di Francisco Soriano
Emily Dickinson – Poesie d’amore – cura di Massimo Bacigalupo, traduzione di Margherita Guidacci e Ariodante Marianni – testo inglese a fronte – I Grandi Tascabili Bompiani, Milano – 2024, pp. 182, € 14
Stringevo sabbia, brancolavo in cerca d’ombre, toccavo gli orli della nebbia – potrebbe essere questo l’esergo trascritto alle porte di qualsiasi giardino incantato, silenzioso, come partorito dall’arcano di una visione, vuoto costante e senso dell’immateriale che ci pervade. Emily Dickinson ci trascina con la sua poetica in quel luogo dove ogni magnificenza intellettiva, tradotta in versi, trasforma il non detto in circonferenze che si sovrappongono senza mai toccarsi. Un andamento che appare lento, scarnificato da un sentimento che non conosce orpelli, né effusioni edulcorate o tradotte dal canone di una lirica che si generava normalmente dal classicismo dei suoi tempi. Tuttavia il punto non è il lirismo o la coerenza di uno stile poetico aderente ai propri tempi, ma piuttosto l’impossibilità di ricondurre le sue scritture a canoni specifici, anche fra quelli conosciuti nei secoli successivi.
Emily Dickinson fu una poetessa sublime: nacque ad Amherst nel Massachusetts, il 10 di dicembre 1830 nella casa costruita dal nonno paterno Samuel Fowler Dickinson, fondatore dell’Amherst College ancora oggi esistente. Una biografia della famiglia Dickinson è ben rappresentata dalle parole della stessa Emily, tratte da una missiva scritta per Thomas W. Higginson, datata 25 aprile 1862: Ho un fratello e una Sorella – Mia Madre non dà importanza al pensiero – e il Babbo, troppo occupato con le sue Carte – per accorgersi di quello che faccio – Mi ha comprato tanti Libri – ma mi raccomanda di non leggerli – perché ha paura che mi confondano la Mente. Sono tutti religiosi – eccetto me – e si rivolgono a un’Eclissi, ogni mattina – che chiamano “Padre”. A questa sommaria quanto puntuale descrizione delle attitudini familiari in casa Dickinson bisognerà aggiungere che, intorno agli anni ’60, accaddero le dinamiche più importanti della vita della poetessa: non solo la redazione di poesie, ma anche relazioni personali e carteggi con il reverendo Charles Wadsworth e Thomas Wentworth Higginson, quest’ultimo critico letterario originario di Boston, al quale Emily si rivolse per ricevere un giudizio sulle sue poesie. Furono anni rilevanti soprattutto per l’importante produzione di poesie (dal 1861 al 1865), circa 1800, se ci atteniamo alla cronologia fornitaci da R.W. Franklin che, nel 1998, le indicò nella quasi totalità dei casi senza titoli e con una semplice numerazione di riferimento.
Emily Dickinson morì a Homestead il 15 maggio 1886. Solo poche ore dopo la sua scomparsa, la sorella Lavinia ritroverà le poesie e le lettere che Emily aveva scritto in quegli anni. Comprendendo la grandezza e la profondità di quegli scritti, grazie a quella scoperta, oggi possiamo rivivere attimi di assoluta eternità studiando l’immenso lascito della poetessa di Amherst.
La assurda quanto fantomatica retorica che si aggira intorno alla figura della Dickinson circa le sue vestizioni bianchissime, la solitudine, l’autoreclusione e le sembianze di una persona solitaria, infelice e cupa, sono sicuramente esagerazioni e visioni che non rispondono alla sua reale personalità. Banalità imperdonabili sostenute nei confronti della più grande poetessa americana di tutti i tempi, le cui sicure e non uniche caratteristiche dal punto di vista poetico e letterario sono rappresentate dalla sua generale non-appartenenza, alla sua esclusività, alla sua originalità, alla sua sacra scrittura. Inoltre i contenuti del suo poetare appartengono a quegli spazi irraggiungibili dell’umano percepire che solo i più grandi maestri riescono a frequentare. Che nessuno riesca a spiegare il perché, intimamente, la poetessa fosse così riservata risponde, invece, a ragioni chiarissime. Dickinson con la sua storia personale rispondeva, contrapponendosi, alle dinamiche della noiosa provincia americana, triste, inconsistente, che non suscitava alcun interesse dal punto di vista delle relazioni umane e culturali. Dunque, che cosa avrebbe dovuto fare una poetessa così intensa e strabiliante se non avere pochi contatti e molti slanci verso l’estasi poetica, fatta di esaltazioni liriche di uno spessore e profondità mai più realizzati da altri?
La risposta all’errore probabilmente indotto in cui spesso si incorre leggendo la Dickinson si risolve con semplicità, leggendo questi versi in forma di dialoghi che la poetessa con tensione lirica (lirica non è una parola bieca) e lessico modernissimo (se vogliamo accettare questo termine per porre in risalto una modalità di scrittura più vicina ai nostri tempi dal punto di vista meramente cronologico) ci ha tramandato: Sposa mi troverà il nascente giorno. / Hai tu, Aurora, un vessillo per me? / A mezzanotte sono ancora una fanciulla / ma come rapide si compiono le nozze! / Allora, o notte, passerò da te / nell’Est, nella vittoria. / Mezzanotte. “Buonanotte” / li sento dire. / Un brusio d’angeli nel vestibolo / ed il Futuro dolcemente sale / alla mia stanza. Io mormoro preghiere / della mia infanzia tra breve remota. / Eternità, ti raggiungo, Signore: / Maestro, io già conobbi quel volto //. È proprio il volto della poesia, l’unico logos del mondo per il quale è necessario esistere e lasciare una effimera traccia nel segno di quell’immortalità che solo la poesia può donarci e nella quale ritroviamo il senso della scrittura dickinsoniana. Pertanto, il volto unico, inseguito, cercato, immaginato, declinato in mille significazioni da poetesse e poeti di ogni latitudine, lo si trova in questa elegante silloge in più versi: Vivo con lui, vedo il suo volto, non mi allontano più; // Avere infine un volto! Vedere infine lampade al tuo fianco pel resto della vita! // Eternità, ti raggiungo, Signore: Maestro, io già conobbi quel volto; // Nessuno dei due sentì la Morte – Del Paradiso – consapevoli – L’uno il Volto dell’altro – il solo Disco Che videro nel loro tramontare; // Il mondo ha un volto d’arsura per chi si ferma a morire; // Quando sorrido, una luce cordiale s’effonde nella valle, come se un volto di vulcano lasciasse trapelare il suo piacere.
Il significato nelle scritture della Dickinson è di genesi oracolare, una fenomenologia misteriosa, attuale e incontaminabile, suggestiva e composta in frammenti di cristallina poesia senza eguali. Potente al punto da permeare qualsiasi spirito, la sua lirica accende fiamme-archetipi che non se ne stanno sullo sfondo in modalità inanimata. Amore, morte, tempo e poesia, quest’ultima vera protagonista e assoluto motore del tutto nella sua funzione mistica ed estatica, assolve alla tragedia dell’esistere umano: Fai ch’io per te sia l’estate / quando saran fuggiti i giorni estivi! / La tua musica quando il fanello / tacerà e il pettirosso! / A fiorire per te saprò sfuggire alla tomba / riseminando il mio splendore! / E tu coglimi, anemone, / tuo fiore per l’eterno!
Della Dickinson basterebbe leggere il frammento poetico dedicato all’estasi e al mistero del dolore (nel tentativo di elargire come corrispettivo un istante di sublimazione estatica all’endemico dissidio della sofferenza umana), per continuare a credere che questa arte sia davvero l’ultimo istante, nonché l’unico avamposto contro le brutalità del mondo: Per un istante d’estasi / noi paghiamo in angoscia / una misura esatta e trepidante / proporzionata all’estasi. / Per un’ora diletta / compensi amari di anni, / centesimi strappati con dolore, / scrigni pieni di lacrime.