Vermiglio è il film presentato all’ultimo festival di Venezia da Maura Delpero, regista non ancora cinquantenne. Durante l’ultimo anno della Seconda guerra mondiale, un disertore – un soldato siciliano – trova rifugio in Trentino, a Vermiglio, un paese montano a pochi chilometri dal confine austriaco, riportando in salvo, a casa, un commilitone ferito, caricandoselo sulle spalle per chilometri.
Mentre sul grande schermo, nel buio della sala del cinema – perché è così che si dovrebbero guardare i film – scorrevano le immagini di una natura innevata, ogni volta che la telecamera si posava su un albero carico di neve o sul vorticare di fiocchi, mi tornavano alla mente altre immagini di una natura invernale, quelle viste nel film di Roberto Minervini, I dannati.
Anche questo è un film recente dall’esile trama, in cui seguiamo le gesta di un manipolo di soldati volontari dell’esercito nordista che, durante la Guerra di secessione americana, nell’inverno del 1862, vaga perlustrando e presidiando le terre di confine non mappate dell’Ovest.
Mi sembrava debole come legame il susseguirsi di scene invernali, ma poi ho capito perché i due film si richiamavano: se Vermiglio è un racconto di guerra dove la guerra, però, non si vede mai, nonostante se ne percepiscano gli effetti – povertà, lontananza da casa, morte, paura e il cambiamento in chi è tornato dal fronte – nel film di Minervini, invece, è il nemico a cui sparano i soldati a esistere senza venir mai mostrato. Anche in questo caso, però, se ne capisce la presenza dagli echi di spari, dai bagliori nella fitta vegetazione e per i cadaveri abbandonati al suolo.
Il film di Minervini, coi suoi pochi dialoghi e i tanti silenzi, punta il dito contro la profonda insensatezza di ogni guerra e sull’impossibilità di trovarne una qualsiasi giustificazione se non quella di imporsi su un nemico costruito a tavolino, così come nel film della Delpero mi pare di leggere una critica al bisogno dell’uomo di affermare la propria potenza che trova terreno fertile nelle guerre.
Ma i legami non si fermano qui: ne I dannati c’è un interessante dialogo tra i soldati nordisti sulla religione come appiglio, come richiesta d’aiuto per giustificare la loro presenza in un luogo assurdo e dimenticato da tutti rischiando quotidianamente la vita, così come una delle protagoniste di Vermiglio cerca di placare le sue pulsioni (omo)sessuali dialogando col Dio impostole dalla società, cercando conforto in questo.
A proposito di guerra e religione, mi vengono in mente due passaggi di Tempo di vivere, tempo di morire di Erich Maria Remarque: “Il culto dei dittatori diventa facilmente religione” e “la Chiesa è l’unica dittatura che abbia vinto i secoli”.
Un altro film dove la guerra c’è ma non si vede è Gli spiriti dell’isola del 2022 per la regia di Martin McDonagh.
Questa volta siamo nel 1923, nell’immaginaria isola irlandese di Inisherin dove, mentre sta volgendo al termine la Guerra civile irlandese, la lunga amicizia tra il violinista Colm e l’umile mandriano Pádraic s’interrompe all’improvviso per volontà del primo, senza un motivo apparente. Il regista fa intravedere in lontananza gli echi della guerra come a sottolineare la vocazione distruttiva della natura umana, il facile deteriorarsi dei rapporti e come si sia spesso dominati da un istinto brutale che trova ampia soddisfazione nel campo di battaglia: anche l’amicizia interrotta sfocerà in un violento scontro fra le due parti.
Tra Vermiglio e quest’ultimo film, trovo un’altra particolare affinità: la donna raccontata nel primo film che uccide “per onore” il marito che l’ha tradita è simile a chi, punto nell’orgoglio, si scaglia violentemente contro l’amico che, semplicemente, non ha più voglia di dedicare parte del suo prezioso tempo libero alle sue facezie, ai suoi discorsi vacui.
Certo, film che parlano di guerra e in cui la guerra è evidentemente la protagonista principale ce ne sono.
Non si può prescindere da un cult come Apocalypse Now di Francis Ford Coppola che ci racconta del Vietnam. Il capitano Willard delle forze speciali, esperto in missioni segrete, viene incaricato di risalire il fiume fino all’interno della Cambogia per trovare il colonello Kurtz, berretto verde, impazzito e impegnato in una guerra personale contro i vietcong senza più controllo; il compito del capitano è eliminarlo in qualsiasi modo, ma questa sua ultima missione lo cambierà per sempre. Il colonnello Kurtz ha combattuto e ucciso centinaia di persone, ma gli stessi capi che prima gli hanno ordinato di uccidere, ora lo condannano per aver dato la morte, senza la loro autorizzazione, a dei singoli individui applicando una diversa moralità per cui un individuo per ragion di stato deve e può eseguire assassinii di massa, però viene condannato se inizia ad attuare assassini singoli – tre uomini e una donna dell’esercito sudvietnamita – senza l’avvallo statale: “Dal mio punto di vista, uccidere in guerra non è affatto meglio che commettere un banale assassinio” – Pensieri di un uomo curioso di Albert Einstein.
Il pregio di Apocalypse Now è che con questo film termina l’era dei war-film che narrano le imprese degli eroi e comincia un’analisi critica della guerra e delle sue conseguenze: la guerra non porta ordine, ma solo caos e genera azioni che si autoalimentano in una spirale inarrestabile di violenza. Scriveva Erich Maria Remarque in Niente di nuovo sul fronte occidentale: “Sotto le armi vi è molta impostura, molta ingiustizia, molta cattiveria”.
Mi piace ricordare un film più recente, 1917 di Sam Mendes. La storia, come si evince dal titolo, si svolge durante il primo conflitto mondiale: due soldati inglesi, stanziati nel nord della Francia, devono consegnare a costo della vita un dispaccio che avvisa di ritirarsi prima dell’attacco tedesco e, per salvare più di mille commilitoni, si getteranno tra le fila del nemico.
Anche in questa storia, pur venendo calati direttamente nelle trincee inglesi, assistendo ai roghi dei palazzi, messi di fronte a cadaveri calpestati da soldati in fuga, a ordigni che esplodono, macerie fumanti, non vediamo nessuna rappresentazione di eroi, ma solo un’umanità disperata.
In caso i precedenti film non abbiano illustrato a sufficienza quale orrore sia ogni conflitto scoppiato e che, purtroppo, sicuramente ancora scoppierà, gli sguardi smarriti dei giovani soldati in trincea ritratti in 1917, dovrebbero essere un monito per tutti.