di Giovanni Iozzoli
Enzo Stasino, Il quartiere labirinto, Edizioni Artestampa, Modena 2023, pp.184, € 18,00
“Sono nato nell’area di Sant’Antonio ai Monti e con la mia famiglia ho vissuto in un basso adderet’o chiano: il piano era una piccola stradina pianeggiante alla fine delle scalinate dei Monti, da cui si sbucava su Corso Vittorio Emanuele (…). È un reticolo di viuzze, salite, discese, scalinate – come anche le citate Cupa Vecchia, Catenacci e quelle dei Caciottoli, verso le grotte/rifugio – che danno vita in questa sezione ad un vero e proprio labirinto. Per questa ragione ho voluto chiamare “operazione labirinto” il momento della ribellione e “quartiere labirinto” la mia zona.” (p. 101)
Attraverso una appassionata cartografia umana e urbana, Enzo Stasino ricama una memoria di amore per il suo quartiere, il suo mondo, la sua comunità e soprattutto per l’orgoglio di appartenere alla città che per prima riuscì ad espellere fisicamente l’occupante tedesco e riscattare se stessa dall’onta nazi-fascista. L’amore per Napoli e per le Quattro Giornate si intrecciano, nelle parole dell’autore, e diventano un amore unico – una Medaglia d’oro ideale all’umanità dolente dei vicoli che da Montesanto si arrampicano tortuosi verso la parte nobile della città, che si aggiunge a quella al valor militare che i napoletani conquistarono sul campo, armi in pugno.
Cosa furono le giornate che tra il 27 e il 30 settembre incendiarono di mille fuochi ribelli la città? Esiste un’ampia pubblicistica su quei giorni – per non parlare del memorabile film di Nanni Loy – e studi accademici, celebrazioni, retoriche inevitabilmente ingrigite o piegate alla normalizzazione dei tempi presenti. L’autore ha il merito di raccontare quei momenti epici attraverso le peripezie – buffe o eroiche – della “piccola gente” del suo rione, che realmente prese parte agli eventi e contribuì grandemente alla vittoria.
Il racconto di quelle vite – trasposte in forma romanzesca – riprende fatti e personaggi reali che l’autore, negli anni della sua gioventù, aveva conosciuto o di cui aveva incrociato le traiettorie biografiche. Un popolo oltraggiato dalla miseria, dalla dittatura feroce, dai bombardamenti impietosi, eppure capace di moti di solidarietà oggi impensabili: e di una tempra ribelle che gioverebbe molto alla Napoli contemporanea.
Alcuni profili umani, talune storie, possono dare l’idea di indulgere nello stereotipo della letteratura del vicolo. Ma l’arte di arrangiarsi – che traspare spesso nel racconto – non è altro che la materia grezza che può evolvere verso il ribellismo e l’insurrezione: ed è stato così in ogni angolo del mondo da Algeri all’Avana. La povera gente costruisce le sue epiche e i suoi movimenti con la materia prima che ha a disposizione: e i napoletani nell’autunno del ’43, lo fecero egregiamente.
La storia comincia negli anni ’80, quando l’autore, giovanotto, cerca di convincere suo nonno a partecipare alle celebrazioni del 25 aprile. Il vecchio è restio, scettico:
In quel 1943 sporco di sangue, mio nonno era stato un partigiano. Non apparteneva a nessun battaglione o gruppo. “Partigiani” nacque al Nord, per dire che si stava da una parte, quella contro la dittatura. Ai napoletani delle Quattro Giornate fu associato dopo, e se lo tennero. Perché lo furono prima che si sapesse come chiamarli, partigiani del popolo. Sapevo che avrei dovuto mettere in atto una smielata opera di persuasione perché acconsentisse ad accompagnarmi: Armando Tortora non aveva mai voluto partecipare ad alcuna commemorazione. Come mai? Perché, diceva, quella libertà per cui lui e i suoi amici avevano combattuto, lui non la vedeva, o almeno non del tutto realizzata. Non credeva al liberatore, all’alleato: cambiandole nome in democrazia aveva esportato una nuova oppressione. Diversa da quella fascista e nazista, certo: nessun coprifuoco, nessuna fucilazione pretestuosa, nessun confino. Però avevano portato l’inizio dell’influenza sulle scelte della nazione, con la presunzione che la gestione americana del potere fosse la migliore per qualsiasi luogo, da quel momento in poi in debito perenne con i grandi Stati Uniti, i liberatori, i giusti. Così giusti che in nome della pace sganciarono le bombe atomiche, le armi più micidiali mai concepite, su Hiroshima e Nagasaki e quel gesto, nonno Armando, non se lo faceva andare giù. (p.15)
Il mistero doloroso della città resta la sua ineluttabile tendenza alla “caduta”: un movimento verso il basso che per i figli di Partenope assume contorni quasi metafisici. Napoli rappresenta la prima ribellione antifascista armata, ma è anche la città che per prima, negli anni ’50, si consegna alla peggiore reazione, sedotta dal laurismo monarchico. Il vecchio nonno aveva ragione sullo scetticismo: il popolo napoletano quasi mai riesce ad essere all’altezza della sua storia.
La rievocazione di quelle giornate cruciali del ’43, realizza la trasmissione della memoria tra le generazioni – che a Napoli assume sempre una forma prevalentemente orale – e la sfilata di vite, morti e luoghi della ribellione, riempie le pagine del racconto. Si sente il sapore dello struggimento tipico di chi ha lasciato Napoli e piange il ricordo di una città che ormai non c’è più. L’autore – chef e attore (tanto per ribadire la disinvolta poliedricità dei napoletani, che non è solo luogo comune) – , vive a Parma da tempo; e per lui raccontare la Napoli del ’43 attraverso i ricordi di un vecchio nonno, significa probabilmente anche riportare in vita la Napoli degli anni ’60/’70, in cui è cresciuto, che è oggettivamente altrettanto lontana. Nel carrozzone turistico odierno fatto di gentrificazione e periferie disperate, le storie romanzate di Donna Amalia, Zniello e degli innumerevoli Esposito, sembrano distanti anni luce.