di Emilio Quadrelli

Il doppio volto della merce
Un secondo aspetto decisamente non trascurabile è il ruolo che le merci assumono tanto nell’immaginario quanto nella concretezza dell’esistente dei ragazzi albanesi. Se nella nota Critica della filosofia del diritto di Hegel Marx asserisce che la religione è, al contempo, l’oppio dei popoli e il gemito degli oppressi, possiamo realisticamente mutuare oggi questo enunciato in: la merce è l’”oppio dei popoli” e, al contempo, il “gemito degli oppressi”. Non si scandalizzino i cultori dell’ortodossia per questa trasposizione di Marx dagli scranni austeri della critica religiosa, alle vetrine dei Centri commerciali ma la modesta ricerca empirica sembra fornire più di un indicatore per andare in questa direzione. Rimanendo nell’ambito della città di Genova chiunque, per quanto poco prono alla ricerca etnografica, potrà constatare, con piena soddisfazione persino per il più irriducibile fautore dello scientismo e del coevo empirismo di matrice funzionalista che gli fa da corollario, come il centro commerciale della Fiumara con il suo sfavillio di merci esposte sia una delle mete maggiormente frequentate e preferite dalle gang dei giovani albanesi.

Il potere attrattivo di tutte quelle merci in bella vista ha una attrazione al limite del mistico tanto che, quasi si trattasse di una novella Terra Santa, il diritto esclusivo a stazionare nei perimetri immediatamente adiacenti ai “monasteri delle merci” è stato duramente conteso e infine conquistato da questi a discapito di altre gang giovanili di provenienza nordafricana. Il numero non proprio irrilevante di risse tra giovani albanesi e marocchini per il “controllo del territorio” ne rappresenta un’eccellente esemplificazione. Le merci sembrano possedere un potere ipnotico e sopranaturale al quale è impossibile resistere. Ma cosa incarnano le merci e in particolare alcune di loro? Questa la domanda alla quale bisogna provare a rispondere.

A governare l’immaginario dei giovani albanesi sono, in prima istanza, quelle marche come Adidas e Nike le quali, da tempo, governano i gusti e gli “stili di vita” della gioventù subalterna internazionale. In seconda battuta a essere oggetto e soggetto delle bramosie delle gang sono tutti quei capi di abbigliamento i quali, per i motivi più diversi, sono diventati oggetti di moda. Ciò non deve stupire poiché, almeno da Simmel in poi, sappiamo quanto, nelle società di massa, la moda giochi un ruolo, al contempo, normativo e distintivo oltre a essere un veicolo di inclusione sociale non trascurabile. Proprio sul carattere inclusivo occorre soffermarsi. Ciò a cui aspirano i giovani albanesi è quel consumo medio socialmente necessario in grado di garantire loro una sorta di “egualitarismo estetico” in modo da non farli percepire come altro. Esattamente qua si colloca il ruolo normativo e al contempo distintivo della moda il quale, a sua volta, veicola socializzazione e inclusione tra il gruppo dei pari. Ecco che, allora, il vezzo delle merci abbandona l’apparenza dell’effimero che una critica, bianca e benestante, riserva al mondo delle merci per assumere una valenza politica della quale il più delle volte se ne elude il senso.

Un tratto, quello dell’anticonsumismo di maniera, certamente non nuovo che ha caratterizzato a lungo un certo radicalismo bianco e borghese il quale, tra l’altro, può vantare teorici e autori di non poco spessore. Basti ricordare, al proposito, Marcuse, vera e propria icona di parte del movimento studentesco americano e non, che proprio intorno alla società dei consumi ha costruito la critica alle società neocapitaliste. Una critica non proprio insensata la quale, però, mostrava tutti i limiti di una critica bianca a uso e consumo dei bianchi (e per di più benestanti). Non per caso Marcuse ignora la linea di condotta dei nigger i quali, attraverso le forme organizzate del Black Panthers Party o nelle pratiche spontanee del riot, mostravano, nei confronti delle merci, un approccio, per essere gentili, a dir poco diverso1.

Allora non si tratta di celebrare l’ennesimo plauso al mondo delle merci ma, più materialisticamente e marxianamente, cogliere la contraddizione, ossia la relazione dialettica, che dentro questo mondo si cela. Solo cogliendo i due lati della questione, oppio dei popoli e gemito degli oppressi, ci si emancipa da quella “critica illuminista” che ben poco ha a che vedere con la condizione materiale proletaria così come, più prosaicamente, è sempre opportuno ricordare che la povertà o la scarsità dei consumi può risultare accattivante a chi ha consumato troppo ma non per chi passa la vita a osservare con rancore il luccichio delle vetrine. In altre parole, un’esistenza a base di “pane e cerase” può risultare suggestiva e intrigante a chi è abituato a ingozzarsi ma sicuramente non lo è per chi, di “pane e cerase”, si è abitualmente nutrito. A fronte di ciò non del tutto incomprensibile si mostra l’“accanimento consumistico” ovvero il desiderio di possedere e ostentare le merci che anima i giovani albanesi.

Marciare o morire
Se le merci assolvono a questa imprescindibile ed esistenziale funzione sociale, averle diventa una questione di vita o di morte. In assenza di risorse non resta che rubarle ed è esattamente questa la linea di condotta delle giovani gang albanesi. Del numero di giovani albanesi denunciati per taccheggio nei Centri commerciali si è persino perso il conto. Tuttavia, sarebbe estremamente riduttivo perimetrare il tutto all’interno di una semplice questione economica. Nella pratica del furto e del taccheggio c’è qualcosa di ben poco riconducibile all’economicismo. Con buona pace dei meccanicisti o dei pavloviani di ritorno la linea di condotta dei giovani albanesi va oltre il nudo e puro dato economico.

Prima di proseguire vale la pena di evidenziare il tratto apertamente razzista che fa da sfondo alle spiegazioni economiciste. Queste, infatti, riducono l’insieme dei comportamenti subalterni, e ciò oggi è particolarmente vero nei confronti degli immigrati, al semplice soddisfacimento di un insieme di bisogni primari. Ciò che a una quota di popolazione viene bellamente sottratta è la dimensione della soggettività con tutto ciò che questa si porta appresso. Nessun immaginario e alcun desiderio animerebbe l’agire, in questo caso, dei giovani albanesi ma la semplice e “bestiale” necessità di soddisfare un bisogno elementare. A fronte di questa interpretazione oggettivista e meccanicista diventa invece decisivo cogliere gli elementi di soggettività che fanno da sfondo alle gang. Solo a partire da questi diventa possibile comprendere la complessità di significati alla base della forma gang. Con ciò entriamo direttamente nella parte conclusiva del ragionamento.

A prima vista le gang potrebbero apparire come una semplice struttura semi organizzata finalizzata al realizzo di una serie di attività illecite. A uno sguardo leggermente più attento le cose si mostrano più complesse e ciò che, in apparenza, appare come una micro-struttura criminale apre a un intero mondo sociale del quale, obiettivamente, sappiamo ben poco ma nei confronti del quale, il più delle volte, vengono adottati tutti i criteri possibili dello stigma. Si tratta, allora, di dare linguaggio a un mondo confinato perennemente nell’ambito della voce.

Partiamo, intanto, con il definire il perimetro della gang. Questo si pone radicalmente in opposizione, potremmo dire polemica, con il mondo adulto. In sostanza una forma di organizzazione e autodifesa dei “piccoli uomini” verso il mondo degli adulti. In primis, questo l’aspetto centrale e per lo più non osservato, il mondo adulto dei connazionali. Per comprenderlo dobbiamo partire dal modello sociale, pesantemente patriarcale, presente in Albania e tutto ciò che si porta appresso. Il maschio adulto, qui, esercita un potere politico pressoché assoluto sulle donne e i “piccoli uomini”. La dominazione delle donne e dei “piccoli uomini” appare talmente ovvio e scontato da assumere tratti al limite del naturalismo. Una dominazione che si reitera, e con ampio successo, anche dentro i percorsi migratori. La dipendenza dei “giovani uomini” dalle infinite pletore di zii, cugini o più semplicemente degli “amici di famiglia” è pressoché assoluta. Non si tratta di una dominazione fine a sé stessa ma di un dominio che comporta la messa al lavoro delle donne e dei “piccoli uomini” dentro una relazione non distante dalla dimensione coatta. Ciò è vero sia nel caso della messa al lavoro legale e ancor più nel caso di attività illecite.

Sullo sfruttamento del lavoro minorile si basano, infatti, una parte considerevole delle imprese a capitale albanese. Uno sfruttamento che, per molti versi, ricorda il modo in cui, nel corso della grande immigrazione interna dal sud a nord Italia, veniva reclutata mano d’opera meridionale de-contrattualizzata per quell’enorme indotto che faceva da corollario alle grandi fabbriche, sia pubbliche che private. Anche allora, giocando sullo stigma che accompagnava la figura dell’immigrato, parenti o anche semplici compaesani inseriti, sia come titolari o “caporali”, nei settori lavorativi propri della “classe operaia dura” reclutavano con fare palesemente “mafioso” tutta quella forza lavoro approdata al nord senza alcun tipo di reti protettive. Il compaesano che li inseriva dentro un qualunque lavoro e che su di loro si arricchiva diventava, però, anche l’unico personaggio in grado di offrire loro una qualche forma di protezione sociale e amicale. Ciò ha comportato, per tutta una fase, il reiterarsi di quel vincolo “di comunità” che la modernità sembrava, grazie all’affermarsi della “filosofia del denaro”, aver mandato in archivio. Una condizione di servaggio che sembrava tanto eterna quanto priva di emancipazione. Ci sono voluti anni, infatti, per mandare in frantumi l’insieme di questi vincoli e con loro i vari compari e comparielli che li sostanziavano. Le lotte dell’operaio-massa, mentre inceppavano i processi di valorizzazione e accumulazione, mettevano definitivamente fine a quell’insieme di “vincoli comunitari” all’origine della propria sudditanza.

Fatte le tare del caso tutto ciò si ripete attualmente con i giovani albanesi. Socialmente stigmatizzati ed esclusi trovano nell’inserimento lavorativo dello zio di turno la sola chance che gli viene offerta. Una chance che, a conti fatti, più che una felice articolazione di quel fiorire di opportunità che, secondo le retoriche neoliberiste, l’era cosiddetta globale si porterebbe appresso, assume molto più realisticamente i tratti della “forca caudina”. Proprio in questo lo “scarto antropologico” tra i “piccoli uomini” e i Millennial si mostra, ancora una volta, quanto mai radicale. Al mondo delle opportunità in permanenza di questi ultimi si contrappone il mondo della servitù in permanenza dei “piccoli uomini”. Di ciò la cornice lavorativa ne offre qualcosa di più di una semplice esemplificazione.

Ritmi, orari e salario sono variabili decise unicamente dal connazionale che incarna in tutto e per tutto la figura del padre/padrone così come, per altro verso, norme di sicurezza, assicurazione e via discorrendo non sono altro che chimere. Tutto ciò permette a queste aziende di essere estremamente competitive e di ritagliarsi quote di mercato di una certa, per quanto modesta, rilevanza nei mercati secondari dei nostri mondi. Un inserimento particolarmente caro agli abitanti della città legittima poiché, a usufruire di ciò è immancabilmente l’individuo-cittadino il quale, di queste aziende, si serve con non malcelato compiacimento. Provatevi a chiedervi, in maniera molto prosaica, quanti appartamenti, quante facciate dei palazzi, quanti impianti idraulici o elettrici, solo per fare gli esempi che immediatamente vengono a mente, di proprietà degli individui-cittadini, sono stati realizzati da ditte di questo tipo oppure quante ristrutturazioni di abitazioni sono state realizzate a prezzi estremamente economici.

Gran parte di questi lavori, in economia, sono possibili solo grazie allo sfruttamento intensivo di questa giovane forza lavoro socialmente esclusa e ascritta agli ambiti della marginalità. Sullo sfondo di questa gestione “mafiosa” e patriarcale della forza lavoro si staglia, in veste di primo attore, l’interesse dell’individuo–cittadino il che non è un caso. In ciò, questi, non fa che reimportare entro i confini nazionali la linea di condotta neocoloniale, e qua torna prepotentemente la continuità tra guerra interna e guerra esterna, esportata abitualmente attraverso quelle operazioni di polizia internazionale o guerre umanitarie che dir si voglia verso le popolazioni extracomunitarie.

Ecco che, allora, da quella che poteva apparire una semplice curiosità sociologica o un vezzo dell’antropologia culturale si approda velocemente dentro una condizione politica e materiale che non poche cose racconta intorno alla guerra, la sua gestione, le sue finalità. Se la guerra è principalmente guerra contro la popolazione al contempo è anche guerra per la popolazione. La messa al lavoro dei corpi subalterni, in condizioni estremamente vantaggiose per il comando del capitale è, se non il solo, uno degli obiettivi strategici della guerra in permanenza. Realisticamente l’anticolonialismo istintuale dei giovani albanesi che si traduce in insofferenza e odio verso il colonizzatore italiano sembra avere più che un grano di sensatezza. Dietro allo zio di turno compare sempre la macchina coloniale e questa macchina ha targa italiana.

Servitù o barbarie
La musica non cambia se dalle attività legali spostiamo lo sguardo verso i mondi illegali. Anche in questo caso, e forse in maniera ancora più dura, il mondo degli adulti sfrutta senza remore e parsimonia la condizione di sudditanza del “piccolo uomo”. Confidando sulla minore punibilità che la condizione di minore comporta, questi vengono impiegati in uno dei “lavori” più pericolosi: il micro-spaccio di strada. Il mestiere di “cavallo”, infatti, è una delle più frequenti attività alla quale le bande illegali adulte indirizzano i “piccoli uomini”. A ciò, in non pochi casi, va aggiunto il furto su commissione, specie in appartamento. Curiosamente, ma neppure troppo, anche in questo caso il lavoro illegale soggiace alle stesse regole salariali del lavoro legittimo. Sia i proventi dello spaccio che il bottino procacciato attraverso i furti non finiscono nelle tasche dei “piccoli uomini” ma in quelle dei rispettivi “datori di lavoro”. Ai “piccoli uomini” viene semplicemente corrisposto un modesto salario giornaliero. Tutto questo dentro un ambito gerarchico che non conosce modificazioni di sorta.

Di fronte a tutto ciò le gang costituiscono un elemento di difesa, solidarietà e socialità che concretizza un autentico spazio di autonomia. Difesa perché consente loro di porre in campo una forza, anche di tipo “militare”, in grado di contrapporsi collettivamente ai vari tipi di imposizioni e soprusi confidando sulla rimessa in circolo di quel: uno per tutti, tutti per uno che, nella storia dei subalterni, ha giocato un ruolo ben diverso da quel romanticismo di maniera in cui la morale borghese, per depotenziarlo, lo ha confinato. Essere uno per tutti e tutti per uno rimanda a quella idea di “forza di massa” che tanti brividi fa scorrere sulle schiene dei borghesi. Questo esistere come “collettività cosciente e compatta”, che è ben diverso dall’essere massa informe senza volto è, già di per sé, un elemento che rompe l’ordine sociale contemporaneo. Se c’è qualcosa che la borghesia, tutta la borghesia, non può tollerare è il riaffiorare di una forma collettiva fondata su complicità, solidarietà, senso dell’appartenenza, fratellanza e, in virtù di ciò, assolutamente non prona ad assoggettarsi alle diverse articolazioni del dominio.

La gang quindi si mostra come uno spazio autonomo e autogestito all’interno del quale è possibile sottrarsi alle imposizioni che il mondo degli adulti impone in continuazione ai “piccoli uomini”. Non l’edulcorato mondo dei Millenial e il loro essere giovani per sempre ma tutta la materialità di questa nuova “dura razza pagana” la quale, per non soccombere e servire, può solamente imparare a combattere e lo deve fare velocemente. Non il patinato mondo degli individui-cittadini ma tutta l’asprezza di chi, nell’economia globale, non può essere altro che massa senza volto e per emanciparsi deve trovare una qualche forma di esistenza collettiva. Non il rassicurante mondo degli inclusi globalizzati ma la dura condizione dei globalizzati in basso che, fuor di metafora, li ascrive nella dimensione dei dannati della metropoli 2.

A partire da ciò, allora, la gang diventa in prima istanza una forma concreta di quel riscatto al quale, da sempre i subalterni aspirano. Un luogo in qualche modo affrancato all’interno del quale, insieme al senso di appartenenza, si respira un’aria di eguaglianza e sodale fratellanza. Ciò consente di sottrarsi, o almeno provarci, alle relazioni di potere entro cui i giovani albanesi sono immessi. Essere una gang significa avere sufficiente forza e autonomia da poter contrapporsi all’imposizione del lavoro coatto tanto legale quanto illegale. Significa rompere con quella dimensione di solitudine e impotenza nella quale si è relegati. Significa soprattutto acquisire rispetto. Ciò comporta inevitabilmente una serie di atti di sfida, con tutto ciò che questo comporta, nei confronti dei vari poteri deputati a governarli. Non è un caso, quindi, che le gang siano entrate velocemente nel mirino degli specialisti della sicurezza. Ciò che obiettivamente inquieta non sono tanto i modesti reati che questi consumano ma la loro palese intenzionalità di sottrarsi al dominio. Questo il linguaggio che va restituito alle gang.

Come enunciato sin da subito queste sono solo semplici note. La materia è talmente ampia che meriterebbe sicuramente una trattazione di altro spessore. Tuttavia, a partire da queste note, si può se non altro iniziare a restituire una dimensione di dignità e legittimazione ai “piccoli uomini” i quali, con ogni mezzo necessario, cercano di sottrarsi alla dimensione dei dannati della metropoli. Come anticipato tutto ciò non è molto, sicuramente però è qualcosa e lo è, in particolare, per tutti coloro che si pongono il problema di porre in relazione guerra interna e guerra esterna. La condizione dei “piccoli uomini albanesi” è un frutto diretto dell’imperialismo contemporaneo, la loro riduzione a masse senza volto diretta conseguenza di quella pratica neocoloniale che informa per intero la forma guerra del presente. Obiettivamente, lo vogliano o meno, sono uno dei molteplici poli del “fronte interno”. Provarne a conoscerne, per lo meno, i tratti non è solo utile ma doveroso.

(Fine)


  1. Si veda al proposito il classico Jerry Cohen, William S. Murphy, Burn, Baby, Burn! The Los Angeles Riot, August 1965, Dutton, New York 1966.  

  2. Su questo aspetto si veda il bel lavoro di Andrea Staid, I dannati della metropoli. Etnografie dei migranti ai confini della legalità, Milieu, Milano 2014.  

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