di Franco Pezzini

Ben prima di Snoopy, a celebrare l’espressione “Era una notte buia e tempestosa” (“It was a dark and stormy night”) era stato il romanzo Paul Clifford, 1830, opera di un genio della comunicazione, l’arcivittoriano Edward Bulwer-Lytton (1803-1873). Genio perché, trovandosi costretto a dispetto dello status elevato a lavorare per vivere, divenne scrittore “popolare” – nel senso di un successo diffuso, tanti compravano i suoi romanzi vicino alle stazioni per distrarsi dalle fuliggini dei viaggi in treno – battendo un po’ tutti i generi narrativi con successi degni di nota e una cura ai contesti narrati (storici, soprattutto) davvero nuova. Per non parlare dei racconti, delle opere teatrali (quelle nate in tale forma e quelle in prosa o musicali derivate dai suoi scritti, fino a raggiungere infine gli schermi) e persino di una produzione lirica non enorme ma – con qualche storcinaso di Poe –  significativa. “Arcivittoriano” perché, vissuto sotto il regno della grande regina, incarnò dell’epoca valori e disvalori, entusiasmi e curiosità, anche attraverso relazioni di rilievo (si pensi alla sua amicizia con Dickens, che portò i due a scambiarsi oculati consigli letterari). Impossibile affrontare lo studio della realtà vittoriana senza confrontarsi in qualche modo con lui.

La rimarchevole produzione bulweriana di testi ampi comprende romanzi storici come il sempreverde Gli ultimi giorni di Pompei (The Last Days of Pompeii, 1834) e avventure criminali (per esempio Paul Clifford), romanzi di costume e – ciò che qui particolarmente interessa – novel di tema fantastico: una varietà il cui tessuto intrinseco rivela già una ricchezza di linguaggi diversi disinvoltamente ibridati. Emblematico per esempio il celeberrimo Gli ultimi giorni di Pompei, che integra a un’abile regia da kolossal catastrofistico alla Roland Emmerich spunti dei romanzi devoti (la presenza dei cristiani) e d’avventure, e di quelli esotici/esoterici (i culti di importazione egizia, tramite il personaggio del losco Arbace dal nome un po’ fascista, mago immigrato e sacerdote di Iside). O, altro esempio interessante, Zanoni (1842), dove romanzo storico – sulla rivoluzione francese, vista ovviamente con gli occhi inorriditi di un conservatore britannico –, storia iniziatica – sulla sapienza di gruppi come i Rosacroce o fraternità assai più antiche – e romanzo avventuroso-fantastico approdano a un esito narrativamente godibile ancor oggi.

Il canone fantastico di Bulwer-Lytton comprende poi la novelette dell’agosto 1859 “Gli infestati e gli infestatori, o la casa e il cervello” (“The Haunted and the Haunters; or, The House and the Brain”, sul Blackwood’s Edinburgh Magazine), pragmaticamente scorciata nel 1864 in forma di racconto per la pubblicazione da parte dell’autore di un diverso romanzo su un soggetto consimile, Una storia singolare (A Strange Story, 1861-1862); e il famoso La razza futura (The Coming Race, 1871), poi riproposto come Vril: The Power of the Coming Race, che ispirerà scrittori, teosofi e – si dice – esoteristi del sottomondo protonazista con la suggestione di una fantomatica forma di energia chiamata Vril e l’idea di una razza superiore insediata in un mondo sotterraneo. I richiami al nome di Bulwer-Lytton negli studi e nelle disinvolte (e talora confusive, penso a certe pagine di Giorgio Galli) affabulazioni sul nazismo magico vanno peraltro contestualizzati senza fantasie nel quadro di una produzione più ampia e di un immaginario romantico.

Già Zanoni aveva consacrato la fama di Bulwer-Lytton come grande esperto di esoterismo – in modo un po’ simile a quanto avverrà nel secolo successivo con Dennis Wheatley – fino agli equivoci del griffarlo quale patrono di coevi ordini rosicruciani: vero che egli nutrì genuini interessi per l’occulto (si pensi ad alcuni oggetti di utilizzo magico in bella evidenza nelle vetrine della sua teatralissima proprietà di Knebworth, coronata di draghi e gargolle) e accolse in Inghilterra il mago francese Éliphas Lévi di cui leggeva affascinato la trattatistica: ma le storie bulweriane sono assai più frutto della sua fervida e colta fantasia che di rivelazioni iniziatiche tra le righe.

“Gli infestati e gli infestatori, o la casa e il cervello” riguarda appunto l’impossessamento spettrale di una casa a Londra quale strascico dell’opera di un sinistro personaggio in precedenza insediatovi: a collegare nuovamente, come in Zanoni, il mondo vittoriano con la precedente età gotico-romantica di parrucche, trine e misticismi. L’avventura nella casa infestata rappresenta qui una delle prime trascrizioni ottocentesche del topos, e a detta di M. R. James potrebbe essere debitrice dei resoconti sui raggelanti eventi nel mulino della famiglia Proctor, a Willington (dal 1835 in avanti). Concediamoci pure qualche spoiler, per analizzare comparativamente i testi.

Tutto inizia con la proposta del narrante di fermarsi a dormire in una casa che ormai da parecchi anni fa fuggire tutti gli inquilini – l’unica signora che vi si è fermata è morta (male) qualche tempo prima. Dunque il Nostro vi si insedia assieme al suo allegro e fedele servitore F. e a un coraggioso bull-terrier, che però appena entrato inizia – bell’avvio – a graffiare la porta per uscire… Rincuorato e coccolato, si stringe al padrone invece di correre avanti, e i due uomini provvedono a una perlustrazione dell’edificio dalle cantine in su: ma scesi nel lugubre cortiletto si accorgono che a fianco delle loro impronte nella mota fuligginosa prendono a comparirne improvvisamente altre, come di un bambino a piedi nudi. Poi in salotto una sedia si muove, e commentano che è meglio dei tavolini delle sedute spiritiche… anche perché sulla sedia il narrante prende a intravedere una sagoma umana, azzurrognola e indistinta. Via via i fenomeni strani si moltiplicano, e soprattutto emerge un sentore come di esalazione tossica dal pavimento. Il narrante trova un paio di lettere in un cassetto, le sfila ma qualcosa cerca di portargliele via…

A un esame prontamente condotto, le lettere risultano scritte da un uomo – evidentemente un marinaio – alla propria partner, e vi si evoca a presenza di un inquietante segreto.

 

«Quel che è fatto, è fatto; e ti dico che contro di noi non esiste nulla, a meno che i morti non possano risuscitare». Qui, con calligrafia migliore (quella di una donna), era sottolineato: «lo fanno!».

 

Ma alla fine della lettera datata per ultima, la mano femminile ha scritto: “Scomparso in mare il quattro giugno, lo stesso giorno di…”.

Gli eventi successivi della notte sono sufficienti a terrorizzare fino alla fuga il bravo F., a sconvolgere il cane tanto da spingerlo a tuffarsi sul muro cercandovi un’inesistente breccia e lasciar solo il Nostro – che regge per un insieme di orgoglio e curiosità, ma anche per una certa consuetudine da appassionato a esaminare fenomeni straordinari. Non stupiamoci, lo spiritismo conosce all’epoca un’impennata, le esperienze di confine fioccano e i bollettini dei devoti traboccano di storie affascinanti. La teoria del Nostro

 

è che il Soprannaturale è in verità l’Impossibile, e che ciò che viene chiamato soprannaturale è soltanto un qualcosa che appartiene a leggi della natura da noi finora ignorate. Perciò, se davanti a me spuntasse un fantasma, non avrei nessun diritto di dire che “il soprannaturale esiste”, ma dovrei dire che “contrariamente a ciò che comunemente si pensa, l’apparizione di un fantasma fa parte delle leggi della natura, cioè non è soprannaturale”.

 

E nelle presunte evocazioni di spiriti, ammettendone in astratto l’ipotetica verità, resta il dato oggettivo del corpo vivente e materiale del sensitivo, grazie alle cui capacità i fenomeni si verificano. Per lo spiritismo, come per il mesmerismo, occorre considerare la presenza di entità materiali come fluidi. Donde per i fenomeni in corso un interesse del Nostro “più scientifico che superstizioso”: come ora per l’ombra che va a oscurare la luce, il gelo intenso che sopravviene, la sensazione di due occhi a fissarlo, e una sorta di forza che lo schiaccia al suo posto come una volontà opposta alla sua. Di qui un’impennata di orrore – le candele si affievoliscono, il fuoco si ritrae – che lui cerca di non far trascolorare in paura, finché la stanza non sprofonda nel buio. Lasciamo al lettore la delizia di farsi inquietare da Bulwer-Lytton attraverso vari altri fenomeni, bolle di luce, apparizioni, occhi maligni, entità larvali caotiche come creature al microscopio… Ma negli occhi dell’ombra c’è una volontà, un potere intensamente demoniaco: e dopo una convulsione che fa tremare la stanza, la fiamma torna a prendere il proprio posto e la stanza torna tranquilla. Peccato che il cane sia morto, e non di terrore: ha, molto concretamente, il collo spezzato.

Al mattino, con la luce, il Nostro torna a casa e riceve una lettera dal domestico, ancora stravolto, che sta partendo per l’Australia. Recuperato poi il bagaglio che aveva portato alla casa, torna a restituire le chiavi al proprietario e gli offre conto del contenuto delle lettere trovate. Ipotizza alla base dei fenomeni una sorta di realtà similmesmerica ma di forza superiore (“magica”), estesa tramite il residuo terreno di un defunto, cioè lo spettro di una forma morta – senza nulla in comune con l’anima, e senza alcunché di soprannaturale vista che si tratterebbe di mere idee trasmesse da un cervello all’altro. Come appunto a monte dei fenomeni della casa sta un cervello plausibilmente inconsapevole, a fronte della varietà amorfa e differenziatissima di esperienze sperimentate da quanti abbiano cercato di passarvi del tempo. Certo un cervello malefico, per uccidere il cane: il Nostro si è salvato solo opponendo resistenza mentale. Consiglia dunque di abbattere le pareti della piccola stanza di fianco a quella dove lui ha cercato di dormire, e diretta verso il cortile.

Successive ricerche, a partire dalle lettere ritrovate nella casa, conducono alla ricostruzione di una loschissima storia sulla donna che aveva tenuto la casa, cioè l’ex-proprietaria divenutane affittuaria. E allo sventramento della stanza, la scoperta di una botola rivela un locale insospettato: oltre a qualche mobile malconcio, ospita i resti di un sontuoso abito con trine del secolo prima e una cassaforte di ferro murata. All’interno, oltre a oggetti di uso esoterico, una miniatura – si dirà poi che “sembra avere almeno cento anni” – dai colori intatti, di un uomo di quarantasette o quarantott’anni che fa pensare a un serpente, di aspetto avvertibilmente crudele e potentissimo. Il narrante (qui l’allusione favolosa è funzionale alla maggiore verosimiglianza) vi riconosce il ritratto di un certo personaggio storico,

 

un uomo di un rango inferiore solo a quello reale, il quale nel corso della sua esistenza aveva fatto parlare molto di sé. Di lui, la storia dice poco o niente; ma andate a guardare tra le lettere dei suoi contemporanei e scoprirete riferimenti alla sua audacia selvaggia, al suo libertinismo spavaldo, al suo spirito inquieto, al suo gusto per le scienze occulte. Morì mentre era ancora nel pieno delle sue forze e, riferiscono le cronache, fu sepolto in terra straniera. Morì in tempo per sfuggire al braccio della legge, poiché era accusato di delitti che lo avrebbero condotto dinanzi al boia.

Dopo la sua morte i suoi ritratti, che erano numerosi, poiché egli era stato un grande mecenate, furono raccolti e distrutti, probabilmente dagli eredi, che sarebbero stati ben felici di far scomparire anche il suo stesso nome dal loro splendido lignaggio.

 

A chi si riferisce l’autore? il personaggio è di fantasia, un mischione tra Cagliostro e il conte di Saint-Germain dalla vita improbabilmente lunga, i diabolisti dell’Hellfire Club, magari dissipati libertini come Sade o il conte di Charolais e forse – ipotizza Skey – il vampiro Lord Ruthven di Polidori: Conan Doyle potrebbe aver tratto da lui i tratti rettiliani del suo professor Moriarty… insomma, un personaggio estremo in tutti i sensi.

Il primo problema è che “tra gli anni in cui era vissuto quel terribile nobiluomo e l’epoca cui senz’ombra di dubbio risaliva la miniatura correva un intervallo di più di due secoli”; e il secondo sta nel fatto che il proprietario della casa è certo di aver conosciuto quell’uomo – un certo francese “de V.”, un brutto personaggio – in India. Sul retro della miniatura c’è un pentacolo con la data 1765; e aprendola è inciso “Mariana a te. Sii fedele per la vita e per la morte a…”, seguito dal nome di un “brillante ciarlatano, che aveva fatto grande sensazione a Londra per un anno o giù di lì” e ne era fuggito per l’accusa di aver assassinato l’amante e un rivale. Ma la cassaforte rivela altri oggetti strani, una sorta di bussola magica e un portafogli con una pergamena di maledizione sulla casa e i suoi abitanti – che il proprietario provvede a bruciare. Fermandosi anzi ad abitare nella casa, che dopo l’eliminazione della camera segreta diventa un luogo tranquillo e ameno. Qui si chiude la versione più tarda del racconto, che lo esaurisce nel tema della dimora infestata: certo per colpa di chi ha commesso alcuni atroci delitti, ma sulla base dell’innesco di una precedente maledizione.

Però poco tempo dopo i due uomini stanno ancora parlando dell’argomento, quando vedono dalla finestra un personaggio dal viso identico a quello della miniatura e al “de V.” dei ricordi del proprietario. Si precipitano fuori, ma gli occhi da serpente e il sembiante di orgogliosa dignità del tipo impediscono al narrante di chiedergli alcunché: e l’altro si defila.

La sera stessa, il Nostro si reca a un club, e nota un amico in dialogo proprio con il personaggio in questione. Dall’amico scopre che l’interlocutore è un uomo straordinario, grande studioso dell’Oriente e incredibile ipnotizzatore: si chiama, piuttosto banalmente, Richards. Il narrante gli viene presentato, e constata come costui sveli qualcosa di antico nel modo di parlare e comportarsi, e un ghigno sinistro. Ma quando i due si trovano soli e il Nostro gli accenna alla miniatura con un suo ritratto, lo sguardo ammaliante di Richards lo blocca come quello d’un serpente, strappandogli di bocca parole che non pensava di utilizzare e un’inattesa parola d’ordine. Richards accetta il confronto.

Il Nostro lo interroga così su telepatia e poteri del pensiero, che potrebbe riesumare azioni e pensieri maligni sedimentati (i crimini consumati da altri nella casa, a spiegare la pirotecnia di fenomeni dell’infestazione) e l’altro risponde sornione che un mortale con tali poteri sarebbe un uomo diabolico. In genere sì, ribatte il Nostro: chi ha la peculiare, rara costituzione psichica del mago presenta stigmi poco tranquillizzanti, ma assieme a una capacità straordinaria di concentrare la volontà su un singolo oggetto. Il fatto è che un simile egotista, con passioni selvagge e privo di limiti e affetti, osservatore acuto, calcolatore attento, “vuole continuare a vivere”, e perciò arresta per volontà la sclerotizzazione fisica che chiamiamo vecchiaia – badando solo a fingere ogni tanto di morire, e ricominciando prudenzialmente l’esistenza in un’altra parte del mondo. In questo senso, la filiera narrativa da cui sorge il sinistro Richards (cui trasparentemente il Nostro si riferisce) è in fondo la stessa dei vampiri multi-vita del primo ottocento, Ruthven e Varney, che muoiono più volte per tornare alla vita in grazia di raggi lunari o con altri sistemi. Mentre l’enfasi sulla volontà richiama i racconti sul mesmerismo in Poe e in altri autori.

A quel punto il Nostro smaschera il mago, che però incassa soave: da un secolo va alla ricerca di uno come lui, e riconosce in lui la veggenza – prodigiosamente presente in quell’attimo. Dunque Richards lo interroga, sfruttandone l’incidentale potere oracolare secondo la consolidata tradizione del mesmerismo; e apprende che la morte gli verrà infine per disgrazia, dopo molto tempo da allora, tanto che nel frattempo avrà avuto ancora modo di soggiogare razze e troni. La morte lo afferrerà a nord, in una scena con una nave incagliata tra i ghiacci sotto un cielo rosso di meteore che fa pensare alla Ballata del vecchio marinaio: là il mago – qualunque sia il suo nome a quel tempo, e unico superstite dell’equipaggio – conoscerà un appannamento senile della propria incredibile volontà e sarà preso dal terrore… Poi però ordina al Nostro di dormire e annuncia che tornerà a Damasco.

Il narrante perde i sensi, trova l’amico divertito che proprio lui sia caduto in quella trance mesmerica da cui si credeva intangibile: ma, cercato all’albergo dove aveva alloggio, Richard si è ormai reso irreperibile. Ha tuttavia lasciato al Nostro un messaggio: ha stabilito su di lui un potere, e non potrà parlare dell’episodio per tre mesi, al termine dei quali “il sortilegio sarà levato. A parte ciò, vi risparmio. Visiterò il vostro sepolcro, un anno e un giorno dopo che esso vi avrà accolto”. Bontà sua.

Fin qui la novelette, con la sua originalissima chiusa: ma il romanzo Una storia singolare si presenta in forma piuttosto diversa. Certo, in entrambi i casi l’interesse dell’autore non è tanto rivolto agli effetti più o meno impressionanti del rapporto con apparenti poteri magici, quanto alle relative cause e al brain, il cervello che sta dietro ai medesimi: tuttavia nel romanzo cambia l’equilibrio di fondo. Non vi si parla di case infestate; a cercare una nuova vita in Australia non è un servitore ma il protagonista; Damasco anche lì fa parte dell’oscuro passato del vilain, ma questi è una figura assai meno tradizionalmente connotata del serpentino Richards; a tenere in vita non è tanto la volontà – una volontà rabbiosa nell’uomo-serpente, legata al mesmerismo – ma arcani elisir come quello citato in Zanoni, mentre il mesmerismo in quanto tale è roba da vecchi dottori illusi; ci sono sentimenti forti in gioco. Però soprattutto, viene da pensare, la speculazione “teorica” vi ha un ruolo diverso. Concludiamo la lettura della novelette e non siamo certi che il narrante abbia capito tutto, il tipo di riflessione è molto letterario e quasi da narrante inaffidabile: il vilain è ancora vittorioso e sarà sconfitto solo in prospettiva. Al contrario nel romanzo il mago sarà sconfitto in scena, e l’analisi dei meccanismi “magici” è condotta seriosamente con le glosse di un ricco, inusuale apparato di note e rinvii bibliografici. Il narrante del romanzo, al di là dei suoi errori, è insomma persona assai più seria del ricercatore un po’ naïf della novelette. Ma se i testi sono insomma distanti, perché sforbiciare il primo? L’autore ha tenuto a sostenere la riflessione più solida del novel, contro quella vagamente paradossale della novelette di cui ha preferito ripudiare gli esiti?

Di nuovo, in Una storia singolare troviamo trasfusi – come negli altri romanzi – più linguaggi diversi: in questo caso, il romanzo d’amore, la storia filosofico-religiosa (l’autore considera quest’opera la più alta e profonda della propria produzione) e il romanzo esoterico, più qualche elemento che flirta col poliziesco e una robusta quantità di satira di costume. Quest’ultima sviluppata particolarmente nella prima metà: il mondo di L. – plausibilmente la città di Lincoln – dove il narrante protagonista, il giovane dottor Allen Fenwick deve barcamenarsi tra i pazienti di una Città Bassa e di quella “alta” di Abbey Hill, non necessariamente più ricca ma più potente e con pretese di status, è letto con acuti connotati di satira sociale.

A spiccare è la regina assoluta del Colle, la moglie del colonnello Poyntz, un personaggio di straordinario rilievo che Wilde avrebbe arruolato per le sue ingestibili madame (come la Zia Augusta di The Importance of Being Earnest) se attorno non avesse già goduto a sufficienza di modelli reali. Così, è la machiavellica, severa e ironica signora Poyntz a sostenere, per propri personalissimi interessi e gelosie (il profilo complesso risulterà di fascinosa sottigliezza, possiamo immaginare nel ruolo una Judi Dench), l’onesto Fenwick nello scalzare la concorrenza di un medico modaiolo mesmerista, il dottor Lloyd: il rigore alla CICAP di Fenwick contro pratiche non scientifiche verrà posto alla prova in tutti i modi possibili nel corso della vicenda, costringendolo a prendere atto dell’esistenza di realtà altre pur non banalizzabili, e tali da approcciarsi con necessaria elasticità culturale in vista di nuovi paradigmi.

Attaccato dagli amici di Lloyd – che nel frattempo è morto, dopo aver cercato di suscitare in Fenwick acuti sensi di colpa (e il romanzo gioca abilmente sul tema della colpa che noi rifiutiamo ma lascia come un’ombra sulla nostra vita) – e insidiato dalla maneggiona signorina Brabazon che mirerebbe a impalmarlo, Fenwick si innamora invece della fin troppo angelicata (fino all’insopportabilità) Lilian Ashleigh: con iniziale successo, anche grazie all’appoggio della signora Poyntz. Successo minato però rapidamente da una serie di difficoltà: in particolare per l’apparizione di un giovane bellissimo e selvatico, il fascinoso e losco Margrave aureolato da livide voci filtrate dall’Oriente.

Non è il caso in questa sede di addentrarsi dettagliatamente in vicende che vedono il povero Fenwick sospettato di omicidio, lasciato da Lilian, stranito da fenomeni misteriosi: Margrave lo salva dalle accuse con apparente generosità ma resta un personaggio sfuggente e ambiguo, quasi impastato dell’imbarazzo che Todorov giudicherà caratteristica costitutiva del fantastico. In questo senso equivoco, al teurgo buono caldeo Zanoni del romanzo del 1842 l’autore qui contrappone vent’anni dopo un adepto cattivo pure venuto dall’oriente, attraverso vicende convulse e oblique che lasciano il lettore spiazzato quasi quanto il protagonista. Travolto da meccanismi sociali che la macchinatrice Poyntz ha stavolta indirizzato contro Lilian – ormai moglie del Nostro – il giovane medico romperà i ponti con la società perbenista di L. e partirà per il mondo selvaggio dell’Australia, dove si consumerà l’ultimo confronto con Margrave: gli ultimi capitoli precipitano in visioni sconcertanti, oniriche e febbrili quasi da Tentazioni fiamminghe, alla ricerca di un elisir che permetterebbe al mago di perpetuare ulteriormente la propria vita e – spera Fenwick – a lui di salvare la giovane moglie da morte e follia.

A fianco del mago in queste ultime scene è, significativamente, una Ayesha il cui nome ispirerà un lettore eccellente di Bulwer-Lytton (nonché segretario di suo nipote Henry Ernest Gascoyne Bulwer in Sudafrica), H. Rider Haggard, per la carismatica eroina di La donna eterna (She: A History of Adventure, 1886-1887 e seguiti). Mentre non casualmente nel Nosferatu di Murnau, 1922, la figura corrispondente a Van Helsing, lì studioso coltissimo ma d’imbarazzante inefficacia, verrà chiamata professor Bulwer: in ricordo appunto dello scrittore di storie singolari e dalla celebrata erudizione esoterica. Ad assassinare l’interprete di questo Bulwer, l’attore austriaco John Gottowt (1881-1942) sarà – con buona pace delle storie sul Vril – un agente della feccia d’una presunta razza superiore.

 

I libri. Le opere di Bulwer-Lytton sono state edite nel tempo, e sono a tutt’oggi reperibili, presso diversi editori italiani. Per questo pezzo ho utilizzato:

Edward Bulwer-Lytton, Una storia singolare, pp. 653, € 21,90, Landscape Books, Rocca Priora 2022.

Edward Bulwer-Lytton, Gli infestati e gli infestatori, o la casa e la mente, in: Gabriele Scalessa (a cura di), Gli inquilini del piano di sopra. Case infestate nelle ghost stories, Nova Delphi, Roma 2016: contiene la versione scorciata del racconto, in una bella antologia.

Edward Bulwer-Lytton, La casa e il cervello, a cura di Malcolm Skey – inglese (1944-1998), uno dei massimi curatori di gotico apparsi nell’editoria nostrana –, Theoria, Roma-Napoli 1985: contiene invece la versione estesa del testo.