di Sandro Moiso
Nikolaj Gogol’, Memorie di un pazzo, a cura di Serena Vitale. Adelphi Edizioni, Milano 2024, pp. 103, 10 euro.
«Sono convinto che a San Pietroburgo ci siano molte persone che vanno in giro parlando da sole. E’ una città di mezzi matti…E’ raro trovare così intensi, cupi, strani influssi sull’animo umano come a San Pietroburgo…» (Svidrigajlov, in Delitto e castigo di Fëdor Michajlovič Dostoevskij)
In occasione del solstizio di marzo, vale la pena di parafrasare Mattinata fiorentina, una vecchia canzone di Luciano Tajoli: è primavera, svegliatevi lettori, col primo sole qualche classico delle letteratura universale è sempre bene leggerlo. E il testo appena riproposto da Adelphi, nella collana Piccola Biblioteca con il numero 800, e magnificamente curato da Serena Vitale è proprio uno di questi.
Prima di parlare del testo di Gogol’, però, occorre dedicare ancora qualche parola al lavoro della curatrice. Professoressa di Lingua e letteratura russa, ha insegnato in diversi atenei italiani (tra cui l’Istituto Orientale di Napoli e l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano) dal 1971 al 2015. Scrittrice e autrice di saggi, curatele e traduzioni, si è misurata con i maggiori autori russi e cechi quali Josif Aleksandrovič Brodskij, Marina Ivanovna Cvetaeva, Aleksandr Sergeevič Puškin, Vladimir Nabokov, Sergej Esenin, Michail Bulgakov, Sergei Timofeevič Aksakov, Vladimir Majakovskij. Ha tradotto anche Milan Kundera, Osip Mandel’štam, Vladimir Zazubrin, Andrej Platonov e Fëdor Dostoevskij. Traduzioni e curatele in gran parte svolte per la stessa Adelphi presso la quale ha pubblicato anche due fondamentali saggi su Puskin e Majakovskij. Entrambi travestiti da romanzi-indagine sulle cause della morte dei due autori1.
Dedicato quanto dovuto alla serietà ed esperienza della curatrice, occorre ora passare all’opera qui recensita con una prima considerazione sulla follia di questi tempi di guerra. Cosa che ha fatto sì che mentre una parte del demimonde intellettuale e politico che frequenta i media mainstream si sia scandalizzato per le decine di migliaia di firme di artisti raccolte contro la partecipazione di Israele alla prossima Biennale di Venezia, altrettanto non abbia fatto nei confronti della, realmente, spaventosa richiesta di cancellazione, in Occidente o lungo i suoi confini ucraini, della grande cultura letteraria russa, successiva all’invasione putiniana dell’Ucraina. Sia in ambito pubblicistico che universitario e di dibattito mediatico.
Tanto da far sì che, mentre si cercava e si cerca tutt’ora una valida opposizione al regime putiniano accettandone anche personaggi xenofobi e nazionalisti quali Alexei Navalny2, ci si è dimenticati o, per meglio dire, è cancellato il fatto che gran parte della grande letteratura russa, prima, e sovietica, successivamente, del XIX e XX secolo è stata sempre esemplarmente critica nei confronti sia del regime zarista che di quello staliniano. Affrontando spesso, proprio per questo motivo, lunghi periodi di detenzione, esilio se non addirittura la morte.
Una letteratura che, anche nel caso di autori come Gogol’ (1809-1852) e Dostoevskij, è stata recentemente definita come eccessivamente russofila e slavofila per l’ironia con cui a volte venivano trattate le mode culturali occidentali e per le critiche contenute anche a quelle politiche, che pur avevano animato grandi critici dell’arretratezza russa e del regime arcaico che la prima causava sia a livello politico che economico e culturale in autori e filosofi come Aleksandr Herzen (1812 – 1870). Contestandole, spesso, un richiamo arcaico alla comune contadina tradizionale russa, l’obščina, che pur fu uno degli elementi che fecero ripensare anche a Karl Marx, nell’ultima parte della sua vita, la teoria univoca dello sviluppo capitalistico e delle sue contraddizioni3. D’altra parte, parlando nello specifico di un autore come Gogol’, il riferimento al giudizio di Marx sui possibili sviluppi della comune contadina russa non è affatto fuori luogo. Scriveva infatti il filosofo tedesco:
Lo Stato ha contribuito all’arricchimento di una nuova feccia capitalistica, che succhia il sangue già impoverito della “comune rurale”. Schiacciata dalle imposte dirette dello Stato, sfruttata in maniera fraudolenta dagliintrusi capitalisti, mercanti, ecc. e dai “proprietari” fondiari, essa è per sovrammercato minata dagli usurai del villaggio, dai conflitti d’interessi provocato al suo interno dalle condizioni che le sono statte imposte4.
Tema sul quale Nikolaj Gogol’ aveva scritto uno dei suoi capolavori, Le anime morte, un romanzo pubblicato nel 1842 originariamente col titolo Le Avventure di Čičikov, e il sottotitolo Poema imposto dalla censura zarista, che narra in tono satirico-grottesco le disavventure di un piccolo truffatore di provincia nell’Impero russo del 1820. La trama prendeva spunto dal fatto che nell’Impero russo, il termine «anime» designava i servi della gleba maschi. L’intento di Cicikov è infatti quello di acquistare a buon prezzo le “anime morte” dall’ultimo censimento fino a quando non ne verrà registrata la morte nel successivo censimento quinquennale. Čičikov punta così a crearsi, con il minimo sforzo, un numero di servitori (“fantasma”) elevato al punto tale che, ipotecandoli, possa costituire un grosso capitale.
Così come in altri testi, l’autore gioca le carte della narrazione lungo un filo sottile fatto di paradossi, ignoranza, avidità e follie burocratiche che aveva già sviluppato nel racconto Brani dalle memorie di un pazzo scritto nel 1834 e pubblicato per la prima volta nel 1835 nella raccolta di racconti intitolata Arabeschi e successivamente inserito nella raccolta Racconti di Pietroburgo con il titolo abbreviato utilizzato anche dall’attuale edizione Adelphi.
In questo caso lo spunto, come spiega fin dalle pagine introduttive la curatrice, è fornito dalla “tabella dei ranghi” voluta dallo zar Pietro il Grande nel 1722 che
aveva diviso i sudditi – esclusi, ovviamente, i servi della gleba – in quattordici classi, formalizzando il čin (grado), la condizione giuridica e sociale di chi serviva lo Stato nell’esercito, a corte, nella pubblica amministrazione. A ciascun grado corrispondeva un abbigliamento di cui veniva prescritto ogni particolare (lunghezza, ampiezza, numero di bottoni, colletti, baveri, cappucci, pellegrine, colore, tipo di stoffa, mostrine, galloni). Un enorme impero in divisa…5
Un progetto di uniformare una società e un impero che uniformava non soltanto strutture e ruoli amministrativi, ma anche le mentalità individuali e lo stesso comportamento sociale, riducendo le tensioni che lo animavano ad una velleitaria, spesso comica e talvolta tragica competizione tra miserevoli individui tutti affaccendati, principalmente, a competere con coloro che li affiancavano o superavano di un grado o poco più nella scala dei “meriti” acquisiti nei confronti dei superiori, fino al massimo grado.
Un vasto impero burocratizzato in cui il protagonista, Propriščin, in qualche modo da un lato si ispira (e finirà con l’ispirare ancora) ad uno dei più classici personaggi di tanta letteratura russa dell’Ottocento, il činovnik ( il funzionario, l’impiegato nell’amministrazione pubblica) e, dall’altro, alle esperienze dello steso autore che rivestì tale funzione per circa un anno e mezzo tra la fine del 1829 e l’inizio del 1831, a Pietroburgo, col grado più basso in qualità di “registratore di collegio” nel dipartimento dell’Economia statale e degli edifici pubblici. Un breve periodo durante il quale ebbe modo di detestare il lavoro, i colleghi, la farraginosa e soffocante macchina burocratica.
Il racconto riporta tutto ciò, anche se la figura di Propriščin non è affato destinata a suscitare la simpatia o almeno la pietà del lettore. Come sempre, quello di Gogol’ è un mondo in cui la miseria morale supera ampiamente quella economica di cui è il prodotto e tutti i maneggiamenti del protagonista, prima nei confronti del suo diretto superiore, poi nei confronti della figlia del Direttore di cui è innamorato, destinati a portarlo alla follia e in manicomio, pur facendo sorridere il lettore certo non lo commuovono.
Il fatto che Propriščin poco per volta si convinca che i cani possano parlare tra di loro come gli umani e addirittura scriversi lettere e, in seguito, di essere il vero erede al trono di Spagna serve a Gogol’per dipingere un mondo assurdo che il solo realismo non sarebbe certo servito a denunciare e a smontare. Un mondo in cui ognuno spia il suo vicino, a partire dall’abito naturalmente, pronto a prenderne il posto, pur di salire in una scala di valori che sembra esser stata definita apposta per dividere e rendere impossibile qualsiasi tipo di solidarietà tra concittadini più che realmente premiare qualsiasi tipo di merito che non sia esclusivamente legato al servilismo nei confronti dell’autorità statale.
Una situazione che è impossibile non paragonare a quella descritta in altre opere di scrittori dello stesso periodo, ma anche a quella che il lettore può ritrovare in tanta letteratura russa di età sovietica, in cui la posizione sociale e all’interno di un occhiuto partito era definito dal prestigio acquisito attraverso ruoli, spesso bizzarri, vili o servili, o dalla possibilità di avere a disposizione appartamenti meno miserabili se non di lusso oppure semplicemente occupati da un minor numero di famiglie6.
In particolare, il paragone che salta immediatamente agli occhi del lettore più attento è quello con Il Maestro e Margherita di Michail Bulgakov (1891-1940), romanzo dell’assurdo e magico che metteva drammaticamente e, allo stesso tempo, comicamente alla berlina il regime staliniano nel momento del suo massimo “splendore”7, considerato uno dei massimi capolavori della letteratura del XX secolo.
Non a caso l’autore fu un grande ammiratore di Gogol’, da cui carpì la satira feroce e la comica magia come arma per disarmare il colosso statuale russo.
Una capacità, quella di far ridere o, almeno, di suscitare il sorriso anche nei momenti più drammatici che costituisce una delle caratteristiche tipiche della grande letteratura russa, come succede anche nelle opere sul Gulag di Varlam Šalamov8 e che, erroneamente, è stato accostato al realismo magico oppure, come nel caso di Gogol’, fin dall’Ottocento, criticato per l’apparente scarsa attinenza alla realtà.
«Vabbè, vabbè, silenzio!» allora, come avrebbe potuto commentare il protagonista del racconto di Gogol’. Racconto che nell’edizione Adelphi è accompagnato da alcuni frammenti di una pièce teatrale che Gogol’ non completò, Vladimir di terzo grado, nella certezza che avrebbe subito pesanti interventi da parte della censura. Una pièce in cui l’autore si riprometteva di rappresentare la follia in cui precipita un funzionario che non riesce in alcun modo a ottenere una prestigiosa onorificenza.
S. Vitale, Il bottone di Puskin, Adelphi Edizioni, Milano 1995 e Il defunto odiava i pettegolezzi, Adelphi, Milano 2015. ↩
Significativo che a inizio marzo di quest’anno la moglie di Zelensky non abbia voluto incontrare a Washington, sotto l’egida del presidente Biden, la moglie del dissidente russo, Julija Naval’naja. Si veda anche M. Flammini, Navalny a Kyiv, il Foglio, 22 febbraio 2024, per capire quanto “rispetto” provino gli ucraini per il dissidente russo osannato quale simbolo di liberalismo e democrazia. Senza contare, infine, che sono stati proprio i servizi ucraina a sostenere che Navalny sia morto per “cause naturali”: M. Romeo, Navalny, clamorosa dichiarazione dello 007 ucraino Budanov sulla causa di morte dell’attivista russo, TG.LA7.IT, 25 febbraio 2024. ↩
Si vedano in proposito: P.P. Poggio, L’Obščina. Comune contadina e rivoluzione in Russia, Jaca Book, Milano 1978 e E. Cinnella, L’altro Marx, Della Porta Editori, Pisa – Cagliari 2014. ↩
Cit. in E. Cinnella, op. cit., pp. 148-149. ↩
S. Vitale, « Una città di mezzi matti » in N. Gogol’, Memorie di un pazzo, a cura di Serena Vitale. Adelphi Edizioni, Milano 2024, p. 11. ↩
Si veda in proposito Y. Slezkine (alias Jane K. Sather), La casa del governo. Una storia russa di utopia e terrore, Feltrinelli, Milano 2018; J. Trifonov, La casa sul lungofiume, Edizioni Studio Tesi, Pordenone 1992 (prima edizione italiana Editori Riuniti 1977) ↩
M. Bulgakov, Il Maestro e Margherita, Giulio Einaudi editore, Torino 1967. ↩
V. Šalamov, I racconti di Kolyma, Giulio Einaudi editore, Torino 1999. ↩