Di Jack Orlando
Jake Hanrahan; Gargoyle. Cronache di guerre, prigioni e rivolte; Nero Edizioni; Roma 2024; 159 pp. 15€
Frammenti proiettati in aria dalla deflagrazione di un IED.
Schegge rapide, grezze, taglienti.
I reportage di Jake Hanrahan non somigliano ai pezzi di un ordigno casalingo solo per lo stile asciutto e ruvido, lontano tanto dal lirismo della miglior tradizione di reportage di guerra quanto da quella, solitamente sterile e piatta, del contemporaneo.
Ma perché, venendo dagli anfratti bui del nostro tempo, ne riflettono la frammentazione accelerata e impazzita.
L’occhio di Hanrahan, ancor prima di diventare frontman del progetto media indipendente Popular Front (qui), si muove attraverso scenari che hanno costituito l’ossatura degli anni ’10 del ventunesimo secolo e hanno segnato i passaggi di formazione per una generazione venuta a maturazione proprio in quel frangente.
Piccoli frammenti, storie dimenticate o sconosciute, che illuminano i grandi processi della storia. Attraverso questa angolatura ai margini Hanrahan si muove, osserva e riporta.
In pochi conoscono la sigla YDG-H, o le centinaia di storie di giovani e meno giovani partiti da ogni parte del mondo per combattere l’ISIS sotto la bandiera della rivoluzione confederalista-democratica curda.
A dire il vero, fino all’autunno del 2014 quasi nessuno conosceva la questione del Kurdistan e la lotta del PKK.
Qualche analista internazionale, una manciata di reporter indipendenti e sparuti militanti anarchici o comunisti, ogni tanto un agente dei servizi.
Esattamente il milieu che si era riversato ai confini turco-siriani in quegli anni tra le macerie del fronte, le pozzanghere dei campi profughi, l’eco delle mitragliatrici e le notti di scontri tra giovani incappucciati e polizia.
Una piccola meteora, un micro universo emerso dall’ombra e rimasto sotto la luce per un paio d’anni prima di tornare in un buio fatto di disinteresse mediatico, insorgenze jihadiste e il logoramento di una costante minaccia d’invasione turca atta a soffocare l’esperienza confederale.
Sul quel confine si intrecciarono innumerevoli e sconosciute traiettorie, che nel loro compenetrarsi hanno però ridefinito un paradigma del possibile. Il primo lascito delle rivoluzioni è l’impronta che tracciano nell’immaginario comune, nello squarciare il velo dell’ineluttabilità. Tuttora sono ancora pochi a conoscere i battaglioni internazionali delle YPG, ormai ridotti a un lumicino, o le centinaia di adolescenti organizzati nelle YDG-H o negli altri gruppi della sinistra turca e curda, oggi deceduti in gran numero al fronte siriano o su quello interno, o gettati a marcire nelle carceri del macellaio Erdogan. Ma ancora meno sono quelli che oggi possono dire di non aver mai sentito parlare del Rojava e della lotta per il Kurdistan libero, laico e indipendente.
Qualcosa di simile accadeva al confine orientale dell’Ucraina nello stesso periodo. Una rivolta contro la corruzione e per maggiori garanzie democratiche si era ribaltata in un golpe nazionalista con pesanti infiltrazioni di formazioni neonazi.
L’eredità avvelenata e irrisolta del tracollo sovietico, aveva finito per spezzare il paese in due, con morti e feriti e la Casa dei sindacati di Odessa trasformata in mattatoio; i calcoli geopolitici della NATO e del Cremlino, usando le teste degli ucraini come regoli, avevano fatto il resto.
La guerra civile, le Repubbliche Popolari di Donetsk e Lugansk, la Crimea russa, l’estetica sovietico-nostalgica, i battaglioni neonazisti Donbass, Azov e Tornado.
Fino al febbraio 2022 se dicevi Donbass a qualcuno, era molto probabile che restasse a guardarti con occhio interrogativo, e la guerra è arrivata scuotendo il pero da cui sono cascati tutti.
Eppure erano otto anni che tutti (o almeno quei pochi) quelli che erano stati sulla linea del Donbass andavano dicendo che lì sarebbe scoppiata la nuova guerra europea. Voci inascoltate.
Otto anni di guerra civile con le sue logiche impazzite, i suoi personaggi picareschi e truci, che avevano costruito un altro microcosmo che nessuno guardava ma dove si cucinavano le ricette del futuro.
Ancora nomi sconosciuti. Atomwaffen Division. Una variante neonazista psicopatica giunta a maturazione negli USA del declino. Strategie terroristiche per il collasso sociale e deliri sulla costruzione di etnostati bianchi, accelerazionismo, social media e gusto per l’ultraviolenza.
Un piccolo frammento del fiume carsico neonazista, ormai in piena, che scorre nelle vene degli Stati Uniti da oltre sessant’anni. Ancora, Hanrahan si porta avanti sui tempi e va dove altri non vanno e scava nelle chat e negli orrori dei militanti di AtomWaffen.
Ancora in pochi avevano fiutato l’aria al tempo; per qualche strana alchimia si ripropone lo stesso milieu di reporter, militanti, analisti e investigatori di polizia, stavolta in un gioco del gatto col topo per capire quanto davvero ci fosse di pericoloso e dirompente dietro quelle nuove teste di morto.
Sembrava una cosa per esaltati che giocano alle spie, e oggi tutte le anime belle della democrazia si piangono l’insorgenza neofascista. Come fosse spuntata di colpo, una candid camera di pessimo gusto. E invece era lì che covava e camminava nell’ombra.
Adesso è chiaro, lo sanno tutti, il mondo di ieri è scomparso per sempre, una consapevolezza che ha sgretolato gran parte delle narrazioni di cui si nutriva il senso comune liberale. Almeno in Occidente, perché altrove la catastrofe era iniziata da un pezzo.
Ma è negli sconvolgimenti degli anni ’10 che si andava preparando il caos odierno, in quegli smottamenti bisogna scavare per ritrovare un filo di senso che tenga insieme l’ottusa età dell’oro neoliberista che ha battezzato l’inizio del secolo e la frana che si sta portando giù sempre più rapidamente un ordine che si fingeva naturale e immutabile, nonostante la sua brevissima e dannosa vita.
I viaggi di Jake Hanrahan sono un ottimo viatico per questo limbo e ciò che lo ha seguito.
Un modo immediato per riguardare dentro la parentesi in cui il presente si è andato (de)formando, e noi con lui.