di Giovanni Iozzoli
Valerio Monteventi, Lo sgherru dell’autunno caldo, DeriveApprodi, Bologna 2023, pp. 388, € 22,00
Che succede se uno scrittore-militante mette le mani su una vecchia raccolta di rapporti polizieschi riservati, che raccontano le lotte operaie e studentesche di un territorio? E che succede se questi rapporti rappresentano un fedelissimo resoconto giornaliero di quelle lotte – di parte sbirresca, ovviamente –, attraverso cui è possibile ricostruire l’ethos e il pathos di una stagione irripetibile? Succede che lo scrittore medesimo – Valerio Monteventi – ricama un romanzo interessantissimo, in cui il confine sottile tra documentazione storica e fiction risulta praticamente indistinguibile.
In quei resoconti, stilati con caparbia precisione e con un non comune zelo poliziesco, la dovizia di particolari si mescolava alla declinazione latina dei verbi e all’uso abbondante della congiunzione et. Si puntava l’obiettivo su scioperi e picchetti, scontri coi crumiri e incontri tra operai e studenti fuori dalle officine. Le indagini o anche solo le semplici curiosità riguardavano cortei interni e cortei in strada, risse tra fascisti e antifascisti, contestazioni a capi e dirigenti. Lo scenario era quello delle fabbriche in lotta, delle università e degli istituti medi superiori. (…) Il grosso del lavoro di inchiesta aveva portato nel paniere poliziesco denunce, soffiate e delazioni. Il maggior numero delle spiate riguardava la Ducati Elettrotecnica, il più grande stabilimento operaio bolognese dove, in mezzo a una composizione di forza lavoro soprattutto femminile, nacque il primo comitato di base della città e dove scoppiarono due vertenze aziendali durissime. La periodicità quasi giornaliera di quelle schede mi convinse della presenza di un infiltrato dentro alla fabbrica di Borgo Panigale. (p.7)
Questa intuizione muove l’istinto del romanziere: uno storico avrebbe “semplicemente” classificato e analizzato il materiale; uno scrittore intravede dietro alla massa di documenti le traiettorie esistenziali di personaggi tanto immaginari quanto plausibili. C’era davvero un infiltrato alla Ducati negli anni dell’autunno caldo? Era lui a redigere quei rapporti quasi quotidiani che finivano sulla scrivania del Prefetto e adesso stavano ammuffendo dentro vecchi imballi presso l’Archivio di Stato? E chi era questo infiltrato, che aveva lasciato tracce di sé così copiose e documentate?
La Ducati Elettrotecnica – oggi Ducati Energia – fu il contesto operaio in cui l’autunno caldo bolognese espresse i suoi punti più alti di conflittualità: lì nacque il primo Comitato di base in un territorio super presidiato dal sindacato confederale; lì si registrarono le più solide relazioni tra il movimento studentesco e il mondo operaio; quella fu l’azienda pilota della contrattazione aziendale, le cui acquisizioni faranno da guida nelle relazioni industriali per anni. È per queste ragioni che l’anonimo estensore di quei rapporti insiste tanto nel raccontare il contesto produttivo, oltre che quello vertenziale. Alcuni passaggi più che verbali evocano frammenti di sociologia del lavoro. E per le medesime ragioni, l’autore del romanzo colloca il suo infiltrato proprio “dentro” al cuore della fabbrica: se sei uno spione devi infilare le mani nella produzione materiale, prima che in quella di soggettività e conflitto.
Il mestiere dell’infiltrato è “anticipare” le mosse dell’intelligenza collettiva, prevenirne le intuizioni, capire quali punti della catena produttiva subiranno l’attacco operaio; e leggere le intersezioni, sempre più dense, tra il “dentro” e il “fuori”, tra la fabbrica e la città, tra la composizione operaia e un nuovo segmento di gioventù proletaria, scolarizzata, ribelle, irriducibile alla disciplina del lavoro. Monteventi racconta bene dell’incontro tra queste due anime conflittuali: i picchetti in comune, la critica al sindacato confederale, la nascita di Lotta continua e di Potere operaio – tutti passaggi rievocati anche grazie alla voce quotidiana di quei resoconti polizieschi.
Nasce così la figura di Oronzo “lo sgherru”, che si fa assumere in Ducati, con la complicità della Direzione compiacente, pur essendo in realtà un poliziotto in servizio presso la squadra dell’Ufficio politico della Questura di Bologna. Un “finto” operaio che però deve lavorare per davvero ogni santo giorno in linea, per sostenere il suo ruolo di infiltrato solerte. Dopo il primo faticoso approccio con la professione – è un proletario salentino che aveva scelto la divisa proprio per non finire in fabbrica o con la zappa in mano –, lo “sgherru” comincia a macinare rapporti su rapporti. Il suo capo, l’ipocondriaco Lotorto, esige sempre più dettagli, sempre più incisività, sempre più intuizioni: la sua squadra di infiltrati (ce ne sono altri che girano tra l’università e le piazze di movimento) costa cara al Ministero degli Interni, e deve produrre documentazione a ciclo continuo, per giustificare la sua esistenza.
Monteventi inserisce spesso frammenti delle schede originali all’interno della trama. Servono a dare “verità” ad un’opera che di fantasioso ha ben poco, intrecciando il vero e il verosimile in ogni pagina. Ad esempio, nelle preoccupazioni poliziesche è spesso evocata la figura di uno “studente rompicoglioni”, sempre presente in tutti gli scenari di lotta bolognesi – tal Bifo –, evidentemente già all’epoca molto apprezzato dalla Questura. Così come sono storicamente autentiche, con nomi e cognomi, le tristi figure del neofascismo felsineo, che nella “rossa Bologna” mettevano in campo squadre di mazzieri armati, alcuni dei quali poi finiranno dentro le inchieste sullo stragismo. Dallo sfondamento dei picchetti operai alla strage dell’Italicus il passo sarà breve e le carriere dei “neri” bolognesi vengono ben tratteggiate nel libro.
Il racconto procede spedito in una specie di gioco di specchi: l’infiltrato fa il suo lavoro e scrive rapporti, raccontando dal suo punto di vista l’iniziativa operaia. Lo scrittore, mezzo secolo dopo, riprende e utilizza quel materiale, mettendolo al servizio della memoria di classe. L’infiltrato racconta se stesso, nella finzione narrativa, attraverso i suoi rapporti, le sue spiate, il suo incunearsi nei contesti di movimento. Ma se nulla sappiamo di quella figura – invenzione letteraria o realtà –, le tracce del “suo” lavoro sono vive, scrupolose, autentiche e rese oggi disponibili alla fruizione collettiva. Insomma, una lettura avvincente sia per gli amanti della narrazione, sia per gli appassionati della ricerca storica.
È curioso e sorprendente che sempre tra gli atti della Prefettura custoditi presso l’Archivio di Stato siano state rinvenute qualche anno fa schede in cui si documenta la sorveglianza esercitata dalla Questura sugli internazionalisti negli anni Settanta dell’Ottocento, circa cento anni prima delle vicende raccontate in questo libro. E in particolare su un giovane romagnolo trapiantatosi allora in città: Giovanni Pascoli. (p. 8)
Si può provare a ricomporre pezzi di memoria collettiva – usando tutte le risorse, anche i vecchi archivi di Polizia – contro ogni apologia della smemoratezza. Non c’è futuro senza radici, non può darsi inchiesta operaia oggi, senza le acquisizioni preziose dei cicli di lotta passati. E gli archivi istituzionali, a volte, parlano quanto quelli di movimento: e possono raccontarci della Ducati Elettrotecnica – o del sovversivo Pascoli – se solo le mani sapienti di scrittori coraggiosi e ricercatori onesti riescono a trarne analisi e storie.