di Franco Pezzini
(Per le parti precedenti, cfr. qui)
Attraverso Il golem (II)
Ormai – siamo circa a metà del romanzo – il lettore ha (o dovrebbe aver) capito che ci troviamo in una delle grandi fantasie romanzesche dell’Occidente moderno sul tema del Doppio, mixata con robuste dosi di spunti modernistici (la “coscienza”/vita interiore, inconscio e subconscio, il sogno, il rimosso, un protagonista più o meno malato o pasticcione in balia degli eventi), una certa quantità di suggestioni esoteriche – ma soprattutto mistiche, nel recupero un po’ sincretico di varie tradizioni, compresa quella spirituale della kabbalah – e di critica di costume coi soliti bersagli di Meyrink. Quest’ultimo aspetto troverà sviluppo soprattutto nelle seconda parte che ci avviamo ad affrontare – con critiche e satira durissimi sulle agenzie di ordine pubblico, il potere, le istituzioni. Quelle robe insomma che piacciono tanto agli eredi esoterico/politici del Gruppo di Ur che a tutt’oggi cercano di annettersi l’autore (nella ola di un certo fandom nerd) senza neppure rendersi conto della contraddizione. Il che la dice lunga sulla accuratezza, serietà e lucidità di certa critica nostrana.
A questo punto la storia ha un brusco strappo in avanti, tanto che al narrante sembrano passati mesi. Mentre Pernath, da raffinato intagliatore di pietre preziose, vagheggia di riprodurre sulla selenite il volto di Mirjam – invece che, come inizialmente pensato, il dio egizio Osiride e l’Ermafrodito del libro Ibbur – al contempo medita sulla propria solitudine: di certe cose può parlare solo con Hillel… ma piomba lì Angelina, sconvolta. Wassertrum ha raggiunto il capezzale di Savioli e vuole che si tolga la vita minacciando altrimenti lo scandalo sulla sua amante. La dama è pronta a rivelare tutto al marito, pur di salvare la vita dell’amato, ma Pernath, baciandola, le spiega che le lettere compromettenti sono in salvo. Sollievo entusiastico di lei.
Pernath apprenderà poi da Charousek che Wassertrum aveva cercato le carte. Lo studente finisce con il confessare il segreto dell’odio che lo anima, Wassertrum era suo padre e ha costretto sua madre a cedergli per poi venderla a un postribolo, grazie al fatto che il rigattiere “è in combutta con funzionari della polizia”. L’orrido e tormentato figuro l’ha venduta quando ha scoperto di amarla…
Quella però di donare una gemma incisa a Mirjam si dimostra un’operazione complessa; la povertà di lei non permette che accetti facilmente. Pernath cerca di spiegarle che deve tanto al dono interiore offerto da Hillel, e finisce col raccontarle la propria storia – in modo più agevole di quanto sentisse di poter fare con il suo eccelso padre. Un personaggio di statura troppo elevata persino per la figlia: alla morte della moglie che pure amava molto, non era riuscito a condividere davvero la terribile sofferenza della figlia. Mirjam vive nell’attesa di un miracolo, vedendo in esso il nocciolo più essenziale delle Scritture (potremmo parlare di Provvidenza): e sa che un giorno sarà ridestata. Ma aiutarli materialmente – come Pernath vorrebbe fare – significherebbe toglier loro la possibilità di vivere un miracolo…
Appare Hillel, che in presenza di sua figlia dà a Pernath del lei, marcando un distacco. Solo quando sono soli gli chiede se intenda consultarlo “sulla faccenda riguardante la giovane signora”. Ha saputo che ha dato dei soldi a Charousek e lo mette in guardia dal cercare di risolvere le situazioni in quel modo; quanto alla giovane dama, non gli pare sia minacciata al momento da pericoli e ritiene sia meglio non far nulla. Mai gli ha “parlato con un tono così freddo e minaccioso” e Pernath non capisce il perché.
Rientrato in casa, vi avverte una tensione incomprensibile e scivola in una sovraeccitata esperienza onirica. Una strana creatura grigia, con un globo di vapori al posto della testa, gli tende con insistenza dei grani simili a fagioli: “Che avrei dovuto farne?”. Pernath sente una responsabilità immane pesare su di lui… “Due piatti della bilancia, ognuno gravato dal peso di un emisfero del mondo, sono sospesi in qualche parte del Regno delle Cause, intuii – quello su cui gettassi un granellino, tracollerebbe al suolo”. E se non scegliesse, sarebbe come respingere i grani… Poi, in una notte inquieta in cui Wassertrum armeggia imprecando nell’atelier e nella visione lunghe file di “rigide maschere morte” – gli antenati di Pernath – culminano in un ultimo volto, quello del golem, appaiono intorno a lui due schiere, abbigliate l’una di violetto, l’altra di nero e rosso: capisce che dovrà prendere una decisione. Colpisce dunque la mano dello spettro coi grani, che rotolano per terra: le figure del cerchio rosso spariscono, quelle del blu sollevano in alto i grani…
Una tempesta si abbatte allora sulla città e una voce accanto a Pernath lo invita a restare calmo, “oggi è la Lelschimurin, la notte della Difesa”. Poi echeggia la frase “Colui che cercate non è qui”, il primo che ha parlato mormora qualcosa in cui ricorre il nome Enoch, cioè l’iniziato, e una delle figure fa comparire sul petto del Nostro la frase in caratteri prima latini, poi diversi e sconosciuti, CHEBRAT ZEREH OR BOQER (più o meno “Confraternita dei discendenti della luce del mattino”): allora Pernath cade in un sonno profondo senza sogni. Inevitabile pensare alla quantità di gruppi iniziatici cui s’era affiliato Meyrink, ma qui il contesto – è bene sottolineare – è essenzialmente onirico, un teatro di maschere e simboli interiori.
Le giornate sono piene, Pernath ha finito la gemma di cui ora Mirjam è felice, restaurato la lettera I del libro (che peraltro, nella realtà, gli appare un’edizione bella ma comune in ebraico, lingua che non capisce)… e scopre che, forse proprio mentre faceva cadere i grani, è crollato il ponte di pietra sul fiume. Gli tornano dunque in mente le volte in cui l’ha percorso, ma anche le cose della giovinezza e la casa dei genitori; e bacia la foto di Angelina. Vagheggia anzi di poter intrattenere una relazione con lei, hai visto mai che il marito muoia improvvisamente… e “Non era un miracolo […] che nello spazio di poche settimane si fossero destate in me capacità artistiche che già ora parevano di gran lunga al di sopra della media?”. Ma capisce che deve pensare a Mirjam, alla quale ha procurato artificiosamente un piccolo miracolo, una moneta entro la forma di pane del fornaio… Anche se ora si preoccupa di averlo fatto, ripensando ai discorsi con loro: “La nobiltà dell’intento non mi scusava in alcun modo: il fine non giustifica i mezzi, vedevo bene”. Di nuovo un uomo senza qualità, goffo come Zeno Cosini, che combina pasticci…
Mentre sta pensando a condurre Mirjam a fare un giretto, piomba da lui Wassertrum, untuoso e brutale come sempre, con un orologio malconcio da far riparare: Pernath non realizza che il nome lì inscritto e faticosamente decifrato, Zottmann, è quello del tipo assassinato. In un linguaggio smozzicato, Wassertrum inanella una serie di allusioni volgari su Angelina: Pernath ribatte che i ricatti non arrivano a nulla, e quando il rigattiere mostra tutta la sua arroganza, il Nostro starebbe per passare alla violenza – ma compare Hillel. Alla sua presenza luminosa, il rigattiere è costretto a battere in ritirata, e si fa restituire l’orologio da Pernath.
Mentre Charousek latita, il Nostro si pastura in fantasie su Angelina, Mirjam e persino Rosina, ma dialoga anche con il proprio doppio e gli pone una serie di domande sui cose terrene e ultraterrene. Comincia a intuire che Mirjam vive forse un tessuto di eventi segreti simili ai suoi. La ragazza spiega che se mai scoprisse che l’episodio della moneta non era un miracolo ne morirebbe di delusione (un annuncio che terrorizza Pernath) ma poi non vuole affliggerlo con discorsi tristi e lo consola. Tanto più per la sensazione che gravi su di lui un grosso pericolo… Emerge poi che la madre di Mirjam avrebbe dovuto sposare Wassertrum, ma non l’ha fatto: e con lei è stato “sempre cordiale e buono”. Ma è un uomo tormentato, che non accetta la pietà degli altri: “un invasato – un uomo che diventa subito diffidente, in modo irreparabile, quando qualcuno gli tocca il cuore”, e vede “odio e tradimento dappertutto”. Unica eccezione, verso il figlio amatissimo; ma nella bottega tiene una figura di cera somigliante a una propria antica amante – “La madre di Charousek”, pensa Pernath. Che poi scherza con Mirjam in modo galante: la ragazza ha il sogno di sposarsi, vagheggia di fondersi con un altro essere come nel culto egizio di Osiride per dar luogo all’Ermafrodito, “unione magica dei generi maschile e femminile in un semidio […] principio di una vita nuova, eterna – che non ha fine”. Ma lei ha appena chiesto, per favore, di non parlare più di quel tema e appare Angelina, ciangottando capricciosa per portare Athanasius a fare la stessa gita in carrozza che lui aveva proposto a Mirjam. La quale si ritira in buon ordine: “Era come se avessi perduto tutto un mondo”, commenta lui. Ma poi esce con Angelina.
La dama, archiviato come noioso Savioli ormai fuori pericolo, vuole “tornare finalmente a godere” e si mostra civettuola: han sognato l’uno dell’altra, lui invaghito torna a casa ore dopo… però dopo quel pomeriggio vertiginoso si sente estraneo al proprio squallido alloggio e comprende che di quella felicità resterà solo “un dolce, dolente ricordo”. Così, prima di rientrare nel ghetto, torna a gettare col buio uno sguardo alle finestre dietro le quali Angelina dorme, ma si perde nella nebbia: finisce nel Vicolo degli Alchimisti e a sbattere contro un cancello di legno sul fondo, lì bussa a una finestra e vede un uomo vecchissimo dagli occhi vuoti tra storte e alambicchi…
Ripresa la strada, decide di soffocare la brama dei baci di Angelina con qualche ora in compagnia dei tre vecchi amici, e ascolta così da Zwakh la storia dell’assassino Babinski (di cui al già citato racconto su “Die Ernte”). Poi fanno parlare Pernath che racconta come si sia perso nel buio, abbia visto il misterioso alchimista (“Ma possibile…! Questo Pernath vive in prima persona tutte le leggende che ci sono”) – e gli spiegano che il presunto golem del ghetto è stato identificato banalmente nel mendicante ebreo Haschile che aveva recuperato in un portone degli antichi abiti (quelli appunto dismessi da Pernath). Quanto alla casa nel Vicolo degli Alchimisti si tratterebbe di una dimora arcana, “visibile soltanto con la nebbia e unicamente a persone elette dalla fortuna”, detta “il Muro all’Ultima Lanterna”: di giorno c’è solo una grossa pietra grigia e poi un precipizio, Pernath è stato fortunato a non fare un passo di più. Sotto la pietra si troverebbe un tesoro immenso sepolto dall’Ordine dei Fratelli Asiatici pretesi fondatori di Praga, “a fondamento di una casa che sarà abitata alla fine del mondo da un uomo, o per meglio dire da un Ermafrodito, una creatura che è uomo e donna insieme” e avrà nella propria insegna l’immagine della lepre simbolo di Osiride. A custodire il luogo starebbe Matusalemme in persona, per evitare che Satana fecondi la pietra e nasca un figlio, Armilos dai capelli d’oro, “occhi falcati e braccia lunghe sino ai piedi”. È possibile che i tratti asiatici del golem trovino qualche nesso proprio coi Fratelli Asiatici della fondazione di Praga.
Lasciati bruscamente gli amici intenti a discorsi un po’ pesanti suscitati dal grog, Pernath muove verso casa nella nebbia e si sente chiamare. Subito dopo, Rosina si stringe ardente contro di lui…
Si sveglia tardi, l’indomani, nella casa squallida, evidentemente dopo una sordida esperienza sessuale con la ragazza; e medita d’impiccarsi. I messaggi “dal regno dell’immortalità”, gli pare, non sono serviti a niente. Potrà ritirare il denaro e lasciare a Mirjam le sue pietre preziose, a Hillel una lettera in cui chiarisce la sua goffaggine col “miracolo”, ad Angelina un mazzo di rose. Ma arriva Wassertrum, che spera di non essere stavolta interrotto da Hillel: si finge amichevole e in pegno della pace fatta vuol donargli l’orologio già visto. Peccato che l’interruzione arrivi egualmente, è Charousek, che sa che Pernath non è solo e affetta tutta una commedia celebrando con lodi sviolinate la generosità di Wassertrum (che non si fa vedere). Lo studente racconta di non sapere chi fosse il proprio padre e di non aver mai visto sua madre – che però ha amato molto il padre, come attesta in una pagina strappata dal proprio diario e in suo possesso: dove però emerge anche la crudeltà di lui. Quindi Charousek cade in ginocchio maledicendo il genitore… e gli augura “la più orrenda delle fini che si possano immaginare”. Continua poi la commedia proclamando il suo affetto per il figlio di Wassertrum, il dottor Theodor Wassory e il suo dolore per il suicidio – in realtà causato da lui stesso – di quell’impagabile amico: chiede anzi che Pernath consegni a Wassertrum la boccetta del veleno memore di quell’infelice e una rosa tratta dal petto della sua salma… Pernath lo accompagna per le scale, non intende favorire il suicidio del rigattiere, ma Charousek spiega che il tipo si è certo già appropriato della boccetta e la suggestione psicologica ha fatto effetto:
Non c’è che il pathos più ripugnante a far presa su simili fottuti! Mi creda! Via via che parlavo, avrei potuto disegnarle le espressioni della sua faccia, a ogni mia frase. Nessun kitsch – come lo chiamano i pittori – è abietto abbastanza, per non agire da strappalacrime sulla massa intrisa sino al midollo di menzogna, per non colpirla direttamente al cuore! Se fosse diversamente, non crede che già da un pezzo tutti quanti i teatri sarebbero stati messi a fuoco? La canaglia la riconosci dal sentimentalismo.
Pernath è sconvolto. Poi Wassertrum passa loro accanto, e il Nostro rientrando in casa trova l’orologio al posto di boccetta e rosa: il rigattiere, come previsto dal manipolatore Charousek, se n’è in effetti appropriato.
Ma in banca Pernath non riesce a ritirare subito i suoi soldi – occorrono otto giorni – dunque non può ancora suicidarsi; in compenso un losco tipo dall’occhio di vetro ha preso a seguirlo, e la sera lo incantona e lo arresta. È un agente, scopre, della polizia segreta e lo trascina al posto di polizia. Lì il commissario cerca di confonderlo con domande su Angelina e Savioli, si finge un amicone e un amico del padre, ma Pernath resiste, finché quello non sbotta: “Assassino!”. E alla fine il Nostro capisce. Era stato ucciso quello Zottmann il cui nome campeggia sull’orologio: dunque, nonostante le minacce del commissario, Pernath fa mettere a verbale che l’orologio gliel’ha regalato quel mattino il rigattiere Wassertrum.
Tradotto in un carcere che sembra riproporre l’esperienza claustrofobica della stanza murata, vive tutte le brutture della situazione – qui Meyrink parla di esperienze vissute – con le angosce aggiuntive della situazione specifica, le carte di Angelina probabilmente in mano ai poliziotti e a Wassertrum… ma poi si tranquillizza pensando che a vegliare sulla situazione c’è Charousek. In cella trova anche il butterato Loisa, accusato lui pure dell’omicidio Zottmann, che gli chiede di Rosina.
Portato davanti al giudice istruttore barone Karl Zampadigatto, Pernath rifiuta di ammettersi colpevole e viene ributtato in cella. Passano le settimane, sulle vicende di Angelina è fatalista, mentre “Era la sorte di Mirjam […] a rendermi quasi folle di disperazione”. Abbrutito dalla vita in cella si pone domande sui propri amici: l’unica proccupazione delle autorità – e del medico del carcere dottor Petaldirosa – è che nessuno si impicchi. Una lima, comparsa inopinatamente in cella, viene fatta sparire da Loisa poi trasferito in un’altra.
Da tre mesi Pernath è in carcere, si angoscia che Mirjam possa essere morta; nessuno lo interroga – ed è ormai maggio, quando Zwakh usa battere la provincia coi suoi burattini. L’incendiario Vóssatka suo compagno di cella viene liberato, Loisa è evaso, il nuovo arrivato Wenzel fa in modo di sbagliare cella per recare un messaggio a Pernath: è uno sgrammaticato membro del “battaglione” del dottor Hulbert, gli porta una lettera di Charousek e lo esorta a fingere una crisi epilettica per fuggire, mostrandogli come fare.
Ma Pernath non vuole evadere, vuol essere scarcerato. Apprende da Wenzel notizie che lo deludono: Angelina ha divorziato ed è partita con la figlia e l’amante (“Mi ero dato tanta pena per amor suo, e adesso… ero già dimenticato”, forse lo credeva un assassino), mentre su Mirjam non sa nulla. Quanto a Wassertrum è stato assassinato con una lima in gola – da Loisa, il cui coltello è stato fatto sparire da Wenzel. Quando questi viene riportato alla cella giusta, Pernath legge ansioso la lettera di Charousek. Che lo tranquillizza: l’omicidio di Zottmann è stato commesso da Loisa, il fratello Jaromir ha trovato l’orologio e l’ha venduto a Wassertrum. A quel punto Charousek ha dato mille fiorini a Jaromir (e “solo Angelina poteva aver dato quella somma a Charousek”, dunque non si è dimenticata di lui), per cui il tipo testimonierà come abbia avuto l’orologio e Pernath verrà liberato. Charousek, malato di tisi, sa peraltro che morirà presto. “Una cosa però è certa: noi ci rivedremo”. Non tra i vivi e neppure tra i morti: ma in una situazione diversa, nota ai cabalisti. Una volta ha creduto anzi di vedere sul petto di Pernath un segno: probabilmente la citata scritta mistica della visione notturna. Quanto a Wassertrum, alla fine d’aprile la suggestione del diabolico studente stava iniziando ad agire su di lui: aveva anche fatto testamento ed era andato da un notaio. Nominando proprio erede proprio Charousek… il figlio tradito, l’unico al mondo per cui potesse riparare qualcosa, forse anche per la speranza di neutralizzarne la maledizione. Ma a quel punto, mentre Charousek attendeva il suicidio di Wassertrum, era arrivato qualcun altro ad ammazzarlo con una lima. Col risultato che ora Charousek si sente un reietto, “strumento giudicato indegno di stare nella mano dell’angelo della morte”. Potrà ancora versare il proprio a seguire quello del padre odiato… cui non offrirà appigli nell’aldilà, non toccherà un soldo di quell’eredità: metterà all’asta le case, brucerà gli oggetti e garantirà a Pernath un terzo del valore – a compenso di quanto Wassertrum, ha scoperto, aveva predato al di lui padre. Un altro terzo sarà diviso tra i dodici membri del “battaglione” che hanno conosciuto Hulbert;
L’ultimo terzo andrà in parti uguali ai prossimi sette assassini per rapina del paese, che vengano prosciolti per insufficienza di prove.
Di questo andavo debitore alla pubblica indignazione.
Terribile e insieme tenerissimo, Charousek è più puro – riflette il Nostro – di tanti uomini devoti.
Ma il giorno dopo in cortile Pernath conosce un altro di questi peccatori straordinari, quando viene avvicinato da un altro prigioniero, il delicato Amadeus Laponder. Reo confesso, scopre con sorpresa, nientemeno che di assassinio con stupro. Condividono la cella, Pernath è impressionato e preoccupato di quella presenza in apparenza così urbana, educata e metodica (anche nel piegare e appendere gli abiti la sera): e di notte, quando un raggio di luna gli batte sul viso, lo ode ripetere più volte “Lasciami”. Pernath è talmente impressionato dalla presenza dello stupratore assassino da non riuscire a dormire, e una notte sente la voce di Mirjam, “Interrogami. Interrogami”. Viene dalle labbra di Laponder, e quando Pernath pronuncia il nome di lei riceve una conferma: “Ella parlò del suo amore per me e della felicità indicibile di esserci finalmente ritrovati – e di non mai più separarci – in furia – senza pause – come chi tema d’essere interrotto e vuol approfittare d’ogni secondo”. E quando lui le chiede se sia morta, la voce risponde “No. Io vivo. Dormo”. Poi, dopo una pausa, arriva la voce di Hillel, che a più riprese lo chiama “Henoch!”, cioè l’iniziato, e gli spiega di non angustiarsi per Mirjam (e, sottinteso, per la storia del finto miracolo): spera di rivederlo, ma – come emerge a frasi spezzate e non del tutto comprensibili – potrebbe non riuscire perché partirà per la Palestina, verso Gad. Sopita quella voce, arriva quella di Charousek, ma con la frase di chiusura della sua lettera: “Stia bene e si ricordi qualche volta di me”.
Chiusa l’esperienza, Pernath si sente in colpa per non aver visto in Laponder altro che un deliquente, e mai l’uomo: è palesemente un sonnambulo (come il Cesare del Gabinetto del dottor Caligari, 1920, dunque di poco successivo), sotto l’influsso della luna piena. Quando si sveglia, gli chiede scusa e Laponder mostra di comprendere; e alla domanda su cos’abbia sognato, risponde che non sogna mai – ma si sposta, esce dal corpo. Quella notte, racconta, si trovava nella strana stanza senza porta a cui si accede da una botola. Ma c’era un letto, in cui dormiva una bambina, e un uomo le teneva la mano sulla fronte. Mirjam e il padre… e dalla scala si scendeva in una stanza “dove stava un uomo con fibbie d’argento alle scarpe, una strana figura, come non ne ho mai viste: di colorito giallo in faccia e occhi obliqui; era chino in avanti e pareva aspettare qualcosa”. C’era anche un libro di pergamena che iniziava con una grande A d’oro… poi a un tratto Laponder fissa il petto di Pernath come a sua volta vi scorgesse qualcosa. Per cui gli afferra la mano e lo supplica di dirgli tutto, rivelazioni che lo riguardano da vicino: c’è poco tempo, di lì a poco gli comunicheranno la condanna a morte e lo porteranno via…
Così Pernath inizia il racconto degli strani eventi occorsigli, e quando cita la figura acefala che ha offerto i grani e lui li ha fatti cadere, Laponder commenta stupito che non avrebbe pensato a una terza via. Quei grani significano le forze magiche, non li ha rifiutati né accolti ma resteranno custoditi fino al tempo della germinazione. “Si vivificheranno allora le forze che adesso ancora sonnecchiano in lei”, custodite dai suoi antenati, le persone del sogno irradianti luce blu. Quando Pernath racconta di Mirjam e dell’Ermafrodito, Laponder piange, cereo… Nell’uccidere, spiega, non era libero di scegliere, ma considera la sentenza giusta: non è pazzo, ma pericoloso. Quando anche a lui era apparso il fantasma coi grani, li aveva presi e dunque ha percorso la via della morte. Comunque, si lascerà guidare dallo Spirito, anche fino al patibolo, così sarà libero.
Pernath ha perduto per l’ipnosi di un medico la memoria della giovinezza: “È questo il contrassegno – la stimma – di tutti coloro che sono stati morsi dal ‘serpente del regno dello spirito’” (facendo nel corso della propria vita “quel che nell’intera razza appare durante una generazione” e ritrovandosi alla fine profeti); e l’estinzione della memoria – tra un “prima” e un “dopo” – prende quel posto tra una vita e l’altra che in altri casi è della morte. “[…] l’attesa dell’ascesa al trono del proprio ‘io’ è l’attesa del Messia”, e all’incoronazione del re si spezzerà il legame col mondo. Laponder completa insomma la formazione di Pernath avviata da Hillel (triangolo dell’iniziazione).
Più che esoterica, insomma, la soluzione è mistica, ma insieme psichica ed esistenziale. Come le foglie portate dal vento di cui sopra, come i burattini degli spettacoli dei tre vecchi amici, il sonnambulo resta un archetipo del dominio da parte di forze altre: e burattinesche, nel senso di creature agite da incubo alla Caligari, si potranno definire varie figure della produzione meyrinkiana (si pensi all’inquietante Zrcadlo di Walpurgisnacht, 1917). Ma in questo senso burattinesca è la stessa realtà del ghetto, percorsa a ondate periodiche come da febbri pneumatiche, e ipostatizzata nello spettro del golem, spirito elusivo che sembra fondersi e confondersi nel vissuto profondo degli stessi abitanti. Laponder aspettava da Pernath una chiave, la storia dell’Ermafrodito, e ora è sereno. Arrivano a prenderlo, per impiccarlo l’indomani.
Per mesi Pernath sarà ancora in carcere, tormentato dalla brutalità della situazione e dall’angoscia: dalle parole di un arrestato gli è sorto il panico che la ragazza stuprata e uccisa da Laponder fosse Mirjam. E finalmente a inizio novembre (ma l’atto è di luglio, visto che il suo nome inizia per P, “e naturalmente nell’alfabeto si trova verso la fine”, continua la polemica contro la giustizia) viene prosciolto – e alla lettura perde i sensi. Apprende anche ufficialmente di essere erede di Charousek, suicida a maggio a faccia in giù sul tumulo di Wassertrum: “Aveva scavato due profonde buche nella terra, poi s’era tagliato i polsi e infilato le braccia in quelle buche. È morto dissanguato”. Si chiude così intorno a Wassertrum una nuova struttura triadica (triangolo dei suicidi) comprendente il figlio Wassory, la nemesi Charousek e lo stesso Pernath come aspirante suicida (che però con Wassertrum e Savioli rientra con altrettanta ragione in un triangolo dei suicidi mancati).
Rilasciato a mezzanotte dopo aver recuperato i propri beni, ma con le gambe quasi incapaci di funzionare, si fa portare rapidamente da una vettura in Hahnpassgasse 7, ansioso di vedere Mirjam. L’autista obietta che lì non si arriva, stanno risanando il quartiere ebraico. Ma arrivando alla casa, poco resta in piedi. La gente, oltretutto, è stata sgomberata per via del tifo; l’unico che pare di poter rintracciare è Jaromir, che a gesti comunica come tutti i suoi vecchi contatti siano partiti o scomparsi – anche Mirjam… con strazio di Jaromir, Rosina è divenuta l’amante di un principe.
In attesa di incassare i soldi, i propri e l’eredità, Pernath vende le pietre per affittare due stanzette in un punto risparmiato dallo sventramento del quartiere, nella soffitta di una casa dove una volta il golem sarebbe sparito. La notte di Natale si porta a casa un piccolo albero con candeline rosse; poi intende partire a cercare Hillel e Mirjam. E quella notte, per un attimo, il suo doppio appare sulla soglia della stanza, coronato e biancovestito. Ma subito dopo Pernath si rende conto che è scoppiato un incendio, fugge sul tetto, e mentre si sta calando giù con la corda di uno spazzacamino – come l’uomo che aveva tentato di occhieggiare dalla finestra della stanza murata, rimettendoci l’osso del collo – gli pare di vedere Hillel e Mirjam nel riquadro della finestra. Perde la presa – restando nella stessa postura dell’Appeso dei Tarocchi – e scivola tentando invano di afferrarsi al davanzale, di pietra liscia come un pezzo di grasso. Ma lui non muore nella caduta, e simbolicamente riesce a vedere la stanza segreta del Sé.
Ora l’uomo che nel suo letto d’albergo ha vissuto quest’esperienza interiore in neanche un’ora di sonno – e non si chiama affatto Pernath – si alza e prende il cappello che ha scambiato per sbaglio durante la messa nella cattedrale. Nella fodera appare a lettere d’oro il nome Athanasius Pernath. Senza por tempo in mezzo, vestitosi, corre dunque all’indirizzo ben noto nel quartiere ebraico – dove pure, l’avverte il custode, “non c’è più molto”. Con lui, avvolto in un foglio è il cappello di Pernath: ed eccolo raggiungere Hahnpassgasse, trovandola completamente diversa – e così pure il caffè Loisitschek. Apprende dalla cameriera che il ponte di pietra è crollato trentatré anni prima, Pernath dev’essere dunque sulla novantina. Attraverso le informazioni di vari avventori che discutono la credibilità dell’esistenza del leggendario Pernath, che abiterebbe al muro dell’ultima lanterna in un punto pericolosissimo, il narrante scopre però stranito che la casa della sua ultima visione nei panni di lui non è mai andata a fuoco. La realtà interiore e quella storica non si sovrappongono completamente, e il sogno pretende la sua parte.
Al mattino il narrante si fa traghettare oltre la Moldava raggiungendo il Vicolo degli Alchimisti – oggi meta fastidiosamente turistica, il Vicolo d’oro in cui abitarono Kafka (dal 1916 al 1917, dunque poco dopo l’uscita di Il golem) e Seifert è stato molto restaurato dai tempi in cui lo ricordava Meyrink – ma al posto del vecchio cancello che ricordava ne trova ora uno grandioso e mosaicato, con l’immagine di Ermafrodito, e un profumo di giacinti oltre il muro. Compare un servitore (ennesima maschera del golem, a giudicare dall’abbigliamento), gli chiede cosa desideri e lui gli tende il cappello incartato. Sullo sfondo, sui gradini di un edificio a forma di tempio, vede Athanasius (“immortale”, secondo l’etimo) e Mirjam. Il primo identico a lui, lei giovane e bellissima. Poi, al chiudersi del cancello riappare il servitore restituendogli il cappello giusto: il signor Pernath lo ringrazia, e lo prega di non considerarlo inospitale se non lo fa entrare. Si era accorto subito dello scambio di cappello e non l’ha usato; “Si augura solo che il suo non le abbia provocato dei mali di testa”.
Se davvero (come qui si ipotizza con la necessaria prudenza) Il golem vede tra le righe – a partire da una suggestione contingente che può aver colpito Meyrink – l’intreccio di linee e strutture geometriche che delinea l’Albero cabalistico della Vita, inevitabile ricordare come questo già sia stato inteso come simbolizzante una figura umana: a quel punto potrebbe suggerire la figura del golem o piuttosto dello stesso Ermafrodito della felice unione tra Athanasius e Mirjam.
Possiamo ignorare la questione se Il golem sia o meno un capolavoro della letteratura, ma certo è un testo straordinario, autenticamente letterario: un romanzo intenso e dotato di una poesia a tratti struggente, e un incitamento onesto alla ricerca interiore attraverso un teatro di maschere fondamentali che colpirà Jung. Un romanzo iniziatico, certo, ma in modo più sottile di quanto spesso indicato con questo termine. Sia perché all’autore interessa anzitutto varare un’opera letteraria, non un testo a chiave per corrucciati conciliaboli di eruditi, e dunque una storia che parli di sentimenti, nostalgie, amore, almeno quanto di riletture cabalistiche (peraltro molto libere, per necessità di narrazione) o esoteriche; sia perché i riferimenti arcani, piuttosto improbabili se singolarmente considerati, fungono da suggestioni che l’autore in realtà relativizza col suo libero uso – l’importante è il cammino, per ciascuno modellato in modo peculiare, al di là di maschere e categorie culturali; sia perché appunto si tratta della storia di una ricerca, scevra da ogni spocchia da presunti Maestri.
La peculiarità grottesca-fantastica del Golem, pur trovando in E. T. A. Hoffmann un illustre precedente, permette di apparentarlo solo a L’altra parte di Kubin, peraltro amico dell’autore. Al netto della dimensione onirica, si possono cogliere realismo e razionalità nel trattamento narrativo di una condizione mentale crepuscolare: le separazioni tra io e mondo esterno, tra io e l’altro – un Doppio trattato con riferimento a un antico linguaggio magico, ma in fondo riconducibile a meccanismi noti alle scienze umane – tendono a sciogliersi, e il linguaggio gotico, gli effetti gotici sono volti a esiti più sottile che in tanti precedenti per veicolare una visione spirituale. Facendo saltare alcune categorie letterarie di alto e basso, e permettendo di riconoscere una sincerità dell’autore nel suo progetto.
Certo la trama tende spesso a inabissarsi in un labirinto onirico e pneumatico, donde le accuse talora rivolte di testo soporifero. Ma è pur vero che alla mancata sovrabbondanza di fatti fantastici – che pure ci sono – corrisponde un felicissimo gioco d’ombre espressionista: un’inquietudine di visceri cui le tavole di Steiner-Prag illustrative della prima edizione restituiscono efficace forma visiva, e che coinvolge il lettore disposto a mettersi in gioco. Un romanzo insomma pienamente fantastico (si è parlato di urban fantasy), nell’accezione più ricca del termine evocante la sospensione/soglia tra realtà liminari, la ferita/feritoia su un mondo interiore e l’imbarazzo radicale dell’osservatore: qualcosa che non confligge con la dimensione interiore/“iniziatica”, ma ne rappresenta semplicemente la definizione narrativa.
La detenzione in carcere di Pernath, vera e propria morte iniziatica, segna il culmine della storia: quando finalmente viene liberato, trova che il mondo è cambiato, gli amici sono spariti, Mirjam stessa è andata via e occorre cercarla. Ma è un po’ tutto il microcosmo-ghetto come lui l’ha conosciuto a sparire, e non solo per la ristrutturazione urbanistica che lo sventra modificando la geometria di Praga. L’anonimo narratore che, a distanza di una trentina d’anni, si troverà a rivivere l’esperienza di Athanasius per il cortocircuito psichico di uno scambio accidentale di cappelli, dovrà fare i conti con quella svolta, il recupero di un’identità culturale e la sintesi tra gli opposti. Come in fondo il lettore, per lo scambio di cappello con Meyrink che lo proietta nel labirinto del protagonista: a riconoscere i propri imbarazzi, paure e rovine, ma anche la speranza finale di una ridefinizione profonda, di una maturazione in serenità e misericordia.
(5-continua)