di Gioacchino Toni

Guillaume Pitron, La guerra dei metalli rari. Il lato oscuro della transizione energetica e digitale, Traduzione di Ondina Chirizzi, Prefazione di Stefano Liberti, Luiss University Press, Roma 2024, pp. 276, € 23,00

Non si può che condividere quanto scrive Stefano Liberti nella prefazione alla nuova edizione aggiornata ed ampliata di La guerra dei metalli rari del giornalista e documentarista francese Guillaume Pitron: la descrizione che l’autore fa «dei risvolti nascosti della cosiddetta “transizione ecologica e digitale” somiglia a un film di fantascienza: con miniere di metalli oscuri sfruttate da eserciti di operai in condizioni semischiavistiche, grandi potenze che si accaparrano le risorse e si assicurano il dominio sulla tecnologia per gli anni a venire, speculatori privati che scommettono sulla penuria e responsabili politici che hanno deciso scientemente di non occuparsi del problema e scaricarlo sulle generazioni future».

A ciò si può aggiungere lo spettacolo indecoroso che, attorno al disastro ambientale ed umano a cui il modello di sviluppo egemone ha condotto, vede contrapporsi da un lato i cantori di una svolta green praticata sulla testa dei ceti meno abbienti e dall’altro chi si rifugia demagogicamente nel negare la gravità della crisi ambientale contemporanea proponendo, di fatto, di continuare a produrre, consumare, sfruttare, distruggere, uccidere e crepare come da tradizione. Classisti i primi, nel pretendere di far pagare ai più i disastri su cui si sono arricchiti i pochi (questi ultimi sì pronti, dovesse servire, a riconvertire tutto e tutti pur di non perdere il vizio del business), classisti i secondi, nel voler perpetuare un modello di sfruttamento e devastazione classista nel suo DNA. Per certi versi ancora più delirante è la posizione di alcune frange della sinistra che, per contrapporsi ai primi, fanno propri gli slogan dei secondi, negando di fatto l’urgenza del problema ambientale: del resto le opzioni populiste – al pari delle parenti complottiste – hanno il vecchio vizio di assomigliarsi a prescindere dall’etichetta con cui si presentano.

Steso originariamente nel 2018, La guerre des métaux rares di Guillaume Pitron ha necessitato di un corposo aggiornamento in quanto a pochi anni dalla sua uscita la situazione è mutata in diversi aspetti. Nel giro di un solo lustro è decisamente aumentata la richiesta di terre rare: l’obbligo imposto nel 2023 alle case automobilistiche di vendere, dal 2035, esclusivamente veicoli elettrici da parte del Parlamento europeo ha comportato un tale incremento della domanda di batterie per i veicoli elettrici da prevedere la necessità di mettere in funzione 400 nuove miniere da cui estrarre soprattutto grafite naturale, litio e nichel e di dare vita a una serie di partenariati con paesi minerari (Cile, Indonesia, Ghana ecc.).

Nonostante il Parlamento europeo abbia, nel giro di un solo anno, già iniziato a rivedere al ribasso la cosiddetta svolta green, resta il fatto che la richiesta di terre rare è decisamente aumentata rispetto ad alcuni anni fa. Rispetto all’epoca in cui è uscita la prima edizione, sono cambiati anche gli atteggiamenti delle popolazioni rispetto alle attività estrattive, si sono sviluppati dibattiti controversi ad esempio sulla possibilità di ricollocare una parte della produzione dei metalli in Occidente o a proposito dell’estrazione di noduli polimetallici dai fondali oceanici. Ad essere cambiato, eccome, è anche il contesto geopolitico; tra pandemie e conflitti è decisamente mutata la percezione diffusa della globalizzazione: «mentre la mano invisibile dei mercati doveva garantirci un accesso senza ostacoli alle risorse, eccola ora percepita come la causa di dipendenze economiche e fragilità strategiche». In particolare l’Europa è sembrata accorgersi improvvisamente della sua dipendenza da dispositivi medici e da risorse energetiche prodotti in contesti con una diversa agenda strategica.

La guerra dei metalli rari di Pitron evidenzia gli interessi, i conflitti e i rischi ambientali e sociali che gravitano attorno ai metalli rari necessari alle moderne tecnologie ed ai settori strategici dell’economia del futuro (robotica, internet del cose, intelligenza artificiale ecc.) che spesso si propongono come soluzioni alle problematiche ambientali. Prima di ricorrere alla definizione di “energia pulita”, suggerisce l’autore, occorrerebbe considerare l’intero ciclo di produzione prendendo dunque in esame i costi energetici e ambientali dell’accaparramento dei metalli rari necessari, così come servirebbe una certa cautela nel parlare dello smart working come se fosse a costo energetico ed inquinante zero ed altrettanta cautela servirebbe nel presentare la sostituzione del parco veicoli ancora funzionanti con la altri nuovi come se la costruzione di questi ultimi non impattasse a sua volta sull’ambiente. Non è possibile pensare alla transizione energetica astrattamente; occorre situarla in una realtà fatta di miniere, di esseri umani sfruttati in maniera ignobile, di territori devastati, di speculazioni capaci letteralmente di affamare intere popolazioni. Di tutto ciò non vi è traccia nell’eco-storytelling patinato o su carta riciclata propinato quotidianamente alla popolazione.

Se è enorme la distanza fisica che separa i luoghi di produzione da quelli di consumo, non è da meno la distanza cognitiva che separa ciò che si guarda e conosce dei beni e servizi che si utilizzano quotidianamente e ciò che sta dietro alla loro produzione. Come se il “sapere d’acquisto”, scrive Pitron, avesse ormai definitivamente abdicato al “potere d’ acquisto”. «È proprio la scarsa trasparenza della filiera a trasmetterci l’illusione che la rivoluzione energetica e digitale sia universale e democratica», scrive Liberti nella Prefazione al volume. Occorrerebbe domandarsi chi stia pagando il prezzo a “buon mercato” dei dispositivi a cui ricorriamo e che, in alcuni casi, ci fanno persino pensare di essere green solo per il fatto di utilizzarli .

Se l’Occidente non è particolarmente propenso a cercare le terre rare in casa propria, secondo l’autore è anche perché la loro estrazione richiederebbe standard lavorativi, sanitari ed ambientali che le grandi corporation non intendono affrontare. Buona parte delle terre rare è oggi estratta in Cina. Così come la civiltà del carbone ha avuto un epicentro inglese e quella del petrolio statunitense, la civiltà delle terre rare pare destinata ad avere un epicentro cinese.

Se l’energia verde proveniente dal sole e dal vento è rinnovabile e, virtualmente, inesauribile, sarebbe bene tenere presente che altrettanto non avviene per le risorse di metalli indispensabili alla sua produzione. E la penuria di ciò che è ritenuto indispensabile, come la storia insegna, comporta situazioni conflittuali che mal si conciliano con le magnifiche sorti e progressive del green propagandate da chi non ha interesse a mettere davvero in discussione il sistema egemone.

Indagare e rendere pubblico il “lato oscuro” della transizione energetica, sottolinea più volte l’autore, non significa voler limitare la transizione energetica, bensì cercare di pensarla in modo tale che i suoi effetti negativi siano il più possibile attenuati. Far finta che i problemi ambientali e sociali non ci siano non aiuta di certo a risolvere le cose. Come ripartire costi e benefici della transizione energetica quando Paesi in via di sviluppo si trovano a farsi carico dell’impatto ecologico estrattivo delle terre rare per permettere agli occidentali di viaggiare con le loro auto elettriche? Come conciliare le necessità di aprire nuove miniere di litio e terre rare con la contrarietà degli abitanti della zona? Quanto gli occidentali saranno disposti a diminuire i livelli di consumo con cui sono cresciuti sin qua?

A dare l’idea dell’insostenibilità dell’attuale modello di sviluppo-consumo e di quanto quanto questo dovrebbe cambiare per rendersi compatibile con le esigenze ambientali, dunque anche umane, basta un dato: si stima che «per soddisfare le necessità di un solo europeo vanno estratte dal sottosuolo 20 tonnellate di materie l’anno». Un dato come questo può aiutare ad immaginare con che occhi il Sud del mondo possa guardare gli occidentali e senza stare a fare troppe distinzioni di censo.