di Alexandre Dumas
[da Il Conte di Montecristo]
Franz gli lasciò tutto il tempo di sorbire il suo cibo favorito; poi quando vide che ritornava un poco in sé:
“Ma finalmente che cos’è questa vivanda preziosa?”
“Avete mai inteso parlare del Vecchio della Montagna, quello stesso che volle fare assassinare Filippo Augusto?”
“Senza dubbio.”
“Ebbene, voi sapete che regnava in una ricca vallata dominata dalla montagna di cui aveva preso il nome pittoresco. In questa vallata c’erano magnifici giardini piantati da Hassen-Ben-Sabah, e in questi giardini vi erano dei padiglioni isolati: in questi faceva entrare i suoi eletti, e là faceva loro mangiare, disse Marco Polo, una certa erba che li trasportava nell’Eden, in mezzo a piante sempre fiorite, a frutti sempre maturi. Ora ciò che questi giovani felici prendevano per una realtà non era che un sogno, ma un così dolce, inebriante, un così voluttuoso sogno, che si vendevano interamente a colui che lo elargiva, e gli obbedivano ciecamente. Essi andavano a colpire in capo al mondo la vittima designata, morivano fra i tormenti della tortura senza lamentarsi, nella sola idea che quella morte che soffrivano non era che un passaggio a quella vita di delizie di cui l’erba misteriosa, ora avanti a voi, aveva dato un saggio.”
“Allora” gridò Franz, “è l’hashish. Sì, la conosco, almeno di nome.”
“Precisamente, voi avete detto il suo vero nome, signor Aladino, questo è hashish, tutto ciò che si fa di meglio e di più puro in hashish ad Alessandria, l’hashish d’Abou Gor, il gran confetturiere, l’uomo al quale si dovrebbe fabbricare un palazzo con questa iscrizione: AL MERCANTE DELLA FELICITA, IL MONDO RICONOSCENTE.”
“Sapete” disse Franz, “che mi viene voglia di giudicare da me stesso quanto v’è di vero nei vostri sperticati elogi?”
“Giudicate: ma non siate soddisfatto di un primo esperimento. Come in tutte le cose, bisogna abituare i sensi ad una così nuova impressione, sia essa dolce o violenta, sia triste o gioconda. Vi è una lotta della natura contro questa portentosa sostanza, della natura che non è fatta per la gioia e che ci avvince al dolore. Bisogna che la natura vinta soccomba nel conflitto; bisogna che la realtà succeda al sogno, e allora il sogno regna come padrone, allora è il sogno che diventa vita, e la vita diviene sogno. Ma qual differenza in questa trasfigurazione! Paragonando i dolori dell’esistenza reale ai godimenti della fittizia, non vorrete più vivere, ma vorrete sempre sognare. Quando lascerete il vostro mondo per passare al mondo degli altri, vi sembrerà di passare ad una primavera napoletana da un inverno della Lapponia. Vi sembrerà di lasciare l’Eden per la terra, il cielo per l’inferno. Gustate dell’hashish mio caro, gustatene!”
Per tutta risposta Franz prese un cucchiaio di questa pasta meravigliosa, misurato sulla quantità che ne aveva presa il suo anfitrione, e la portò alla bocca.
“Diavolo!” disse, dopo avere inghiottito questa pasta divina. “Io non so se il risultato sarà gradevole quanto dite, ma la sostanza non mi sembra tanto saporosa quanto affermavate.”
“Perché le papille del palato non sono ancora adatte alla sublimità della sostanza che gustano. Ditemi, la prima volta che gustaste le ostriche, il tè, il porter, i tartufi, li assaporaste con tanto piacere quanto ne aveste poi in seguito? Comprendereste il piacere che provavano i romani nel condire i fagiani con l’assafetida, ed i cinesi, che mangiano i nidi delle rondinelle? Eh, mio Dio, no. Ebbene, è lo stesso con l’hashish: mangiatene soltanto otto giorni di seguito, e poi, nessun nutrimento al mondo vi sembrerà della squisitezza di questo, che oggi vi sembra forse fetido e nauseante. Ma ora passiamo alla camera vicina, e Alì ci servirà il caffè, e ci darà le pipe.”
Tutti e due si alzarono, e mentre colui cui si è dato il nome di Sindbad, e così chiamato per distinguerlo dal suo convitato, dava alcuni ordini al suo domestico, Franz entrò nella camera attigua.
Questa era arredata più semplicemente quantunque non meno riccamente; di forma rotonda, un gran divano le girava intorno. Ma il divano, i muri, il soffitto, e il pavimento erano ricoperti di magnifiche pelli lisce e morbide come più morbido tappeto; erano pelli di leoni dell’Atlante dalle possenti criniere, pelli di tigri del Bengala dalle calde righe, pelli di pantere del Capo, screziate come quella che apparve a Dante; finalmente pelli d’orsi della Siberia, e di volpi della Norvegia, e tutte gettate in profusione le une sulle altre, dimodoché si sarebbe creduto di camminare sui prati più fioriti, e di riposare sui letti più soffici. Tutti e due si stesero sopra i divani, una quantità di pipe con le canne di gelsomino e le imboccature d’ambra erano a portata di mano, e già preparate affinché non si avesse la noia di fumare due volte nella stessa: ne presero una per ciascuno.
Alì le accese, ed uscì per andare a prendere il caffè. Vi fu un po’ di silenzio, durante il quale Sindbad si lasciò trasportare dai pensieri che sembrava l’occupassero senza posa anche in mezzo alla conversazione, e Franz si abbandonò a quella muta esaltazione, alla quale si cede quasi sempre
fumando un eccellente tabacco, che sembra portar via con la fumata tutte le pene dello spirito, e rendere al fumatore tutti i sogni dell’anima.
Alì portò il caffè.
“Come lo prendete?” disse l’incognito, “alla francese o alla turca, forte o leggero, con zucchero o senza, filtrato o bollito? Scegliete; c’è preparato in tutti i modi.”
“Lo prenderò alla turca” disse Franz.
“E avete ragione: ciò prova che avete disposizione per la vita orientale. Ah, gli orientali, sono i soli che sappiano vivere. In quanto a me” soggiunse, con uno di quei sorrisi singolari che non sfuggono, “quando avrò finito i miei affari a Parigi, andrò a morire in Oriente, e se vorrete ritrovarmi bisognerà che mi cerchiate o al Cairo, o a Bagdad, o a Ispahan.”
“In fede mia” disse Franz, “questa sarà la cosa più facile del mondo perché sembra che mi spuntino le ali d’aquila, e con queste farei il giro del mondo in ventiquattro ore.”
“Ah, ah, è l’hashish che opera! Ebbene, aprite le ali, e volate nelle regioni sovrumane; non temete, si veglia su voi, e se, come quelle d’Icaro, le vostre ali si liquefanno al sole, noi siamo qui per ricevervi.”
Disse qualche parola araba ad Alì, che fece un segno d’obbedienza, e si ritirò ma senza allontanarsi. In quanto a Franz, una strana trasformazione si operava in lui: tutta la fatica fisica della giornata, tutte le preoccupazioni che avevano fatto nascere gli avvenimenti della sera, sparivano come in un momento di riposo in cui si è svegli abbastanza per sentire che il sonno viene. Sembrava che il corpo acquistasse una leggerezza fuori del materiale, lo spirito s’illuminasse in modo inaudito; i sensi sembravano raddoppiare le loro facoltà. L’orizzonte si allargava, ma non l’orizzonte cupo sul quale aleggia un vago terrore, quale l’aveva osservato prima del sonno, ma un orizzonte azzurro, trasparente, vasto con tutto ciò che il mare ha di bello, che il sole ha di raggi, che la brezza ha di profumo: quindi, in mezzo al canto dei suoi marinai, canto così limpido e chiaro, che se ne sarebbe fatta un’armonia celeste se si fosse potuto, vedeva comparire l’isola di Montecristo non più come uno scoglio minaccioso sui flutti, ma come un’oasi perduta nel deserto; poi a seconda che la barca s’avvicinava, i canti divenivano più numerosi, poiché un’armonia incantatrice e misteriosa saliva da quest’isola al cielo, come se qualche fata come Lorelay, o qualche mago come Amfione avesse voluto attirarvi qualche spirito, o fabbricarvi una città.
Finalmente la barca toccò la riva, ma senza scossa, allo stesso modo che le labbra toccano le labbra, e sembrò a Franz di entrare nella grotta senza che cessasse questa incantevole musica; discese, o meglio gli sembrò scendere qualche scalino respirando un’aria fresca e balsamica come quella che circondava l’isola di Circe, composta di tanti profumi da far andar in estasi, di ardori tali da far bruciare i sensi, e rivide tutto ciò che aveva veduto prima del sogno, cominciando dall’ospite fantastico Sindbad fino ad Alì il muto servitore; poi gli sembrò che tutto si cancellasse, e si confondesse sotto i suoi occhi come le ultime ombre di lanterna magica che si spenga, e si ritrovò nella camera delle statue, illuminata soltanto da una di quelle lampade antiche e pallide che ardono nel mezzo della notte sul sonno della voluttà.
Erano le stesse statue belle per le forme e per la poesia, con gli occhi magnetici, con i capelli abbondanti; erano Frine, Cleopatra, Messalina, le tre donne più celebri per la loro dissolutezza; poi nel mezzo di queste s’introduceva una di quelle ombre calme, una di quelle visioni dolci che sembrano coprir di un velo gli occhi verginali.
Allora gli sembrò che queste tre statue avessero riuniti i loro amori per un sol uomo e che questi fosse lui; che si avvicinassero dove faceva un secondo sogno, coi piedi coperti dalle loro lunghe e bianche tonache, coi capelli cadenti ad onde, in una di quelle pose irresistibili, con uno di quegli sguardi inflessibili e ardenti, pari a quello che vibra il serpente all’uccello, e che lui si abbandonasse a quegli sguardi, dolorosi come un laccio, voluttuosi come un bacio.
Sembrò a Franz di chiudere gli occhi e, attraverso l’ultimo sguardo intorno, intravedere la statua pudica che si velava internamente; quindi, i suoi occhi chiusi alle cose reali, i suoi sensi si aprirono alle impressioni impossibili. Allora, per Franz che subiva la prima volta l’effetto dell’hashish, fu una voluttà, un amore come quello che prometteva il Vecchio della Montagna ai suoi seguaci.
(…)
IL RISVEGLIO
Allorché Franz ritornò in sé, gli oggetti esteriori gli sembrarono una seconda parte del suo sogno; si credette in un sepolcro dove a stento penetrava appena un raggio di sole, simile a un sguardo di pietà.
Stese la mano, e sentì del marmo, si mise a sedere, e si trovò avvolto nel mantello sopra un letto di zolle, secche, molto molli ed odorifere.
Tutta la visione era sparita, e, come se le statue non fossero state che ombre uscite dai sepolcri durante il suo sogno, erano sparite al risveglio. Fece qualche passo verso il punto da dove veniva la luce, ed a tutta l’agitazione del sonno successe la calma della realtà.
Si vide in una grotta, si avanzò verso l’apertura, ed attraverso la porta centinata scoprì un bel cielo turchino, ed un mare azzurro. L’aria e l’acqua risplendevano ai raggi del sole mattutino; i marinai erano sulla riva, discorrendo e ridendo; a distanza di dieci passi la barca ondeggiava sul mare trattenuta dall’ancora.
Allora gustò per qualche tempo quella fresca brezza che gli passava sulla fronte, ascoltò il debole rumore dell’onda che moriva sulla spiaggia, lasciando sulle rocce un contorno di schiuma bianca come l’argento; si lasciò andare senza riflettere, senza pensare a quell’incanto celeste, che hanno le cose della natura particolarmente quando si esce da un sogno fantastico: poi un poco alla volta la vita esterna così pacifica, così grande gli rimandò la inverosimiglianza del suo sogno, ed i trascorsi fatti cominciarono a rientrare nella sua memoria.
Si sovvenne dell’arrivo nell’isola, del modo con cui fu presentato al capo dei contrabbandieri, del palazzo sotterraneo pieno di splendore dell’eccellente cena, e del cucchiaio di hashish. Solo, in faccia a questa realtà, e in pieno giorno, gli sembrò almeno un anno che tali cose fossero avvenute, tanto il sogno che aveva fatto si era impresso nel suo pensiero, e aveva preso forza nel suo spirito.
A tratti la sua immaginazione faceva apparire in mezzo ai marinai, o traversare uno scoglio o librarsi sulla barca, una di quelle ombre che avevano ricolma la notte di sguardi e di baci. Peraltro aveva la testa del tutto libera, e il corpo perfettamente riposato; non alcuna pesantezza nel cervello, che anzi risentiva un certo benessere generale, una maggiore disposizione a godere dell’aria e del sole.