di Sandro Moiso

Alle porte di Brescia esiste un piccolo angolo dei monti Appalachi che, nella realtà, si sviluppano per circa 2500 km parallelamente alla costa atlantica degli Stati Uniti, dal golfo del fiume San Lorenzo all’Alabama. Un paragone possibile non soltanto per le ferriere ormai chiuse e i boschi che si inerpicano lungo i fianchi delle propaggini prealpine che circondano il comune di Nave, ma anche per la presenza sul luogo di un musicista che da anni insegue le tracce di John Fahey e Roscoe Holcomb, con qualche deviazione in direzione del country proletario di Hank Williams.

Si tratta di Alessandro “Asso” Stefana, conosciuto come chitarrista al fianco di Vinicio Capossela ormai da circa due decenni e per le numerose collaborazioni a livello internazionale con musicisti del calibro di P.J. Harvey, Marc Ribot e altri, ma che, soprattutto, va considerato come uno dei massimi esponenti di una musica di ricerca che spazia dal West agli spazi siderali e dai suoni della tradizione musicale degli Appalachi alla Penguin Cafe Orchestra di Simon Jeffes.

A conferma di ciò è uscito a maggio di quest’anno il suo ultimo album (sia in cd che in vinile), intitolato semplicemente Alessandro Stefana, per la Ipecoc Recordings e con la supervisione della stessa P.J. Harvey. Un disco ricco di atmosfere, intuizioni e sensazioni che tendono a trasportare l’ascoltatore ai confini di una musica cosmica di stampo, però, decisamente americano. Qualcosa che oggi nell’asfittico mercato italiano e nel mondo delle sue produzioni destinate all’orecchio di Sanremo, anche quando si vorrebbero alternative, non si usa proprio fare.

Una sfida, quella di “Asso”, che riprende, almeno nell’amore e nell’attenzione riposto in ogni brano, quella di Gram Parsons, eroe del country rock scomparso troppo presto, e della sua American cosmic music, un progetto che, però, il musicista americano non riuscì mai a realizzare pienamente prima di scomparire, anche lui, a ventisette anni nel 1973. Cifra che Stefana, durante i suoi secret concert, non dimentica mai di ricordare nei dialoghi con il pubblico, facendo riferimento anche alla scomparsa, sempre in giovane età, di Hank Williams, fondatore della moderna country music, di cui esegue dal vivo un brano che non ha inserito nel disco: Cowboys Don’t Cry.

Un’esecuzione da brivido, ispirata però alla versione (campionata in sottofondo) che ne fece uno sconosciuto gruppo giapponese, di cui il chitarrista ha fortunosamente ritrovato il rarissimo cd tra i pochi in vendita sul carrello di un homeless newyorchese qualche anno fa. Una storia di fantasmi che si incrocia e adatta benissimo con le atmosfere dell’ultimo disco.

Un discorso musicale che, come si è detto poc’anzi, Alessandro porta avanti da anni, fin da quando si esibiva e registrava con i Guano Padano, un trio formatosi nel 2008 che, oltre allo stesso “Asso”, comprendeva anche il bassista e contrabbassista Danilo Gallo (cofondatore dell’etichetta/collettivo indipendente El Gallo Rojo Records) e il batterista Zeno De Rossi che nel 2011 era stato premiato come batterista dell’anno con il Top Jazz (il referendum della critica indetta dalla rivista Musica Jazz).

Il disco di esordio uscì nel 2009 per l’etichetta statunitense Important Records, supportato da Joey Burns dei Calexico, da Gary Lucas e Chris Speed. L’album fondeva elementi tratti dalla musica americana e da certo chitarrismo twangy, così da ricordare all’ascolto una colonna sonora di un immaginario spaghetti western. Anche il loro secondo album, intitolato semplicemente 2, comparso nel 2012, comprendeva importanti partecipazioni, come quelle di Mike Patton, Marc Ribot, Paul Niehaus. Due anni dopo il gruppo avrebbe pubblicato il terzo album, intitolato Americana, ispirato all’omonima antologia di racconti di scrittori americani curata da Elio Vittorini nel 1942. Mentre il loro ultimo album è comparso nel 2021, con il titolo Back and Forth.

Quello attuale, però, non è il primo disco solista del musicista bresciano, poiché, nel 2007, aveva già pubblicato Poste e telegrafi, sempre per la Important Records. L’attuale si presenta, però, come una sintesi e un superamento dei lavori precedenti, cui l’esecuzione solista, accompagnata soltanto in due brani da Mickey Kenney al fiddle (il violino suonato in stile country o bluegrass), libera l’autore da qualsiasi obbligo di scelta e ruolo nei confronti di altri musicisti.

Qui, autentici tappeti di suoni psichedelici creati dall’uso di una chitarra lap steel della National, accompagnano riflessioni più meditate sulla sei corde (rigidamente Guild) e, a tratti, sulla tastiera di un organetto, mentre, in ben tre brani, la voce campionata di Roscoe Holcomb, un minatore del Kentucky che è da considerare tra i massimi autori della musica delle montagne cui si ispirò anche il giovane Dylan, si sovrappone come quello di uno spettro sulle note e sulle atmosfere create dal chitarrista1.

Chitarrista il cui debito nei confronti di John Fahey (1939-2001), forse il più grande chitarrista acustico americano, sempre sospeso tra i suoni del Delta, i raga indiani e, naturalmente, la mountain music degli Appalachi, è enorme, dichiarato e voluto.

Un disco, quello di Alessandro Asso Stefano da ascoltare e riascoltare, non soltanto per apprezzare la bravura e lo stile di un musicista italiano degno del palco internazionale, ma anche per immergersi in un universo di suoni ispirato da un mondo che, forse, non c’è più o soltanto non ancora.


  1. Si tratta di Born and Raised in Covington, Moonshiner e I Am a Man of Constant Sorrow. Quest’ultima comparsa sia nel primo album di Bob Dylan nel 1962 che nella colonna sonora del film Fratello dove sei? (Oh Brother, Where Art Thou?) dei fratelli Coen nel 2000.