di Sandro Moiso
Meno di trenta giorni dopo che la Guardia nazionale aveva terminato di occupare militarmente le strade di Detroit, H.Rap Brown prese la parola di fronte ad una folla enorme stipata dentro e fuori il teatro di Dexter Avenue, situato a meno di un miglio da quello che era stato l’epicentro della ribellione. “Sono qui presenti delle persone che possono rappresentare la lotta dei neri americani meglio di quanto io possa fare – iniziò col dire – Gente di Detroit, per esempio”. Con queste parole l’oratore era intenzionato a suscitare l’interesse dei presenti nei confronti di un nuovo organo di informazione della comunità nera: l’Inner City Voice.
Il giornale era nato nell’ottobre del 1967 e il suo primo titolo di testa era stato “MICHIGAN SLAVERY”, accompagnato da un editoriale di fuoco che avrebbe costituito da subito la cifra stilistica e politica della redazione: ”Nella Rivolta di Luglio abbiamo dato un segnale significativo a chi amministra il potere bianco, ma apparentemente il nostro messaggio non è stato recepito…Noi stiamo ancora lavorando troppo duramente, venendo pagati troppo poco; stiamo ancora vivendo in pessime abitazioni e stiamo mandando i nostri figli in scuole di scarso valore educativo e stiamo ancora pagando troppo la merce dei negozi e siamo ancora trattati come cani dalla polizia. Ancora non possediamo nulla e non controlliamo nulla…In altre parole noi siamo ancora sfruttati dal sistema e abbiamo ancora la responsabilità di dover rompere la schiena a questo sistema. Soltanto delle persone che sono forti, unite, armate e che conoscono il nemico possono affrontare la lotta che ci attende. Pensaci Fratello, difficilmente le cose andranno meglio, la Rivoluzione deve andare avanti”*.
Il giornale si definiva come la voce della comunità rivoluzionaria nera e non era l’ennesima pubblicazione underground tipica di quegli anni. I suoi redattori avevano militato già in varie formazioni radicali. Alcuni di loro avevano già sfidato il Dipartimento di Stato nel 1964 recandosi a Cuba e avevano avuto modo di colloquiare con lo stesso Ernesto “Che” Guevara. Non c’è da stupirsi, quindi, del fatto che il mensile, tirato in 10mila copie, si occupasse sia delle condizioni di vita e di lavoro a Detroit, che dei fatti internazionali e della lotta contro la guerra in Vietnam o delle strutture militari e logistiche necessarie allo sviluppo della lotta armata.
Si può dire che su queste basi si sviluppò una esperienza politica e sindacale che trascese ben presto i limiti della lotta per il riconoscimento dei diritti del popolo nero, fondendo questa richiesta con la necessità di un’azione autonoma del proletariato nero e bianco. C’era l’attenzione per il nascente movimento del Black Panther Party ad Oakland in California, ma anche per le condizioni di lavoro e le richieste sindacali all’interno delle numerose fabbriche dell’area di Detroit.
Tale esperienza politica nasceva in un contesto in cui, proprio a seguito della rivolta di luglio, anche il capitale aveva intrapreso un’azione di rinnovamento della città. Tale progetto si andava strutturando intorno al New Detroit Committee (Comitato per la Nuova Detroit) che raccoglieva i maggiori rappresentanti dell’industria automobilistica, della grande distribuzione mercantile, delle principali banche ed assicurazioni. Oltre che tutti gli uomini politici e gli amministratori locali legati a doppio filo agli interessi economici dei primi.
Tale comitato si riprometteva di affrontare il problema del degrado urbano, ed in particolare dei quartieri della inner city (che erano stati i maggiori protagonisti della rivolta), attraverso un processo di ristrutturazione edilizia che prevedeva la costruzione di nuovi edifici dall’architettura ardita destinati ad ospitare banche, hotel, centri commerciali, lussuosi condomini, centri congressi e, naturalmente, i nuovi uffici amministrativi e di rappresentanza delle imprese coinvolte.
Sulle rovine della rivolta, degli incendi e degli autentici bombardamenti del luglio 1967, si intendeva quindi avviare un programma di speculazione edilizia e finanziaria travestito da nuova possibilità di migliorie economiche e di sviluppo che avrebbero dovuto, sulla carta, coinvolgere anche gli insoddisfatti e i proletari protagonisti dei riot precedenti. Naturalmente il primo atto di tale “rinnovamento” sarebbe stato costituito dall’allontanamento forzato dei residenti neri, poveri bianchi e studenti dall’area centrale che si trovava tra il fiume (lungo il quale si sarebbe sviluppata la nuova area commerciale) e la Wayne State University.
A fronte di questo progetto, che sarebbe stato negli anni successivi alla base della deindustrializzazione e della delocalizzazione delle fabbriche negli stati del Sud, i rappresentanti della comunità nera e dei lavoratori afro-americani si trovarono nella posizione di dovere e potere proporre soluzioni alternative. Politiche, economiche e sociali. E da qui nacque un’esperienza di proposta politica, basata sull’esperienza e le necessità reali del territorio e dei suoi abitanti, che avrebbe marcato la differenza tra i gruppi radicali di Detroit e quelli della maggioranza delle altre città americane. Da San Francisco a Chicago fino a quelle della Costa Orientale.
Nei primi sei anni di attuazione del progetto la qualità media della vita in città scese a nuovi minimi e naturalmente quelli ad essere più duramente colpiti furono i lavoratori dell’industria che costituivano più del 35% della popolazione urbana complessiva. I quali si resero ben presto conto che la Nuova Detroit significava, per loro, lavorare più a lungo e più velocemente, pagare più tasse ed ottenere, in cambio, meno servizi sociali e salari fortemente ridotti dall’inflazione conseguente alla speculazione. Mentre la delocalizzazione industriale, le nuove esigenze manageriali e il declino dell’industria automobilistica facevano sì che il mantenimento o la ricerca di un posto di lavoro si facesse sempre più difficile.
Così, a fronte dei cambiamenti indotti dall’azione del New Detroit Committee, i rivoluzionari, raccolti in nuove formazioni politiche e sindacali come il DRUM (Dodge Revolutionary Union Movement), l’ELRUM (Eldon Avenue Revolutionary Union Movement), il Wildcat Group o la League of Revolutionary Black Workers si trovarono a dover confrontarsi non soltanto con la classe dirigente delle fabbriche, ma anche con le direzioni sindacali del vecchio sindacato dei lavoratori dell’auto (UAW, United Auto Workers) e con gli stessi operai bianchi, spesso di origine italiana o polacca, che costituivano ancora l’aristocrazia operaia di quel settore di industria. Mentre i lavoratori neri continuavano ad occupare i posti di lavoro più ardui, pericolosi ed insalubri.
L’altro fronte continuava ad essere rappresentato dal dipartimento di polizia cittadino che aveva resistito a qualsiasi ristrutturazione. Così la violenza organizzata dello stato e la violenza non organizzata che aveva preso vita nelle strade con la rivolta di luglio divennero via via sempre più “istituzionali”, trasformando Motor City in quella che fu poi chiamata Murder City. Mentre il numero deglii omicidi e delle armi in circolazione andava crescendo esponenzialmente.
Così il ristretto gruppo di militanti rivoluzionari che si era raccolto inizialmente intorno al mensile Inner City Voice, vide allargarsi le proprie schiere insieme ai propri compiti, finendo col dar vita a una serie di azioni, fuori e dentro le fabbriche, che avrebbero favorito l’insorgere di altre formazioni e richieste radicali dentro la città e i suoi dintorni; non solo tra i neri afro-americani, ma anche tra gli americani bianchi poveri provenienti dai monti Appalachi.
Più che in qualsiasi altro luogo negli Stati Uniti, il movimento guidato dai lavoratori neri finì col definire i propri obiettivi in termini di potere reale. Il potere di controllare l’economia e, concretamente, il ciclo della produzione attraverso i suoi tempi e modi. I rivoluzionari di Detroit non si lasciarono rinchiudere in uno scontro con le forze dell’ordine fine a se stesso o in un confronto puramente “scolastico”. Il movimento nel suo insieme cercò di integrare al proprio interno tutte le richieste e le forme di lotta nate negli anni precedenti per dar vita d un vero network di poteri insorgenti da contrapporre alla rete del potere politico ed economico istituzionale.
In contrapposizione agli interessi politici, economici e finanziari rappresentati dal fasullo Rinascimento di Detroit proposto dal Committee, il movimento nato tra gli operai neri della città diede vita ad una straordinaria sequenza di azioni, apparentemente separate ma, in realtà, fortemente interconnese, nelle fabbriche, nelle strade, presso le Corti di Giustizia, i media, le scuole e durante le riunioni sindacali. Finendo col conquistare anche una parte significativa del proletariato industriale bianco e con l’interagire positivamente con tutte le istanze collegate alle necessità della vita quotidiana della classe lavoratrice.
Una vicenda esemplare
Il 15 luglio 1970, James Johnson, un operaio afro-americano, entrò nello stabilimento Chrysler di Eldon Avenue, in cui lavorava, con un fucile M-1 infilato nella gamba della sua tuta da lavoro. La fabbrica era stato luogo di numerosi scioperi a gatto selvaggio durante l’anno, mentre, nello stesso impianto, un operaio ed un’operaia erano morti in incidenti sul lavoro nelle due settimane precedenti. Il rumore assordante,le chiazze d’olio e le macchine difettose che caratterizzavano l’impianto circondavano Johnson quando si imbattè in uno dei capisquadra coinvolti nella sua sospensione dal lavoro, avvenuta il giorno precedente. James estrasse la carabina e prima che avesse finito di sparare un caposquadra bianco, un altro nero e un addetto alla manutenzione degli impianti giacevano uccisi sul pavimento della fabbrica.
Pochi lavoratori di Eldon conoscevano Johnson. Non era identificabile come militante dell’ELRUM o del Wildcat Group. Non partecipava mai alle riunioni ed assemblee sindacali, era soltanto uno delle migliaia di lavoratori che parlavano poco e ridevano meno. Non andava a bere nei bar vicini alla fabbrica, era un lettore della Bibbia e l’unica sua fonte di orgoglio era costituita dalla casetta che egli stava costruendo per sé e per sua sorella.
Pochi giorni dopo il fatto, Kenneth Cockrel assunse la difesa di James Johnson. Cockrel era uno dei sette membri del Comitato Esecutivo della Lega dei lavoratori neri rivoluzionari, mentre tra i lavoratori dello stabilimento andava crescendo la simpatia nei suoi confronti dopo che si era saputo che la sua sospensione dal lavoro era dovuta al suo rifiuto di accettare una accelerazione dei tempi di lavoro. Oltre che per una storia, di ritardi nel pagamento del salario e di perdita di ferie già acquisite, in cui lo stesso lavoratore era stato ingiustamente trattato dalla direzione.
Pochi giorni dopo i fatti, l’ELRUM distribuì un volantino il cui titolo recitava: “Onore a James Johnson” in cui, dopo una sintetica biografia dell’operaio nero, si contestavano le tremende condizioni di lavoro interne allo stabilimento di Elmond, il razzismo che ne contraddistingueva i rapporti di classe e le difficoltà, che talvolta rasentavano la passività, con cui l’UAW finiva quasi con l’avvallare tutto questo. Simili volantini apparvero anche in fabbriche molto lontane da Detroit, come la General Motors di Fremont (California) e la Ford di Mahwah (New Jersey).
Per lo svolgimento del processo, Cockrel ottenne che la giuria fosse adeguata al caso, razzialmente e sessualmente integrata, e non esclusivamente formata da bianchi. Così dieci dei dodici giurati avevano esperienza diretta di lavoro nella città di Detroit, due erano operai del settore automobilistico e tre donne erano sposate con operai dello stesso settore.
La difesa, dopo aver ricordato la travagliata esperienza di vita di Johnson (che già a 5 anni aveva assistito allo smembramento del corpo di un cugino a seguito di un linciaggio), segnata dall’ignoranza, dalla povertà e dall’emarginazione legata alla sua condizione “razziale”, passò a descrivere le condizioni di lavoro di Eldon, ritenuto con buona ragione uno dei più pericolosi impianti industriali degli Stati Uniti, e l’incapacità, o impossibilità, dell’UAW a difendere le condizioni dei lavoratori nello stesso impianto.
All’apice di questa linea difensiva Cockrel ottenne che l’intera giuria si trasferisse presso l’impianto per poter giudicare con i propri occhi ciò che era stato affermato nell’aula del tribunale. Dopo di che la giuria assolse Johnson in quanto non responsabile dei propri atti. Dal giorno successivo e nelle settimane seguenti molti operai di Elmond si presentarono al lavoro portando in bella vista nella tasca posteriore della tuta un giornale che rilanciava a caratteri cubitali l’assoluzione di James. Ancora nel novembre del 1973 Johnson, rappresentato da un legale che faceva parte della Motor City Labour League, ottenne dalla Chrysler un risarcimento dei danni causatigli dalla stessa industria per un totale di 75 dollari per ogni settimana, a partire dalla data della sparatoria in fabbrica.
Oggi, nonostante il buco 20 miliardi dollari che ha portato la città sull’orlo della bancarotta , qualcuno parla ancora di Rinascimento di Detroit e di rilancio della sua industria dell’auto. Soprattutto la più che asservita informazione italiana che tesse ancora le lodi di Sergio Marchionne e delle scelte FIAT. Così viene sottolineato come il dimezzamento degli stipendi degli operai della Chrysler abbia permesso a questa industria di rilanciare la produzione di veicoli di lusso come la Jeep Grand Cherokee. Lo stabilimento della Chrysler è rimasto l’unico in città, le altre industrie si sono trasferite fuori o altrove, e occupa 4663 dipendenti dei 20mila che ancora trovano impiego negli stabilimenti automobilistici cittadini, a fronte dei duecentomila che un tempo erano occupati negli stessi.
Un’area urbana grande come quelle di San Francisco, Boston e l’isola di Manhattan messe insieme è abitata da 700mila persone di cui l’ottanta per cento è costituito da afro-americani, mentre almeno ottantamila edifici risultano essere completamente vuoti ed inutilizzati. Questo è il risultato non della crisi e della globalizzazione oppure del Welfare State, ma delle scelte che il capitale ha operato, e continua ad operare, là dove la classe ha acquisito livelli di coscienza e di auto-organizzazione tali da metterne in gioco la catena di comando e la sua stessa esistenza.
E’ la dimostrazione pratica di come il capitale sia “condannato” a rivolgersi alla speculazione finanziaria e alla rendita fondiaria nel tentativo di continuare a mantenere elevati tassi di profitto quando la lotta operaia ne riduce i margini e di come tale scelta sia destinata ad aggravare non solo le condizioni di vita dei lavoratori, ma anche quelle dell’accumulazione capitalistica che in questo modo si priva della massa di lavoro vivo e di plusvalore necessari alla sua esistenza e riproduzione.
E’ la storia di Torino dagli anni ottanta ad oggi; è la storia della fuga del capitale FIAT e della famiglia Agnelli dall’investimento produttivo e dallo scontro con una classe organizzata per chiudersi nell’investimento speculativo in acque minerali ed alloggi di lusso a Parigi. E’ la storia dell’asservimento dei sindacati ufficiali alle esigenze dei padroni e della produzione e dell’avvallo dato da Luciano Lama e Enrico Berlinguer ai licenziamenti e alla cassa integrazione degli anni ottanta. E’ la storia di chi, come Sergio Chiamparino, passa dal ruolo di Sindaco della città a quello di Presidente della fondazione della banca con cui ha contribuito ad indebitare irrimediabilmente la città (San Paolo) e che ha fatto sì che Torino diventasse la seconda città più indebitata d’Italia dopo Roma.
E’ la storia, dunque, degli stabilimenti FIAT torinesi dove sono rimasti al lavoro più o meno ottomila dipendenti a fronte dei 120-150 mila che li caratterizzavano negli anni settanta (senza contare le decine di migliaia di operai che lavoravano nelle medie, piccole e piccolissime fabbriche dell’indotto dell’auto, ormai quasi del tutto scomparse, nell’area torinese). Dei milioni di metri quadri che si libereranno per la speculazione edilizia una volta chiusa Mirafiori, così come in altre forme accadde con la chiusura degli stabilimenti del Lingotto (lautamente pagati, alla FIAT, dal comune di Torino, per farne centri commerciali, spazi espositivi e centri congressi). E’ la storia futura di Milano e del suo già fallimentare e truffaldino Expo…ma è anche la storia della lotta di classe, destinata sempre a risorgere e a coinvolgere lavoratori, donne, studenti, giovani disoccupati ed artisti squattrinati nel tentativo di dar vita ad un mondo migliore, totalmente diverso dalla Zombieland che il capitale è soltanto capace di realizzare.
Ed è per questo che, metaforicamente, possiamo tranquillamente continuare a scandire: Detroit è morta, viva Detroit!
* Dan Georgakas, Marvin Surkin, op. cit. pp.15 – 16
(Seconda ed ultima parte – fine)
Postilla
L’Autore, nel dichiarare tutto il suo debito di riconoscenza nei confronti di Dan Geogakas e Marvin Surkin e del loro testo Detroit, I Do Mind Dying. A Study in Urban Revolutio, citato in nota, auspica che, a 38 anni dalla sua prima edizione e a 15 dalla ristampa, il libro trovi finalmente un editore italiano disposto a pubblicarne la traduzione considerata la sua importanza per la comprensione della storia, dello sviluppo e delle dinamiche delle lotte operaie e urbane, non soltanto statunitensi.