di Franco Pezzini

(Si fornisce un altro assaggio del corso James & James – Fantasmi, sulle ghost stories di Henry James e Montague Rhodes James, e che riprenderà in autunno a Torino dopo la pausa estiva alla Libera Università dell’Immaginario.)

“Count Magnus” da Ghost Stories of an Antiquary (1904)

La voce narrante ci avvisa che si saprà solo alla fine come i documenti sul caso che verrà riportato siano arrivati tra le sue mani. Si tratta in gran parte di appunti per un travelogue, un libro di viaggi come spesso ne venivano varati a metà ottocento (si pensi solo al “Diario di un soggiorno nello Jutland e nelle isole danesi” di Horace Marryat). Su questa tipologia di pubblicazione James – a sua volta viaggiatore nei paesi scandinavi, e che studia anche le lingue svedese e danese, traducendo tra l’altro Andersen – fornisce un quadro molto efficace, da studioso di letteratura:

 

Di solito questi libri parlavano di qualche parte poco conosciuta del continente. Erano illustrati con xilografie o incisioni. Fornivano descrizioni degli alberghi e dei mezzi di comunicazione, proprio come oggi noi ci aspettiamo di trovarne in ogni guida turistica ben fatta, e riportavano ampi brani di conversazioni con stranieri intelligenti, proprietari di locande caratteristiche e contadini loquaci. In una parola, erano discorsivi.

 

Ma poco a poco il materiale – funzionale proprio a una pubblicazione di quel genere – prende ad assumere una fisionomia molto più soggettiva, di esperienza personale, e così fin quasi alla fine. A scrivere è un certo signor Wraxall, di cui il narrante conosce solo ciò che emerge dallo scritto, un uomo solo al mondo, che ha superato la mezza età e gode di un certo benessere. In Inghilterra, forse in attesa di radicarsi da qualche parte, vive in alberghi e pensioni, ed è possibile “che l’incendio del Pantechnicon nei primi anni Settanta abbia distrutto gran parte di ciò che avrebbe potuto gettare luce sul suo passato, perché una o due volte egli fa riferimento a oggetti di sua proprietà che erano immagazzinati in quello stabilimento”. Il Pantechnicon, costruito nel 1830 come un centro di art and crafts, era divenuto un enorme deposito di mobili dalle parti di Belgrave Square a Londra, e andò distrutto per un incendio nel febbraio 1872.

Wraxall ha già editato almeno un travelogue relativo alla Bretagna, ma probabilmente in forma anonima o sotto pseudonimo, il che rende impossibile al narrante una ricerca bibliografica. Del suo profilo, per quanto si può evincere, risulta un uomo colto e intelligente: pare stesse tra l’altro per diventare Fellow del suo college a Oxford, Brasenose. “Il suo difetto principale era, senza ombra di dubbio, l’eccessiva curiosità, forse un difetto positivo in un viaggiatore, ma che sicuramente il viaggiatore in questione finì per pagare molto caro”.

All’epoca della sua ultima spedizione ha in programma un altro libro: e trova un soggetto d’interesse nella Scandinavia, al tempo poco nota agli inglesi.

 

Doveva essersi entusiasmato per qualche vecchio libro di storia svedese o per qualche scritto su questo Paese, e gli era venuta l’idea che fosse il momento giusto per un libro che descrivesse un viaggio in Svezia, inframmezzato da episodi della storia di qualcuna delle principali famiglie svedesi. Quindi si procurò delle lettere di presentazione a persone di un certo rango in Svezia, e partì all’inizio dell’estate del 1863.

Non c’è bisogno di parlare dei suoi viaggi al nord, né del suo soggiorno di qualche settimana a Stoccolma. Devo solo accennare al fatto che qualche savant di lì lo mise sulle tracce di un’importante collezione di documenti di famiglia che appartenevano ai proprietari di un’antica dimora nel Vestergothland, e ottenne per lui il permesso di esaminarli.

Chiamerò la dimora, o herrgård, in questione, Råbäck (che si pronuncia più o meno Roebeck [ovviamente viene indicata una traslitterazione pseudo-fonetica anglofona]), anche se non è il suo vero nome. È una delle più belle costruzioni di questo genere in tutto il Paese, e il disegno nella Suecia antiqua et moderna di Dahlenberg, inciso nel 1694, la raffigura molto simile a come può vederla oggi un turista. Fu costruita poco dopo il 1600, ed è, grosso modo, molto simile a una casa inglese di quel periodo per quanto riguarda il materiale – mattoni rossi e rivestimenti di pietra – e lo stile. L’uomo che la costruì apparteneva al grande casato dei De la Gardie, e i suoi discendenti ne sono ancora i proprietari. De la Gardie è il nome con cui li designerò quando sarà necessario parlare di loro.

 

La famiglia lo accoglie con grande gentilezza, insisterebbe perché restasse da loro per tutto il tempo delle ricerche, ma lui preferisce far base alla locanda, a circa un miglio di passeggiata dalla casa. Questa è circondata da un parco con un bosco; poi, oltre il muro di cinta e una ripida collinetta, c’è la chiesa con alberi scuri e alti attorno.

 

Era una costruzione curiosa agli occhi di un inglese. Le navate erano basse, piene di banchi e gallerie. Nella galleria a ovest c’era un magnifico vecchio organo con le canne d’argento, dipinto a vivaci colori. Il soffitto era piatto, e un artista del diciassettesimo secolo lo aveva ornato con uno strano e orribile ≪Giudizio Universale≫ pieno di fiamme rosseggianti, citta che crollavano, navi che bruciavano, anime piangenti e diavoli scuri e ghignanti. Dal tetto pendevano delle belle corone di ottone; il pulpito sembrava una casa di bambole, ricoperto di piccoli cherubini e santi di legno dipinto; al leggio del predicatore era fissato un ripiano con tre clessidre. Cose del genere si vedono ancora oggi in molte chiese svedesi, ma ciò che distingueva questa dalle altre era un’aggiunta alla costruzione originaria. In fondo alla navata nord il costruttore della casa aveva edificato un mausoleo per sé e per la sua famiglia. Era una costruzione piuttosto grande, ottagonale, illuminata da una serie di finestre ovali, con il tetto a cupola sormontato da una specie di oggetto a forma di zucca che terminava con una punta, un motivo ornamentale prediletto da molti architetti svedesi. Esternamente il tetto era di rame, dipinto di nero, mentre le pareti, come quelle della chiesa, erano di un bianco accecante. Dalla chiesa non c’era nessuna via di accesso a questo mausoleo. Aveva il suo ingresso e la sua scalinata sul lato nord.

 

E il lato nord, lo sappiamo da altri racconti dell’autore, è quello meno tranquillizzante. Vi si tumulano infatti d’uso figure dalla fama discussa, streghe e suicidi, in conformità all’idea di nord come associato al male.

Comunque il primo giorno della permanenza in loco, Wraxall trova aperta la chiesa – prendendo appunti sull’interno – ma non il mausoleo, di cui riesce a occhieggiare solo qualcosa (statue, sarcofaghi, ornamenti araldici) dallo spioncino.

I documenti trovati alla casa (corrispondenza, diari, libri contabili…) permettono allo studioso di raccogliere una quantità di storie pittoresche: in particolare del capostipite Magnus De la Gardie, che aveva contribuito a stroncare con severità le rivolte contadine, e il cui ritratto spicca “più per la sua forza che per la sua bellezza o la bontà; infatti egli scrive che il conte Magnus era un uomo straordinariamente brutto”. Wraxall cena con la famiglia, e si ripromette di chiedere al sacrestano di farlo entrare nel mausoleo, che gli pare di aver visto aprire o chiudere.

 

Leggo poi che il giorno seguente, la mattina presto, il signor Wraxall scambio qualche parola con l’albergatore. Il fatto che avesse riportato la conversazione per esteso a tutta prima mi sorprese; ma subito mi resi conto che le carte che stavo leggendo erano, almeno da principio, il materiale per il libro cui stava pensando, e che questo sarebbe stato una di quelle produzioni semi-giornalistiche che consentono l’introduzione di conversazioni su svariati argomenti.

Il suo scopo, egli dice, era quello di scoprire se nei luoghi dove era vissuto il conte Magnus restasse ancora qualche tradizione legata a costui, e se l’opinione che la gente aveva di lui fosse o no favorevole. Scoprì che il suo conte non era assolutamente benvoluto. Se i suoi affittuari arrivavano tardi nei giorni in cui dovevano lavorare per lui in quanto signore del luogo, venivano messi sul cavalletto di tortura, o fustigati e marchiati a fuoco nel cortile della casa. C’erano stati un paio di casi di uomini che avevano occupato terreni facenti parte della proprietà del signore, le cui case erano andate misteriosamente a fuoco in una notte d’inverno, con tutta la famiglia dentro. Ma quello che più di tutto sembrava essere rimasto impresso all’albergatore – perché tornò sull’argomento più di una volta – era che il conte aveva partecipato a un pellegrinaggio nero, e ne aveva riportato qualcosa, o qualcuno, con sé.

 

Cos’è un pellegrinaggio nero? Per ora le informazioni a Wraxall da parte dell’albergatore sono molto elusive. Comunque durante lo studio le carte lo stornano su un alto tema, la “corrispondenza fra Sophia Albertina a Stoccolma e la sua cugina sposata Ulrica Leonora a Råbäck, negli anni dal 1705 al 1710”, di eccezionale interesse per lo sviluppo della cultura un Svezia. Terminata la lettura, esplora alcuni dei volumi più vicini, scoprendo che quasi tutto lo scaffale è occupato da una

 

raccolta di libri contabili scritti di pugno dal primo conte Magnus. Uno di essi non era un libro contabile, ma un testo di alchimia e altri trattati, in un’altra grafia del diciassettesimo secolo. Non conoscendo molto bene la letteratura alchemica, il signor Wraxall perse molto tempo che avrebbe potuto altrimenti risparmiare per elencare i titoli e le prime righe dei vari trattati: il Libro della fenice, il Libro delle trenta parole, il Libro del rospo, il Libro di Miriam, la Turba philosophorum, e cosi via; e poi annuncio con abbondanza di particolari la sua gioia nel trovare, su di una pagina originariamente lasciata bianca quasi a metà del libro, uno scritto del conte Magnus in persona, intitolato Liber nigræ peregrinationis. È vero che si trattava solo di poche righe, ma era abbastanza per capire che quella mattina l’albergatore aveva accennato a un’antica credenza che risaliva ai tempi del conte Magnus, e probabilmente era da lui condivisa.

Questa è la traduzione di quel che c’era scritto:

≪Se si desidera una vita lunga, se si desidera avere un emissario fedele e vedere il sangue dei propri nemici, prima è necessario recarsi alla citta di Chorazin, e qui salutare il principe…≫. A questo punto c’era una cancellatura, non perfettamente eseguita, cosi che il signor Wraxall si sentì abbastanza sicuro di non sbagliare nel leggere aeris (dell’aria). Ma non c’era altro, solo un rigo in latino: ≪Quære reliqua hujus materiei inter secretiora» (Cerca il resto di questa faccenda fra le cose più segrete).

 

Chorazin o Corazin è una delle città maledette del Nuovo Testamento, nell’ambito di un’invettiva di Gesù contro alcune città incredule, presente nei vangeli di Matteo (11,21-24: “Guai a te, Corazin! Guai a te, Betsàida. Perché, se a Tiro e a Sidone fossero stati compiuti i miracoli che sono stati fatti in mezzo a voi, già da tempo avrebbero fatto penitenza, ravvolte nel cilicio e nella cenere. Ebbene io ve lo dico: Tiro e Sidone nel giorno del giudizio avranno una sorte meno dura della vostra. E tu, Cafarnao, sarai forse innalzata fino al cielo? Fino agli inferi precipiterai! Perché, se in Sòdoma fossero avvenuti i miracoli compiuti in te, oggi ancora essa esisterebbe! Ebbene io vi dico: Nel giorno del giudizio avrà una sorte meno dura della tua!”) e di Luca (10,13-15: “Guai a te, Corazin, guai a te, Betsàida! Perché se in Tiro e Sidone fossero stati compiuti i miracoli compiuti tra voi, già da tempo si sarebbero convertiti vestendo il sacco e coprendosi di cenere. Perciò nel giudizio Tiro e Sidone saranno trattate meno duramente di voi. E tu, Cafarnao, sarai innalzata fino al cielo? Fino agli inferi sarai precipitata!”).

Per capire come si possa giungere all’idea della peregrinazione nera occorre prendere la celeberrima opera del padre medioevale degli scrittori di viaggio inglesi, un apocrifo Jehan de Mandeville anglicizzato come sir John Mandeville, The Travels of Sir John Mandeville (anche Voyage d’outre mer, le prime versioni rinvenute sono in francese), con il suo viaggio attraverso l’oriente islamico e fino all’estremo oriente: un viaggio certo immaginario e fitto di elementi fantastici ma tale da influenzare in seguito la cultura dell’esplorazione e viaggiatori come Colombo e Martin Frobisher. In ogni caso, proprio lì si trova una citazione interessante: “Dissero alcuni che a Corazin o a Babilonia nascerà l’Anticristo, sarà nutrito a Betsaida e regnerà a Cafarnao”: appunto le tre città maledette. Ma già l’influente Apocalisse dello pseudo-Metodio, un testo siriano del VII secolo, parlava dell’Anticristo concepito a Corazin, e a questo probabilmente attinge il Mandeville; e aggiungiamo che a Chorazin, identificata a metà Ottocento, verrà trovata la cosiddetta sinagoga nera, perché costruita in basalto, una roccia nera vulcanica disponibile localmente. Farne un luogo di peregrinazioni demoniache non sembra insomma così strano.

Lo scritto di Magnus proietta una luce livida sulle sue convinzioni, ma Wraxall arriva a vederlo soltanto come figura pittoresca, e tornando verso la locanda continua a pensarci. Al passare davanti al mausoleo dichiara persino che vorrebbe incontrarlo: è abituato a parlare da solo, ma a quel punto trasale per un suono che attribuisce alla donna delle pulizie della chiesa, che farebbe cadere un oggetto metallico. Mentre “Il conte Magnus, credo, dorme abbastanza profondamente”. Quella sera poi, il locandiere gli fa incontrare “il sacrestano o diacono (come si chiama in Svezia) della parrocchia”, per organizzargli la visita al mausoleo, e segue una breve conversazione. Interpellato da Wraxall in merito a Chorazin (“non credo che ne restino altro che le rovine, no?”), il brav’uomo risponde che nella città tacciata d’infamia alcuni dei loro preti più anziani situavano la futura nascita dell’anticristo, ma glissa sulle leggende esistenti in merito e augura la buona notte a Wraxall. Questi, rimasto solo con l’albergatore Nielsen, spiega di aver “trovato qualcosa sul pellegrinaggio nero. Mi dica cosa ne sa. Che cosa ne riportò il conte Magnus?”.

 

Forse gli svedesi sono abitualmente lenti a rispondere, o forse l’albergatore era un’eccezione. Non ne sono sicuro; ma il signor Wraxall scrive che l’albergatore rimase a guardarlo per almeno un minuto prima di aprire bocca. Poi si fece più vicino al suo ospite e, con notevole sforzo, disse:

– Signor Wraxall, posso raccontarle una storia, ma non di più, non una parola di più. Quando gliela avrò raccontata non mi deve chiedere niente. Ai tempi di mio nonno – cioè novantadue anni fa – c’erano due uomini che dicevano: «Il conte è morto; noi non ci curiamo di lui. Stasera andremo a cacciare gratis nel suo bosco», il grande bosco sulla collina che si vede dietro Råbäck. Bene, chi li sentì parlare così, disse: «No, non andate; siamo certi che incontrerete persone che camminano e non dovrebbero camminare. Dovrebbero riposare in pace, non camminare». Quegli uomini risero. Non c’erano guardiani in quel bosco, perché nessuno desiderava andarci a caccia. La famiglia non era qui alla casa. Quegli uomini potevano fare quello che volevano.

Bene, quella notte andarono nel bosco. Mio nonno sedeva qui in questa stanza. Era estate e la notte era chiara. Con la finestra aperta, si poteva vedere il bosco, e sentire.

Cosi se ne stava qui seduto, e con lui due o tre altri uomini, e ascoltavano. All’inizio non sentirono niente; poi sentirono qualcuno – sapete quant’è lontano – sentirono qualcuno urlare, come se gli stessero strappando l’anima. Si strinsero gli uni agli altri, e rimasero seduti per tre quarti d’ora. Poi sentirono qualcun altro, a sole tremila ell di distanza. Lo sentirono ridere ad alta voce: non era uno di quei due uomini che rideva, e, per la verità, tutti loro dissero che non si trattava affatto di un uomo. Poi sentirono il rumore di una grande porta che si chiudeva.

Infine, appena spunto il sole, andarono tutti dal prete, e gli dissero:

≪Padre, si metta la tonaca e il collare, e venga a seppellire Anders Bjornsen e Hans Thorbjorn≫.

Lei capisce che erano sicuri che quegli uomini fossero morti. Cosi andarono nel bosco; mio nonno non lo dimenticò mai. Disse che anche tutti loro sembravano dei morti. Anche il prete era bianco di paura. Quando erano andati da lui, aveva detto:

≪Ho sentito un grido nella notte, e poi ho sentito una risata. Se non riuscirò a dimenticarmene, non potrò mai più dormire≫.

Così andarono, e trovarono questi uomini al margine del bosco. Hans Thorbjorn stava in piedi con la schiena appoggiata contro un albero, e continuava ad allontanare qualcosa con le mani, a spingere via qualcosa che non c’era. Quindi non era morto. Lo portarono via, e lo condussero a casa sua a Nykjoping, ed egli morì prima dell’inverno; ma non smise mai più di spingere con le mani. Anche Anders Bjornsen era lì, ma lui era morto. E io le dico che una volta Anders Bjornsen era un uomo bellissimo, ma ormai non aveva più faccia, perché la carne era stata succhiata via dalle ossa. Capisce? Mio nonno non lo ha mai dimenticato. Lo deposero sulla barella che avevano portato con loro, e gli coprirono la testa con un panno, e il prete gli camminava davanti; poi cominciarono a cantare salmi per il morto meglio che potevano. Ma, mentre stavano cantando la fine del primo verso, uno di loro cadde, quello che portava la barella dalla parte della testa, e quando gli altri si voltarono a guardare, videro che il panno era caduto, e gli occhi di Anders Bjornsen erano spalancati, perché non c’era niente che si chiudesse sopra di loro. Questo non potevano sopportarlo. Allora il prete lo coprì di nuovo con il panno, mandò a prendere una pala, ed essi lo seppellirono in quel luogo.

 

Il giorno dopo il diacono chiama Wraxall dopo colazione, e lo porta in chiesa e nel mausoleo. La chiave di quest’ultimo si trova appesa a un chiodo vicino al pulpito, quindi comodamente a disposizione – riflette il Nostro – per una seconda visita con calma.

All’ingresso vede i monumenti funebri – in genere del XVII e XVIII secolo – austeri ma sovraccarichi, con epitaffi e ornamenti araldici. Al centro dello spazio a volta si trovano tre sarcofaghi di rame con incisioni ornamentali, due contrassegnati da grandi crocifissi.

 

Il terzo, quello del conte Magnus, aveva, invece della croce, un suo ritratto a grandezza naturale inciso sul coperchio, e tutto intorno vi erano altre incisioni che rappresentavano vari episodi della sua vita. Una era una battaglia, con cannoni fumanti, città cinte di mura e truppe di uomini armati di alabarde. Un’altra mostrava un’esecuzione. In una terza c’era un uomo che correva a gran velocità fra gli alberi, con i capelli al vento e le braccia distese. Lo seguiva una strana creatura; sarebbe difficile dire se l’artista avesse inteso raffigurare un uomo, ma non fosse riuscito a renderlo abbastanza somigliante, o se fosse stata intenzionalmente rappresentata così mostruosa. Data l’abilità con cui era stato eseguito il resto del disegno, il signor Wraxall si sentì incline a optare per quest’ultima ipotesi. La creatura era estremamente bassa, e quasi tutta imbacuccata in un mantello con cappuccio che sfiorava il terreno. L’unica parte di quell’essere che usciva allo scoperto non aveva la forma né di un braccio né di una gamba. Il signor Wraxall la paragona al tentacolo di un diavolo di mare, e prosegue: «Vedendolo, mi dissi: “Questa, allora, che è evidentemente una rappresentazione allegorica di qualche avvenimento, un demonio che insegue un’anima perseguitata, può essere l’origine della leggenda del conte Magnus e del suo misterioso compagno. Vediamo come è rappresentato il persecutore: senza dubbio sarà un demonio che soffia in un corno”». Ma, come invece risultò, non c’era nessuna figura così impressionante, solo qualcosa che assomigliava a un uomo avvolto in un mantello, in piedi su di una collinetta, appoggiato a un bastone, che osservava l’inseguimento con un interesse che l’incisore aveva cercato di esprimere nel suo atteggiamento.

Il signor Wraxall notò i lucchetti di acciaio, pesanti e ben lavorati, tre in tutto, che assicuravano il sarcofago. Uno di essi, come osservò, si era staccato ed era rimasto per terra.

 

Poi, per non trattenere oltre il diacono e perdere tempo, torna al lavoro alla casa.

Ma la successiva annotazione è una registrazione di stupore a come un sentiero familiare permetta alla testa di fissarsi su un’unica cosa: e così tornando all’albergo si trova invece di nuovo vicino al cancello della chiesa, “nell’atto di cantare o salmodiare qualcosa del tipo: ‘Sei sveglio, conte Magnus? Dormi, conte Magnus?’, e poi qualcos’altro che non riesco a ricordare”. Anzi, probabilmente è lì da un po’… Recupera poi la chiave del mausoleo, entra a copiare gli epitaffi finché resta luce, e annota solo che doveva essersi sbagliato: a essere aperto, non è solo un lucchetto del sarcofago, ma due. Tenta invano di chiuderli, e a quel punto li pone sul davanzale della finestra. Il terzo è ancora saldo: si tratta probabilmente di lucchetti a molla, non riesce a capire come possano aprirsi. “Se ci fossi riuscito, temo proprio che mi sarei preso la libertà di aprire il sarcofago. È strano l’interesse che provo per la personalità di questo vecchio nobile così crudele e sinistro”.

Il giorno seguente è l’ultimo della permanenza: deve oltretutto tornare in Inghilterra per certi affari, ma il congedo è una faccenda un po’ lunga. Sia per l’affettuosa gentilezza dei signori della casa, che lo trattengono a pranzo, sia per la volontà di assorbire nella memoria quelle scene e quei panorami. Deve anche, riflette, congedarsi dal conte Magnus: per cui prende la chiave in chiesa, entra nel mausoleo e prende a parlare come d’abitudine da solo ad alta voce. “Forse sei stato un po’ scapestrato ai tuoi tempi, conte Magnus […] ma è proprio per questo che mi piacerebbe vederti, o, piuttosto…”. Ma in quel momento sente come un soffio su un piede, lo ritrae e qualcosa cade sul pavimento: si china a raccogliere così il terzo lucchetto e all’improvviso vede con orrore il coperchio del sarcofago che si solleva – e comprensibilmente fugge, ma senza chiudere la porta. Annota tutto questo ancora atterrito una ventina di minuti dopo: “So soltanto che a spaventarmi fu qualcosa di più di quello che ho scritto, ma se fosse un suono o una vista non riesco a ricordarlo. Che cosa ho fatto?”: dove a inquietarlo è anche questa strana amnesia, simile allo stato assorto con cui tornava dalla casa all’albergo passando per la chiesa…

Insomma, torna in Inghilterra, ma abbastanza distrutto, come provano grafia alterata e annotazioni sconnesse: e “Uno dei numerosi piccoli taccuini che sono giunti in mio possesso con le sue carte” riporta ben sei angosciatissimi tentativi di descrivere gli altri passeggeri del suo viaggio di ritorno in barca lungo i canali. Appunti come:

 

  1. Pastore di campagna dello Skåne. Solito cappotto nero e cappello floscio nero.

  1. Viaggiatore di commercio di Stoccolma diretto a Trollhättan. Mantello nero,

cappello marrone.

  1. Uomo con un lungo mantello nero, cappello a larghe tese, molto all’antica.

 

Anche se poi l’annotazione è cancellata e sostituita con:

 

“Forse identico al n.ro 13. Non l’ho ancora visto in faccia”. Andando al n.ro 13, vedo che è un prete cattolico romano in tonaca.

Il risultato finale del conteggio e sempre lo stesso. Sono elencate ventotto persone, e una e sempre l’uomo con il lungo mantello nero e il cappello a larghe tese, e un’altra “una figura bassa con mantello e cappuccio scuri”. Ma d’altra parte, vi e sempre annotato che solo ventisei passeggeri si fanno vedere ai pasti, e che l’uomo con il mantello forse non c’è, e la figura bassa non c’è sicuramente.

 

Sbarcato in Inghilterra ad Harwich nell’Essex, Wraxall cerca “di mettersi al riparo da una o più persone che non specifica mai, ma che evidentemente era arrivato a considerare suoi persecutori”: quindi evita la ferrovia e sale su una carrozza chiusa, dirigendosi al villaggio di Belchamp St Paul, appunto nell’Essex. Giunge nei pressi alle nove di una sera di luna piena d’agosto, e a un tratta un incrocio nota due figure che non gli sono nuove, “immobili; tutte e due portavano mantelli scuri; quella più alta aveva un cappello, la più bassa un cappuccio”. Allora il cavallo scarta e galoppa via, conducendolo atterrito al villaggio, dove trova una camera ammobiliata. Vi si ferma per le successive ventiquattr’ore, scrivendo appunti sconnessi e attendendo l’apparire dei persecutori al ritornello di “Che cosa ho fatto?”, e “Non c’è una speranza?”. Sa che i medici lo giudicherebbero pazzo, la polizia riderebbe e il parroco non è al paese: “Che altro può fare oltre a chiudere a chiave la sua porta e implorare il Signore?”.

L’anno precedente, annota la voce narrante,

 

la gente di Belchamp St Paul si ricordava ancora di uno strano tipo che era arrivato una sera di agosto di alcuni anni prima; la mattina del secondo giorno venne trovato morto, e ci fu un’inchiesta; della giuria che esaminò il cadavere, sette svennero, e nessuno volle parlare di quello che aveva visto; il verdetto fu morte per cause naturali; ma i proprietari di quella casa traslocarono quella stessa settimana, e lasciarono la regione. Ma essi non sanno, credo, che sul mistero si è aperto, o potrebbe aprirsi, uno spiraglio di luce. Infatti l’anno scorso quella casa è divenuta di mia proprietà in quanto parte di un lascito. Era rimasta vuota dal 1863, e non sembrava ci fossero prospettive di poterla affittare. Così la

feci buttare giù, e le carte di cui vi ho dato un estratto vennero trovate in una cassapanca dimenticata sotto la finestra della camera da letto più bella.

 

Ovviamente la storia narrata è finzione, e il conte Magnus di James uno dei più raggelanti vilain della letteratura – tanto più nel suo restare una figura tanto storicamente minore quanto misteriosa. Inserendosi a buon diritto in una schiera di loschi figuri per allusione che corre idealmente dall’Hugo Baskerville di Arthur Conan Doyle (The Hound of the Baskervilles, 1901-1902) ispirato almeno in parte a un altro cattivissimo locale, Richard Cabell (morto 1677), fino al pessimo Arnold Hawthorne veterano della Guerra di Corea ne L’ultima profezia (The Prophecy) di Gregory Widen, 1995. Il che non impedisce di chiedersi cosa sia il conte Magnus. Anzitutto uno stregone diabolista dedito all’alchimia (quella del sangue?), e redivivo; non probabilmente un vampiro come qualche antologista l’ha forzato a essere, inserendo il racconto in raccolte tematiche, ma in qualche modo un non-morto venuto da plaghe tra il sogno e l’inconscio. Molto di più non è possibile dire, e il gioco all’allusione tanto ben apparecchiato da James funziona anche per questo.

Ma un elemento appare interessante. De la Gardie non è un nome fittizio, il casato esisteva realmente ed ebbe un ruolo di rilievo nella storia svedese: e possiamo non stupirci troppo a scoprire che è esistito anche il conte Magnus, contemporaneo della regina Cristina e mecenate delle arti su cui esiste peraltro una certa documentazione anche illustrativa. Certamente una figura lontana da quella descritta da James, anche se pure la sua tomba si trova in un mausoleo – quello appunto De la Gardie – presso un edificio sacro, l’abbazia cistercense di Varnhem, nei pressi di Skovde, vicino a Skara nella zona di Västergötland (Vestergothland) della Svezia meridionale, dove appunto si trova la tomba del conte Magnus nella storia. MRJ visitò Varnhem nel 1901 e scrisse “Count Magnus” nel periodo seguente. Il Magnus storico e quello fittizio sono in effetti piuttosto distanti: quello fittizio è “un uomo straordinariamente brutto”, cosa che non si può dire dei ritratti giovanili dello storico conte Magnus Gabriel de la Gardie (1622-86), anche se poi appare essersi ingrossato. Tra i favoriti della regina Cristina (si vociferava di uno o due figli avuti assieme, ma la notizia non è certa), raggiunge incarichi di grande importanza, è tra i principali comandanti svedesi nella Guerra dei Trent’anni, poi responsabile della casa della regina, maresciallo del regno, presidente della Camera del Collegio e presidente senatoriale nel Västergötland e Dalsland… e tali incarichi lo rendono uno degli uomini più ricchi del paese. A un tratto cade in disgrazia, ma poi torna in sella e diventa cancelliere.

Non c’è alcuna prova che Magnus Gabriel de la Gardie nutrisse interessi per alchimia o arti oscure, al di là delle passioni esoteriche e alchemiche della regina, coltivate specialmente con il passare degli anni e che la vedono conservare una copia del Monas Hieroglyphica di John Dee e parti del famigerato Picatrix. MRJ potrebbe invece aver visto a Uppsala (agosto 1901, dove vede il patto col diavolo del giovanissimo Daniel Salthenius citato in “Number 13”) alla Biblioteca dell’Università il Codex Argenteus della Bibbia di Ulfila, VI secolo, da Magnus acquistato e donato alla Svezia nel 1660.

Ma per quanto libero, il nesso non sembra ridursi al ripescaggio di un nome pittoresco. Il conte Magnus di James ha una magione che lo scrittore cita con il nome di Råbäck che pure non è il suo. In una tenuta di Råbäck nel Västergötland MRJ si era fermato, e di lì aveva scritto una lettera ai genitori (10 agosto 1901), ma altre tenute degli storici De la Gardie sembrano più congrue, in particolare Ulriksdal (in origine Jacobsdal), poco fuori Stoccolma, in effetti raffigurato in Suecia Antiqua et Hodierna di Erik Dahlberg (la “Dahlenberg’s Suecia antiqua et moderna” del racconto) e alla quale Ulrika Eleonora (1688-1741), sorella del re Carlo XII e per breve periodo regina di Svezia nel 1719-20 era particolarmente legata (come nel racconto a Råbäck). Ma chi è il fondatore di Ulriksdal cui potrebbe corrispondere un più calzante prototipo storico di Magnus? Nient’altri che suo padre, il conte Jacob Pontusson de la Gardie (1583-1652), statista e uomo d’arme, conquistatore di Mosca nel 1610, condottiero contro i polacchi in Livonia, poi uno dei reggenti durante la minore età della regina Cristina: qualche suo interesse esoterico sembra documentato, forse per l’alchimia e sicuramente per le rune, perché risulta dedicatario di Adulruna rediviva, opera mistica sul tema di Johannes Bureus, e sembra le usasse per istruzioni cifrate militari. Se poi ci spingiamo fino alla cattedrale di Tallinn in Estonia, troviamo una tomba con scene di battaglia come quelle descritte, appartenuta a Pontus de la Gardie (1520-85), padre di Jacob e nonno di Magnus. Ovviamente il conte Magnus di James resta un personaggio letterario come un altro conte di un’opera quasi coeva, Dracula di Bram Stoker, con buona pace di chi lo identifichi in un personaggio o nell’altro. Ma il puzzle di notizie artistiche e storiche liberamente mixate conduce a un’ironia metatestuale che in MRJ abbiamo imparato a conoscere e riconoscere.