di Lidia Ravera
[da l’Unità]
Prendete due donne di garbo, intelligenti, non più giovani, non ancora vecchie, tutte e due piuttosto belle. Mettetele sedute in un confortevole salottino, date loro parecchio tempo, qualcosa da bere e qualcosa da sgranocchiare. Chiudete la porta e andatevene, lasciatele sole. Parleranno di sé stesse e del mondo, di figli mariti amanti, libri e creme idratanti, conflitti e ricomposizioni, desideri e ripulse, progetti e delusioni, curiose l’una dell’altra come gatte, si annuseranno, se affini faranno le fusa, ronzando soddisfatte. Questo mi aspettavo da Tendenza Veronica, conversazione con la seconda signora Berlusconi condotta da Maria Latella.
E, lo confesso, pensavo che mi sarei divertita, come una ipotetica terza donna, ammessa, dalla lettura del libro, in quella bella stanza, ad ascoltare. Non ero e non sono interessata alla vita privata del Presidente del Consiglio. Fossi stata già in questo mondo nel 1946 avrei optato a favore della Repubblica, con l’entusiasmo di chi non ama le monarchie, con il loro corteo di fasti retorici e salamelecchi da rotocalco. Credo che un leader politico vada giudicato da quello che fa, da quello che ha intenzione di fare, da quello che dice, da come lo dice. Non sono interessata a sapere quante ore dedica alla famiglia, né quante coccole alla moglie, quante rose le ha mandato, quante rose ha contato lei, prima di cedere. Questo attiene al Culto delle Personalità, morbo che non ho mai contratto. Non mi interessa la vita privata di Berlusconi, ma nemmeno, per dire, quella di Prodi o di Cofferati.
Quella che mi interessava era proprio lei, Veronica Lario, ex attrice, madre di tre figli, moglie di un uomo troppo ricco, troppo noto, troppo potente, troppo chiacchierato. Mi interessava, attraverso le sue parole, capire quanto costa essere “mogli” (anzi: supermogli) in una cultura-società che, come quella degli ultimi 30 anni, sempre più chiede alle donne di esistere in proprio, di mettere a segno carriere, senza mai poter rinunciare all’avvenenza eccetera, eccetera. Mi interessava perché so che non è facile e mi pareva che Veronica, con la sua renitenza alle luci della ribalta, con la decisione, esercitata liberamente, di non recitare ruoli di rappresentanza, bene incarnasse il dilemma: essere per sé o subire l’ombra del gigantesco Altro? Preservare il volto o indossare la maschera? Mi interessava anche leggere, fra le righe, il segreto di quell’amicizia imprevedibile e un po’ rischiosa fra una giornalista di bella carriera e una bella signora, che la carriera ha deciso di lasciarsela alle spalle.
Le prime pagine, dove Latella racconta, spiritosa, l’agitazione che la sua prima intervista ad una Veronica conosciuta per caso ad una kermesse di beneficenza scatena “nel mondo Fininvest”, non deludono le attese, così come il resoconto del weekend con tutti i bambini dell’una e dell’altra per vedere un museo a Stoccolma, e la coda cometa di polemiche, inevitabili e ovviamente sciocche. Veronica c’è, anche se è un po’ un santino (è difficile evitare il rischio quando il biografato è vivente): veste in jeans e maglietta, è di buone letture, preferisce la scuola Steineriana e quelle per asini ricchi, proibisce il consumo di tv ai bambini, propone Walt Disney in cassetta, li esorta a leggere i giornali offrendo opportuni ritagli per farli discutere, ha avuto un’infanzia difficile segnata dalla perdita del padre, ha avuto una madre in gamba e una professoressa di lettere che le faceva leggere Proust, non spara giudizi ma medita a lungo prima di parlare, arreda con gusto case che preferisce non “finire”, riceve i potenti del mondo senza farsene abbagliare, accetta la gelosia come parte del destino amoroso, sogna viaggi che compierà quando avrà finito di allevare esseri umani, da sola, come si addice a un vero viaggatore. È un ritratto benevolo e ben temperato, dove il dolore è una citazione letteraria e la fatica, le contraddizioni del vivere sfumano in sottintesi pastello, in tonalità delicate. Fosse un romanzo troverei debole la struttura drammaturgica, ma come biografia nente da dire: l’amicizia si sente ed è un’ipoteca sulla qualità così inevitabile, che quasi intenerisce. La tenerezza finisce quando si passa a parlare di Lui, del Misterioso Consorte, dove scopriamo che “La sua spinta propulsiva è sentirsi eroe del suo tempo, provarsi attraverso un’impresa. Non si lascia incatenare dal presente, la sua mente insegue sempre una meta, un obiettivo, che per lui si traduce nel precedere il futuro”. D’accordo, è innamorata. Andiamo avanti: Berlusconi decide di mettersi in affari e “dopo una lunga riflessione, decise di andare dal padre per presentargli il suo progetto. Suo padre ci pensò a lungo e alla fine accettò di dargli tutta la sua liquidazione di impiegato di banca”. D’accordo, è ingenua. Andiamo avanti: Bettino Craxi. Disse: “Se sono colpevole, lo siamo tutti”. Dice Veronica: “È necessario guardare al Paese come è, prima che come si vorrebbe che fosse”. E subito dopo: “Dove si può applicare il detto “la legge è uguale per tutti” quando un forte accanimento dei giudici, enfatizzato dai media si manifesta nei confronti di alcune aree politico-economiche mentre per altre non succede niente? I giudici, non dimentichiamolo, sono uomini, alcuni si sono formati con un certo orientamento politico”. È un modo garbato, femminile, da boudoir, di dire le stesse cose che Berlusconi urla agitando il fantasma delle toghe rosse, invece di sottoporsi a giudizio.
Ma andiamo avanti: “Mio marito avrebbe dato sicuramente ancora tanto al mondo imprenditoriale” (ohibò, non ci risulta che abbia ceduto le sue imprese), “ha lasciato nel momento in cui viveva all’apice delle sue potenzialità creative”. E ancora. “Si potrebbe credere che lui proponga verità alterate, invece, depurate dagli orpelli di circostanza, Silvio enuncia verità sostanziali”.
Mi fermo qui, ma potrei continuare. Mai mi è capitato di leggere un difesa tanto accurata da accuse mai citate apertamente, una specie di cura ricostituente per un gigante in stato di debilitazione. È il dovere di una buona moglie? “Ci sono cose, semplicemente, che non condivido. Ma non è un modo per affermare la mia personalità o per distinguermi da lui”. Comprensibile cautela.
Ma dov’è la Veronica libera che Renato Farina spara sulla prima pagina di “Libero” sotto il titolo “Mai votato mio marito Berlusconi”? E perché “Il Giornale” gongola in un esaltato “Adesso vi racconto come si vive accanto al Cavaliere”? Non è, forse, questo gradevole libricino, un più che opportuno lifting dell’immagine operato, in perfetta buona fede, da due amiche, che maneggiano con grazia ed esperienza l’inedito bisturi del cicaleccio femminile, con tutte le sue generose sfumature di tolleranza e maternalismo? Ho avuto, lo confesso, questa impressione. E mi è dispiaciuto.
Come mi sono dispiaciute le 31 fotografie a colori che ritraggono una bambina davvero splendida, una giovane donna dotata di uno di quei visi di cui l’obbiettivo si innamora, una madre da catalogo dei giocattoli, una moglie radiosa, una maturità intensa e seducente che splende altera sotto la faccia da mister Nobody del marito. Mi sono dispiaciute non perché non fosse un vero piacere guardarle, ma perché mi hanno ricordato un’altra operina analoga: “Una storia Italiana”, patinato libro fotografico elargito a tutti i sudditi, in occasione delle libere elezioni politiche. Correva l’anno 2001.