di Daniela Bandini
Piergiorgio Di Cara, L’anima in spalla, Edizioni e/o Noir, pp.245, €14,50.
Per avvicinarci all’autore di questo poliziesco italiano e per amarlo bisogna partire dai ringraziamenti che egli stesso, commissario di PS, esprime alla fine del libro: “:…. Ai ragazzi del mio Reparto, perché questo romanzo faccia sì che si innamorino ogni giorno di più del nostro mestiere, che è fatto di sacrifici e rinunce”. Per amare Di Cara basta inoltrarsi nelle pagine accantonando quel pizzico di diffidenza che, istintivamente, porterebbe a parteggiare per chi sta “dall’altra parte”: la divisa , un’icona, la bolsa ufficializzazione istituzionale di un nazionalismo riscoperto, se mai esistito. Poi succede una specie di grande rimescolamento: succede che i dialoghi prevalgono su tutto. La grande, grandissima forza di questo emozionante romanzo, sono i dialoghi.
Nessuno avrebbe potuto descrivere con tale potenza il confine tra la deferenza e il gergo dialettale se non fosse “dell’ambiente”. Nessuno avrebbe potuto cogliere l’ansia e la normalità relazionale se non fosse stato “uno di loro”. Succede quello che, banalmente, si può definire “identificazione”. Un limpido sguardo su queste pagine e il confine tra “guardie e ladri” si fa sempre più labile, si confonde come la notte e l’alba, non puoi definire esattamente dove cominci l’uno e finisca l’altra, si mescolano, parlano la stessa lingua. Il ragazzo che ascolta “The Wall” dei Pink Floyd bevendo una birra in una calda, torrida giornata estiva palermitana, e assiste all’attentato del Giudice si ferma qui, non possiede nessuna identità di confine. Ciò che prova, lo sgomento, la nausea, lo stupore per quanto di reale ci sia in un’esplosione, quanto di calcinacci, di sangue, di variabile impazzite, di morte e distruzione è indistinguibile tra l’attentatore e la vittima della strage. Potrebbe essere l’ignaro inquilino o un membro del commando che si accerta che tutto sia andato a buon fine. Punti di vista. Punti di vista che segnano la linea netta di demarcazione.
Da qui in poi il protagonista del romanzo diventa l’Ispettore della Mobile Salvo Riccobono, diventa colui che impugna la pistola, correndo in strada alla ricerca di un obiettivo da colpire, diventa chi cerca disperatamente, immediatamente di individuare i responsabili, i basisti, chiunque sia implicato per poter placare quel senso di disperazione irreale e bisogno di azione che la bomba ha imposto con il suo linguaggio. Il personaggio adesso è differenziato, ha un ruolo istituzionale, un dovere da assolvere, un gemito da sopprimere che non finirà mai più.
L’idea della squadra, quella affascinante e pericolosa commistione di affinità d’intenti e copertura reciproca che ritroviamo in tutti quegli ambienti che posso contare sul potere decisionale, da quello istituzionale a quello criminale, è il vero polo d’attrazione: “Sono sull’eccitato. E’ che mi piacciono queste atmosfere da complotto, da intrigo, da film poliziesco. I discorsi fitti fitti, a bassa voce, a braccetto. Gli sguardi d’intelligenza, le mezze parole, gli ammiccamenti. Questo essere depositari di informazioni preziose che tieni il più a lungo possibile per te, in modo da essere la ‘cucchiaia di tutte le pentole’, come si dice. Già perché nel nostro mestiere le informazioni sono il bene più prezioso. Vanno tutelate, protette, distillate, centellinate. Oltre che ricercate. E’ una caccia, una guerra. E’ come la febbre dell’oro, è un duello di intelletti: da una parte lo sbirro, dall’altra il mondo intero…”
Le immagini e tutto ciò che comporta “una strage” diventano particelle in quiescenza. Basta un nulla per attivarle nuovamente, per farle circolare, impazzite, nel suo sistema circolatorio. E “la grigliata”, sì, l’emblema del ritrovo conviviale, quel profumo che sa di trasgressione lipidica e birra, vini rossi e spensieratezze, per Riccobono la carne alla griglia sarà per sempre la triste trasposizione, ironica e dolorosa, della carne, della carne della strage.
Il romanzo è incentrato sulla scommessa personale dell’ispettore di catturare i responsabili della strage e “la mente” di tutta l’operazione. Lo farà quasi con spirito autodistruttivo, abbruttendosi fisicamente e moralmente, le centinaia di sigarette fumate e disprezzate, la consapevolezza dei danni e l’ossessione rituale del gesto da compiere, accendersene un’altra, quasi che il degrado possa avvicinare alla soluzione del caso: un vero poliziotto, insomma, uno che si prepara ad affrontare l’ambiente criminale con la corazza culturale e morale dei suoi principi. E la difficoltà sta appunto nel determinare ogni volta il confine tra la propria identità e le pericolose influenze ambientali e comportamentali che inevitabilmente assorbi, così dirette e semplici, nella loro spietata regolamentazione.
Da qui la complessità a volte insormontabile di definire l’attività onesta del poliziotto come un “lavoro”, e lo si vive benissimo nel romanzo. E’ una condizione che continuamente porta a raffrontare i pregi della propria esperienza dialettica e del riconoscimento giuridico, come riferimento culturale, con la spietatezza del mondo del crimine che lo circonda. Sembra quasi un messaggio schizofrenico, e il pericolo psicologico del superamento della linea di demarcazione si assottiglia talmente, a volte, che “staccare” , trincerarsi dietro la “professionalità” è l’unica possibilità di equilibrio.
Il nostro Ispettore saprà di essere stato individuato. Sa che è stato riconosciuto come testimone, sa che quella strage gli apparterrà per sempre. Come una casualità che tale non è, diventa una missione, un atto di onestà investigativa, il poliziotto eletto alla risoluzione del caso. Ci addentriamo nella Palermo gergale e periferica, con il suo linguaggio criptato per lo “straniero”. Come il concetto di “Stato”, che in Sicilia assume un valore onnisciente, dalle caratteristiche subliminali, che non ha riscontri in nessun’altra parte del Paese. Lo Stato che si incarna dal battesimo al funerale, “dov’era lo Stato?”. Sempre la stessa domanda, che troverà sempre meno risposta.
Un romanzo davvero speciale, meravigliosamente scritto, perfetto sotto ogni punto di vista, opera di un autentico professionista non solo del linguaggio, ma delle emozioni.