di Franco Pezzini
Fa un sorriso sghembo, ma non lo lascio replicare, mi sollevo decisa e lo aiuto a tirarsi su. «Ma sai una cosa? Chissenefrega. Mica si può sempre pensare a ciò che pensano gli altri. Altrimenti si rischia di diventare ciò che pensano gli altri».
«Aspetta. È contagioso, vero?»
«Non più del Covid».
A differenza che nel mondo antico o di alcune civiltà estranee a quello occidentale “moderno”, con rituali di iniziazione tribale molto strutturati, la nostra esperienza di passaggio all’età adulta presenta scansioni sfuggenti, fluide come il mondo in cui siamo immessi. Un tempo a fungere da marcatori c’era, per i maschietti, la leva o il servizio civile; oggi sono rimaste, a par condicio tra i sessi, le conclusioni dei corsi di studio, sempre più terremotati da successive riforme, con i tipi diversi di laurea (triennale, magistrale…), ma soprattutto l’esame di maturità quale prova simbolica per eccellenza. Cui si connettono alcuni veri e propri rituali, precedenti quel passaggio (lo studio per la maturità conosce prassi di ritiro del tutto diverse da quelle per altri esami, per non parlare di strategie di appoggio reciproco o altri tipi di avventure più o meno curiose) o invece successivi. Tra questi ultimi, la cena di classe: possibile coi compagni dei più vari ordini di studi (sono reduce in tempi recenti da una, nientemeno, coi compagni delle medie) ma come ovvio più frequente con quelli delle scuole superiori, con i quali si è condiviso tanto per più anni e in età più adulta. Per chi scrive sono gli amici di una vita, quelli che ho continuato a vedere, o dei quali ho almeno saltuarie notizie. Il legame è rimasto forte.
Con loro si sono vissute esperienze in vario modo trasgressive, si sono consumati amori con tutta l’intensità e i napalm ormonali di un’età verde; con loro si è vissuta l’ultima fase della nostra età mitica, quando le giornate duravano oltre qualunque limite di orologio e riuscivamo a farvi entrare millanta cose (poi è arrivata l’età “della storia”, coi tempi rigidi e i giorni stiracchiati sempre più simili uno all’altro – emblematico il tempo al lavoro). E non solo: è nella fase terminale di quell’era geologica che si sceglie – o si è spinti dalla famiglia – verso qualche indirizzo della vita futura, attività lavorativa o ventaglio di ipotesi professionali. La cena di classe rappresenta dunque il momento di una sorta di verifica ex post, di coniugazione del futuro anteriore, di bilancio su chi fossimo e chi siamo diventati. Certo, ci sono aspetti anche dolenti: i fallimenti esistenziali, le solitudini e soprattutto i morti – perché col tempo, il numero di persone mancanti agli elenchi diventa sempre più pesante, sempre più inconsolabile.
Alla cena di classe si va per molti motivi possibili: il piacere e la tenerezza di ritrovare persone con cui si sono condivise dimensioni importanti, la curiosità di scoprire come siano/siamo diventati, magari il desiderio di dare sviluppo a qualche dialogo o conoscenza un tempo rimasto solo abbozzato… o persino pulsioni meno nobili, dal godersi quanto l’altro sia invecchiato (“sembra mia madre”) al voler rimorchiare qualcuno, allargando il proprio parco-contatti con un occhio al passato. Sentimenti, emozioni, desideri: in quel rito del ritrovarsi tante cose precipitano.
Riflettevo su tutto questo leggendo un racconto lungo molto divertente di Francesca Mogavero, Zombie revival, apparso da poco in ebook per Nero Press (edizione digitale luglio 2023): dove mettiamo subito le mani avanti, si tratta di un testo di genere dal forte humour nero e dal taglio popolarissimo, con un uso consapevole e non accidentale di echi e ispirazioni dal bacino della fiction più pop. Se vogliamo un divertissement, non un’opera letteraria né una prova di paraletteratura impegnata, ma un lavoro di buona mano – non è la desolante, seriosa scrittura “di servizio” di tanti ebook in circolazione – d’una autrice che sa usare la penna, sa gestire i dialoghi e il ritmo della narrazione, sostiene l’ironia con un passo brioso e senza sbavature. In effetti Mogavero (1986), editrice indipendente e attiva nei servizi editoriali, ha saputo meritarsi attenzione in più occasioni: vincitrice di borsa di studio 2021-22 per la Scuola Annuale di Scrittura Belleville di Milano, è stata selezionata al call racconti fantastici 2021 del Premio Calvino, con un racconto poi comparso nella relativa antologia Oltre il velo del reale. Raccolta di racconti distopici (WriteUp, 2021). Nessuno stupore dunque se il suo testo in esame liberi una quantità di suggestioni, di provocazioni – con la consapevolezza di una scrittrice vera che qui semplicemente si diverta. Raccontando come proprio una cena di classe in età covid in una villa appartata della collina torinese – nessuno verrà a controllare chi eluda il lockdown – venga funestata (per motivi che qui non si spoilerano, ma divertenti anche quelli) da un attacco di zombie. Annunciato dal riemergere di un gatto saputo morto, ma anche da altri dettagli che i personaggi non colgono in tempo.
Centrale e in qualche misura prevedibile, la dialettica tra l’ex-bello della classe Ludovico Giai Merlin e la narrante protagonista Rebecca, “copy, sceneggiatrice di fumetti e scrittrice di romanzi steampunk sotto pseudonimo”, che un tempo lui non avrebbe mai considerato (perché troppo seria, scopriremo). Ovviamente i personaggi, a partire dalla protagonista un po’ gotica che è l’unica a non perdere la testa, sono anzitutto funzioni narrative, ma sono resi in forma vivida e comunque svolgono bene il loro compito. Complessivamente, poi, il divertissement permette di riflettere su una serie di topoi, elementi sottotesto o suggestioni d’interesse.
Snoccioliamone almeno una parte, a cominciare dall’uso degli zombie. Se il covid ha messo in moto, tra le altre ipotesi più o meno banalizzate dalla chiacchiera pubblica, quella di un supervirus scatenato dai pipistrelli (dove nel salto di specie si evoca la virtuale ibridazione uomo/bestia congenita alla maschera vampirica), è pur vero che la nebulosa immaginale di un simile contagio non interpella tanto lo stereotipo del vampyr pipistrellesco, quanto piuttosto quello dello zombie. Sia perché il primo vanta uno statuto in apparenza molto più “certo” (mentre il mitizzante imbarazzo sull’origine del coronavirus – morbo sfuggito dal laboratorio o mutazione naturale, eccetera – si abbina molto meglio all’eziologia misteriosa dei cadaveri viventi del cinema); sia perché il vampiro, almeno quello dell’immaginario narrativo, mantiene comunque connotati assai più personalizzati e personalizzanti che non lo zombie, coerente ai dati numerici senza faccia dei giorni del lockdown, alle epopee di code ai supermercati, al rapporto coi grigiori del contemporaneo. Anche il vampiro veicola il tema dell’assedio, e dei mezzi apotropaici (aglio alle finestre, eccetera) per farvi fronte; ma il tema-assedio nel caso delle storie di zombie è persino più forte, incassa limiti assai più imbarazzanti (realtà apotropaiche sacre, esoteriche e aglio non sembrano servire, a fronte di una minaccia sempre più “laica”) e rimanda all’inarginabilità di antiche danze macabre e trionfi della morte appunto al tempo delle grandi pestilenze. Se poi il nosferatu è in qualche modo il nosophoros, portatore attivo di contagio/malattia, lo zombie è anzitutto il totalmente agito dalla sua situazione “patologica”, con un’idea di stordita passività coerente con le nostre stranite emozioni del periodo.
Insomma, la scelta del mostro finisce col provocarci sul linguaggio che abbiamo associato a un’esperienza lockdown che si ha fretta di dimenticare – per motivi diversi. Non si tratta solo del peso di un trauma collettivo, da archiviare/rimuovere, con tutti i rischi del rimosso, il più presto possibile: dove in questione sono anzitutto i morti (ricordiamo solo quel terribile trasbordo di grandi numeri di bare), certo, ma anche tutti i soggetti travolti economicamente da eventi che hanno ridisegnato il volto di interi quartieri. E, vorrei aggiungere, le stesse parole su un tema che ormai ci scatena conati di nausea.
Ma la rimozione è anche politica, per un imbarazzo di chi era al governo e ora all’opposizione, e viceversa. Da un lato i nodi di una gestione almeno discutibile stanno venendo al pettine, come pure dall’altro la malafede di chi ha cavalcato malumori collettivi strillando richiami libertari (su vaccini, regole sanitarie eccetera) piuttosto insoliti per il proprio retaggio autoritario, militar/poliziottesco… atteggiamenti che invece recupera oggi contro chi lo contesti. Indicativo, in questi giorni, l’approccio timido e defilato con cui emerge la proposta di un vaccino covid in coppia con la “normale” anti-influenzale per “over 60 e fragili”. Insomma, meglio per tutti calare il sipario sui grandi proclami.
Ma c’è dell’altro: il lockdown ha messo in scena a livello collettivo – potremmo dire – una grave crisi del cervello (l’organo che più in fretta si corrompe e oggetto classico di concupiscenza da parte degli zombie della vulgata). A partire dall’accezione più materiale: penso ai risultati critici constatati a posteriori dagli psicoterapeuti sui giovani rinchiusi, e a tutti i drammi di una reclusione i cui contraccolpi erano prevedibili fin dall’inizio (dai suicidi su cui si è calata una cappa di silenzio a tutte le deflagrazioni psichiche da solitudine con cui ora facciamo i conti), tema però che ha rappresentato la Cenerentola delle pubbliche attenzioni. Gli interventi su questo sono stati tardivi, nel disinteresse di gran parte dell’Italia, e a tutt’oggi il tema non entra nel merito del dibattito politico – a dispetto della situazione di un paese dove, per dirne una, il ricorso agli antidepressivi è tanto massiccio.
Ma cervello anche in senso più metaforico: penso a chi cercava di muoversi durante il lockdown, marcia o corsa, per far fronte all’ingrippamento di tutta la muscolatura ed era oggetto di linciaggio verbale dai balconi, da parte di quegli italiani brava gente più realisti del re che, a poterlo fare, brucerebbero ancora i sospetti untori (magari cantando l’inno nazionale, in coretti da strapaese). So di amici insultati dai passanti mentre correvano in piena campagna, lontani da qualunque rischio d’infezione. Di fronte a un pericolo oggettivo che investiva tutti, la reazione è stata troppe volte smettere di ragionare… Per non parlare degli sgangherati attacchi ai danni di chi avanzasse anche solo dubbi su vaccini poco testati (chi scrive si è regolarmente vaccinato, ma perché mi veniva estorto dai moduli di caricarmi responsabilità per eventuali danni da un trattamento impostomi?) o di chi criticasse politiche goffe, improvvisate sulla base dei proclami del virologo-divo e soprattutto dei diktat di Confindustria: un insieme tale da lasciare alla popolazione l’immagine di un rovinoso deficit di autorevolezza. Come penso al senso d’insicurezza divorante che ancora all’uscita dal lockdown un po’ tutti abbiamo constatato nello scendere in strada: un sentore latente d’insicurezza, il malessere sordo in cui ha avuto parte un bombardamento mediatico selvaggio. Il tema del cervello concupito dagli zombie rende bene quello di una sofferenza mentale i cui stigmi abbiamo pericolosamente constatato tutti.
La reazione chimica tra questa crisi e il tema della cena di classe, col Grande freddo (inevitabile pensare al film del 1983 diretto da Lawrence Kasdan) spalancato tra memoria e antiche attrazioni, rancori, futuri anteriori insoddisfacenti, attiva una sorta di corto circuito immaginale tra il topos dei morti viventi che attaccano e lo spazio di un passato chiuso a ogni tentativo vitale di reinterpretarlo, la morte simbolica del rito di passaggio/maturità da cui si nasce soggetti sociali e quella fin troppo fisica che vede rinascere soggetti antisociali. Il sesso non consumato/rimosso erompe in alimentazione (la quantità di foodie, presunti esperti di cucina germinati in questi anni di crisi lascia davvero basiti), il cervello richiesto alla maturità – o semplicemente all’accesso a una qualunque adultità – viene estorto in forma diversa e più materiale.
Resta da vedere cosa siano a quel punto gli zombi – scatenati (scopriremo) da chi, tanto integrato socialmente, non ha però saputo vivere passioni personali ed è diventato ciò che pensano/vogliono gli altri, infiocchettato per il successo in una società tutta superficie. Il presente senza passione di un’età di malafedi ideologiche assortite, di brutture coinvolgenti i clan dei potenti, di nonvedo-nonvedo-nonvedo – perché a vedere occorrerebbe cambiare un sistema fin dalle fondamenta, dalle nostre personalissime radici interiori, con tutta la fatica che una popolazione depressa non è disposta a fare, preferendo bearsi in caricature del bello e del buono – finisce col denunciare che l’esame retrospettivo permesso dalla cena di classe si sia risolto in un fallimento. Prigionieri di un lockdown interiore, abbiamo lasciato entrare gli zombie – vengano da Salò o dalla grande finanza –, con la loro (pseudo)vitalità divorante e tanta stanca putredine: ma zombie non finiamo con l’essere noi, divenuti ciò che pensano/vogliono gli altri, a furia di tollerare tanto?