E’ stata la capitale mondiale dell’auto. La Parigi dell’Ovest del XIX secolo americano. Un tempo fu Fort Pontchartrain du Détroit, fondato nel 1701 dai francesi e poi conquistato dai fucilieri del maggiore inglese Rogers. Fu al centro della guerra franco-indiana e poi della guerra del 1812 tra gli Stati Uniti e il Regno Unito. Oggi, con i suoi settecentomila abitanti è praticamente una sorta di ghost town, cui rimane il merito di essere la capitale di quella che fu chiamata rust belt a partire dagli anni ottanta del secolo appena concluso. Eppure,eppure…
Heavy Music
Non fatevi fregare dalle critiche compiacenti: l’ultimo album di Iggy and the Stooges fa cagare! Molto peggio del penultimo e senza paragoni rispetto a quelli degli anni sessanta e settanta. Il chitarrista James Williamson non ricorda nemmeno vagamente gli assalti sonici di Raw Power, Iggy s’è giocato la voce ai dadi e il resto del gruppo…beh, meglio lasciar perdere. Eppure Ready To Die, con la foto di copertina che ritrae Iggy avviluppato da una cintura esplosiva sui fianchi e sul torace nudo può rappresentare simbolicamente (e non solo per il titolo) un ottimo punto di partenza per un viaggio a ritroso nella storia politica, sociale,economica e culturale della città del Michigan. Un viaggio, come quello di Iggy, a ritroso verso la gloria di un tempo, oggi forse definitivamente perduta.
Perché proprio a partire dagli Stooges? Perché Detroit fu una delle capitali del rock alternativo e del rock blues degli anni sessanta e settanta. Tutti ricordano i luoghi sacri del rock’n’roll: Memphis e la Sun Records, San Francisco e la scena acida e psichedelica, New York e la provocazione delinquenziale dei Velvet prima e del primo, selvaggio punk poi; i fuori di testa texani e i compiti bostoniani indecisi tra psichedelia selvaggia e pop. Ma Detroit ragazzi…oh, Detroit!?! Fu la patria di quella che Bob Seger battezzò con il titolo di un suo brano: Heavy Music.
Musica rock infarcita di blues e chitarre metalliche, di provocazione politica e incitamento alla rivolta. Piena zeppa di cantanti furiosi e esplosioni soniche free form rubate al jazz più innovativo di quegli anni. I Motor City 5 (MC5) legati al White Panther Party e a John Sinclair, gli Up che si facevano fotografare armati fino ai denti con baionette e fucili M-1 (riparleremo più avanti di questo modello di fucile), Iggy che si contorceva sulla scena come un rettile mentre il resto del gruppo inscenava truculentissime gag a base di sangue (vero) e svastiche (false) come simbolo del potere dominante.
E poi Sun Ra che si spostava lì da Chicago, con la sua Arkestra, per partecipare al festival annuale della cittadella universitaria di Ann Arbor, più famosa per la riottosità dei suoi studenti che per la qualità delle sue accademie. E ancora Alice Cooper, incontrastato re del glam, benedetto agli esordi dal genio di Zappa che lo volle per la sua (fallimentare) Bizarre Records oppure la Tamla Motown (Motor Town) una delle grandi etichette di musica nera: innovativa, arrabbiata e fiera di esser tale.
I Rationals e il loro garage venato di blues e, in seguito, i Grand Funk Railroad, in origine pesanti e metallici forse più dei veicoli prodotti dalla Ford della loro originaria Flint; la James Gang e gli assoli rock blues infiniti, Bob Seger con il suo Sound System ispirato al soul e alla cultura blue collar, fino ai catastrofici Destroy All Monsters di Ron Asheton (ex- Stooges) e della indemoniata cantante Niagara nei primi anni ottanta. Senza dimenticare il grande Sixto “Sugarman” Rodriguez, i cui testi costituiscono sicuramente uno dei prodotti più genuini della street e class culture della Detroit di quegli anni. Qualcuno o qualcosa è stato certamente dimenticato, ma già questi bastano a dar vita a un bel gruppo di kamikaze sonori e culturali.
Oggi la stampa nazionale e internazionale parla della crisi di Detroit come del fallimento del welfare e delle conseguenze della globalizzazione, ma ignora tutto ciò e quello che qui seguirà perché dovrebbe porsi domande imbarazzanti. Come, ad esempio: Da dove proveniva tutta questa energia? Quale era il tessuto sociale e culturale che la propagava? Perché è finita?
Società multirazziale, lotta di classe e laboratorio sociale
Nel 1820 la città, sorta sule rive del fiume Detroit nella regione dei Grandi Laghi, contava 1.422 abitanti; nel 1900 ne contava 285.704, nel 1920 ben 993.678, mentre nel 1950 raggiunse la cifra di 1. 849.568. Una crescita esponenziale, legata soprattutto all’industria dell’auto, da quando Henry Ford, nel 1904, iniziò a realizzare lì la prima vettura”di massa”: la Model T. Mentre, sempre nella stessa città, anche i fratelli Dodge (John Francis e Horace Elgin) e Walter Chrysler iniziavano a produrre automobili. Crescita demografica dovuta dunque all’enorme massa di diseredati, bianchi e neri e di differenti nazionalità, che si riversò nella città a caccia di un posto di lavoro.
Con la seconda guerra mondiale e lo sviluppo delle industrie belliche l’afflusso, soprattutto dagli stati del Sud, divenne gigantesco, finendo anche con l’aumentare le tensioni razziali e di classe che già si erano manifestate nel corso delle lotte sindacali degli anni trenta e delle race riot del 1943. Ancora oggi una qualsiasi cartina stradale ci mostra, figurativamente, qual’era la posizione centrale di Detroit rispetto all’industria americana.
A circa 380 chilometri ad Est sorge Chicago, che era stato l’altro grande collettore di manodopera nera e immigrata più o meno negli stessi decenni e in cui, dalla seconda metà dell’Ottocento, l’industria della carne in scatola (con relativi mattatoi e macelli) aveva fato da traino. Un po’ più a sud, sulla riva opposta dello stesso lago, si trova Cleveland, con i suoi impianti industriali in disuso, e poche miglia più a sud di questa troviamo Akron, ex-capitale della gomma e della produzione di pneumatici.
Scendiamo ancora e troviamo, non molto distante, Pittsburgh con le sue acciaierie e, verso est, Buffalo, centro portuale ed industriale da tempo riciclato in città turistica e “culturale”. Siamo nel cuore del cuore delle vecchie regioni industriali. Là dove il conflitto sociale può vantare decenni di storia e gli IWW avevano giocato le loro sorti e quelle del sindacalismo d’industria nei primi quarant’anni del XX secolo. Si potrebbe dire di essere in prossimità di quello che, in un tempo neppure troppo lontano, è stato il cuore del conflitto sociale degli Stati Uniti.
Ancora nel 1972, Detroit costituiva il quartier generale dell’industria dell’auto, quella che all’epoca dava lavoro ad un americano su sei. E proprio in quell’anno Lawrence M. Carino, Presidente della Camera di Commercio di Detroit, poteva dichiarare: ”Detroit è la città dei problemi. Se ne esistono, noi probabilmente li avremo. Sicuramente non ne avremo l’esclusiva. Ma certamente li avremo prima di altri…La città è ormai diventato il laboratorio vivente per il più completo studio possibile sulla condizione urbana in America”*.
Cinque giorni a luglio
Nel momento in cui rilasciava questa dichiarazione, Carino doveva ancora avere ben in mente i cinque giorni del luglio 1967 in cui la città era stata protagonista della più grande rivolta urbana della storia degli Stati Uniti dopo quella di New York del 1863 contro la leva obbligatoria istituita nel corso della Guerra Civile. In quel caso fu l’artiglieria ad essere usata contro i rivoltosi nelle strade di New York City, mentre a Detroit si fece ricorso ai carri armati e all’aviazione in dotazione alla Guardia nazionale.
Tutto era iniziato a causa di un intervento della polizia per chiudere un locale privo della licenza di vendita per le bevande alcoliche che si trovava nei locali della United Community League for Civil Action, sull’angolo della Dodicesima Strada con Clairmount Street nel Near West Side. Gli agenti pensavano di trovare poca gente poiché erano le 3:45 del mattino di una domenica. Invece nei locali si trovavano 82 afro-americani intenti a festeggiare alcuni loro amici appena tornati dal servizio in Vietnam. Come la polizia tentò di arrestarli tutti, nelle strade si radunò una folla enorme che costrinse gli agenti ad una precipitosa ritirata sotto una pioggia di bottiglie e sassi. Era il 23 luglio.
Nel corso dei giorni successivi vi furono 43 morti (34 neri e 9 bianchi, tra i quali l’unico agente di polizia ucciso durante i disordini), 1189 feriti, 7200 arresti e 2000 edifici distrutti. Furono assaltati supermercati e negozi, mentre la polizia lamentò (senza mai provarlo veramente) la presenza di cecchini tra i manifestanti. Per sedare i disordini fu richiesto prima l’intervento della Guardia Nazionale, autorizzato dal Presidente Johnson il 25 luglio, e, successivamente, di reparti aviotrasportati dell’esercito.
Di fatto la città finì con l’essere occupata militarmente da 8000 soldati della Guardia Nazionale e 4700 paracadutisti del 32° Airborne oltre che da 360 agenti della Michigan State Police. Nei giorni successivi la presenza massiccia di truppe sul territorio urbano contribuì ad incrementare il numero degli uccisi, dei feriti e degli arrestati, ma rischiò anche di degenerare in scontri a fuoco tra soldati della Guardia nazionale (prevalentemente bianchi) e paracadutisti (prevalentemente neri). Tanto che fu ordinato ai paracadutisti di far ricorso alle armi soltanto su ordine o in presenza di un ufficiale bianco.
Con il 27 luglio la rivolta ebbe termine e l’ordine tornò a regnare su Motor City, ma il segnale era stato allarmante e l’establishment politico ed economico si rese conto che le conseguenze sociali e politiche avrebbero potuto essere ben più gravi. Dopo quella rivolta la rabbia nera perse, però, le sue connotazioni esclusivamente razziali per conseguire una maggiore coscienza di classe che si sarebbe da lì a poco manifestata attraverso nuove e più politicizzate forme di organizzazione.
John Lee Hooker per primo si fece cantore della rivolta con il suo blues Motor City Is Burning, ma anche il cantautore canadese Gordon Lightfoot le dedicò la sua Black Day in July. Ma si può tranquillamente affermate che fu proprio la rivolta a cambiare l’attitudine di numerose rock band che fino a quell’anno erano state prevalentemente legate al garage per poi passare dopo quegli eventi ad un atteggiamento più rabbioso ed impegnato. Primi fra tutti i Motor City 5 di Fred Sonic Smith, Wayne Kramer e Rob Tyner.
I danni furono calcolati intorno ai 500 milioni di dollari; tra gli arrestati più di 6000 erano adulti e quasi un migliaio gli adolescenti. Il più giovane aveva 4 anni e il più vecchio 82, mentre 5000 persone rimasero senza casa. Quando agli inizi del XX secolo gli afro-americani erano emigrati dagli stati del Sud verso il Nord, in quella che è ancora de finita la Grande Migrazione, la popolazione cittadina, come si è già visto, si era enormemente incrementata, ma non così l’offerta e la disponibilità di case per nuovi venuti. In questo modo i neri di Detroit furono pesantemente discriminati sia sul piano sociale che su quello lavorativo.
Nei primi anni sessanta la loro condizione era parzialmente migliorata e si andava formando una classe media di origine afro-americana, ma alla vigilia della rivolta molti appartenenti alla comunità nera si ritenevano insoddisfatti o delusi dai lenti progressi di cui erano testimoni e/o attori. La commissione di inchiesta formata dopo la fine della rivolta accertò che, prima della rivolta, il 45% degli agenti di polizia operanti nei quartieri abitati prevalentemente da afro-americani erano decisamente “anti-negro” (come li definì la stessa commissione) e che un altro 34% era costituito da agenti significativamente marchiati dal pregiudizio razziale.
Nell’insieme il corpo di polizia della città di Detroit era formato al 93% da agenti bianchi a fronte di un 30% di residenti neri nella città. Così era facile che gli agenti di pattuglia si rivolgessero ai maschi neri di qualsiasi età con il termine “Boy” e alle donne di colore con i termini confidenziali “Honey” o “Baby”. Queste ultime venivano poi spesso fermate ed arrestate per “prostituzione” se camminavano da sole per strada. Senza contare, poi, che un certo numero di residenti in città, non solo neri, dichiarò che uno dei problemi principali durante la rivolta di luglio era stato costituito dalla brutalità e dal comportamento aggressivo della polizia.
* Dan Georgakas, Marvin Surkin, Detroit: I Do mind Dying, South End Press, Cambridge, Ma, 1998, prima edizione 1975, pag.1
(Fine prima parte – continua)