di Alessandra Fava
“Guerra batteriologica? Il virus migliore è quello del vaiolo, come mi hanno confermato all’istituto Pasteur di Parigi. Ormai non si vaccina più nessuno e in tanti possiedono il virus attivo, ufficialmente solo per la ricerca. Ma chi ci assicura che non lo abbia anche Saddam Hussein?”.
Chi parla è Christopher Dickey, inviato di Newsweek e prima del Washington Post, che ha pubblicato nel ’97 Innocent blood, tradotto in Italia da Meridiano zero, un romanzo che racconta l’evoluzione di un americano di origini musulmane in terrorista.
Negli Usa, il ministero della Sanità ha ordinato 40 milioni di vaccini contro il vaiolo. Si teme un attacco come nel libro…
“Certo, è il virus più facile da usare in un attacco terroristico. Molto meglio di quello di altre malattie. E poi basta un frigorifero per conservarlo”.
Il sogno americano ha ancora senso?
“Certo. Sono americano e orgoglioso di esserlo. Ma penso che l’America deve capire che il sistema mondo così non funziona. Altrove la gente pensa che è la fede, la famiglia, la cultura, la storia che ti rende quello che sei; mentre da noi è il futuro. Usiamo la storia o il nostro passato solo per costruire il futuro. Il resto del mondo ci considera materialisti perché finisce che tutto si misura sul successo, sulle cose che possiedi, sui soldi che hai. Certo è una generalizzazione, ma la nostra società funziona così. E ha funzionato meravigliosamente per creare la prosperità e il benessere, ma questo ci impedisce di capire il resto del mondo dove quel che hai non è quel che sei”.
Quando ha realizzato questo?
“Gradualmente. Intanto vivo fuori dall’America da 21 anni e ho avuto l’occasione di capire altri modi di vivere. Poi ci sono stati episodi come il terremoto in Iran del ’90 dove morirono 40 mila persone e furono distrutti interi villaggi. Quando chiedevo: quanti sono morti nella tua famiglia? Mi dicevano 123, 68, 94. Pensavo che non avessero capito. Invece ero io che non capivo. L’America per famiglia intende i figli che ha o la casa che possiede, i titoli di studio. La famiglia è un’espressione di te stesso. Invece nel resto del mondo tu sei un’espressione della famiglia, una famiglia estesa. Noi parliamo di clan, tribù o mafia, sempre in un’accezione negativa”.
In Sangue innocente Kurtovic, il protagonista, vive Panama, la guerra del Golfo, la Bosnia: era là come reporter?
“Sono stato un po’ in Bosnia e nel Golfo. A Panama ho visitato anche il bunker di Noriega molto tempo prima della sua cattura, la descrizione è fedele”.
Qual è ora il ruolo del reporter? La guerra non diventa sempre più invisibile?
“La guerra del Golfo è stata la più invisibile. Ormai il governo americano fa di tutto per non avere i giornalisti tra i piedi, neppure quelli americani. Penso che la guerra afghana sarà ancora più virtuale”.
In Sangue innocente, una ricercatrice del Council, Chantal, cerca di mettere in guardia i suoi colleghi sulla pericolosità del terrorismo e di Saddam Hussein. Esiste Chantal?
“C’è in America una ricercatrice che segnala da più di dieci anni la deriva terroristica dell’Iraq. Si chiama Laurie Mylroie e lo scorso anno ha pubblicato un libro. Chantal non è basata su Mylroie, ma non è stata ascoltata come lei”.
All’inizio degli anni ’90, il terrorismo sembrava ‘una cosa degli anni ottanta’, come scrive?
“Esatto, nel ’92, prima dell’attentato al Wto. E dopo l’attentato in cui siamo solo stati molto fortunati, ci siamo dimenticato tutto, forse per un’autodifesa”.
Il terrorismo nasce dentro l’America?
“Nasce nella gente che sente un vuoto, che si sente inutile. Non hanno famiglia, non hanno carriera, non hanno soldi per colmare quel vuoto. L’americanizzazione del mondo ha replicato il senso di solitudine e inadeguatezza in altre civiltà del pianeta. Chi ha fatto l’attentato alle Torri gemelle era gente americanizzata, occidentalizzata che sentiva quel vuoto, quella solitudine, quella rabbia”.
La soluzione è cambiare la politica estera americana?
“No, assolutamente. Non dipende da quello. Gli americani devono pensare che non sono l’ombelico del mondo, che è il cielo non è sempre blu, ma che ci possono essere anche tempeste e difficoltà”.
Lei era a New York durante gli attentati dell’11 settembre. Che cosa si porta dentro?
“È uscito il meglio dell’America, è uscito un senso incredibile di appartenenza alla comunità. Ma dobbiamo capire che facciamo parte di un mondo più grande che spesso non ha niente a che fare con quello che viviamo a casa e che dobbiamo capire. Nella prima e seconda guerra l’America ha giocato un ruolo importante e costruttivo. Durante la guerra fredda poi non c’era niente da capire. Ora invece dobbiamo capire”.
[da il Secolo XIX]