di Luca Cangianti
Come si diventa rivoluzionari? Leggendo l’autobiografia di Angela Davis? Risolvendo un sistema di equazioni? Ascoltando una canzone? Innamorandoci davanti a un fuoco sulla spiaggia?
Un giorno lo chiedo a quello che considero essere il mio fratello maggiore: Roberto Maurizi, per i compagni e le compagne: Bobby. Lui tergiversa un po’ e poi mi dice: «Gli operai edili erano in sciopero per il rinnovo contrattuale e avevano organizzato un corteo. Era il 9 ottobre del 1963 e pioveva. La polizia aveva caricato e i dimostranti si rifugiarono nel mio liceo, il Cavour. Con i compagni di classe ci fermammo a discutere con alcuni di quei lavoratori. Le loro ragioni non mi convincevano: ma che volevano questi adesso? Che li pagassero per non lavorare? Mi stavo annoiando e cominciai a scherzare, a prenderli in giro. Un uomo magro con piccoli baffi mi puntò contro l’ombrello quasi fosse un grande indice accusatore: “Tu non sai che significa spaccarsi la schiena ogni giorno rischiando di cadere dalle impalcature!” La retorica del movimento operaio, le lotte, gli scontri con la polizia, le contrapposizioni ideologiche, mi sembravano cose di altri tempi – ed erano solo i primi anni Sessanta, pensa un po’! Cinque anni dopo era il Sessantotto. Mentre passeggiavo a via del Corso udii un rombo possente. Si trattava di una semplice parola scandita da diecimila bocche. Era di nuovo un corteo, ma questa volta si trattava di studenti universitari. Una massa fittissima, compatta, incordonata, sulla quale si stagliava altissima una sola ed enorme bandiera rossa. In quel momento mi sono passate davanti agli occhi le immagini del Vietnam viste in televisione, l’arroganza di certi insegnanti e soprattutto il volto dell’operaio edile con l’ombrello. Mi ricordo che cercai di resistere, ma tutti quegli eventi mi avevano scavato dentro. Quello che stavo per fare mi sembrava ridicolo: sono salito sopra il parafango di una Fiat 1100, ho alzato il pugno al cielo e ho cominciato a gridare ripetendo fino a sputar fuori i polmoni lo slogan del corteo: “Co-mu-nis-mo! Co-mu-nis-mo!” Credo che sia andata così. Da quel giorno ho cominciato a vedere le cose in modo completamente diverso. Sono diventato un compagno, ho preso coscienza.»
Questo è quanto mi raccontò nel 2015, poi quando ha visto la sua testimonianza pubblicata in un saggio si è schermito: «So’ tutte storie di Luchino!». Già, perché anch’io avevo un soprannome quando ero politicamente attivo. Tutti ne avevamo uno. Bobby andava fiero del suo “nome speciale”: valorizzava il senso profondo di quella rinascita avvenuta nel 1968 a via del Corso. Una nuova vita che per l’appunto meritava un nome diverso da quello anagrafico. Da quel momento fu parte di una generazione assetata di giustizia e di felicità che diede filo da torcere ai poteri costituiti; militò in Lotta continua fino al suo scioglimento, si laureò in medicina e divenne medico di base nel quartiere popolare romano dell’Alessandrino.
Quando lo passavo a trovare in studio, scendevamo a prenderci un caffè per fare due chiacchiere, ma la cosa si rivelava pressoché impossibile: le signore anziane lo salutavano dai balconi («Ciao dottoreeee, te ricordi de ‘a ricetta?»), il meccanico gli urlava affettuoso triplicando le “b” romanesche: «’A moto tua, bbbuttala!» Una volta gli si è avvicinato un magrebino: aveva mal di schiena e pretendeva di essere visitato davanti al semaforo. «Devi smette’ de lavora’» gli disse Bobby e quello giù a ridere. A me sembrava di stare in un film, in una commedia all’italiana; nel raggio di alcuni chilometri quadrati conosceva tutti e tutti lo conoscevano e rispettavano: era “Il Dottore”, per molti “Il Compagno Dottore”. Non so quante migliaia di pazienti abbia curato negli anni; ha visto crescere generazioni e alla fine è stato anche il mio medico. Sapeva che ero un fifone agofobico e quando mi decisi di fare delle analisi non più rinviabili, mi accompagnò all’Ospedale Pertini.
«E lei chi sarebbe?» chiese l’infermiera con tono di sfida.
«Il medico curante!»
«Annamo bene! Guardi che a questo qui», fece la donna indicandomi con una mano a paletta poco rispettosa, «je devo fa’ un prelievo, mica ‘n’operazione a core aperto.»
Bobby si prendeva cura degli altri, specialmente di chi passava un momentaccio, era in stato di necessità o subiva un’ingiustizia. Me lo ricordo per giorni a un presidio di lavoratori dei Cobas in sciopero della fame. Tutto il tempo in cui non lavorava lo passava lì, a Piazza Santi Apostoli a controllare lo stato di salute dei compagni. Era il maggio del 2007.
Me lo ricordo a confortare alcuni amici ammaccati dalle pene d’amore: la sua cura era imbandire la tavola, sfornare arrosti e radunare decine di persone vocianti. Se però era lui ad aver bisogno, non c’era niente da fare: il dottore era lui e si curava da solo.
Me lo ricordo nella trattoria Potpourri alla Garbatella con alcuni vecchi abitanti del quartiere che avevano visto i partigiani assaltare la casa del fascio e il commissariato della polizia: erano tavolate enormi, i più vecchi erano nati agli inizi degli anni Trenta, i più giovani quasi negli anni Ottanta. In mezzo i figli del riflusso e i reduci della Pantera. Le differenze generazionali c’erano, ma si discuteva, ci si raccontava, ci si cercava. Ognuno aveva perso la sua battaglia e aveva le sue ferite. Quelle di Genova erano ancora fresche, ma quando cantavamo tutti insieme Gallo Rojo, Gallo Negro a me sembrava che ci fosse un senso profondo sotto queste sconfitte. Mi sembrava di sentire un legame numinoso con tutti i ribelli che avevano plasmato il nostro immaginario: i comunardi, gli Iww americani, i rivoluzionari del 1917, gli spartachisti, gli anarcosindacalisti di Barcellona, gli studenti del maggio parigino, i portoghesi del 1974-75. Mi sembrava che la volta buona fosse solo rinviata. Lo penso ancora.
Bobby minimizzava, faceva il guascone, ma viveva le sue molte gioventù intrecciando il suo destino con generazioni anche molto distanti dalla sua. Non mi stupisco quindi che tra le molte tavolate finì per frequentare con assiduità anche un’altra “osteria” in cui l’impegno politico si mischiava al cibo, al vino e alla tenerezza dello stare insieme. Questo luogo non era un ristorante, in verità, ma la casa di Marco Melotti. Però questa è un’altra storia e viene raccontata altrove.
Un paio di mesi fa, terminando una telefonata – dopo avergli chiesto dei consigli medici per mio padre e aver passato in rassegna un po’ di preoccupazioni del momento – a mo’ di esortazione mi fa: «Daje Luchì, bisogna saper vivere da comunisti e anche saper morire da comunisti.»
Nelle prime ore del 23 marzo Bobby ci ha lasciato. Da tempo era malato. Adesso quelle sue parole mi rotolano su e giù nella pancia e mi chiedo: Bobby, ma come lo spieghiamo il comunismo a chi non capisce il valore di imbandire la tavola e del prendersi cura del magrebino con il mal di schiena?
Un abbraccio alla sua compagna Silvia, alla famiglia e a tutti noi.