di Dario Zonta
È della settimana scorsa un film americano (The day after tomorrow) di magniloquente catastrofismo e di sagace intelligenza sui temi dell’eco-ambientalismo e sue conseguenze globali. Un film di intrattenimento che, tra un effetto speciale e l’altro, fa riflettere sui temi massimalisti del destino dell’uomo e della sua specie. È di oggi, invece, la risposta europea e d’autore a quel catastrofismo americano: Il tempo dei lupi dell’austriaco Michael Haneke. Film durissimo e impietoso che immagina il comportamento di un gruppo di esseri umani costretto alla sopravvivenza da un innominato e non spiegato cataclisma. Già il titolo anticipa la soluzione: quest’umanità, occidentale, colta e civilizzata si trasforma di colpo in un branco di lupi quando defraudata repentinamente di ogni sicurezza e benessere.
Haneke immagina una famiglia che fugge, ricca di mille provviste, da una grande città francese nella sicura casa di campagna. Ma questa è abitata da un’altra famiglia di sfollati dallo stesso cataclisma. Sono dei disperati con il fucile, costretti ad usarlo per difendere l’avamposto di campagna. E sparano al padre di quella famiglia. Sembra l’inizio di Funny Games (altro e violentissimo film di Haneke, sorta di Arancia meccanica mitteleuropea, con una coppia di efferati assassini che tiene in ostaggio una famigliola nella casa sul lago, seviziandola e violentandola senza fini né cause apparenti), ma presto cambia registro in una direzione ancora più nera.
Infatti il resto della famiglia, la madre (Isabelle Huppert, sempre attonita e incredula, quanto imperturbabile) e i due figli, vaga per la campagna francese nel buio della notte tra roghi di mucche incendiate e case chiuse che rifiutano loro qualsiasi aiuto. Nessuno aiuta nessuno, ognuno pensa a se stesso. La società è scomparsa, retrodatata a un incredibile tempo dei lupi di feroce lotta per la sopravvivenza. La famigliola trova rifugio presso una piccola stazione dove una comunità, organizzata sulla prepotenza di pochi, aspetta un beckettiano treno che li porterà, forse, verso una salvezza ignota e improbabile. Vige il baratto, ma i beni che contano non sono i gioielli, sono cose utili: pile, taniche, forbici, coltelli. Gli strumenti della sopravvivenza.
Il tempo dei lupi è un film che affronta, con i toni di un secco «minimalismo», le conseguenze della catastrofe. Haneke non spiega mai di quale emergenza si tratti. Potrebbe essere tutto: un avvelenamento delle falde acquifere o una situazione di guerra. Per questo è così realistico, perché a ben vedere le circostanze in cui si trovano i protagonisti di questa storia e le reazioni scomposte e violente, tragiche e penose cui sono chiamati non sono poi così diverse da altre, vere e quotidiane, del nostro tempo. È sufficiente leggere alcuni passaggi del libro sulla Cecenia della giornalista Anna Politkovskaia per «rivedere» le parti del film che raccontano le difficoltà di approvvigionamento e di sostentamento, l’impossibile convivenza, insomma quelle situazioni di solito non viste dalla cronache di guerra e dintorni. In questo senso Haneke sposa le tesi opposta al catastrofismo: mostra la sopravvivenza come forma estrema e disumana di evoluzionismo. Ma constata anche il fallimento del genere umano. La fine del mondo non è solo quella biologica di una qualche calamità procurata dall’uomo, ma anche la fine dell’umanità in quanto comunità solidale e ideale. Haneke dipinge un ritratto tetro, senza scampo e definitivo, e lo fa in uno stile scarno, svuotato e insostenibile. Ci vuole cuore e cervello per vederlo, ma ripaga il disagio con elementi nuovi di riflessione e sentimento.
[da l’Unità on line]