di Sandro Moiso
Saidiya Hartman, Vite ribelli, bellissimi esperimenti, Edizioni minimum fax, Roma 2024, pp. 476, 20 euro.
Anche se la prima volitiva e combattiva eroina della letteratura occidentale moderna è da rintracciare nella figura di Clorinda, la guerriera saracena, che, racchiusa in una corazza che ne nasconde le sembianze, anima il feroce ed erotico duello con il cavaliere cristiano Tancredi, nel XII canto della Gerusalemme liberata di Torquato Tasso, è vero che, ancora una volta, fu Emilio Salgari a riempire i suoi romanzi d’avventura con figure di donne dì eccezione, coraggiose, intrepide, affascinanti e, talvolta, crudeli.
Che si tratti della Perla di Labuan, ovvero Lady Marianna Guillonk, dei romanzi del ciclo della Malesia, o di Donna Dolores, marchesa del Castillo, che si batte contro l’imperialismo yankee nei due romanzi dedicati alla guerra ispano-americana a Cuba e nelle Filippine del 1898; oppure di Yalla, moglie di Nuvola Rossa, e di sua figlia Minnehaha, la Scotennatrice, che si battono per il popolo Sioux contro l’invasione bianca del West americano o, ancora, di Maria Federowna che organizza la fuga del fratello dagli orrori della prigionia in Siberia cui era stato condannato come ribelle polacco; di Jolamda la figlia del Corsaro nero o di Honorata, la Regina dei Caraibi, nel ciclo dei corsari e dei pirati delle Antille, e, per finire, di Capitan Tempesta ovvero della bellissima Eleonora, duchessa d’Eboli, che, ispirata direttamente alla figura della Clorinda inventata dal Tasso, anima le pagine dei romanzi dedicati allo scontro tra mussulmani e imperi cristiani nel Mare Mediterraneo, sempre l’autore più celebre dei romanzi di avventura ci mette al cospetto di donne giovani, belle, dallo spirito ardente e fiero, incapaci di sottomettersi alla volontà di avversari più potenti o di uomini forti più per ricchezza che per coraggio proprio.
Molto prima delle eroine dei film di George Lucas o di Tarantino e di quelle che hanno in seguito animato mille pellicole avventurose, dagli ultimi film del ciclo di Mad Max a Rebel Moon e altri ancora, sono esistite donne, giovani, belle e coraggiose che, pur non essendo né nobili né ricche o di discendenza illustre, hanno davvero messo a soqquadro la società bianca e borghese americana a cavallo tra XIX e XX secolo. Certo, non allo stesso modo delle militanti della Comune di Parigi come Louise Michel oppure come Clara Zetkin e le altre donne terroriste russe del periodo precedente la Rivoluzione russa o, ancora, le giovani operaie di San Pietroburgo che l’avevano avviata nel febbraio del 1917, ma abbastanza decise e selvagge da mettere in allarme una società che dell’oppressione di genere, “razza” e classe aveva fatto, e fa tutt’ora, il suo tratto distintivo.
Ed è proprio di queste donne e delle loro vite ribelli e “bellissime” che ci parla la scrittrice e accademica newyorchese Saidiya Hartman, nel testo pubblicato da minimum fax: Vite ribelli, bellissimi esperimenti.
La studiosa, che è nata nel 1961 ed insegna alla Columbia University, si occupa di storia culturale, fotografia e filosofia etica, nella sua carriera si è concentrata sulla cultura afroamericana e sulle intersezioni tra diritto e letteratura. Oltre che di quest’opera, pubblicata in lingua originale nel 2019 con il titolo Wayward Lives, Beautiful Experiments. Intimate Histories of Social Upheaval, è stata autrice di Perdi la madre, pubblicata in Italia da Tamu nel 2021 (qui) e di Scenes of Subjection: Terror, Slavery, and Self-Making in Nineteenth-Century America. Tra i molti riconoscimenti, ha ricevuto una borsa di studio Fulbright, una Guggenheim Fellowship nel 2018, una MacArthur Fellowship nel 2019. Nel 2022 è entrata a far parte dell’American Academy of Arts and Sciences.
Puoi trovarla nel gruppetto di attraenti teppisti e ragazze troppo sveglie che si radunano all’angolo della strada e canticchiano l’ultimo ragtime, o mentre se ne sta di fronte a Wanamaker e fissa bramosa un bel paio di scarpe esposte in vetrina come fossero gioielli. Guardala nel vicolo mentre si passa un boccale di birra con le amiche, bella e sfacciata, col suo vestito preso in saldo e i nastrini di seta; ammirala mentre si sporge dalla finestra di un palazzo, gustandosi lo spettacolo del quartiere e sfidando la forza di gravità. Imbocca una qualsiasi delle strade che attraversano la città tentacolare e la incontrerai mentre se ne va girovagando. I forestieri chiamano «slum» le strade e i vicoli che formano il suo mondo. Per lei è semplicemente il posto in cui vive.1.
E’ questo l’incipit di un libro di storia sociale che si legge, davvero, come un romanzo. E’ questa figura senza nome e senza identità ufficiale, che riassume in sé tutte le figure di donne che verranno nelle successive 450 pagine. Più che un’introduzione, La terribile bellezza dello slum, il primo capitolo del testo della Hartman, che inaugura anche il primo libro, Lei, il suo cammino errante attraverso la città, pare un trailer cinematografico tanta è la forza visiva con cui l’autrice ci porta nel mondo che intende narrare e ricostruire.
Cosa significa, infatti, desiderare una vita bella quando la sopravvivenza stessa non può essere data per scontata? Come si fa a immaginare la libertà quando si è costrette a sottostare alle regole dell’esclusione? Due o tre generazioni dopo la fine della schiavitù, le giovani donne nere scoprivano la città e le sue promesse e rifiutavano i ruoli angusti che la società aveva loro assegnato. Prima degli scrittori, prima dei predicatori e degli studiosi di questioni razziali, le ragazze nere si interrogavano sul senso profondo della libertà e scoprivano che era possibile portare avanti una vera e propria rivoluzione agendo sull’unica dimensione di cui potevano avere almeno il parziale controllo, quella della loro vita individuale.
In fin dei conti non è forse questo il motore di ogni avventura e di ogni ribellione? Contro l’ingiustizia; contro la miseria, esistenziale ancor più che economica; contro la norma abitudinaria, creata dagli oppressori ma interiorizzata dagli oppressi. E non è forse, in tante avventure, la gioventù a rivoltarsi contro, non la vecchiaia, ma contro un mondo vecchio, nelle sue forme e nelle sue leggi?
Per descrivere il mondo attraverso gli occhi delle donne nere, giovani e ardimentose, Saidiya Hartman parte dagli archivi – fascicoli della polizia, articoli, album di famiglia, resoconti dei sociologi – da cui trae l’ossatura delle vicende che racconta. Soprattutto dalle fotografie d’epoca e d’archivio di cui, fin dalle prime righe, trasmette al lettore la grande forza documentaristica ed evocativa. Fotografie, come quella di Ada Overton Walker usata per la copertina che pare riassumere in sé, in un unico scatto del 1917, tutta la bellezza e l’orgoglio contenuti nelle storie narrate.
Vite ribelli, bellissimi esperimenti racconta storie di amore liberissimo, di madri «single» ma tutt’altro che sole, di lavori umilianti rifiutati e di affetti nati dentro le stanze di un carcere femminile. Riportare alla luce ciò che è stato cancellato o rimosso, dare la parola al silenzio: questo è il lavoro straordinario che Hartman svolge con rigore e partecipazione, incrociando le storie di queste donne disobbedienti a quelle di personaggi e vicende più noti, ma lasciando che sia sempre «il coro» ad occupare il centro della scena.
Differenziandosi da tanto accademismo afro-americano, ma non solo, che ha dato della condizione nera una formulazione che di fatto la assolutizza, privandola di qualsiasi possibilità e capacità di rottura con l’esistente:
Saidiya Hartman enfatizza la capacità di resistere della gente nera. In Vite ribelli, bellissimi esperimenti impiega il metodo della “affabulazione critica” per svelare le storie delle giovani donne nere e delle persone di genere non tradizionale negli Stati Uniti a cavallo del ventesimo secolo. In città come New York e Filadelfia, queste donne, a poche generazioni di distanza dalla schiavitù, erano sottoposte a nuove forme di razzializzazione e di asservimento e oppressione di genere. Hartman argomenta che queste donne nere erano impegnate in “piccole” rivoluzioni “per costruire vite autonome e bellissime, sottrarsi alle nuove forme di asservimento che le attendevano, e vivere come se fossero libere”. Hartman crea una contro-narrazione rispetto ai documenti ufficiali, nei quali troviamo silenzio o rimozione quando cerchiamo prove di queste vite ribelli. In una breve annotazione teorica, ci ricorda che il termine “ribelle” fa parte di una famiglia di parole che include “errante, fuggitivo, recalcitrante, anarchico, ostinato, spericolato, fastidioso, riottoso, tumultuoso, ribelle e selvaggio”2.
Per la Hartman, sempre secondo Okoth:
l’abolizione formale della schiavitù negli Stati Uniti non ha prodotto una reale discontinuità nella violenza razziale. Troviamo oggi i segni di tale violenza nelle “ridotte chance di vita, nel limitato accesso alla salute e all’educazione, nelle morti premature, nelle incarcerazioni e nell’impoverimento” della gente nera. L’abolizione formale e la Ricostruzione non hanno portato all’emancipazione. Questi eventi sono piuttosto serviti come tappe della “transizione fra modi di servitù e subordinazione razziale”. Mettendo in primo piano il violento processo di subordinazione razziale, Hartman vuole mostrare che la violenza della schiavitù non è limitata alla “costruzione dello schiavo come oggetto”; infatti l’umanità dei soggetti resi schiavi era fondamentale per il progetto di subordinazione razziale. I neri, perciò, non sono oggetti subumani, come affermano Wilderson, Sexton e Warren3, bensì soggetti razzializzati che sono assolutamente parte della sfera sociale e politica4.
Il documento fotografico, come si è già detto prima, è importantissimo all’interno di una ricerca in cui l’enfatizzazione e la comprensione dell’ambiente urbano di provenienza dei soggetti analizzati, ovvero delle giovani donne afro-americane povere del periodo compreso tra la grande migrazione a Nord e il Rinascimento di Harlem cui avrebbe posto fine la grande crisi economica a cavallo tra anni Venti e Trenta, svolge un ruolo chiave.
Non capiteresti mai nel suo isolato a meno che tu non ci abiti, o ti sia perso, o non te ne vada in giro in cerca dei piaceri forniti dall’altra metà del mondo. I voyeur nelle loro spedizioni nei bassifondi si nutrono della linfa del ghetto, la desiderano e al tempo stesso la disprezzano. I sociologi e i benefattori con le loro fotocamere e i loro studi non sono tanto meglio, intenti a osservare tutti quegli strani esemplari. Il suo distretto è un labirinto di vicoli sporchi e cortili malconci. È Africa Town, il quartiere nero, la zona dei nativi. Italiani ed ebrei, fagocitati per prossimità, scompaiono. Celato dietro la facciata della metropoli ordinata, c’è un intero mondo: gli edifici non ancora fatiscenti e le case dignitose che affacciano sulla strada nascondono i caseggiati del vicolo in cui vive. Imboccando il passaggio laterale che porta al vicolo, si varca la soglia di un mondo turbolento e rumoroso, un luogo definito dal tumulto, dal volgare collettivismo e dall’anarchia. È una fogna umana popolata dai peggiori elementi. È il regno dell’eccesso e dell’esagerazione. È un luogo di dannazione. È la piantagione estesa alla città. È un laboratorio sociale. Il ghetto è uno spazio di incontro. […] una comunità urbana in cui i poveri si riuniscono, improvvisano forme di vita, sperimentano la libertà e rifiutano quell’esistenza servile che gli è stata ascritta. È una zona di estrema privazione e di spreco scandaloso. Nei caseggiati popolari gli onesti convivono serenamente con i dissoluti e gli immorali. Il quartiere nero è un luogo privato di ogni bellezza e stravagante nel suo modo di sfoggiarla. […] Nello slum scarseggia tutto tranne le sensazioni. L’esperienza è troppa. La terribile bellezza è più di quanta si potrebbe mai sperare di assimilare, ordinare e spiegare. I riformatori sociali scattano foto agli edifici, alle kitchenette5, ai fili stendibiancheria e alle latrine. Lei passa inosservata mentre li scruta dalla finestra del terzo piano della casa nel vicolo in cui vive, ridendo della loro stupidità. […] Si chiede cosa li affascini tanto nei fili stendibiancheria e nelle latrine. Fotografano sempre la stessa roba. Le mutande dei ricchi sono tanto meglio di queste? Il cotone è così diverso dalla seta ed è esteticamente meno bello drappeggiato come uno striscione da una parte all’altra della strada? I forestieri e gli «uplifter»6 non capiscono, non colgono il punto. Vedono solo un tipico vicolo del quartiere nero, ciechi agli scambi di sguardi e ai morsi del desiderio che sconvolgerebbero le loro didascalie lasciando intravedere la possibilità di una vita che va oltre la povertà, un tumulto e uno sconvolgimento che non possono essere arrestati dalla fotocamera. Non riescono a discernere la bellezza e vedono soltanto il disordine, non si rendono conto che la gente nera crea la vita e trasforma i bisogni basilari in un’arena di elaborazione.[…] I giornalisti sbottano sulle pagine dell’Harper’s Weekly: «Oltre agli ebrei, nei caseggiati, tra scene di indescrivibile squallore e abiti pacchiani, ci vivono i neri, facendo una vita spensierata tra piaceri mondani, confusione, musica, rumore e lotte feroci che li rendono spaventosi sia per i vicini bianchi che per i proprietari di casa». Indignati alla vista di domestiche, inservienti e stivatori in abiti eleganti, di ragazzi dell’ascensore con copricapo stravaganti che si pavoneggiano all’angolo della strada, di neri esteti felici di buttar via soldi in lussi, ornamenti e luccichii, i sociologi li esortano a imparare il valore del denaro dai vicini italiani ed ebrei. I neri devono abbandonare il lassismo, l’indulgenza sessuale e gli eccessi sfrenati, usanze tipiche degli schiavi. Il passato-presente di servitù involontaria si manifesta per le strade, e la famiglia, completamente distrutta dalle navi schiaviste e dalla promiscuità delle piantagioni, viene ora distrutta di nuovo, sfasciata perché accoglie estranei. I sensi sono iperstimolati e sopraffatti. Guarda e lascia che gli occhi riescano a cogliere tutto: quegli splendidi teppisti nel cortile, in riga come sentinelle; la smodata esposizione di splendide fioriere sistemate sul davanzale di un caseggiato, le lenzuola, i fazzoletti con le iniziali ricamate, le calze di seta ricamate, l’intimo di una prostituta appeso al filo sul vicolo, quasi a sfoggiare rapporti clandestini, vite ribelli, faccende carnali. Donne con pacchetti legati con lo spago sfuggono come ombre. La luce violenta alle loro spalle le trasforma in silhouette; forme scure e astratte prendono il posto di chi sono davvero7.
Per scoprire il meraviglioso segreto e le vicende racchiuse nelle oltre oltre quaranta biografie contenute nel testo non resta ora altro, per il lettore, che sprofondarsi nella sua lettura, per esserne affascinato e stimolato come avviene con tutti i migliori romanzi di avventura.
S. Hartman, Vite ribelli, bellissimi esperimenti, Edizioni minimum fax, Roma 2024, p. 19. ↩
Kevin Ochieng Okoth, Red Africa. Questione coloniale e politiche rivoluzionarie, Meltemi Editore, Milano 2024, pp. 43-44. ↩
Autori e ricercatori accademici appartenenti alla corrente definita da Okoth come Afro-Pessimismo 2.0. Si veda la recensione del testo di Okoth su Carmilla qui ↩
Kevin Ochieng Okoth, op. cit., pp. 42-4. ↩
Minuscoli appartamenti diffusi, a partire dagli anni Venti, soprattutto nei quartieri abitati dalla comunità afroamericana di Chicago e New York, ottenuti suddividendo abitazioni più grandi per massimizzare il profitto. ↩
Persone che si dedicavano alla cosiddetta «elevazione della razza», ossia al miglioramento sociale, culturale, intellettuale e morale delle persone nere. ↩
S. Hartman, op. cit., pp. 19-23. ↩