di Franco Pezzini

La notizia della scoperta di un racconto sconosciuto di Bram Stoker, “Gibbet Hill”, a opera dell’appassionato Brian Cleary, ha fatto il giro del mondo, ma è lecito ridimensionare l’impatto. Anzitutto non si tratta di un racconto inedito (compariva su una rivista, il supplemento natalizio dell’edizione dublinese del “Daily Express” il 17 dicembre 1890) e di racconti brevi sostanzialmente dimenticati di autori vittoriani importanti c’è un certo numero – si pensi solo a una serie di testi di Le Fanu o del suo giro, mai più riproposti dai giorni in cui le relative riviste circolavano. Poi non si può affatto escludere che dell’autore ne spuntino altri, visto che Stoker – un tempo di rapidissima scrittura, e che alla fine aveva bisogno di soldi – pare vagheggiasse varie antologie alimentari di racconti. La raccolta più nota, Dracula’s Guest and Other Weird Stories, 1914, verrà edita postuma dalla vedova; ma anche la vicenda illusionistica del Dracula islandese (e svedese, soprattutto, quest’ultimo a rappresentare la vera chiave di questa connection nordica, anche se i tempi di presentazione al mercato internazionale sembrano oggi essersi rallentati) si spiega probabilmente con la cessione per denaro di una prima versione imperfetta del romanzo più noto, da lasciar liberamente manipolare agli acquirenti.

Così come può interessare limitatamente la querelle sulla priorità di proposta in lingua italiana. Il primo a presentare una traduzione è stato probabilmente il decano (almeno quello vivente, o forse non-morto) degli studi sui vampiri in Italia, il benemerito Fabio Giovannini, nell’ottimo blog “Vampyrismus”, 23 ottobre, ma una traduzione di Emilio Patavini è apparsa su “Weird”, autunno 2024, n. 4, e un’altra a cura di Enrico De Luca è stata edita in un volumetto molto bello da Caravaggio (uscita in ebook 25 ottobre, due giorni dopo quella di Giovannini, e su carta si direbbe dal 31 ottobre). Insomma, a Gibbet Hill tutti sembrano darsi appuntamento.

L’aspetto più interessante sembra però un altro, quello cioè relativo al contenuto. La trama del racconto, attenzione segue spoiler, è abbastanza semplice.

A metà ottobre un viaggiatore – come tanti altri, per affari o per diporto, nell’opera di Stoker – si ferma in un punto panoramico nelle colline del Surrey, a sud-ovest di Londra, nei pressi della Gibbet Hill, la collina della forca (effettivamente esistente), uno dei tanti luoghi in Inghilterra a mantenere memoria del luogo di esecuzione ordinaria della giustizia. Come notato in altra sede, l’hanging non era semplicemente una forma di esecuzione tristemente diffusa nel passato storico dell’Inghilterra (ai sensi del cosiddetto Bloody Code, un variegatissimo corpus di norme emesse tra il 1400 e il 1850, il numero dei reati passibili di capestro ammontava a 222 nel 1815 – per la gioia dei resurrectionists, i ladri di cadaveri a uso anatomico) ma un motore immaginale straordinariamente fertile: basti pensare al mito dell’hanging judge, alla scoperta settecentesca delle impiccagioni erotiche presto proposte in appositi bordelli, ma soprattutto alla quantità di folk horror sul tema della forca e delle relative manifestazioni sovrannaturalistiche. La tradizione inglese, in questo senso, è loscamente rigogliosa (a partire idealmente dalle tradizioni norrene sul dio impiccato Odhinn), e la mappa della Gran Bretagna fitta di toponimi associati al gibbet, con alcuni patiboli storici ancora conservati, mentre in alcuni casi – come qui – è rimasto solo un memoriale. Ma per capire il senso del racconto è bene collocarlo tutto nel cono d’ombra della forca.

Sono davvero così soavi i tre bambini che il nostro estasiato gitante incontra, e che giocano con un orbettino (non un serpente come lo definisce Stoker, piuttosto una lucertola senza zampe – ma capiremo meglio il senso della definizione)? È casuale che due di queste bambine vengano dall’India britannica e sembrino dialogare di omicidio con la bestia strisciante, mentre il maschietto è indubbiamente inglese? È casuale che il narrante si addormenti in questo idillio panoramico? Quale il senso del racconto? – perché in fondo è questo l’importante per l’autore…

Partiamo dalla considerazione che l’opera di Stoker – tutta, non solo il Dracula – trasuda di Sacra Scrittura, dei relativi linguaggio e simbolica. Di più, spesso la riflessione verte sulla presenza del male e la provocazione sulle categorie premasticate (stereotipi, pregiudizi) della società che si vede intorno, il mondo vittoriano al suo apice. Come a proposito dei bambini, icone di purezza – per questo li facevano fotografare nudi per gli auguri delle feste, non per pretese pedofilie di fotografi come Lewis Carroll (che sembra fotografasse con ben maggiore piacere signorine assai più cresciute, peccato che tale produzione – a proposito di banalizzazioni moraleggianti – sia stata censurata dai suoi eredi): e questi bambini di “Gibbet Hill” sono già stati sfiorati dal male in modo più o meno raggelante. Eccoli, gli Adamo ed Eva (più Lilith, se vogliamo, visto che le ragazzine sono due e una ha tratti più dolcemente sinistri) presenti in un idillio fintoedenico con panorama alla Turner; e c’è anche un serpente – per quanto farlocco, ci spiegano gli zoologi, perché l’orbettino non è un serpente. Ma ne fa simbolicamente le veci.

Non è un caso l’etnia diversa dei bambini: alla fine della sua carriera, nel romanzo più noto come La tana del verme bianco (The Lair of the White Worm, 1911, scorciato 1925) – ma titolato qualche volta The Garden of Evil, Il giardino del male quasi in contrapposizione a quello dell’Eden – Stoker porrà due ragazze, la bionda Lilla e la bruna Mimi, quest’ultima a mostrare anche fisicamente i tratti di mezzosangue anglo-birmana e a permettere un lieto fine di tranquillizzante buon augurio sulla coesione dell’impero. Non è questa la situazione del racconto in esame: se le varie anime dell’impero trovano qui modo di accordarsi, è per giocare innocentemente alla crudeltà. In qualche modo il bolso orbettino di questo racconto aurorale prefigura il White Worm, serpente/drago/dinosauro memore insieme dell’Eden e delle nuove scoperte paleontologiche, del crepuscolo dell’autore e di un intero mondo: e a uno Stoker che riflette sul male fin dalla prima produzione (come nel gotico sociale The Primrose Path/La via del vizio, 1875, racconto lungo o primo romanzo a seconda dei critici) sembra interessi contrapporre all’idillio panoramico – qui tanto insistito, con una descrizione molto bella – quello beotamente celebrato in società sull’innocenza dei bambini.

È l’ombra di Gibbet Hill a possedere i piccoli, con la sua terribile storia di omicidio e feroce punizione? Non sembra: in questione è la presenza del male nel cuore umano, la tentazione fin da quel primo hortus con serpente, fin dal cuore dei piccoli. Se il gitante si addormenta come Adamo nell’Eden – quel sonno ha caratteri mitici – e viene salvato a stento da una coppietta (gli Adamo ed Eva “sani”), la dialettica della forca non è tanto causa ma semmai conseguenza di ciò che alligna nell’animo umano fin dai primissimi anni. E se al momento della pubblicazione di “Gibbet Hill” ne sono passati solo due dalla fosca saga di Whitechapel 1888 – in soldoni, quella dello Squartatore – scrittori e moralisti hanno ancora fresche le loro attonite riflessioni sugli orrori insiti nel cuore dell’uomo. Verranno miticamente proiettati tra i Carpazi, ma quel ferro di cavallo pieno di oscurità occupa nei fatti tutto l’impero, dal centro ai remoti confini: l’impero coloniale di Vittoria come in fondo, ancora più di un secolo dopo, l’impero sghembo che ci troviamo dentro.

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