non vuole che vada troppo oltre con le domande. Si rischia di toccare qualche nervo scoperto. Ma la signora non pare ipersensibile. Si mette a raccontare lei, da donna pratica, che non ha paura dei brutti ricordi, perché tanto ormai il peggio è passato e la vita sta andando.
– Mia figlia è morta nel ‘79. C’aveva otto anni. Un tumore al cervello. Povera criatura. Mò tenesse 45 anni. Mia figlia.
Rimaniamo un po’ zitti, cosa dici davanti a una roba così? Lei abbozza anche un amarissimo leggero sorriso. Guarda avanti a sé, un improvviso spicchio di sole riflesso sul parabrezza le fa stringere gli occhi. Forse un lampo, un ricordo.
– E che bambina intelligente che era. Una volta ci ho chiesto (e qui non ho capito bene cosa le avesse chiesto, qualcosa della scuola mi pare) e lei mi ha risposto: mamma questi sono affari miei. A 8 anni! Ti sapeva rispondere così. Andava bene a scuola. Ancora me la piango. Povera criatura. Erano anni difficili. Lavoro, lavoro, sempre lavoro. Mia suocera poi era tirribile. La prima notte di nozze era venuta anche a controllare le lenzuola, all’epoca giù si faceva così. E poi è arrivata la mia bambina. E’ arrivata e subito se ne è andata.

Cala una cappa di tristezza in macchina. Siamo quasi arrivati.
– Ma avete altri figli, signora?
– Si. Il maschio. Che mò tiene 42 anni. Sta a Maranello.
– Ah bene. Così per le feste state coi nipoti.
– None. Niente nipoti. E’ separato, mio figlio – e ne parla che è tutto un sospiro.

Si capisce che il secondo, il maschio, è un po’ scapestrato, non ha seguito la retta via che sicuramente avrebbe intrapreso la bella bimba primogenita, se fosse sopravvissuta al suo destino. Immagino che questo secondogenito sia cresciuto all’ombra della sorella morta, delle aspettative deluse, delle foto bagnate di lacrime e delle memorie tristi che la sua dipartita aveva accumulato in quella casa. Magari gli era toccato dormire dentro la stessa stanza della sorella morta, piena di ricordi di lei. Anche qui immagino un presente da eterno irrisolto. Un ragazzone grosso come il padre, magari con un buon lavoro in Ferrari, ma sempre un po’ in crisi, un po’ esistenzialmente precario.
– La cumpagna così, da la sera alla mattina gli ha detto: io non ti voglio più, così, così, così e così. E se n’è andata. E l’ha lasciato solo. Il ragazzo è bravo ma si è un po’ sbandato.

Ormai siamo arrivati davanti al camposanto di San Cataldo, che ho scoperto da poco essere un cimitero monumentale, seriamente studiato da chi si occupa di questo settore di architettura (a me è sempre sembrato brutto e insignificante, con i suoi palazzoni di loculi a 4 piani color paglierino-cacarella). La signora deve scendere. Fa un po’ fatica. Mia moglie le porge la mano, le fa gli auguri e le chiede il suo nome (non ci siamo ancora presentati):
– Catarina, tanto piacere.

E dice proprio così, con due “a”, come fosse una Katarina moldava o russa. Ci fa un bel sorriso e ci ringrazia. Ai piedi porta una specie di polacchine con i calzettoni arrotolati fino alla tibia sulle calze. Potremo anche aspettarla e darle un passaggio per il ritorno, ma non vogliamo metterle fretta. Deve parlare con il suo Tonino e salutare la sua bimba adorata. Che oggi avrebbe 45 anni e sarebbe una maestra o un’impiegata del Comune, o la direttrice del vicino ufficetto postale, e parlerebbe con un mirabile accento emiliano e avrebbe anche scodellato un paio di nipotini alla vecchia signora.

Catarina passerà il capodanno in compagnia? Il figlio un po’ sbandato andrà a stare con lei almeno quella sera infame che ti assalgono tutti insieme i ricordi di 83 anni di memorie e delusioni? E se fosse rimasta nel suo paesino appenninico (non mi ha detto quale) oggi come sarebbe stata la sua vita? Quanti cessi si sarebbe risparmiata? Quanta fatica, quanta strada, per ritrovarsi da sola, sradicata da ogni idea di comunità, ad aspettare la morte in polacchine? I sufi dicono che la via del “se avessi…” conduce all’inferno. Vuol dire molla i rimpianti, quel che è stato è stato, il destino è uno, le scelte sono miraggi, illusioni ottiche. E poi cosa farebbe in Calabria, la signora? Ormai saranno andati anche tutti i suoi vecchi parenti, giù nel suo paesino dell’appennino dove magari è rimasta in piedi una vecchia casa di famiglia, tutta pietre e vento, che nessuno ristrutturerà mai. Auguri Catarina.

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