di Alberto Molinari e Gioacchino Toni

[Il volume di Massimo Cervelli, L’allenatore di calcio in Italia. Storia socioculturale di una professione (Biblion, 2024), propone una meticolosa ricostruzione della storia dell’allenatore di calcio in questo paese, prima figura professionista dell’universo calcistico nazionale. Di seguito si propone un’intervista all’autore su alcuni snodi da lui trattati nel libro].

D. Per tratteggiare la storia dell’allenatore di calcio in Italia conviene partire dagli inizi, dalla cosiddetta epoca pionieristica, quando questa figura non esisteva…

R. Il 15 maggio 1910 la Nazionale giocava la sua prima partita, ma il football italiano non conosceva ancora la figura dell’allenatore. La gestione della Nazionale era consegnata a commissioni tecniche composte principalmente da arbitri, gli unici che conoscevano i giocatori, avendoli osservati durante le partite. Nelle squadre era emersa la figura del capitano, una sorta di responsabile del comportamento tenuto in campo, nei confronti degli avversari e dell’arbitro. Era lui, il giocatore più esperto e carismatico che, assieme a qualche componente del Consiglio direttivo, decideva la formazione da schierare in campo. Il capitano rispondeva a codici di comunicazione bidirezionali, condivisi con i compagni più esperti: sapere come stare in campo (posizione, controllo degli avversari, calcio del pallone) e iniziazione dei giovani. Era un calcio semplice, basato sul kick and run e col primitivo schieramento sulle tre linee dell’originaria piramide: i terzini, terza linea, i mediani, linea di mezzo, e gli attaccanti, la prima linea.

D. Come nasce la figura dell’allenatore e che cambiamenti comporta nel panorama calcistico italiano?

R. Parafrasando una vecchia canzone socialista del primo dopoguerra, si può dire che, al posto di uno strano soldato, nel calcio avanzasse uno strano mestiere. Nel 1912, il Genoa, il club più organizzato, ingaggiò, grazie alle proprie ascendenze britanniche, William Garbutt un ex calciatore a cui assegnò il compito di guidare la squadra. C’era già Vittorio Pozzo al Torino, ma rappresentava una storia molto particolare. Garbutt ebbe un effetto dirompente, tant’è che ancora oggi l’allenatore viene chiamato mister. Con lui arrivarono altri britannici, una prima, ristretta, avanguardia di tecnici stranieri, fermata dalla grande guerra che confinò il pallone nelle trincee di tutta Europa – dove divenne il miglior passatempo, ma si giocava in mezzo ad una carneficina: 571 mila morti e oltre due milioni tra feriti e mutilati il bilancio italiano.

D: Con gli allenatori, regolarmente stipendiati, arrivò il professionismo. La sua generalizzazione fu immediata?

R. Il calcio non poteva più essere un’attività occasionale, doveva essere un lavoro full time adeguatamente retribuito. Arrivarono le prime denunce: sul Genoa piovvero accuse di professionismo per il pagamento di alcuni calciatori. Era già avvenuto un mutamento delle condizioni in cui si giocava. All’inizio i calciatori dovevano provvedere al loro vestiario, alle spese per gli spostamenti, all’organizzazione dei banchetti da offrire agli avversari dopo la partita e ai costi di gestione del loro sodalizio. I costi determinarono il carattere borghese e aristocratico dei primi club. Con lo sviluppo del movimento l’estrazione sociale cambiò rapidamente, ma l’Italia (“si fa ma non si dice”) non voleva riconoscere il professionismo, lo fece solo nel secondo dopo guerra.

D. Cosa deve il calcio italiano, oltre al professionismo, ai tecnici stranieri?

R. Negli anni Venti, come conseguenza della dissoluzione degli Imperi centrali, arrivarono oltre quaranta calciatori professionisti provenienti da Ungheria, Austria e Cecoslovacchia. Portarono un ricco bagaglio tecnico: finte, abilità nel controllare la palla con tutte le parti del piede, educazione al tiro con le diverse posizioni del corpo… Molti di loro diventarono allenatori, dando al nostro calcio l’impronta del gioco danubiano che, “non lasciava nulla al caso, muovendo i giocatori in campo con la precisione di un giocatore di scacchi che muove le sue pedine”. Una vera e propria colonizzazione sportiva che dette una precisa impronta tattica e stilistica al nostro calcio. Dal 1923 al 1930, i campionati furono vinti soltanto da allenatori stranieri e il primo manuale sulla conduzione di una squadra fu scritto da Arpad Weisz, espulso dall’Italia dalle leggi razziali e poi deportato dai nazisti e ucciso ad Auschwitz.

D. Questo massiccio ricorso ad allenatori stranieri avveniva durante il fascismo…

R. La riorganizzazione dello sport italiano fu parte della fascistizzazione delle istituzioni dello stato che sfociò nella costruzione del regime fascista. Agli inizi degli anni Trenta si posero l’obiettivo politico di creare una scuola per allenatori italiani, con il fine di costruire un futuro autarchico. C’era la volontà di passare dalla bottega artigiana, con l’apprendista che imparava accanto al maestro, ad una scuola di livello superiore, arrivando a regolamentare e disciplinare la figura dell’allenatore. Nel 1933 partì la Scuola Allenatori, ma pochi mesi dopo fu defenestrato, in uno dei tanti scontri tra gerarchi fascisti, Arpinati, presidente della FIGC e la Scuola non venne riproposta.

D. E di corsi per allenatori non se ne parlò più?

R. Nel 1940, per difendere il primato del calcio italiano che aveva vinto due Mondiali e un’Olimpiade, fu creato il Centro di Preparazione Tecnica che aveva anche il compito di definire il ruolo degli allenatori e la sua formazione, ma i primi corsi, per massaggiatori e aiutanti allenatori, vennero organizzati a Firenze nell’estate del 1943, pochi giorni prima della caduta del fascismo.

D. Nel dopoguerra da dove ripartì la FIGC e con quale sintonia con la nuova fase di sviluppo?

R. La FIGC mantenne quasi interamente il corpo dirigente che l’aveva diretta durante il fascismo e ripropose, sia dal punto di vista dell’inquadramento che da quello della formazione, l’approccio maturato. Dal 1949 furono riproposti i corsi, con materie e modalità organizzative che richiamavano le precedenti esperienze, ma con un passo indietro sul piano delle ambizioni: non si pensava più ad una Scuola, ci si accontentava di spiegare il mestiere prima di concedere il patentino per allenare. Nel dopoguerra, nell’Italia repubblicana, prendevano il via i programmi di formazione professionale per rispondere alle esigenze della popolazione adulta, scarsamente scolarizzata, e a quelle della ricostruzione e, successivamente, all’inizio di una fase economica espansiva, a una massa giovanile, anch’essa con scarsi livelli di scolarità. I corsi sviluppavano, con esercitazioni pratiche, capacità di lavoro, dando un mestiere. In questi anni si sovrappongono due fasi della storia economica italiana: l’urgenza della ricostruzione, in cui la forza lavoro va avviata ai mestieri, e quella successiva, dove il lavoro necessitava di una maggiore qualificazione professionale. Il 1950, l’anno in cui il reddito reale pro-capite torna ai livelli d’anteguerra, può essere considerato lo spartiacque tra le due fasi.

D. E poi arrivano gli anni del “miracolo economico” o, per meglio dire, della concentrazione del potere economico in grandi società nazionali o multinazionali e il crescente intervento dello stato nell’economia, il neo capitalismo italiano…

R. Il 1958 è l’anno di inizio del “boom economico” quando, per la prima volta gli operai sono più numerosi dei contadini ed entra in funzione la Comunità Economica Europea (CEE). È anche l’anno zero del calcio italiano che non ottiene la qualificazione ai Mondiali e viene commissariato dal CONI. Il commissariamento termina, l’anno successivo, con l’elezione del ventiquattrenne Umberto Agnelli, presidente della Juventus, alla presidenza federale. La ricostruzione tecnica del calcio italiano viene affidata a Walter Mandelli, dirigente industriale e vicepresidente della Juventus. Nel frattempo (1958) è stato aperto il Centro Tecnico Federale di Coverciano e cominciano, nel 1961, i primi corsi UEFA per allenatori e dirigenti europei. L’obiettivo di Mandelli è formare allenatori convenientemente istruiti e non solo sommariamente abilitati. I corsi per allenatori professionisti diventano biennali, con le fasi residenziali nell’estate per non ostacolare il lavoro, con lezioni di tecnica calcistica, medicina sportiva, storia degli sport, regolamento di gioco, carte federali e preparazione ginnico atletica. La filosofia è ben espressa da Mandelli: “Noi abbiamo l’obbligo di insegnare a tutti le leggi fondamentali del calcio. Fermi non ha scoperto l’atomo, né Fleming la penicillina all’università. Ma è stata l’educazione della scuola che ha dato a Fermi ed a Fleming, perdonatemi l’irriverenza, le basi dei loro studi”. La Scuola di Coverciano respingeva la definizione di fabbrica degli allenatori. L’allenatore lo seleziona il campo, la pratica effettiva. La scuola lo avvia alla professione, aiuta a trasformare la pratica in teoria e la teoria in pratica.

D. Qualche anno dopo si passa dai corsi al Supercorso…

R. Sono sempre le vicende della Nazionale a dettare le politiche federali. Dopo il fallimento ai Mondiali 1974, Artemio Franchi assume la presidenza del Settore Tecnico e punta su Italo Allodi, il dirigente sportivo più quotato, ed anche più discusso, del momento, che presenta un piano per istruire, abilitare e inquadrare gli allenatori nelle nuove condizioni del calcio contemporaneo, con la sistematica istruzione di tutte le figure tecniche attraverso la valorizzazione dei titoli abilitanti. Un corso parauniversitario, con materie inusuali come sociologia, psicopedagogia, sessuologia, alimentazione, psicologia, i compiti del sindacato, le questioni fiscali, la medicina sportiva applicata al calcio. Viene definito Supercorso ed introduce un modello duale nel processo di formazione: lezioni in aula e missioni di studio a contatto con l’esperienza pratica nei maggiori club. Dura nove mesi e sono tutti residenziali, a Coverciano, tranne i periodi di aggiornamento all’estero. Gli allievi possono ricorrere ad un prestito d’onore federale ed utilizzare successivamente borse di studio. È una rivoluzione che pone Coverciano al centro dell’attenzione internazionale e produce anche il primo corso per Direzione di Società di Calcio (1980-81). Le società calcistiche erano diventate aziende di medio-grande dimensione e, come nelle imprese di altri settori e comparti, la loro gestione comportava problematiche sempre più complesse, passando dal modello imprenditoriale-padronale al management organizzato. La rivoluzione finisce nel 1982 con la vittoria ai Mondiali, Bearzot e Allodi erano inconciliabili…

D. Gli anni Ottanta sono gli anni del riflusso, anche in questo settore?

R. Esatto, con la restaurazione dei vecchi corsi, preoccupandosi solo di salvare la dimensione internazionale di Coverciano. Alla fine del decennio, con la gestione Abete, la Scuola Allenatori viene totalmente rivista, con un mutamento di orizzonte nella didattica: maggiore spazio alla cultura, calcistica e scientifica, intensificando scambi e contatti con le maggiori realtà europee ed extra europee. Il corso Master di alta specializzazione per gli allenatori di 1a categoria, diviso in due sessioni estive, e con l’introduzione della comunicazione come materia fondamentale è il suo esito.

D. Ed oggi cosa succede in Italia nel campo della formazione degli allenatori?

R. La dinamicità del football ha portato negli ultimi vent’anni ad una maggiore specializzazione (calcio a 5, calcio femminile, preparatori atletici, preparatori dei portieri, di formazioni giovanili, osservatori, match analyst…) con conseguenti corsi dedicati.
L’allenatore europeo contemporaneo è un gestore di conoscenze in un gioco cognitivo che dipende dalla capacità, singola e collettiva, di dare risposte in tempo reale alle situazioni che si creano in campo. Il paradigma formativo della Scuola di Coverciano è la flessibilità: il calcio si rinnova ogni giorno e bisogna essere pronti a catturare e interpretare le novità, agli aspiranti allenatori vengono spiegate le varie impostazioni e interpretazioni tattiche, le filosofie di gioco applicate dai tecnici. Vengono indicate le novità e i mutamenti del calcio. Alla Scuola sono stati eliminati i libri di testo, poiché, in una disciplina in continuo movimento, esprimono concetti già superati. L’allievo entra senza libri e con delle convinzioni, ma esce senza certezze e con un testo scritto da lui, una prima idea del calcio che proporrà. Come dice il direttore della Scuola, Renzo Ulivieri bisogna “essere meticci, imparare a mescolare le nostre culture”. Flessibilità e ibridazione sono il vero punto di arrivo dopo decenni in cui, seppure in forma diversa, si ripresentava l’utopia di dare una comune identità tecnico-tattica e un medesimo stile di gioco a tutti.


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