di Giovanni Iozzoli
Non riusciva proprio a ricordare che cattedra occupasse. Cioè, cosa concretamente insegnasse, il dott. Wang F. Ross. Era qualcosa che aveva a che fare con la filosofia, sicuramente, ma a lui non era mai entrato in testa nulla del complicatissimo cursus accademico di suo figlio. Sapeva solo che era diventato un docente importante – un pezzo grosso, diceva ai suoi amici con un filo d’ironia, alludendo al fisico mingherlino del ragazzo -, ma la parte concreta della carriera e della vita del figlio, gli era sempre rimasta più o meno ignota. A diciotto anni il giovanotto aveva preso la via del college e poi era partito – testardo, solitario e orgoglioso – a percorrere quella sua insondabile carriera di professorone.
Adesso Mr. Ross guardava un po’ titubante il cartellino sulla porta di mogano. C’era anche una tabella con gli orari dei ricevimenti. Bussare o no? Forse sarebbe stata più opportuna una telefonata, prima della visita? Ormai era tardi per avere ripensamenti. E del resto non c’era niente di disdicevole nel passare a salutare brevemente un figlio sul lavoro.
– Salve, desidera qualcosa? – la voce gracchiante lo fece sussultare, come se lo avessero colto in fallo in una situazione poco chiara. Era un tizio in pullover, dall’aspetto e dall’accento ispanico, con un faldone o qualcosa del genere sotto al braccio.
– Buongiorno, sono il papà del prof. Wang; sono passato un attimo per un saluto. Posso…?
Il viso dell’uomo si illuminò di un sorriso cordiale.
– Ah, ma certo, lei è il papà del professore… Mr. Ross… mi scusi la riconosco solo ora… è un piacere averla qui. Come va Mr. Ross? Ero un suo grande ammiratore… sta bene?”
– Bene, grazie… posso bussare allora?
– Certo, prego… il professore dovrebbe esserci, si è trattenuto in ufficio e non l’ho ancora visto uscire… si accomodi… se è ancora dentro le aprirà.
– Grazie.
Mr. Ross si decise finalmente a bussare, con un pudico sfioramento di nocche. Per quanto provasse a tranquillizzare le sue ansie, non era ancora sicuro di fare qualcosa di opportuno o di corretto. Il fatto è che là dentro, dietro quella porta, non avrebbe trovato il suo bambino – il piccolo occhialuto, amabile Wang – ma un austero professore, un uomo ancora giovane d’età ma che a tutti dava l’idea di un precoce invecchiamento nello spirito. Non lo vedeva da quattro o cinque mesi – non riusciva neanche a ricordare bene da quando. Forse era passato da loro, a Santa Monica, nel week end del Ringraziamento. Una delle sue solite visite frettolose. Ormai da molti anni avevano smesso di avere un vero e proprio rapporto padre-figlio. Il professore semplicemente faceva la sua vita e non manifestava il minimo interesse per quella dei genitori.
Dall’altra parte della porta nessuno rispondeva. La targhetta Prof. Wang J. Ross stava lì sulla porta, a fissarlo. Filosofia morale: cazzo, ecco cosa insegnava il piccolo Wang. Filosofia morale. Ci aveva scritto anche un paio di libri, che teneva in casa, da qualche parte. E che roba era, la filosofia morale? Boh. Di sicuro non glielo aveva mai chiesto. Non aveva neanche mai aperto i libri scritti dal figlio. Cose ostiche.
Bussò ancora, questa volta in modo più deciso. Quella specie di bidello gli aveva detto che probabilmente il professore era ancora dentro. Appoggiò l’orecchio alla porta. E fu a quel punto che riconobbe la voce antipatica di suo figlio: – chi è? Avanti!
Il tono sembrava infastidito. Aveva un che di metallico, come una voce pre-registrata; e un fondo stridulo, respingente. Era la voce che aveva acquisito nell’adolescenza e che continuava a portarsi dietro nella sua maturità ingrigita. Avrebbe voluto dire qualcosa prima di aprire quella porta, tipo: sono io, tuo padre. Ma gli sembrava inutile e posticcio. Aprì direttamente e si presentò con il suo sorriso più volenteroso.
Infilò dentro la testa prima del corpo e rimase meravigliato. L’ufficio era disadorno e disordinato, ma gli sembrò enorme. Il piccolo Wang era davvero diventato un pezzo grosso, per meritare un simile camerone tutto per sé. La stanza era piena di libri e armadietti che parevano vecchi schedari metallici. E due computer accesi troneggiavano su altrettante scrivanie. Le finestre alte e opache non avevano tende. E in un angolo, seduto ad una delle due scrivanie, un quarantenne dai tratti chiaramente asiatici, lo sguardo miope e un’espressione tra l’ostile e il sorpreso, accoglieva il visitatore senza alcuna cordialità.
– Frank…? Tu? Che ci fai qui?
– Scusa Wang, ti disturbo? Sono venuto in città per un colloquio di lavoro e ho pensato di farti una sorpresa. Accidenti… che bell’ufficio… vedo che ti sei piazzato bene, qui.
– Non è tutto mio. Lo condivido con gli assistenti… il ricevimento studenti. E altre cose. Hai… hai fatto un buon viaggio? Quando riparti?
Mr. Ross si avvicinava alla scrivania a piccoli passi titubanti, guardandosi intorno, come aspettasse qualche parola di benvenuto che potesse legittimare la sua presenza dentro quella stanza. Ma il prof. Wang continuava a guardarlo con quella sua espressione indecifrabile…
– Sono passato solo per un saluto e scappo all’aeroporto, alle 17 ho il volo. Non ci vediamo mai. Hai mangiato? Ti offro il pranzo, un caffè?
Fu a quel punto che il prof. Wang si alzò – piuttosto bruscamente – e si decise a intercettare suo padre prima che la presenza di quell’intruso nel suo ufficio diventasse troppo invasiva. Lasciò la sua postazione e gli si parò davanti, porgendogli la mano, come avrebbe fatto con un rappresentante di libri o un collega di lavoro. Indossava una giacca elegante e sotto una camicia bianca e linda, senza cravatta.
– La mamma come sta?
– Mah… il solito… lo sai… vi siete parlati qualche giorno fa, no?
– Ti sei rimesso al lavoro, dunque?
– Più che altro sto cercando di capire qualcosa circa un’offerta… una cosa ancora non ben definita… vediamo se diventerà una proposta concreta… intanto sono andato a parlare con la produzione… si tratta di una particina, in ogni caso. Una cosa piccola. Tanto per tenermi impegnato. La noia della vita da pensionato alla lunga diventa pesante… lo sai, io ho sempre lavorato…
Parlava del suo lavoro di attore con modestia, minimizzandolo. Per motivi a lui insondabili il piccolo Wang, invece di essere orgoglioso di un padre attore (per quanto attore comico) aveva sempre vissuto con una qualche segreta insofferenza, quel mestiere di artista. Forse avrebbe preferito un padre idraulico, o postino. Chissà perché. Lo sguardo di Wang si manteneva guardingo, come uno che stesse ricevendo la visita di un creditore o di un agente del fisco.
Frank Solomon Ross, attore brillante e in gioventù anche cabarettista e improvvisatore, conservava nel suo repertorio una infinità di storielle, battute, motteggi su ogni genere di circostanze della vita (funerali compresi). Questo deposito di spiritosaggini lo aveva spesso aiutato in situazioni complicate o imbarazzanti. Ma davanti ad un figlio dai modi così austeri, non si azzardava più a esercitare la sua vocazione naturale di uomo simpatico, ruolo a cui il suo Dna pareva averlo destinato. Il prof. Wang decisamente non amava le facezie. E Mr. Ross non aveva mai capito se questo atteggiamento di esagerata sobrietà Wang lo riservasse solo a suo padre o in generale a tutte le cose effimere dell’umana esperienza.
Allora, Wang, hai già pranzato? Hai tempo per mangiare insieme?
– No, grazie… io a quest’ora non mangio…
-Sei a dieta?
– No, è solo un orario buono per il lavoro e non voglio sprecare tempo.
La frase raggelò il povero Mr. Ross. Il figlio professore non avrebbe potuto essere più esplicito: la visita paterna rappresentava per lui solo una perdita di tempo.
Provò una forte delusione, per se stesso e per le sue illusioni. In fondo al cuore sapeva di non essere in cima al gradimento di quel ragazzo. Ma in lui albergava sempre la speranza che forse un giorno – entrando lui nella vecchiaia e il figliolo nella piena maturità – il loro dialogo così complicato avrebbe potuto finalmente distendersi. Adesso si sentiva uno stupido, ad aver nutrito simili aspettative. Il filosofo dott. Wang era uno stronzo, ecco tutto. Suo figlio era stronzo. Un ragazzo cresciuto male con la sola attenuante della sua infanzia difficile. Per bilanciare questa amarezza, Mr. Ross provò a evocare il ricordo dell’arrivo del piccolo Wang, a 5 anni, con una minuscola sacca su una spalla, insieme alla sorellina Lulù poco più grande. Li videro la prima volta nella sala arrivi dell’aeroporto di Los Angeles, accompagnati da una funzionaria dell’Immigrazione. Lui e sua moglie Rose si innamorarono subito di quei due angioletti vietnamiti. E loro guardavano spaesati l’immensa America riflessa negli occhi di quei due strani genitori adottivi, grassi, pallidi e sorridenti, che li aspettavano carichi di aspettative e piccoli regali. Quand’è esattamente che il piccolo adorabile Wang si era trasformato in un maledetto stronzo ingrato?
– Sei sempre stato un ragazzino così serio. Filosofia morale. È vero che ti sei specializzato in quella cosa lì?
Wang lo guardava quasi scandalizzato: cos’era questa intrusione nel suo regno perfetto di libri e teorie?
– Con chi ne hai parlato, di filosofia morale? Con Oprah Winfrey?
Anche nell’ironia il ragazzo era acido e spiacevole. Mr. Ross sorrise suo malgrado.
– Ah… ricordi ancora quando fui ospite da Oprah. Sono passati tanti anni.
– Si, vagamente. Ricordo tutte quelle domande sul cane. Il cane del telefilm. Che poi era il protagonista, no?
– Ah… beh… il mio Spike… ci lavoravo con quello. Era il periodo d’oro di “Detective Spike”. Ti piaceva quel telefilm. Ti piaceva anche Oprah, non ricordi?
– Ricordo che durante l’intervista Oprah sembrava più interessata al cane che a te, quello me lo ricordo.
– Hai sempre questo tono, con me. Mi dai un sacco di dispiacere… anche a tua madre… certe volte ci chiediamo dov’è che abbiamo sbagliato… in che cosa abbiamo mancato, con te e tua sorella per meritare un simile atteggiamento…
Il prof. Wang alzò una mano con decisione, come a bloccare sul nascere il rischio di una conversazione troppo intima. Non aveva nessuna voglia di tornare sulle annose memorie familiari.
– Non c’è niente che non va… tu e la mamma non avete niente da rimproverarvi… va tutto bene. Io e mia sorella stiamo facendo la nostra vita e grazie di tutto.
– Ma Lulù la senti ogni tanto? Vi vedete?
– Lascia stare. Sono affari nostri. Siamo fratelli e sorella, ricordi? E poi non si chiama Lulù. Si chiama Lu. Dopo 30 anni potreste anche ricordarvi del suo vero nome. Comunque nel gestire i nostri rapporti non abbiamo bisogno di intrusioni esterne.
– Ah, adesso io sarei un estraneo intruso?! – E finalmente Mr. Ross, il co-protagonista di “Detective Spike”, che tra il 1985 e il 1992 rappresentò per l’America il prototipo dell’amabilità – il simpatico zio grassottello e arguto che tutti avrebbero voluto avere in famiglia, il simpatico vicesceriffo che rassicurava la contea, il simpatico preside amato dai suoi studenti, il simpatico meccanico de Il Maggiolino Tutto Matto, nonché il simpaticissimo detective privato che faceva da spalla al cane Spike – ebbene il poliedrico Mr. Ross stava quasi per tirare fuori tutte le spiacevolezze e le amarezze che aveva faticosamente represso negli anni. Avrebbe voluto dire al filoso morale Wang: brutto ingrato bastardo, ti abbiamo preso da profugo e sei diventato un cazzo di luminare della NYU, ti abbiamo nutrito e cresciuto con l’amore e la cura più totale, ti abbiamo sostenuto in ogni tua scelta senza mai condizionarti, e adesso tu ci tratti come estranei, brutto muso giallo rachitico e antipatico? Il cane Spike dava mille volte più soddisfazioni della tua filosofia morale del cazzo! – questo pensava Mr. Ross e questo avrebbe voluto sputare in faccia al suo figliolo.
Ma naturalmente non disse niente di tutto questo. Aveva imparato da tempo che l’arte principale dei genitori è imparare tacere. E per i genitori adottivi questo era ancora più vero. Mostrava solo un sorriso triste e deluso che era la maschera dietro cui nascondeva tutti i suoi rimpianti, il povero Mr. Ross.
– Senti Wang, non sono venuto qui per litigare. Volevo solo salutarti. Non vogliamo nulla da te. Sai dove siamo e ti auguriamo sempre il meglio per la tua vita. Diamoci la mano e me ne vado a prendere l’aereo.
Ma mentre Mr. Ross stava per fare un altro passo avanti, verso il centro dell’ufficio, suo figlio gli andò incontro a sua volta in modo un po’ goffo, come a sbarrargli il passo. Quasi a evitare che si avvicinasse troppo al suo tavolo di lavoro ingombro di carte. E senza volere, in quel preciso istante, Mr. Ross intravide dietro al piede della scrivania, qualcosa che assomigliava molto ad una scarpa femminile rossa. Gli sembrò proprio di vederne la punta. Una scarpa da donna dietro la scrivania del prof. Wang. Mr. Ross si fermò lì, mentre il figlio gli porgeva la mano con un movimento che somigliava più ad un invito a indietreggiare, che ad un cordiale saluto.
– Fai buon viaggio Frank e salutami la mamma.
– Fatti… fatti vivo… mi raccomando, Wang. Ciao.
Mr. Ross uscì e si chiuse la porta dietro le spalle. Rimase un attimo fermo impietrito nel corridoio. Dall’interno non proveniva alcun rumore. Era passato dalla rabbia mal controllata verso Wang ad una sensazione di sincero stupore. Sarebbe stata una bella scena degna di uno dei suoi telefilm. Recitandola avrebbe esibito la sua faccia più buffa e meravigliata. Ma qua c’era poco da esibire. Aveva davvero visto una scarpa da donna rossa dietro l’angolo destro della scrivania? E che diavolo poteva significare? C’era una collega o una sua studentessa nascosta là dentro, da qualche parte? Magari sotto la scrivania? E Wang l’aveva occultata lì, sperando che il visitatore occasionale sparisse presto per ritornare al suo tête-à-tête ? Era questo il vero motivo del malumore del figliolo filosofo? Era stato disturbato in un momento delicato?
Questo cambiava tutto. Ricollocava quello stronzo del prof. Wang entro una dimensione più umana. Salutò educatamente il bidello-assistente ispanico, che volle a tutti i costi stringergli la mano e augurargli buon viaggio, e ridiscese le scale, ridacchiando e facendo ballonzolare il ventre abbondante. Il suo figliolo adottivo non era Socrate. I travagli dei sensi lo colpivano come tutti. Aveva voglia a fare la faccia austera. Con sua moglie stasera avrebbe ironizzato un bel po’ su quel ragazzotto saputello. Tutto sommato avevano fatto un buon lavoro con lui. Un geniaccio ma anche un mandrillo. Cercava il modo giusto per raccontarlo a sua moglie, senza scadere in volgarità ma…accidenti. Si fermò di nuovo, dopo la prima rampa di scale: – e se quelle maledette scarpe fossero le sue, di Wang? Se fosse uno di quei tipi che in privato indossano vestiti femminili?
Una specie di depravato, in pratica. Ne aveva già conosciuti, soprattutto nel suo ambiente. Era un vezzo americano, da Ed Wood a Hoover. Forse Wang era di quella tribù. Certo sembravano proprio scarpette da donna, piccoline, un po’ a punta. Ma anche Wang aveva dei piedini piccoli da asiatico. Si sforzava di ricordare il numero di scarpe di suo figlio che però non viveva più con loro da quando aveva 18 anni. A quei tempi gli pareva di ricordare un numero 38. Ma cresce ancora il piede dopo i diciotto?
Effettivamente Wang non aveva mai presentato ai genitori una fidanzata o una compagna o una futura moglie. Forse aveva avuto qualche simpatia al liceo, o qualche piccolo flirt da adolescente; ma era molto timido, bloccato, imbranato e anche bruttino. Da giovane somigliava un po’ all’imperatore Hiro Hito. Insomma, donne zero. Però questo non voleva dire niente, perché Wang era il non plus ultra della riservatezza. Non avrebbe mai esibito le sue eventuali conquiste ai genitori. Ma si trattava davvero solo di riservatezza? O semplicemente al figlio non interessava granché l’articolo? E non poteva mica dirla così, alla moglie, soprattutto nelle condizioni di salute in cui la povera donna si trovava ormai da un anno. Non è che puoi dire ad una madre adottiva: sai che tuo figlio si veste da donna? Quali sensi di colpa avresti scatenato nel suo intimo? Ci mancava solo questo.
Ma poi era davvero di una scarpa rossa, quella punta delicata che aveva intravisto? O era solo un oggetto d’ufficio di colore rosso caduto per terra, che dalla sua prospettiva poteva sembrare una calzatura? Non è che ci aveva ricamato lui di fantasia? Boh: sembrava proprio una scarpa. Sua moglie doveva averne un paio uguali, dello stesso colore. Un rosso opaco. Quasi rosa. Mentre era fermo nel corridoio del piano inferiore vide la porta dell’ufficio di Wang che si apriva. Mr. Ross si nascose dietro a una colonna e provò a sbirciare verso alto.
Dall’ufficio uscì il solo Wang e si incamminò a passo lesto lungo il corridoio, nella direzione opposta alle scale. Ma il filosofo diede a suo padre l’idea di aver indugiato un momento di troppo sulla soglia, prima di chiuderla: come se avesse detto qualcosa a qualcuno (o qualcuna?) che era rimasto dentro l’ufficio. Quindi c’era davvero qualcun altro? Mr. Ross fu tentato dal tornare al piano di sopra, appena Wang fosse andato via, per bussare di nuovo a quella porta e capire qualcosa di più di quello che succedeva là dentro. Il suo desiderio era solo tornare a casa dalla moglie e raccontarle finalmente di aver trovato il figliolo felice, realizzato, magari con una bella ragazza al suo fianco. Una bionda wasp che avrebbe risolto tutti i suoi eterni complessi di immigrato adottato. Ma se invece gli avesse aperto la porta un omaccione barbuto? Oddio. No. Ma le scarpette rosse non potevano essere mica di un omaccione: o erano di una donna o erano di Wang. Che casino. Che ridda di supposizioni. Il piccolo Wang avrebbe rappresentato per sempre un enigma irresolubile; meglio mettersi l’anima in pace: sarebbero morti senza capire niente di quello spirito aggrovigliato. Alla moglie non avrebbe detto niente. Solo che aveva incontrato il prof. Wang e che si erano cordialmente salutati. E che aveva davvero un bell’ufficio.